Dalla rivoluzione alla democrazia del comune. Lavoro singolarit  desiderio

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Virus NOME DEL PROPRIETARIO Cronopio

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Virus

NOME DEL PROPRIETARIO

Cronopio

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Ametrano, Arienzo, Berns, Borrelli, Coccoli, Coin,

Negri, Polverino, Vercellone

Dalla rivoluzionealla

democrazia del comuneLavoro singolarità desiderio

a cura di

Alessandro Arienzo e Gianfranco Borrelli

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Indice

Alessandro Arienzo, Gianfranco BorrelliNote introduttive 7

Toni Negri A proposito di costituzione e capitale finanziario 11

Carlo Vercellone Capitalisme cognitif et revenu social garanti comme reve-nu primaire 27

Egidius BernsTemps économique et singularité 41

Alessandro ArienzoIl lavoro del comune 77

Francesca CoinDisfare il soggetto neoliberale 97

Pierluigi AmetranoSoggettività 2.0 129

Angela PolverinoLa metropoli del comune 143

Lorenzo CoccoliIl comune contro la proprietà. Spunti per una critica de-mocratica del dispositivo proprietario 167

Gianfranco BorrelliPer una democrazia del comune. Processi di soggettivazio-ne e trasformazioni governamentali all’epoca della mon-dializzazione 185

© 2015 Edizioni CronopioVia Broggia, 11 – 80135 NapoliTel./fax [email protected]

ISBN 978-88-98367-17-7

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ALESSANDRO ARIENZO

GIANFRANCO BORRELLI

Note introduttive

I saggi del volume intendono valere come proposta di avvio diun’accurata indagine sulle trasformazioni nelle categorie di lavo-ro/singolarità/desiderio: assumendo come sfondo problematico leprofonde modificazioni indotte nei rapporti tra politica ed econo-mia, e nei processi di soggettivazione che accompagnano queste tra-sformazioni, dagli irruenti processi della mondializzazione.

Nei decenni trascorsi, la scomparsa della conversione alla rivo-luzione ha lasciato libero il terreno alle modalità perverse dell’as-soggettamento neoliberale di condotte e stili di esistenza; ed anco-ra, il lavoro sembra non costituire più il perno della produzione so-ciale, né il presupposto antropico per la liberazione degli esseriumani da forme sempre più gravi di assoggettamento. In un mondoche cambia repentinamente non sembra emergano ancora formeadeguate di espressione delle soggettività diverse che attraversano ilpianeta.

La crisi economia in atto appare attestare il passaggio dalla cen-tralità della politica all’economia, sotto la forma della diffusa natu-ralizzazione dei suoi indici, dei suoi attori, dei suoi processi. All’in-verso, ci sembra ormai ineludibile sostituire gli impianti complessi-vi dei rapporti sociali di scambio basati su proprietà e finanza chequesta naturalizzazione innaturale ha imposto, ed affermare, a par-tire dai singoli, pratiche radicali per pensieri radicali.

Certamente, dietro la crisi finanziaria e dentro la crisi della po-litica moderna e delle forme e dei processi della democrazia libera-le e rappresentativa, emergono le linee di rottura di un più com-plessivo modo di produzione dei rapporti interindividuali che, pri-ma liberale, oggi compiutamente neo-liberale, non è in grado di ri-spondere ai bisogni individuali. Sebbene la gran parte delle letture

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ne ai soggetti individuali e collettivi. Se la politica diventa semprepiù debole e frazionata, la democrazia del comune contribuisce adaprire al vuoto in cui precipitano le proiezioni desideranti rivolte apraticare percorsi di sfondamento degli accumuli di potere di ognitipo (politico, etnico, economico, religioso, mediatico, giuridico),favorendo in tal modo l’autocostituzione pratica delle singolarità edelle soggettivazioni rivolte ad affermare libertà e autonomia per gliessere umani.

Allo stesso modo, la difesa necessaria dell’orizzonte ideale e va-loriale del “Lavoro” – oltre che delle sue concrete articolazioni pro-duttive – non può però tradursi nella sua riattualizzazione comebandiera per il futuro. Piuttosto essa è un indice intorno al qualepensare e praticare nuove singolarità capaci di esercitare lo “stare incomune” in ciò che di comune è reso possibile da una produzionedi ricchezze e di possibilità sempre più sociale e potenzialmente so-cializzabile. Il lavoro non è bene comune, neppure è solo male co-mune. Certamente, esso resta un orizzonte necessario da attraver-sare senza, tuttavia, ricadere in quell’etica politica del lavoro cheaspirava a formare soggetti virtuosamente disciplinati alla Produ-zione e alla Rivoluzione.

Infine, questa raccolta intende conservare anche un aspetto diriterritorializzazione, laddove le pratiche riflessive e critiche trova-no conforto e supporto in esperienze inedite che attraversano oggiin modo significativo la città di Napoli: metropoli maledetta e sof-ferente, tuttavia in grado di esprimere autentiche tensioni di resi-stenze inedite e di diffusa partecipazione a forme organizzate di lot-ta. Da almeno un decennio, infatti, Napoli è attraversata da espe-rienze di democrazia radicale, di comunanza nella lotta, assoluta-mente diffuse e disseminate che hanno profondamente mutato ilvolto di aree importanti di questa città. Riempiendo con entusiasmoe intelligenza il vuoto politico della de-industrializzazione avviatadagli anni ’80 del secolo scorso. Da queste esperienze potranno ar-rivare quelle risposte che, inevitabilmente, mancano in un volumecome questo.

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del presente ponga l’attenzione sui processi di assoggettamento chesegnano drammaticamente il nostro presente, i contributi di questovolume perseguono una diversa linea di indagine: ossia, che i mo-delli neoliberali sono ormai in crisi. Non tanto, forse, nella loro ca-pacità di governare il mondo attraverso la politica e l’economia,quanto nella capacità di rispondere positivamente alle promesse dilibertà e di autonomia dei singoli.

Se in questi tempi d’incertezza, sopra ogni cosa valgono le stra-tegie della conservazione finanziaria che deprimono il ruolo inven-tivo e progettuale della politica, mentre sempre maggiore spazioviene assegnato alle imposizioni tecnocratiche e alla governancedell’economia, si delineano pure all’orizzonte i contorni di antago-nismi senza precedenti: l’organizzazione sistemica che la civilizza-zione occidentale ha imposto – ed ancora cerca di promuovere edespandere – alle forme di vita deve confrontarsi con le insorgenzeche ovunque nel mondo intendono far valere l’apertura a tipi radi-calmente differenti di soggettivazioni. Le immagini drammatichedei migranti che segnano ormai il nostro quotidiano rappresentanole spinte alla fuga e all’insorgenza nonché la pluralità degli sforzi diriempire lo spazio democratico di prassi, istituti e soggetti nuovi ealternativi all’esistente. Al centro delle riflessioni svolte in questovolume, ci sembra che il punto decisivo stia proprio nelle novità neiprocessi di soggettivazioni e di arricchimento delle singolarità.Queste eccedenze di singolarità, affermatesi dentro e fuori l’alveodella modernizzazione, mettono in campo pratiche diffuse rivolteall’attivazione in nuove forme simboliche dei tracciati segnati da bi-sogni e desideri d’intere moltitudini migranti, nomadi e sofferenti.Di qui la necessità di porre al centro delle pratiche di trasformazio-ne del sé ogni genere di eccedenze desideranti che giungano pure aconfigurare sul piano istituzionale forme inedite del governo di sé edegli altri.

Risulta allora del tutto improprio proporre nuove ‘teorie delsoggetto’ come fondamento per la trasformazione politica; piutto-sto, conviene procedere all’indagine di forme alternative di sogget-tivazioni e di governamentalità. In tale contesto risulta possibile in-tendere crisi e obsolescenza di registri categoriali ormai inutilizza-bili: stato/società civile, pubblico/privato, lavoro produttivo/im-produttivo; da questo punto prende anche avvio l’indagine criticasulle categorie di comune e di beni comuni considerate chiavi di pro-duzione simbolica rivolta ad offrire più diffusa autorappresentazio-

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TONI NEGRI

A proposito di costituzione e capitale finanziario

Organizzerò il mio intervento su tre punti fondamentali. Cer-cherò innanzitutto di definire la convenzione finanziaria che oggi cidomina e come essa abbia modificato il rapporto tra privato e pub-blico. In secondo luogo cercherò di analizzare come il privato e ilpubblico siano stati fissati nella costituzione del 1948, ma soprat-tutto come essi si presentino nel farsi della costituzione europea. In-fine, cercherò di capire come, in nome del comune, possa essere rot-ta la convenzione costituzionale che ci lega, opponendo dispositiviantagonisti all’esercizio del potere finanziario, costruendo una“moneta del comune” – insomma, che cosa significa, dentro/control’attuale convenzione finanziaria europea, procedere nella costru-zione del comune?

1.1 La convenzione collettiva che oggi domina il rapporto co-stituzionale è una convenzione finanziaria. Laddove una volta eraposto il valore-lavoro come norma regolatrice e misura delle attivi-tà sociali e produttive, ora è stata eletta la regola finanziaria.

Analizziamo quindi la relazione capitale finanziario/costituzio-ne materiale. Il capitale finanziario, nella situazione attuale, si ponecome autorità legittimante la costituzione effettiva della società po-stindustriale. Se in epoca fordista la Costituzione organizzava la so-cietà sulla base del tallone-misura del valore lavoro, e tale era loschema di organizzazione della società industriale, ora, a quellostandard, si sostituisce una misura finanziaria. Ne vengono subitoalcune conseguenze. Mentre la misura-lavoro, nella costituzionefordista, era dura e relativamente stabile, direttamente dipendentedal rapporto di forza fra le classi (tale fu la condizione di ogni co-stituzione nel “secolo breve”), la convenzione finanziaria quando simaterializza in forma costituzionale, quando cioè incarna in manie-

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Su questa base si trarranno due conseguenze: la prima è che quella sussunzione della vita, quando si presenta

come comando sulle attività produttive attraverso i mezzi della fi-nanza, incarna un biopotere, cioè la capacità di sfruttare, di estrarreplusvalore, di accumularlo sull’insieme della vita sociale. Il denaro,i prodotti finanziari, la Banca diventano mezzi di produzione, noncome forze produttive ma come strumenti di estorsione di plusva-lore. (Per esempio, oggi in Francia tutta l’imposta sul reddito servea pagare il servizio del debito);

la seconda conseguenza è che il valore si presenta sul mercatonon tanto come sostanza, non tanto come mera quantità di merci,ma come insieme di attività e di servizi, sempre maggiormente co-operativi, e che la vita è così sussunta dal potere nella sua interezzae nell’insieme delle sue singolari espressioni; insomma, che i rap-porti di produzione pongono in contraddizione i mercati e/o la fi-nanza con il comune produttivo.

1.2 A partire dagli anni ’90 – dopo la lunga crisi iniziata neglianni ’70 con la demolizione degli standard di Bretton-Woods – sidetermina dunque, in maniera sempre meno caotica, un nuovo stan-dard globale che sostituisce quello lavorista.

Due condizioni ne permettono lo sviluppo. La prima è il com-piersi della globalizzazione: è confrontandosi con la globalizzazio-ne che la convenzione fordista cede su un elemento centrale dellasua legittimità e funzione, intendiamo lo Stato-nazione, come basesovrana. La convenzione monetaria è sottratta allo Stato-nazione econdotta a standard globali. Il debito pubblico è sottratto alla rego-lazione sovrana (congiuntamente dal capitale e dai singoli Stati-na-zione) e sottoposto ai meccanismi di valore determinati, sul merca-to globale, dai soggetti detentori del capitale finanziario. La con-correnza fra questi attori si fa sempre solidarietà nei confronti deglisfruttati.

La seconda condizione consiste nel fatto che, con la crisi dellasovranità (nazionale), il pubblico viene sostanzialmente patrimonia-lizzato in maniera privatistica, anche prima di esserlo giuridicamen-te. Voglio dire che le finalità dell’accumulazione vengono piegate al-le regole dell’appropriazione privata diretta di ogni bene pubblico.In questa situazione, la funzione di mediazione fra gli interessi diclasse che il potere e la proprietà pubblici (a partire dagli anni ’30)esercitavano (e qui andrebbe definito fino a che punto la stessa rap-

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ra egemone il rapporto politico capitalista, si presenta come poten-za indipendente ed eccedente. I lavori di André Orléan e di Chri-stian Marazzi hanno insistito opportunamente su questa evenienzaistituzionale. Si tratta di un’indipendenza che, dal punto di vista delvalore, consolida e fissa un “segno proprietario” (nei termini della“proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) ma che contem-poraneamente si presenta anche come “crisi”, come “eccedenza”non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazionidel valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipa-zione” e a quell’“incremento” continui che gli sono propri nel con-frontarsi con la captazione finanziaria del valore socialmente pro-dotto e nell’operare alla sua estensione sul livello globale. La con-venzione finanziaria si presenta quindi, istituzionalmente, come go-vernance globale, perché la crisi è permanente, in quanto organicaal regime del capitale finanziario. Meglio è, in queste condizioni,parlare di varie fasi del business cycle, piuttosto che di crisi.

Sia chiaro quindi che, in questa nuova configurazione della re-gola costituzionale, permane la base materiale della legge del valore:non più lavoro individuale che diviene astratto, ma lavoro imme-diatamente sociale, comune, direttamente sfruttato dal capitale. Laregola finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovomodo di produzione il comune è emerso come potenza eminente,come sostanza di rapporti di produzione, e va sempre più invaden-do ogni spazio sociale come norma di valorizzazione. Il capitale fi-nanziario insegue questo estendersi, cerca di anticiparlo, incalza ilprofitto e lo anticipa come rendita finanziaria. Bene dice Harribey,discutendone con Orléan, il valore non si presenta più qui in termi-ni sostanziali ma neppure come una semplice fantasmagoria conta-bile: è il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo,che si sviluppa sempre più intensivamente ed estesamente.

Facciamo il punto. Da un lato possiamo sottolineare che, nellasocietà contemporanea, nei processi di sussunzione della società nelcapitale, valore d’uso e valore di scambio si sovrappongono. Dal-l’altro lato, si avverte che il lavoro astratto non differisce dal lavoroconcreto solo perché esso rappresenta l’astrazione della forma con-creta del lavoro: questa è, per così dire, una differenza puramenteepistemologica. La vera differenza – quella positiva – consiste nelfatto che, nel lavoro astratto, si eguagliano ora tutte le forme del la-voro, e ciò avviene nel quadro di uno scambio multilaterale e co-operativo di attività singolari produttive.

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O meglio: se alla sua base non c’è un valore sostanziale, tuttavia ciòche rende la convenzione “capitalista” (cioè adeguata all’attuale or-ganizzazione del lavoro sociale per estrarne profitto o per accumu-lare rendita finanziaria) è comunque una misura, una misura di clas-se, un dispositivo di potere. Non vale qui la pena ricordare cheMarx ha sempre definito il valore subordinandolo al plusvalore.Ora, questa misura sarà ancora fondata sul rapporto fra tempo ne-cessario e sovrappiù di tempo non pagato – certo, ma solo se que-sto rapporto sociale sarà considerato globalmente, e in ciò, nellatensione di questo sforzo indefinito, nella tendenza ad approssima-re un limite assoluto, in questo affastellarsi di bambole russe, con-siste anche la permanenza della crisi.

3) per fissare questa misura politica, il potere costituzionale ca-pitalista (e la convenzione che lo regge) deve costruire una nuovaforma di governo – la governance, appunto. Essa non agisce princi-palmente come “potere di eccezione”, ma come governo diun’“emergenza continua” (è un’eccezione spalmata sul tempo cherivela, negativamente, una continua instabilità; positivamente, cap-tazioni impreviste di eccedenza, salti e dismisure, ecc.) dentro unatemporalità fratturata, un’inattualità permanente.

Aggiungiamo a margine che, ora, in questa fase, il carattere “co-stituente” dell’azione neoliberale si affianca a potenti strategie “de-stituenti” (la minaccia del default, gli spostamenti di capitale comeminaccia politica, ecc.). E notiamo anche che sul terreno dei movi-menti, l’immaginazione costituente è piena di contenuti destituenti(solo per fare un esempio, il diritto all’insolvenza come primo pas-so per riconquistare un uso della moneta liberato dallo sfruttamen-to diretto).

Ne viene che una riflessione “costituzionale” oggi presupponeanche la messa in discussione ed il ripensamento dei linguaggi e del-le pratiche di movimento su cui abbiamo fondato fino ad oggi la no-stra riflessione. Si tratta di individuare degli “strumenti con i qualiimporre al capitale finanziario un nuovo rapporto di forza”.

2.1 Torniamo a noi, alla costituzione italiana, a quell’art. 1 – l’I-talia è una repubblica democratica fondata sul lavoro – che fin dapiccoli ci ha tormentato (o fatto ridere). Ricordiamo semplicementeche l’operaismo nasce dalla dichiarazione che, in quella formula, incontinuità con lo statalismo intervenzionista anni ’30, era fissata laconvenzione keynesiano-fordista, come norma dello sfruttamento

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presentanza politica democratica non si confonda con quella fun-zione di mediazione), è profondamente indebolita quando non ven-ga interamente meno (la proprietà pubblica è tanto indebolita quan-to lo è la rappresentanza politica perché questa non è più finalizza-ta al governo ed al possesso del pubblico, dopo essere stata nellaglobalizzazione sempre maggiormente svuotata della sovranità).

Alla ricerca di nuove convenzioni si susseguono le bolle (newecomonics, asiatica, argentina, ecc.). “I mercati, per così dire, impaz-ziscono – notano Marazzi e Orléan – ma questo è del tutto coeren-te con il principio della concorrenza applicato alla finanza”. Ivi, in-fatti, un bene non è ricercato perché è raro, ma paradossalmentesempre più ricercato quanto più è richiesto. Ne consegue che la cri-si non è “dovuta al fatto che le regole del gioco finanziario sono sta-te aggirate ma al fatto che sono state eseguite”. La crisi, in altre pa-role, è endogena. Essa dipende esclusivamente dalla deregolazionedei mercati di capitali e dalla privatizzazione crescente dei beni pub-blici. Ogni valore d’uso è così trasformato in beni (titoli) finanziarisoggetti a speculazione. La sussunzione reale della società nel capi-tale agisce attraverso la finanziarizzazione. “In questo processo, lafinanziarizzazione ha imposto la sua logica al mondo intero, facen-do della crisi il fondamento del suo stesso modo di funzionare. È unprocesso, quello della finanziarizzazione, di inclusione della coope-razione, del comune cognitivo e sociale, e poi di esclusione, cioè diestensione del modo capitalistico di produzione a mercati pre-capi-talistici, e di successiva espulsione e pauperizzazione di coloro chein questo processo sono stati privati dell’accesso ai beni comuni.Una sorta di riedizione continua dell’accumulazione primitiva, direcinzione delle terre (beni) comuni e di proletarizzazione di massecrescenti di cittadini”. Meglio detto:

1) il dispositivo costituzionale nella maturità capitalista subor-dina all’astrazione finanziaria del processo di valorizzazione la for-za-lavoro viva come società cognitiva e cooperativa. La biopotenzadel comune è totalmente sottoposta al feticismo della convenzionefinanziaria.

2) il dispositivo costituzionale capitalista vuole dare misura, fis-sare un tallone regolamentare all’interno di quelle crisi che abbiamopercorso, laddove cioè la rottura del rapporto keynesiano-fordistaesige nuove convenzioni-misura. Valore-misura? Certo, come giàabbiamo visto, questa misura non è qui qualcosa di sostanziale; èpiuttosto una “convenzione politica”, di volta in volta determinata.

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minano dall’interno del sistema industriale, a fronte degli effetti mi-cidiali del “rifiuto del lavoro” fordista ed in relazione alla pressionebiopolitica del lavoratore sociale, a fronte della crisi dello Stato-pia-no, la risposta capitalistica avviene attraverso una ripresa di control-lo politico dall’esterno del sistema industriale e la determinazionedell’egemonia politica della sfera monetaria sull’insieme della produ-zione sociale. La crisi fiscale di New York sta all’inizio di questonuovo ciclo politico. E lo raffigura esemplarmente.

Occorre fare molta attenzione a questo passaggio (d’altra parteMarazzi, Offe, O’Connor, Aglietta ed altri già allora ne segnalaro-no il carattere sociale) perché qui non si verifica solo la destituzio-ne del pubblico dalla sua funzione di mediatore dello sfruttamento(a tutto vantaggio dei cosiddetti “mercati”) ma comincia a svilup-parsi una nuova figura dello sfruttamento – lo sfruttamento direttodel bios, l’esaltazione del welfare come base di valorizzazione fi-nanziaria. Il mondo della produzione di sanità, dell’assicurazionedell’infanzia e della vecchiaia, della istruzione e dell’educazione,ecc., il mondo cioè della “produzione dell’uomo per l’uomo” divie-ne la materia prima, meglio, il sangue che circola nel sistema arte-rioso del capitale finanziario globale. Il mondo del lavoro è sfrutta-to in quanto bios, non solo in quanto “forza-lavoro” ma in quanto“forza vivente”, non solo in quanto macchina di produzione ma inquanto corpo comune della società lavorativa.

Altrettanto si potrebbe dire a proposito delle industrie estratti-ve che, a partire dall’iniziativa delle multinazionali minerarie e pe-trolifere e dell’agro-business, cominciano ad invadere territori piùlontani, in Africa e in America latina. Tanto quanto il neoliberali-smo attacca il welfare nei paesi sviluppati, succhiando il sangue del-la forza-lavoro viva, tanto attacca e sconvolge la Terra: distruggenon solo i territori e le foreste, ma soprattutto i modi di vivere dipopolazioni che con la terra hanno mantenuto un rapporto pieno disostentamento e di invenzione. Non si tratta solo di commuoversiperché le campagne sono distrutte e invase dalla soja su estensioniillimitate, perché le montagne sono scavate all’aperto per trarne mi-nerali rari e ricchi, perché il petrolio sporca e annerisce le coste deimari: lo sfruttamento più importante riguarda, anche in questo ca-so, la vita di popolazioni indigene che, attraverso questa rottura delrapporto con la terra, vengono ridotte alla miseria più spaventosa.È una nuova accumulazione originaria quella che è in corso, che in-veste il mondo cognitivo quanto quello naturale.

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operaio e di regolazione politica di una società in cui – per ben cheandasse – il pubblico era totalmente funzione della riproduzione al-largata del capitale. La costituzione del ’48 promuove una societàcapitalista in termini riformisti: da poco l’Unione sovietica avevabattuto le armate del fascismo europeo, solo il riformismo era ormaiconcesso ai capitalisti. In queste condizioni, si comprende come,nella lotta di classe, possa esercitarsi la pressione dei proletari sul sa-lario operaio, come strumento (badate bene!) di democrazia, da pra-ticare dentro e contro la produttività del sistema: questo processoaumenta il reddito (diretto ed indiretto) della classe operaia e dellasocietà lavoratrice.

In questo quadro il pubblico si definisce come funzione di me-diazione del rapporto sociale capitalistico, ovvero della lotta di clas-se – ed è attorno a questa funzione che si coagula e prende figura larappresentanza politica borghese (nella fattispecie, italica). Come sisa, la Costituzione italiana non è mai stata realizzata completamente.Anche se lo fosse stata, non sarebbe comunque costitutiva di quelmondo di meraviglie socialiste di cui ci raccontano. Non volendoconfonderla con lo spirito della Resistenza e della Costituente re-pubblicana, come troppi retori facevano e fanno, M. S. Giannini sot-tolineava, già negli anni ’60, che pensare che lo spirito di quest’ulti-ma fosse ancor vivo, significava farsi beffa dei cittadini o truffarli.Comunque, la Costituzione del ’48 è stata presto “omologata” e cioèadattata allo sviluppo incrementale del capitalismo italiano attraver-so l’azione di regolazione dello Stato, come rappresentante del capi-tale sociale, cioè come mediatore della lotta di classe. E quando arri-vano la crisi degli anni ’70 e le riforme capitaliste degli anni ’80, si av-via piuttosto quel processo reazionario di ristrutturazione generaledel sistema, nel quale ancora viviamo. Che cos’era avvenuto? Che lelotte operaie al centro dell’impero e le lotte di liberazione dal domi-nio coloniale avevano rotto la possibilità della regolazione fordista. Ilcapitale raccoglie la sfida e promuove il biocapitalismo nella forma fi-nanziaria. E non è ricorrendo a Foucault che, già allora, negli anni‘60, abbiamo cominciato a parlare di lavoro sociale e di sfruttamentodel bios nel definire le nuove figure della regolazione capitalista, at-torno e dopo lo scossone del ’68. Ci riferivamo semplicemente al fat-to che, dentro le ripetute crisi fiscali della regolazione pubblica, il ca-pitale aveva incominciato a ricorrere ai fondi di pensione ed alle assi-curazioni sociali per risistemare i suoi conti. Che cos’era successo?Che, a fronte alle trasformazione che le lotte di classe operaia deter-

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luogo, le politiche europee di regolazione sociale, distributive ecompensatorie, risultano effettivamente dissolte. Per dirla con Jör-ges, nella crisi l’Europa è passata da una costruzione giurisdiziona-le ad una costituzione autoritaria e da un deficit di democrazia ad undefault democratico.

Ma, una volta fissata la temibile faccia di questa nuova costitu-zione del pubblico, ci lasceremo affascinare ed imprigionare dal suogorgonesco sorriso? No di certo. Di nuovo riscendiamo a livellodella composizione materiale della moltitudine europea, la si vogliao no considerare come classe. Ora, la separazione fra ordinamentoeconomico del potere e strutturazione sociale delle classi lavoratri-ci, il primo centralizzato nella Costituzione europea, la seconda la-sciata ai singoli Stati-parte, non rivela solo una crisi democraticaprofonda; essa produce – ancora riprendendo Jörges – una sorta dibig bang. Rivelando paradossalmente proprio quello che si volevacelare.

E cioè: che l’affidamento dello sviluppo costituzionale europeoad un potere monetario democraticamente incontrollabile, che losganciamento di un biopotere tecnicamente indipendente ed econo-micamente eccedente rispetto alla miseria sociale che impone, che lacostruzione di un meccanismo regolatore sottratto ad ogni bilan-ciamento che non sia quello di un’austerità sociale insopportabile –bene, tutto ciò dimostra solamente che il “nuovo” potere pubblicoincarnato dal MES (meccanismo europeo di stabilità) e nel TSCG(trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance) rappre-senta una spaventosa macchina di accumulazione privatistica origi-naria contro quel tessuto comune di cooperazione sociale e quel so-strato di attività produttive comuni che le lotte di classe operaia e isommovimenti sociali avevano fin qui costruito.

E se è vero che questo processo distrugge ogni possibilità di unapolitica nazionale più o meno democratica (ma abbiamo già vistoquanto il “meno” prevalesse); se è vero che non aiuta a determinarenuove potenze comunitarie – è tuttavia anche vero che nel proces-so di unificazione in atto, paradossalmente, l’applicazione della gol-den rule mette in luce, meglio, fa risaltare con forza una nuova con-sistenza moltitudinaria, effettualmente resistente e virtualmente an-tagonista… da governare! Ma non sarà facile governare questo pro-letariato che, nella cooperazione e nella produzione, può organiz-zare la propria autonomia comune.

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Ecco dunque che cosa diventa il pubblico nello sviluppo di que-ste pratiche di sfruttamento e di conseguente valorizzazione che lanuova costituzione europea contiene ed impone attraverso i cosid-detti “governi tecnici”. Dopo aver personificato la mediazione delpotere capitalistico, nella sua lotta contro la classe operaia e i pro-duttori sociali, dopo esser stato lo strumento attraverso il quale, vi-sta l’impossibilità di sbloccare la rigidità del salario verso il basso edi recuperare attraverso l’inflazione i vantaggi relativi di redditodella società operaia… ecco dunque il pubblico che, in nome del ca-pitale, comincia a saccheggiare i fondi pensione, a svuotare il Wel-farestate del suo senso emancipatorio, a nutrirsi direttamente delcomune produttivo. Tutto questo avviene attraverso i nuovi regimimonetari che sono imposti ai soggetti europei. Nella moneta euro-pea il pubblico è totalmente assoggettato, violentato dal privato.

2.2 Se consideriamo molto rapidamente come si configuri giuri-dicamente il pubblico nella costituzione europea che viene forman-dosi, ci troviamo ovviamente di fronte a una sorta di codificazionedi quanto siamo venuti fin qui definendo come il nuovo ordina-mento del biopotere capitalista.

Ormai, quando si parla di costituzione europea, si parla essen-zialmente di economic governance, e quando si parla di governanceeconomica, spesso si traduce sostantivamente il concetto nel tede-sco Ordo-liberalismus (ci è stato detto che questa traduzione si èdata anche in documenti ufficiali). Vale a dire in una autoritaria“economia sociale di mercato” che, non a caso, sotto la pressionedei mercati, ha perduto ogni dimensione sociale e riformista peresaltare al massimo quella autoritaria ed ordinativa. Prodotto dauna scuola che, assumendo diverse – e spesso inquietanti – figurepolitiche, si prolunga e si trasforma dagli anni ’20 ad oggi: essa do-mina gli attuali processi costituenti europei.

Stabilità dei prezzi, regolazione repressiva di ogni deficit bud-getario inappropriato, unione monetaria separata dall’unione poli-tica, sono diventati principi cui attenersi – con alcune conseguenzedissolutive di ogni pur formale regola democratica. Il controllo e lasupervisione burocratica dei bilanci sono infatti privi di ogni legit-timazione democratica (non solo delle istituzioni nazionali ma an-che di quelle comunitarie); gli interventi regolatori sono di volta involta individualizzati fuori da ogni norma generale – il carattere digiustizia dell’azione comunitaria è del tutto svuotato; e, in terzo

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le fisso e circolante, se dunque la sintesi capitalista deve comandarequesta composizione (cioè rendere flessibile, meglio, frammentare,fracassare questa rigidità), allora il comando capitalista non potràdarsi che verticalizzandosi rispetto al piano della produzione, ester-nizzando (per così dire) e comunque esaltando il momento “politi-co” del comando su ogni altro elemento (ideologie, funzionalità,ecc.). Il capitale finanziario corrisponde a queste caratteristiche esvolge questo compito.

Ora, questa figura astratta del comando capitalista è sottopostaa grande tensione – e probabilmente a contraddizione – dal fatto cheoggi il processo di valorizzazione, e quindi i processi di sfrutta-mento del lavoro vivo, debbano sempre di più diventare interni aquei corpi che esprimono direttamente funzioni produttive e, nellacooperazione sociale, esercitano funzioni organizzative del produr-re. Tutto ciò comporta, di ritorno, l’investimento globale della vitada parte del capitale: il capitale diviene biopolitico. Ma di qui unacontraddizione fondamentale: da un lato, il capitale esige una com-pleta interiorizzazione del capitale variabile al processo di valoriz-zazione (come veniamo descrivendola or ora); dall’altro abbiamo,in funzione di comando, una forte, se non completa, astrazione delcapitale costante (nella forma finanziaria) dal capitale variabile (inquanto lavoro vivo sociale ed in quanto lavoro cognitivo irriducibi-li – almeno per parte – alla mercificazione). Il capitale finanziariosembra dunque interpretare il rapporto sociale che costituisce ilconcetto di capitale come rapporto eminentemente politico.

Ora, come abbiamo visto, nella convenzione del capitale finan-ziario, il denaro prende il posto del valore-lavoro. Nella “relazionepolitica” che costituisce il capitale finanziario, la convenzione di va-lore è monetaria. La convenzione monetaria prende luogo dallaconvenzione valore-lavoro (cioè rappresenta una nuova figura del-l’oltrepassamento della “legge del valore” interpretata, appunto,nella fase dello sfruttamento industriale del lavoro, alla maniera in-dividualista, fabbrichista e salariale). Ora invece la convenzione èsingolarizzata, sociale e debitoria. Al contrario di quanto avvenivanel keynesismo, essa definisce la parte salariale come il residuo del-le unità monetarie di cui il lavoro astratto è l’equivalente.

Come muoversi a questo punto? Abbiamo (talora fastidiosa-mente) ripetuto che la richiesta di una nuova costituzionalizzazio-ne del lavoro costituisce un tentativo completamente astratto di ri-proposizione di mediazioni pubblicistiche classiche ed abbiamo

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3.1 Come si può rompere, dal punto di vista dei lavoratori e conla forza del comune, ovvero della lotta di classe, la convenzione fi-nanziaria (costituzionale) che ora ci domina? Per tentare di avanza-re su questo terreno, ricordiamo alcune definizioni e, prima di tut-to, alcuni presupposti della nostra analisi.

Il capitale finanziario è capitale, tout court, quindi non è unarealtà parassitaria né un semplice insieme di strumenti di conto; èbensì una figura del capitale in senso pieno, così come lo è stato edè e continuerà ad essere il capitale industriale, e come sono state al-tre figure padronali, storicamente date e/o dismesse nello sviluppodella lotta di classe. Un rapporto sociale: fra chi e chi?

Per comprenderlo bene occorre definire con il massimo dell’e-sattezza la posizione del “capitale costante” rispetto al “capitale va-riabile”, e cioè del comando capitalistico rispetto alla forza lavoro;e percorrere le forme attuali del processo di sottomissione del se-condo da parte del primo. Ora, questo processo di sottomissione –pur essendo “reale”, cioè totale – è nuovo e singolare. Nel passag-gio che analizziamo, la forza lavoro si è infatti riappropriata – inquanto forza-lavoro cooperativa e cognitiva – di parti (frammenti,attributi, modi, ecc.) del “capitale fisso”.

Se per “capitale costante” intendiamo l’insieme delle condizio-ni produttive nelle mani del capitale; se per “capitale variabile”, l’in-sieme dei valori trasferiti ai lavoratori perché si riproducano; e seper “capitale fisso” intendiamo le macchine e le strutture messe adisposizione del processo produttivo – va ora riconosciuto (nel pas-saggio che analizziamo) che la forza-lavoro, lungi dal funzionaresemplicemente come capitale variabile, è venuta appropriandosi,meglio, incorporando quote di capitale fisso. Essa si mette così inuna situazione di virtuale (relativa ma potenziale) estraneità rispet-to al comando, cioè alla sintesi capitalista. Si aggiunga che, se alla ri-velazione della sottrazione e dell’incorporazione di quote del capi-tale fisso da parte della moltitudine lavoratrice, si assommano gliepisodi o le vicende di riappropriazione di “capitale circolante”(nella figura, per esempio, della forza-lavoro migrante), allora la si-tuazione può mostrare una soglia critica nuova e positiva.

È in questa condizione modificata, che si realizza in una primafigura la sussunzione del lavoro vivo nel capitale costante, cioè nelcapitale finanziario, cioè nel comando capitalistico nella figura prin-cipale che oggi presenta. E se così la composizione tecnica della for-za-lavoro è divenuta assai rigida, avendo assorbito quote di capita-

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A questo punto ci permettiamo di insistere nuovamente sullastraordinaria opportunità che la convenzione costituzionale mo-netaria, imposta dal capitale, ci offre: quella di rivelare immediata-mente che l’antagonismo anticapitalista non riguarda limitate se-zioni della forza-lavoro sociale (esso non riguarda il lavoro vivoassunto in maniera individualistica, localizzata e salariale) bensì loassume come moltitudine, quindi come realtà singolarizzata, so-ciale e in una relazione di dipendenza (indebitata, cioè) ma che tut-tavia si prova nella riappropriazione della ricchezza, attraverso ilriconoscimento e la costruzione del comune. Realtà moltitudina-ria: certo, indebitata, sottoposta all’alienazione mediatica, invasadalle tristi passioni dell’insicurezza, impedita nella rappresentanzademocratica dal disgusto che essa merita e dall’impotenza politicache mostra – ma anche da ciò spinta ad esprimere una forte volon-tà di lotta. I movimenti “indignati” e quelli “occupy” hanno am-piamente avanzato questi comportamenti costituenti. I movimen-ti italiani sui “beni comuni” sono attivi essi stessi su questo terre-no. Quello che ora è essenziale è assumere la dimensione “costi-tuente” per rompere con ogni momento “corporativo”, identitarioe/o localistico di lotta. Non vogliamo certo negare che ogni mo-mento di lotta sia legato ad interessi e/o luoghi specifici, ma la lot-ta oggi o è costruita contro l’universale immagine del dominio fi-nanziario, o non c’è. Non siamo mai stati luddisti nei confronti delmacchinario ma piuttosto sabotatori dello sfruttamento che veni-va dall’organizzazione del lavoro – così oggi non spacchiamo ibancomat ma sabotiamo il sistema di dominio finanziario perchévogliamo costituzionalizzare – cioè appropriaci – delle banche, delpotere che, attraverso la moneta, organizza e premia, separa e do-mina, capta e toglie il valore prodotto dai lavoratori, autonoma-mente e comunemente.

3.2 A questo punto ci si può chiedere come studiare i processidi soggettivazione che in questa condizione si danno, e quali sianole condizioni favorevoli o ostruttive che permettono o bloccanouna politica del comune.

Per quanto riguarda il movimento italiano, senz’altro ostruttivisono i riferimenti alla Costituzione del ’48 o, peggio, i richiami alleriforme costituzionali che vengono proposte sul livello europeo;quello che ci interessa qui è piuttosto considerare le azioni politicheche si possono condurre per costruire un’alternativa alla crisi e per

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concluso (citando il documento di Giso Amendola, “Costituzioneprecaria”) che “oggi il senso della costituzionalizzione possibile stanello sganciare l’idea stessa di costituzione dalla mediazione pub-blico-sovranista entro la quale si è data originariamente e nell’in-tendere l’opposizione ai processi di decostituzionalizzazione comelotta per l’apertura continua di processi costituenti, lì dove la gover-nance tende a neutralizzarli e a richiuderli nei canali di espressionecostituiti. Si potrebbe dire, provocatoriamente ma neanche tanto,che le soggettività ‘precarie’ – più che la difesa della costituzione inquanto tale – hanno tutto l’interesse ad una ‘precarizzazione’ dellacostituzione stessa, a renderla cioè aperta allo sviluppo continuo aprocessi di autorganizzione”.

Il nuovo terreno di lotta costituente, sul quale battersi, è dunquequello della governamentalità. Che essa “non escluda il diritto mapiuttosto lo attraversi, provocandone la progressiva decentralizza-zione e flessibilizzazione, e nello stesso tempo azzerandone la tradi-zionale pretesa di autonomia dalle altre scienze sociali”, mi sembra ilpunto sul quale insistere. Basti rifiutare, agendo la governance, l’illu-sione che ivi si possa dare una sorta di “dualismo di potere” che met-ta in tensione fino all’esplosione il processo costituente. No, non sia-mo sicuramente in una situazione insurrezionale, non sono ripetibi-li exploits bolscevichi perché non si è di fronte ad un dualismo sim-metrico di poteri in lotta; siamo invece a fronte dell’asimmetria po-tente della nuova figura della forza-lavoro cognitiva – la sua “riccapovertà” – che si confronta, certo, con il dominio del padrone, del ca-pitale costante, ma non è indotta a precipitare nello scontro, poichéessa è nello stesso tempo irriducibilmente resistente, rigida anche nel-la precarietà, essendosi incorporata quote di capitale fisso e circolante.

Così arriviamo al vero problema, liberato da ogni presuppostocatastrofico o palingenetico: cosa significa assumere i processi costi-tuenti (a partire dalle sempre nuove produzioni di soggettività e diincorporazione di quote di capitale fisso) non come conclusivi macome coessenziali ad un nuovo processo costituzionale? Certo, unanuova costituzionalizzazione del lavoro risulta essere un’idea deltutto reazionaria, pura nostalgia della mediazione pubblica-sovra-nista: ma di nuovo, cosa significa un processo costituente nell’ac-cettazione della frammentazione, del pluralismo moltitudinario dellavoro e della società? Cosa significa costituire un “noi” comunedentro una realtà sociale in cui ogni identità sia stata dissolta ed ogniricomposizione non possa essere, appunto, che “costituente”?

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per far nascere ed imporre al caos esistente (la trasformazione dei si-stemi giuridici e l’impossibilità capitalista di ricomporne l’efficaciaal di fuori della governance) un dispositivo costituente alternativo.

Comunalizzazioni. Qui cominciano a giocare le iniziative costi-tuenti. Dal pubblico al comune: il cammino è quello di affermare ildiritto di “accesso al comune”, di realizzare quel desiderio di co-mune che ormai abita nel cuore dei lavoratori. Ed infine, comuna-lizzare significa costruire nuove istituzioni del comune ed in parti-colare quella “moneta del comune” che permetterà ai cittadini diprodurre in libertà e nel rispetto della solidarietà.

Da quanto fin qui detto, appare chiara un’alternativa: da un la-to c’è il bio-valore captato (estratto) dal capitale su tutta la società;dall’altro c’è la sua forma monetaria, la sua strutturazione funzio-nale allo sfruttamento della società intera. Che cosa significa, a que-sta altezza, parlare di “moneta del comune”? Significa liberare lapotenza della forza-lavoro dal dominio capitalistico, imporre l’u-guaglianza come condizione di libertà.

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favorire processi di soggettivazione adeguati a nuovi progetti di lot-ta in questa direzione.

Un primo gruppo di iniziative può essere raccolto sotto la sigla:insolvenza. Contro il debito, a favore del reddito di cittadinanza,queste lotte riprendono quelle vecchie sul salario relativo e diven-gono lotte rivoluzionarie perché mettono in questione la misura dellavoro. Sempre su questo terreno si tratta poi di costruire una teo-ria ed una pratica dello “sciopero precario”: di comprendere cioèquali siano le lotte che “fanno male” al padrone a partire dalla con-dizione di miseria (precariato) imposta ai lavoratori. Le lotte che ri-conquistano spazi, piazze, teatri, centri sociali, squat, ecc. entranodentro questo quadro. Ma soprattutto vi entrano quelle iniziativeche riescono a “mutualizzare” in forma alternativa la gestione delwelfare, dell’educazione, le politiche dell’abitazione, ecc.. Anche inquesto caso, si agisce sul salario diretto dei lavoratori, integrandonenon solo la quantità monetaria ma anche la qualità sociale.

Destituzioni. È questo il secondo terreno sul quale si muovonooggi le lotte. Il primo punto consiste nel cercare di destituire le fi-liere del comando capitalistico. Nel neoliberalismo, il caos sociale egiuridico è considerato normale. Assumerlo trasformando la gover-nance da momento di litigiosità in momento di “contropotere” ècompito di ogni forza di opposizione al neoliberalismo. Abbiamoavuto in America latina esempi di movimenti che per lungo tempohanno costruito ed imposto l’agenda dei governi. Non sarà facile inEuropa ripetere questa esperienza ma si tratta di provare, senza illu-dersi che questa capacità di rottura possa consolidarsi in un mecca-nismo stabile di contropotere. In questo caso, l’effetto destituente èancora preminente rispetto a quello costituente – ma non inutile.

Perché i riots e i tumulti non creano istituzione? Questa do-manda è oziosa, quando non sia provocatoria se ritiene implicita-mente la dimostrazione che riots e tumulti non possono creare isti-tuzione: per ora non lo fanno – ribattiamo – perché l’effetto desti-tuente è ancora propedeutico e principale.

Un secondo terreno di lotta consiste nell’azione contro le strut-ture costituzionali del biopotere capitalistico. Il tema è quello – inquesto caso – dello sviluppo di un potere costituente democratico,di massa, moltitudinario. Attaccare la ricchezza, non più semplice-mente il comando ma la ricchezza, non più semplicemente la capa-cità capitalistica di asservire la società ma le strutture asservite dellasocietà. Lotte destituenti diventano a questo punto fondamentali

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CARLO VERCELLONE

Capitalisme cognitif et revenu social garanti comme revenu primaire1

Dans l’évolution de la pensée de André Gorz, le dialogue avecles tenants operaïstes de la problématique du general intellect, puisde la thèse du capitalisme cognitif, marque un tournant important,et ce tant pour ce qui concerne sa réflexion sur la crise du capitalis-me que sur la manière d’en penser la sortie2. Rappelons que par leconcept de capitalisme cognitif on entend le passage du capitalismeindustriel, caractérisé par l’hégémonie du travail et du capital maté-riels, à une étape nouvelle de capitalisme, marquée, pour synthéti-ser à l’extrême, par deux traits dominants:

– la dimension cognitive et immatérielle du travail devient do-minante sur la plan de la création de valeur et de richesse, tandis quela forme principale du capital devient le capital nommé immatérielou intellectuel, concept qui pour Gorz (2003) représente un vérita-ble oxymore. Dans ce cadre, l’enjeu central de la valorisation du ca-pital et des formes de la propriété porte directement sur la transfor-mation de la connaissance et du vivant lui-même en un capital etune marchandise fictifs (Vercellone, 2008);

– cette évolution s’inscrit dans un contexte où la loi de la valeur-temps de travail entre en crise en définissant une logique d’accumu-

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1 Cette contribution est en grande partie la transcription de l’interventionprésentée lors du colloque: Penser la sortie du capitalisme, Le scénario Gorz,15-16 novembre 2012, Montreuil; déjà publié en: Caillé A. et Fourel Ch (ed.)Penser la sortie du capitalisme, Le scénario Gorz, Le Bord de l’eau, Lormont2013, pp. 137-148.

2 Pour une présentation plus détaillée de ce tournant dans l’analyse gor-zienne de la dynamique du capitalisme, je me permets de renvoyer à Vercello-ne 2009. Sur ce point cfr. aussi Gollain (2010).

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Il existe donc un lien étroit entre les thématiques du general in-tellect du capitalisme cognitif et la manière de justifier et de conce-voir la proposition de revenu social garanti (RSG). Sur ces bases,dans l’esprit d’un dialogue vivant et ouvert avec la réflexion de An-dré Gorz4 qui anime ce colloque, cette contribution sera articuléeen deux parties.

Dans la première, il s’agira de rappeler schématiquement cer-tains fondements théoriques essentiels qui, à notre avis5, permettentde caractériser le sens et l’originalité de la proposition de RSG àl’aune de la thèse du capitalisme cognitif. Dans cette démarche,nous verrons également comment si sur certains points de cette ca-ractérisation il existe indiscutablement un rapport de continuité etde convergence avec l’héritage de Gorz, sur d’autres la question estbeaucoup plus ouverte et contradictoire.

Dans la seconde partie, nous nous attarderons logiquement surla nature de ces divergences qui concernent en particulier la façonde concevoir le revenu garanti comme revenu primaire et d’en jus-tifier le caractère inconditionnel.

1 Les piliers théoriques de la conception du revenu social garan-ti en tant que revenu primaire

La proposition de RSG élaborée par Jean-Marie Monnier etmoi-même dans le cadre de l’approche du capitalisme cognitif re-pose sur deux piliers principaux qui la différencient profondémenttant d’un revenu minimum conditionnel (comme le RSA) que d’au-tres propositions de revenu de citoyenneté, d’existence ou d’alloca-tion universelle, où le RSG, malgré son caractère inconditionnel,continue à relever d’une logique redistributive.

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4 Le dialogue que j’ai entretenu avec Gorz sur le thème du revenus socialgaranti avait commencé avant même son adhésion à l’idée du d’allocation uni-verselle inconditionnelle avec un article publié sur Futur Antérieur au débutdes années 1990 (Cerica et Vercellone, 1993).

5 Dans cet exposé je m’appuierai souvent sur les travaux réalisés en colla-boration avec Jean-Marie Monnier cités en bibliographie.

lation du capital caractérisée par ce que l’on peut appeler le “deve-nir rente du profit” (Vercellone, 2007). Il en résulte un divorcecroissant entre la logique de la marchandise et celle de la richessequi illustre de manière exemplaire “la crise du capitalisme dans sesfondements épistémiques” Gorz (2004, p. 214). Précisons en effetque selon Gorz, et là nous avons une contribution essentielle à laproblématique du capitalisme cognitif, ce dernier “n’est pas un ca-pitalisme en crise, il est la crise du capitalisme qui ébranle la sociétédans ses profondeurs” (Gorz 2003, pp. 81-82). Il faut entendre parlà, la contradiction fondamentale qui oppose la logique parasitaireet rentière du capitalisme cognitif d’une part et les conditions ob-jectives et subjectives à la base d’une économie fondée sur le savoirqui “contient […] en son fond une négation de l’économie capita-liste marchande” (Gorz 2003, p. 76).

L’une des conséquences les plus significatives de cette évolutionde la pensée de Gorz est justement le changement de sa position àl’égard de la proposition d’un revenu social garanti inconditionnelet indépendant de l’emploi, proposition à laquelle il s’était jusqu’aumilieu des années 1990 opposé, en lui préférant un projet de réduc-tion progressive et radicale, à l’échelle sociale, de la dépense en tra-vail-emploi effectuée dans la sphère de la nécessité.

C’est notamment la prise en compte du lien existant entre l’es-sor d’une intelligence collective et la crise de la loi de la valeur quidans Misère du Présent et Richesses du possible le conduit à adhérerà l’idée d’un revenu d’existence en argumentant que lorsque “l’in-telligence et l’imagination (le general intellect) deviennent la princi-pale force productive, le temps cesse d’être la mesure du travail; deplus, il cesse d’être mesurable” (Gorz 1997, p. 140). Il en résultequ’il devient de plus en plus difficile envisager une réduction homo-gène du temps de travail en définissant “une quantité de travail in-compressible à accomplir par chacun au cours d’une période déter-minée” (ibidem)3.

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3 Dans ce cadre, poursuivait Gorz, “l’allocation universelle est la mieuxadaptée à une évolution qui fait du niveau général des connaissances, knowled-ge, la force productive immédiate, et réduit le temps de travail à très peu de cho-ses en regard du temps que demandent la production, la reproduction et la re-production élargie des capacités et des compétences constitutives de la force detravail dans l’économie de l’immatériel» (Gorz 1997, p. 144). NB. Le passagesouligné correspond à un passage des Grundrisse de Marx cité par Gorz.

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changer à partir de la société les rapports de force à l’intérieur desentreprises.

1.2. Le RSG comme nouvelle forme de revenu primaire

Le deuxième pilier consiste à affirmer que le RSG ne doit pas êt-re pensé comme un revenu secondaire (de transfert) lié à la redistri-bution du revenu. Sa justification théorique ne doit pas non plus êt-re exclusivement de nature éthique, fondée, par exemple, su la sim-ple reconnaissance du droit à l’existence. A la différence de nombrede proposition d’allocation universelle, notre thèse est que le RSGdoit être conçu, revendiqué et instauré comme un revenu primaire,ce qui implique une remise en cause de l’approche réductrice enco-re dominante de la notion de travail productif, et notamment de sonassimilation à la notion de travail-emploi.

Que faut-il donc entendre lorsqu’on affirme que le RSG cons-titue un revenu primaire, une idée que Gorz partageait lui-aussimais en lui donnant un contenu quelque peu différent de ce queJean-Marie Monnier et moi-même défendons.

Nous entendons par là que le RSG est un revenu résultant di-rectement de la production (et partant de la répartition dite primai-re), c’est-à-dire d’un travail social et d’une activité créatrice de va-leur et de richesse aujourd’hui non reconnue, non rémunérée et enmême temps non mesurable selon aucun étalon préétabli, commedirait Gorz.

Cette définition du RSG, en tant que nouvelle forme de revenuprimaire, repose en grande partie sur l’analyse des mutations du tra-vail liées à la montée en puissance de sa dimension cognitive, et cetant dans la sphère du travail matériel que dans celle du travail im-matériel.

Il faut à cet égard noter que les travaux menés par Gorz depuisMisères du présent et richesse du possible ont porté une contributionfondamentale, en montrant notamment comment, quasiment paressence, le travail cognitif se présente comme la combinaison com-plexe d’une activité intellectuelle de réflexion, de communication,de partage et d’élaboration des savoirs qui s’effectue tant en amontet en dehors, que dans le cadre même du travail immédiat, direct, deproduction exécuté durant l’horaire officiel du travail. Le temps detravail direct de production effectué durant l’horaire officiel du tra-

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1.1 Le RSG comme instrument de relâchement de la contraintemonétaire au rapport salarial

Le premier pilier consiste à inscrire le RSG dans un projet derenforcement du processus de resocialisation et de démarchandisa-tion de l’économie démarré, dans l’après-guerre, avec le développe-ment du système moderne de protection sociale et du droit du tra-vail. Le RSG ne se substituerait donc en aucune manière aux institu-tions et aux prestations qui constituent les fondements de l’actuellearchitecture du système de protection sociale. Il se propose de lescompléter, tout en sauvegardant les conquêtes fondamentales liéesau système de retraite, de santé ou d’indemnisation du chômage.

Dans ce cadre, le rôle du RSG est d’atténuer la contrainte mo-nétaire à la source de la norme sociale du rapport salarial qui défi-nit, au sens de Marx, la subsomption formelle du travail au capital.Autrement dit, il vise à rompre le cercle vicieux qui subordonne lareproduction de la force de travail à sa vente sur le marché du tra-vail, en faisant de l’accès à la monnaie et donc à un revenu, une va-riable dépendante des anticipations des capitalistes concernant levolume de la production et donc de l’emploi considérés commerentables6.

En ce sens, l’instauration d’un RSG indépendant de l’emploidoit correspondre à un revenu suffisant pour vivre ou du moinspour permettre aux travailleurs de refuser des conditions de travailconsidérées comme inacceptables, en s’opposant à la dégradationdes conditions d’emploi et de rémunération qui font désormaisqu’un SMIC à temps partiel soit la norme de référence réglant lemontant des minima sociaux. L’atténuation de la contrainte au rap-port salarial autorisée par le RSG constituerait une condition clépour permettre aux travailleurs de se réapproprier de la maîtrise deleurs temps de vie et d’utiliser le temps et l’énergie psychiques ain-si libérées dans le développement des diverses formes de productiondu commun alternatives à la logique de la marchandise et du travailsalarié subordonné. Aussi le RSG favoriserait-il le passage de l’ac-tuel modèle de précarité subie à un modèle de mobilité choisie ent-re différents types d’activités et d’emploi, tout en permettant de

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6 Sur la relation entre la proposition du RSG et la conception d’une mon-naie du commun cfr. Baronian et Vercellone (2013)

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velle forme de revenu primaire, implique un réexamen et une exten-sion du concept de travail productif menés d’un double point de vue.

Le premier concerne la notion de travail productif pensée, sui-vant la tradition dominante au sein de l’économie politique, commele travail qui produit un profit et participe à la création de valeursd’échanges. Il s’agit là du constat selon lequel nous assistons au-jourd’hui à une extension importante des temps de travail, horsjournée officielle du travail, qui sont directement ou indirectementimpliqués dans la formation de la valeur captée par les entreprises.A cet égard, le RSG, en tant que revenu primaire, correspondrait,du moins en partie, à la rémunération collective de cette dimensiontoujours davantage collective, d’une activité productrice de valeurqui s’étend sur l’ensemble des temps sociaux et se traduit, sous deformes souvent inédites, par un prolongement du temps effectif detravail et l’accroissement de la plus-value absolue. Cette revendica-tion pourrait en ce sens être aussi le vecteur d’une recomposition àl’échelle de la société de l’ensemble des figures du travail dans unelutte pour la réappropriation d’une partie de la valeur ajoutée per-due par les salaires à l’avantage des rentes et des profits.

Le second point de vue renvoie au concept de travail productifpensé lui, contre la tradition dominante dans la théorie écono-mique, comme le travail producteur de valeur d’usage, d’une ri-chesse qui échappe à la logique de la marchandise et du rapport sa-larial soumis au capital.

Il s’agit en somme de remettre en discussion l’assimilation abu-sive du concept de travail et du concept de travail-emploi et d’affir-mer, avec force, que le travail peut être improductif de capital9, mais

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9 C’est par ailleurs déjà le cas, d’un point de vue strictement théorique,pour les activités réalisées au sein des services publics non marchands qui pro-duisent de la richesse et non de la valeur marchande. Le caractère incondition-nel du RSG se distingue cependant, de manière radicale, du salaire versé auxtravailleurs de ces services car il ne se fonde ni sur un travail dépendant, nin’implique de la part des bénéficiaires une quelconque démonstration de l’uti-lité sociale de leur activité. Il présuppose la reconnaissance sociale (non bu-reaucratique-administrative) d’une activité créatrice de richesses qui se déve-loppe en amont et de manière autonome par rapport à la logique administrati-ve de la sphère publique et à la logique de la rentabilité marchande du privé, etce même lorsqu’elle les traverse et contribue à leur reproduction. En ce sensaussi, le RSG correspond à une construction sociale et institutionnelle qui pré-

vail ne constitue ainsi plus qu’une fraction, parfois la moins impor-tante, du temps effectif du travail.

De cette analyse du travail cognitif résultent deux conséquencesessentielles et sur bien des aspects contradictoires.

La première est que les frontières habituelles tracés par le mo-dèle fordiste-industriel entre temps de travail et “temps libre” s’ef-fritent, en remettant de plus en plus en cause, comme le reconnais-sait Gorz lui-même (2000), la possibilité d’établir une séparationtrop nette entre la sphère du travail hétéronome et de l’économique,d’une part et la sphère de l’autonomie et du non économique, d’au-tre part7.

La seconde conséquence consiste en ce que cette dimensionnouvelle du travail vivant, où, pour citer Gorz (1997, p. 144) “le tra-vailleur est à la fois la force de travail et celui qui la commande”8,échappe tout à la fois à sa mesure officielle et à une conception ré-ductrice l’assimilant à la notion d’emploi salarié.

Plus fondamentalement encore, dans une économie fondée surla connaissance, ce n’est plus dans les entreprises mais désormaisdans la société que s’opère l’essentiel des processus de création desavoirs et de richesses, selon une logique qui trouve sa figure exem-plaire, dans le modèle coopératif et non marchand du logiciel libreet de la Wikiéconomie.

Il en résulte que la raison principale justifiant la mise en place duRSG ne peut reposer sur le seul constat de la crise structurelle despolitiques de plein emploi, au risque de le présenter comme un sim-ple dispositif d’atténuation des effets pervers du chômage de masseet de la précarité, et non comme un moyen d’émancipation et detransformation sociale radicale. C’est également la raison pour la-quelle, le fondement premier de la proposition du RSG comme nou-

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7 Comme celle que Gorz avait essayé de théoriser, par exemple, dansAdieux au prolétariat et Métamorphoses du travail, Quête du sens – Critiquede la raison économique, éd. Galilée, Paris1980.

8 Il est intéressant de noter que cette même citation nous la retrouvons àl’identique dans un passage de Réforme et Révolution, essai écrit à l’époque où,à la fin des années 1960, Gorz défendait une perspective autogestionnaire Eneffet, affirmait-il “Le travailleur de pointe est proprement impossible à com-mander; il est à la fois la force de travail et celui-là même qui la commande, brefil est une praxis sujet coopérant avec d’autres praxis à une tâche commune, queles directives trop impératives venant d’en haut pourraient seulement désorga-niser » (Gorz 1969, p. 180).

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trement dit, poursuit Gorz, “la garantie d’un revenu suffisant doitmarquer l’importance croissante, virtuellement prépondérante, decette autre économie créatrice de richesses intrinsèques, ni mesura-bles, ni échangeables. Elle doit marquer la rupture entre création derichesse et création de valeur”. Et, précisait Gorz, “elle doit mettrejustement en évidence que ‘chômage’ ne signifie ni inactivité socia-le ni inutilité sociale, mais seulement inutilité à la valorisation di-recte du capital” (ibidem).

Avec une formidable capacité anticipatrice par rapport à la ré-flexion qui se développera vers la fin des année 2000, il semble aus-si associer cette caractérisation du revenu garanti comme revenuprimaire à celle qui en fait une institution du commun lorsqu’il écritque le RSG correspond “en fin de compte, à la mise en commund’une partie de ce qui est produit en commun, sciemment ou non”(Gorz 2003, p. 101).

Toutefois, Gorz finit par “rejeter” cette fondation du revenu so-cial garanti comme “rémunération d’une activité productive” en af-firmant que cette formulation resterait accrochée à la valeur-travailet, en prenant acte de la mise au travail totale de la personne, finiraitpar la légitimer (Gorz 2003, p. 30). Elle contiendrait aussi le risqueque “l’usage qu’en font ses bénéficiaires va être administrativementprescrit ou du moins contrôlé” (Gorz 2003, p. 102). On retombe-rait alors dans “le scénario des activités citoyennes rémunérées parun salaire de citoyenneté” (ibidem).

Il opte alors pour une justification “non économique mais poli-tique” (ibidem) selon laquelle le revenu n’est plus compris commela rémunération d’une création de richesse, mais comme “ce quidoit rendre possible le déploiement d’activités qui sont une riches-se et une fin pour elles-mêmes” (Gorz 2003, p. 103), en sommecomme une sorte d’investissement social permettant de financer lacoopération libre et créatrice des multitudes du général intellect. Ilpousse même le raisonnement jusqu’à parler à ce propos de deuxconceptions du RSG.

Ce glissement de la justification du revenu garanti pose plu-sieurs problèmes dont il n’a malheureusement pas été possible dediscuter avec lui.

Le premier est que Gorz passe ainsi d’une justification du RSGfondée ex-ante sur la productivité sociale de l’intelligence collecti-ve, à une justification qui fait désormais du revenu social garanti es-sentiellement un instrument visant ex-post à permettre “aux créa-

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producteur de richesses non marchandes et donner donc droit à unrevenu versé en dehors de toute logique comptable de mesure del’effort individuel et de sa nature.

Il faut souligner que nous avons là tout un ensemble d’argu-ments qui permettent aussi de renverser en quelque sorte la critiquemoraliste d’un revenu garanti dissocié du travail: en effet, la “soi-disant” contrepartie en travail existe déjà. C’est au contraire sacontrepartie en termes de revenu qui manque10.

Pour conclure, dans la seconde partie de cette contribution, ilnous semble enfin utile de nous attarder sur certains points clé dedivergence entre l’approche du RSG que nous défendons et celle deGorz, concernant justement la manière de justifier son caractère derevenu primaire et son inconditionnalité.

2. Revenu primaire et/ou instrument du développement des ac-tivités autonomes? Deux conceptions du RSG?11

Nous nous devons de souligner que Gorz lui-même indique àplusieurs reprises l’importance d’une définition du RSG en tant querevenu primaire. Il en est ainsi, par exemple, lorsqu’il affirme que“la revendication de la garantie inconditionnelle d’un revenu suffi-sant doit surtout…signifier d’emblée que le travail dépendant n’estplus le seul mode de création de richesse, ni le seul type d’activitédont la valeur sociale doit être reconnue” (Gorz 2003, p. 100). Au-

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figure la logique du commun, et ce tant sur le plan des principes organisant lacoopération productive que sur ceux réglant la répartition (Vercellone, 2011).

10 Contrairement à ce que suggère Gollain (2010), la revendication du RSGsur la base de la reconnaissance sociale de cette double dimension du travailproductif n’a donc rien à voir avec un projet de stabilisation du capitalisme co-gnitif. Notre approche s’est même toujours opposée à la position, défendue no-tamment par Yann Moulier Boutang (2006), selon laquelle le RSG aurait pu de-venir le socle d’un nouveau compromis institutionnalisé susceptible de ré-concilier capitalisme cognitif et économie fondée sur la connaissance.

11 Gorz, dans l’Immatériel, résume ce que sont, à ses yeux, les traits prin-cipaux de ces deux conceptions possibles du RSG dans les pp 30-31, tout enprécisant qu’elles coexistent parfois chez les même auteurs (en partie, ajoute-rions-nous, chez Gorz lui-même). Puis, il revient de manière plus détaillé surcette question dans la section dédiée aux Fondements du revenu d’existence,Galilée, Paris 2003 (pp. 99-104).

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nancier nécessaire à cet investissement, le fait qu’il ne va pas se ré-véler après-coup comme un gaspillage de ressources qui auraient puêtre mieux employées13. Les oripeaux de la critique moraliste d’undroit au revenu dissocié de l’emploi salarié feraient inéluctablementsurface.

Cela est d’autant plus vrai que le financement d’un revenu ga-ranti, justifié comme une sorte d’investissement, s’apparenterait àune sorte de crédit pour lequel l’administration, comme unebanque, voudrait demander, des garanties sur la viabilité et la renta-bilité économique et sociale.

C’est pourquoi la justification et la viabilité du revenu garantiimpliquent, à notre sens, une bataille politique et culturelle, au sensgramscien de ce terme, pour affirmer au niveau sociétal l’hégémonied’une conception autre du travail productif par rapport à son ap-proche dominante aujourd’hui au sein de la théorie économiquecomme de la société capitaliste.

Il est bien entendu difficile de savoir ce que Gorz aurait répon-du à ces objections, toujours est-il que nous pouvons conclure aveclui que “seule l’inconditionnalité du revenu pourra préserver l’in-conditionnalité des activités qui n’ont tout leur sens que si elles sontaccomplies pour elles-mêmes” (Gorz 1997, pp. 143-144). Finale-ment, une justification forte du RSG et de son caractère incondi-tionnel ne peut reposer, à notre sens, que sur une synthèse de cesdeux conceptions qui ne sont qu’en apparence opposées. Le RSGdoit en somme se présenter comme étant tout à la fois une institu-tion du commun, un revenu primaire pour les individus et un in-vestissement collectif de la société dans le savoir permettant l’essord’un mode de développement fondé sur la primauté du non mar-chand et des formes de coopération alternative aussi bien au publicqu’au marché dans leurs principes d’organisation.

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13 C’est peut-être aussi en raison de la conscience de ce risque que Gorz,vers le fin de sa vie, précise que le RSG ne pourrait pas être instauré “graduelle-ment et pacifiquement par une réforme décidée d’en haut» (Gorz 2008, p. 153)et semble envisager sa mise en place comme une vague de fond se propageant àpartir du niveau local à travers un financement reposant sur une monnaie paral-lèle ou alternative, de toute manière “une monnaie différente de celle que nousutilisons aujourd’hui». (Gorz 2008, p. 154). Ce qui ouvre sur une autre questiontrès débattue au sein des mouvements prônant l’instauration d’un RSG.

teurs de créer, aux inventeurs d’inventer…” (ibidem), à rendre pos-sible le déploiement d’activités hors marché fondées sur des formesde coopération alternatives à la logique du capital.

Ce type d’argumentation repose sur une dissociation sommetoute arbitraire entre justification économique et justification poli-tique, entre lutte sur la répartition et lutte pour constituer les basesd’un autre mode de production qui constituent deux volets indisso-ciables de la revendication du RSG12. Il crée aussi et surtout un dan-ger majeur, celui de s’écarter d’une approche considérant le RSGcomme un revenu primaire. Ne justifier le RSG qu’à la manièred’un instrument revient en fait à remettre en cause de facto l’idéed’un revenu primaire résultant, comme nous l’avons vu, d’une con -tri bution à l’activité productive qui lui préexiste.

Le deuxième problème est que ce type d’argumentation faisantdu RSG non la reconnaissance d’une conception nouvelle de la no-tion de travail productif, mais un instrument et un investissementsocial au service du déploiement de formes alternatives de créationde richesse, risque en même temps, bien plus que la première justi-fication, de légitimer un contrôle administratif rendant son octroiprescrit et conditionnel. Oui – ce serait en synthèse le discours desadministrations octroyant le revenu garanti – nous avons bien ac-cepté d’investir en vous pour permettre l’épanouissement de votreforce créatrice. Montrez-nous à présent le bien-fondé de l’effort fi-

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12 Plus précisément, cette dissociation nous semble rester prisonnière, surbiens des aspects, de la vielle hiérarchie que le marxisme traditionnel établissaitentre la lutte économique de la classe ouvrière, demeurant par définition à l’in-térieur du système capitaliste, et la lutte politique, seule à même de porter leconflit sur le plan d’un projet de véritable rupture avec le capitalisme. Or, com-me l’a bien montré toute une tradition marxiste hétérodoxe inspirée notam-ment par l’approche opéraïste (Panzieri, Tronti, Negri, etc.), cette séparationentre lutte économique et lutte politique est non seulement erronée, mais ellesemble aussi à tort associer le concept lui-même d’économique à sa forme ca-pitaliste, comme s’il s’agissait d’un invariant structurel. Cette considérationétait vrai, par exemple, pour l’ouvrier masse, chez lequel la lutte sur le salairecomme variable indépendante et contre l’organisation scientifique du travailétait indissociable de l’aspiration politique à un autre mode de production et derépartition permettant le dépassement de la division capitaliste du travail. Elleest encore davantage pour la figure de l’intelligence collective et du travail co-gnitif pour laquelle le RSG représente à la fois, de manière inextricable, un in-strument d’atténuation du rapport d’exploitation et de libération de son po-tentiel d’auto-organisation vers un exode de la société salariale.

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EGIDIUS BERNS

Temps économique et singularité1

L’économie, tant pratique que théorique2, est souvent considé-rée comme la sphère du calculable par excellence. Cela s’avère entout cas vrai pour la perspective néo-classique de l’économie. Bienqu’il existe un consensus croissant parmi les économistes que cetteperspective souffre de toutes sortes d’insuffisances, elle reste malgrétout dominante. Il en existe néanmoins d’autres s’appuyant souventsur des orientations économiques plus historiques et politiques. Unexemple récent est l’ouvrage de Thomas Piketty, Le Capital auXXIe siècle3. Ce livre ne rejette pas la théorie néo-classique, mais larelativise et la complète avec des matériaux historiques. Le marchéne conduit pas automatiquement à un résultat qui soit socialementet économiquement souhaitable, même si une société ne peut sepasser des marchés. En plus, les décisions induites par les marchéssont souvent non pertinentes du point de vue du temps long. La‘science économique’ néo-classique concerne une théorie formelledes décisions à prendre. La vie quotidienne en est, bien entendu,remplie, mais le problème est seulement qu’elles ne servent souvent

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1 Ce texte est le premier chapitre d’un livre, écrite en néerlandais et intituléLa société singulière. Dans les chapitres ultérieures il traitera de l’amitié commeprincipe de la vie politique et sociale, de l’espace public et de l’Europe. Des par-ties de ce texte ont été publiées auparavant dans: Wijsgerig Perspectief, 2, 2015 etdans: Wolf D. Enkelmann, Birger P. Priddag (Hg), Was ist? Wirtschaftsphiloso-phische Erkundungen, Metropolis Verlag, Marburg 2015, pp. 73-90.

2 Contrairement à l’anglais, qui fait la différence entre economics et econo-my, le mot français ‘économie’ ne choisit pas entre les sciences économiques etla vie économique. L’usage du mot ‘économie’ dans ma contribution maintienttoujours cette ambiguïté. Si seulement la science économique ou la vie écono-mique est indiquée, j’utiliserai des périphrases.

3 Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle, Seuil, Paris 2013.

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trichien est étrangère à mon discours. Ce qui m’importe est demontrer que les calculs économiques, occupant une place centraledans la représentation néo-classique du monde, sont toujours dé-constructibles et s’avèrent alors se reposer sur quelque chose qui sedérobe à tout calcul. Ce quelque chose renvoie à un fond, ou plusexactement à un abyme, qu’aucun calcul ne peut capter mais dontprocèdent néanmoins tous les calculs. Tant qu’on se place dans uneperspective néo-classique et comprend l’économie comme la ré-sultante des choix des acteurs économiques, cet abyme se fait va-loir dans le comportement humain. Mais si on consulte des travauxéconomiques qui ont des orientations plus historiques et poli-tiques, comme ceux de Piketty, cet abyme renvoie à la façon dontles gens se rapportent à l’histoire. Comme je tâcherai de le mont-rer, cet abyme caractérisera l’homme comme une singularité et mè-nera à une critique de l’homo oeconomicus comme sujet de la ra-tionalité économique.

Je remarquais déjà que rien d’humain n’est étranger à l’écono-mie. C’est que celle-ci ne concerne qu’un aspect de l’activité hu-maine. Mais derrière cette modestie de l’économie se cache une hau-taine condamnation de tout ce qui ne se conforme pas à la rationa-lité économique. Ces comportements ne répondent pas à une autrerationalité que celle de l’économie, mais ils sont – à divers dégrés –irrationnels. Comme nous le verrons encore, cela découle de laconception économique du temps. De ce fait, les autres formes decomportement, en particulier celles de la politique, sont des formesinachevées de rationalité. Elles ne trouvent leur accomplissementque dans la rationalité économique. Aussi, la globalisation n’est-el-le pas seulement la connexion des économies nationales avec com-me conséquence une érosion des états nationaux et de leur souve-raineté. Elle est bien plutôt l’expression d’une conception typique-ment occidentale de la rationalité dont l’achèvement historique dé-bouche sur la domination de la rationalité économique. Aussi,n’est-ce pas un hasard que la problématique de la singularité se po-se justement dans un contexte de globalisation économique, car cesont précisément les calculs économiques qui sont les plus aboutiset décisifs tout comme des développements économiques du passérétrécissent, voire “dévorent”5 l’avenir des sociétés.

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5 T. Piketty, “Le passé dévore l’avenir”, O.c., p. 942.

pas à grand chose. Pour des développement à plus longue échéance,les changements politiques et sociétaux sont selon Piketty plus im-portants et la recherche économique qui intègre aussi les aspectsanthropologiques, sociologiques et politiques de la société, est plusféconde.

Mais, comme je le disais déjà, le fait est que la perspective néo-classique domine. Elle détermine les choix en vue d’un résultat op-timal. Son homo oeconomicus est un calculateur et dans nos sociétésactuelles les gens sont censés tenir continuellement compte de leursintérêts. Cela ne veut cependant pas dire qu’aux yeux des écono-mistes il n’y a dans la vie que des calculs. La science économique estune science qui ne considère qu’un aspect du comportement hu-main4. Elle aborde celui-ci du point de vue économique, comme uncomportement qui cherche à maximiser l’utilité. Cela laisse parconséquent ouvert le fait que d’autres aspects peuvent influer sur lecomportement.

L’économiste et l’agent économique savent donc que dans lasphère économique les choses peuvent se passer tout autrementque ce à quoi on pourrait s’attendre sur la base des comportementscalculateurs. Ils en attribuent la cause précisément à ces autresaspects non-économiques. Aussi, constate-t-on que les économis-tes cherchent actuellement à s’approcher de la psychologie afin dedonner un contenu plus empirique à leurs théories. Le livre de Pi-ketty propose une approche analogue. Il ne regarde seulement pasdu côté de la psychologie mais du côté des matériaux sociaux etpsychologiques que lui procurent des romans et des films et sur-tout du côté des séries statistiques du passé. Dans l’histoire de lapensée économique ce problème a déjà été soulevé au dix-neuviè-me siècle par l’Ecole historique. Les économistes allemands reje-taient les abstraction anhistoriques de l’Ecole classique et ont es-sayé de donner un contenu plus empirique aux sciences écono-miques. Ma contribution ne présente cependant pas une nouvelleproduction de la Methodenstreit entre Gustav Schmoller et CarlMenger. Ce qui ne veut cependant pas dire que je ne ferai pas ap-pel à quelque chose comme “l’histoire” et que la radicalité de l’Au-

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4 “Economics is not about certains kinds of behaviour but focuses atten-tion on a certain aspect of behaviour, the form imposed by the influence ofscarcity”, L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of EconomicScience, MacMillan, London 1935, p. 17. La première édition date de 1932.

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“sumbainon”6 –, cette économie-là n’existe pas. Au début, l’échan-ge commercial et la monnaie sont aux yeux d’Aristote des outils na-turels de l’économie familiale. Mais à partir du moment où l’argentest introduit afin de faciliter le commerce des moyens de subsistan-ce, une autre sorte de commerce voit le jour, à savoir le commerceen vue d’un profit ou, comme le dit Aristote, la chrématistique. Etalors que l’oikonomia est soumise à et donc limitée par les fins de lavie bonne, la forme chrématistique de l’économie se soustrait à cet-te limitation. L’économie devient illimitée sans cette limite, car letemps s’écoule sans fin de sorte que rien ne limite l’attitude chré-matistique dans ce temps illimité. “La raison de cette attitude [– àsavoir, ‘qu’il faut ou sauvegarder ou augmenter à l’infini son avoiren monnaie’ –] est que certains se préoccupent de vivre mais non devivre bien; et comme cette préoccupation engendre un désir sansborne, ils désirent aussi des moyens illimités”7. Et puisque la limi-tation par ‘la vie bonne’ exige en fin de compte, toujours selon Aris-tote, un contenu politique, l’illimitation chrématistique de l’écono-mie ne peut que signifier l’effacement de la limite entre politique etéconomie. Contrairement à l’ ‘oikonomia’, qui se soumet à la poli-tique et par conséquent s’en distingue, la chrématistique ne s’entient pas à cette séparation et submerge dans son illimitation la po-litique. Aussi, est-il propre à l’économie, du fait de son illimitation,de s’approprier la totalité de l’espace social, comme nous ne le sa-vons que trop bien actuellement.

A l’autre bout de la tradition philosophique, Hegel indique dela même manière l’illimitation de l’économie, même s’il est vrai quesa dialectique lui permet de donner une image plus pénétrante ducapitalisme industriel naissant. Ce que l’illimitation de l’économie,ou dans sa terminologie ‘le système des besoins’, rend ‘mauvais’ etconduit à une perte de la vie éthique, est la forme d’infini qui lui estpropre: la poursuite infinie – puisque le temps s’écoule sans arrêt –de la multiplication et de la différenciation des moyens de consom-mation ainsi que de la division du travail afin d’y pourvoir.

Dans les manuels d’économie on postule généralement la mêmeillimitation. Les besoins y sont censés développables à l’infini. Aus-si, la devise de l’économie est-elle selon Hegel le ‘raffinement’:

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6 Aristote, Politica, 1257 b 33.7 Aristote, Politica, 1257 b 40 – 1258 a 3.

Depuis Kant, nous savons que la réflexion philosophique finiratoujours par se confronter au problème du temps. L’enjeu de cettecontribution est de démontrer comment les structures de l’existen-ce, ou si on veut du Dasein, correspondent aux manières avec les-quelles les textes économiques comprennent le temps. Pour celanous partons dans un premier paragraphe de l’économie commeprocessus essentiellement illimité, dont Aristote et Hegel nous don-nent les exemples classiques. Ce processus suppose une conceptiondu temps. Pour l’expliquer je ferai surtout appel à Heidegger. Dansun deuxième et troisième paragraphe, la temporalité économiqueest décrite comme étant celle d’un temps sans temps, qu’on retro-uve surtout dans la théorie microéconomique, d’une part et cellequi est essentiellement une orientation sur un à-venir inconnu,d’autre part. On trouve ces deux conceptions simultanément dansles travaux des économistes mainstream. Dans le quatrième para-graphe, ces deux conceptions du temps sont rapportées l’une à l’au-tre afin de penser le temps économique ‘lui-même’. Derrida y serama source principale. Le rôle que l’indécidabilité joue dans ce tempspermettra de dessiner une première ébauche de la notion de singu-larité. Cette ébauche est cependant encore trop dépendante de laconception de l’économie comme théorie des décisions par des pro-ducteurs et consommateurs ainsi que de l’individualisme méthodo-logique. Pour cette raison, je me tourne dans le cinquième paragra-phe vers une conception de la temporalité d’un économiste qui ré-siste à cela: Piketty. Ce qui me permet finalement de compléter mapremière ébauche de la singularité. Dans ce sixième paragrapheMaurice Blanchot est ma principale référence.

1. Le temps de l’illimitation économique.

Dans la tradition philosophique, l’économique est générale-ment compris comme le ‘mauvais infini’ pour le dire avec Hegel.On voit cela déjà chez Aristote. Tant que l’économie se déploie àl’intérieur de l’enclos de la maisonnée et se soumet de ce fait aux rè-gles de la ménagerie familiale, elle sert une fin qui importe et faitpartie de ce qu’Aristote nomme ‘la vie bonne’. En fin de comptecelle-ci exige toujours un contenu politique et ne peut donc pas selimiter à la famille. Aristote appelle cette économie ‘oikonomia’. Ilest cependant suffisamment réaliste pour constater qu’“en fait” –

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Tant téléologiquement que dialectiquement, l’infinitude de l’é-conomie n’est donc pas relevable complètement, sans reste, au ni-veau de la rationalité de ‘la vie bonne’ ou de l’Etat, qui par consé-quent n’est plus rationnelle sans reste non plus. Par conséquent iln’y a plus de fondement pour qualifier cet infini de ‘mauvais’, car ilne peut s’appeler ‘mauvais’ qu’à la lumière de la possibilité d’un boninfini, comme celui de ‘la vie bonne’ ou de la vie éthique objectivede l’Etat.

Cette illimitation de l’économie implique un écoulement sansarrêt du temps. Heidegger appelle cette conception selon laquelle letemps est représenté comme un courant, “la compréhension vulgai-re du temps”10. Il est en effet difficile d’échapper à l’image du tempscomme un courant. Le temps semble relier tout et avancer sans ces-se. Grâce à l’arithmétique, nous possédons cependant une rationa-lité pour penser ce courant. Car on peut le diviser en moments et yappliquer des nombres avec lesquels on peut compter et calculer. Letemps est, disait Aristote, “le nombre d’un mouvement selon l’an-térieur et le postérieur”11. Il suffit de penser au temps des horlogesavec lequel tout homme apprend à vivre depuis sa prime jeunesse.Peut-on cependant dire qu’avec ce courant calculable le temps estentièrement rationalisé? Non, car nous ne savons toujours pas versoù le temps s’écoule. Seulement si cette incertitude est vaincue,pourra-t-on dire que la rationalisation du temps est entièrementachevée.

Selon Heidegger, la conception traditionnelle philosophique dutemps propose précisément cet accomplissement. Les philosophespartent donc aussi de la compréhension vulgaire du temps; ils visentseulement à la radicaliser et en faisant cela à la dépasser. Leur conceptdu temps caractérise la tradition philosophique depuis le début maisne trouve son achèvement complet que dans l’époque de la tech-

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aussi, L. Carré, Populace, multitude, populus. Figures du peuple dans la Philo-sophie du Droit de Hegel, in T. Berns et L. Carré (dir.), Noms du peuple, Ki-mé, Paris 2013, pp. 89-108. Dans La porosité. Un essai sur le rapport entre éco-nomie et politique, Ousia, Bruxelles 2012, pp. 30-32, j’ai essayé de faire une re-construction du raisonnement économique qui se trouve à la base des §§ 243-248 des Grundlinien.

10 “dem Zuge des vulgären Zeitverständnisses und das heißt zugleich demtraditionellen Zeitbegriff”. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Ver-lag, Tübingen 1986, p. 432, n. 1.

11 Aristote, Physique, 219 b 1-3.

“Ce que les Anglais appellent comfortable est quelque chosed’absolument inépuisable qui se poursuit à l’infini, étant donné quechaque confort atteint finit à son tour par faire la preuve de son in-confort, si bien que ces inventions n’ont pas de fin”.

Mais la citation de Hegel continue: “C’est pourquoi un besoin est produit non pas tant par ceux

qui l’éprouvent de manière immédiate que, bien plutôt, par les gensqui cherchent à réaliser un gain en le faisant naître”8.

Tout comme Aristote, Hegel relie donc l’infinitude propre à l’é-conomie à l’appât individuel du gain. Ce lien peut être établi, parceque la génération des besoins nouveaux produit du profit. Aussi, lesbesoins sont-ils seulement dans leur généralité des propriétés natu-relles du consommateur individuel. La manière avec laquelle les be-soins de nourriture, d’habillement et d’habitation sont satisfaits, estpar contre totalement sociale, car pour leur donner un contenu, tantdu côté du consommateur et ses besoins que du côté du producteuret sa division du travail, l’engagement de toute la société est néces-saire. L’appât du gain est donc le principe dynamique qui propulsel’économie dans sa fuite infinie en avant. Ceci repose cependant enmême temps sur la socialisation de la position individuelle duconsommateur et du producteur. L’enjeu de ce rapport entre indivi-du et société est la relève de leur contradiction dans l’Etat. Mais toutcomme Aristote comprenait que l’économie n’est pas une oikono-mia mais une chrématistique, la question se pose de savoir si la dia-lectique hégélienne ne se bloque pas dans la populace que l’écono-mie génère à ses yeux inévitablement: “dans l’excès des richesses, lasociété civile bourgeoise n’est pas assez riche (...) pour pouvoir lut-ter contre un excès de pauvreté et la génération de populace”9.

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8 “Das was die Engländer comfortable nennen, ist etwas durchaus Uners-chöpfliches und ins Unendliche Fortgehendes, denn jede Bequemlichkeit zeigtwieder ihre Unbequemlichkeit, und diese Erfindungen nehmen kein Ende’. Eswird ein Bedürfnis daher nicht sowohl von denen, welche es auf unmittelbareWeise haben, als vielmehr durch solche hervorgebracht, welche durch seinEntstehen einen Gewinn suchen”. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophiedes Rechts, § 191. Traduction française de J.-P. Lefebvre, G.W.F. Hegel, La so-ciété civile bourgeoise, Maspero, Paris 1975, p. 71.

9 “bei dem Übermaße des Reichtums ist die bürgerliche Gesellschaft nichtreich genug (...) dem Übermaße der Armut und die Erzeugung des Pöbels zusteuern”. Idem, par. 245. Traduction française de J.-P.Lefebvre, o.c., p. 127. Voir

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2. Le temps sans temps de la micro-économie

On trouve dans la tradition des sciences économiques le mêmemalaise vis-à-vis de l’illimité économique que dans la tradition phi-losophique. En économie aussi, l’enjeu est la rationalisation de cet-te illimitation. Comme nous l’avons vu, celle-ci implique le courantdu temps, dont la rationalisation n’est pas achevée tant que lessciences économiques ne l’ont pas vaincue.

La distinction par Frank Knight entre un avenir incertain et unavenir réductible au risque calculable donne l’exemple parfait dansl’histoire de la pensée économique de cette conception vulgaire ettraditionnelle du temps. Dans cette histoire, on attribue générale-ment l’introduction de l’incertitude à Carl Menger, fondateur del’Ecole autrichienne, laquelle actuellement encore porte une grandeattention à l’incertitude au sein de l’économie. Menger découvre laproblématique de l’incertitude dans le cadre de sa théorie de la va-leur subjective. La valeur est un jugement du consommateur et “lacause ultime”12 de toute activité économique. Si une valeur est attri-buée à un bien sur la base de sa capacité de satisfaire un besoin, seulsdes biens immédiatement consommables peuvent entrer en considé-ration. Dans ce cas, la théorie subjective de la valeur excluerait l’é-valuation des moyens de production. Pour parer à cet inconvénient,Menger distingue entre biens de premier ordre, qui sont immédiate-ment consommables et ceux d’ordre supérieur avec lesquels lesbiens de premier ordre sont produits. En établissant entre ces biensd’ordre supérieur et ceux de premier ordre un lien de causalité effi-ciente, Menger peut maintenir que l’évaluation des biens deconsommation est la “cause ultime” de toute activité économique.

Menger remarque cependant que sa formulation de la théorie dela valeur subjective implique une dimension temporelle:

“Le processus par lequel les biens d’ordre supérieur sont pro-gressivement transformés en biens d’ordre inférieur et par lequelceux-là sont dirigés finalement vers la satisfaction des besoins hu-mains n’est pas (...) irrégulier mais sujet, comme tous les processusde changement, à la loi de la causalité. Cependant, l’idée de causal-

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12 “die letzte Ursache”, C. Menger, Grundsätze der Volkwirtschaftslehre,Gesammelte Werke, Band I, Mohr, Tübingen 1969 (la première édition date de1871), p. 88.

nique, de l’efficacité, du rendement économique et de l’organisationentrepreneuriale et professionnelle. Dans cette tradition, l’être estcompris selon Heidegger comme présence. C’est pour cette raisonque Heidegger caractérise cette tradition de ‘métaphysique’, car se-lon lui il est propre à la métaphysique de penser ‘l’être’ comme un‘étant’, comme ce qui est présent. En ce qui concerne le temps, celasignifie que ces philosophes se demandent comment le temps estprésent. La réponse est que le temps n’existe que dans le présent del’instant du ‘maintenant’. Le passé est alors représenté comme un‘maintenant’ qui n’est plus et l’avenir comme un ‘maintenant’ quin’est pas encore. Le cours infini du temps peut alors être pensé com-me une suite de ‘maintenant’ équivalents. Grâce à cette conception,l’illimitation de l’économie peut être appréhendée comme une suitecalculable de ‘maintenant’.

Cette conception ne dépasse cependant pas l’incertitude propreau temps. Mais l’idée que le temps existe seulement dans l’instant du‘maintenant’, indique bien néanmoins comment la certitude pour-rait être obtenue. Quand on se limite à la conception de l’illimitécomme une suite calculable de ‘maintenant’, on aboutit à ce quenous avons appelé ci-dessus ‘le mauvais infini’. Il n’est pas irration-nel, car il est calculable pour l’entendement. Si on veut cependantdépasser cet infini, il faudra désigner une fin à ce mouvement. Cet-te fin ou ce but ne peut pas être lui-même une partie du temps,conçu comme un courant de ‘maintenant’. Il faudrait qu’il soit un‘maintenant’ définitif, qui ne passe plus à un ‘maintenant’ suivantavec lequel quelque chose pourrait arriver. Dans la présence de ce‘maintenant’ qui se suffit et repose entièrement en lui-même, plusrien ne peut arriver. Il offre par conséquent la certitude. La penséedu temps comme une suite de ‘maintenant’ nous met donc sur lapiste d’un dépassement de l’incertitude temporelle dans un ‘mainte-nant’ absolu. Ce dépassement exige aussi celui du calcul par l’en-tendement vers la certitude raisonnable d’une fin supra temporelle.Ainsi, le néolibéralisme peut être défini comme l’idéologie de laconfiance dans ce temps calculable. Il est la confiance que l’enten-dement humain trouvera toujours, pour chaque inconfort qui seprésentera, la solution nécessaire. Celle-ci n’est pas contingente etdonc suspendue à l’incertitude temporelle de l’avenir, mais assurée.

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sciences économiques ils sont équivalents et privilégier le momentprésent ne témoigne pas d’une attitude scientifique.

Toutefois, la préférence pour le présent s’accorde très bien avecla conception du temps comme une suite de ‘maintenant’ équiva-lents. Nous avons en effet vu que, dans la conception vulgaire et tra-ditionnelle du temps, le temps est abordé à partir du ‘maintenant’,parce qu’il est seulement existant, présent dans l’instant du ‘mainte-nant’. Le présent a donc ici une préséance et cela pourrait être l’ex-plication de la préférence du détenteur de capital, selon les scienceséconomiques, de disposer ‘maintenant’ de son capital. Cette préfé-rence pour le ‘maintenant’ actuel n’est pas contraire à la conceptionvulgaire et traditionnelle du temps comme une suite de ‘maintenant’équivalents, car dans cette conception le passé et l’avenir ne sont paspensés dans leur temporalité, mais seulement comme des modifica-tions calculables du ‘maintenant’ présent. Le passé et l’avenir nesont pas compris comme un passé dont l’interprétation n’est jamaisachevée et se perd dans un passé immémorial ou comme un avenirincertain dont il sera question dans le paragraphe suivant, mais seu-lement comme un ‘maintenant’ passé ou encore à venir et donc d’unpoint de vue où seulement la présence actuelle compte.

La suite de l’analyse de Böhm-Bawerk dans l’histoire de la pen-sée économique souligne ce qui vient d’être dit. Dans le sillage de Fis-cher et Koopmans, les économistes contemporains préfèrent parlerde ‘l’impatience’ (pour disposer d’un bien économique) au lieu d’u-ne préférence pour le présent. Ce qui est en jeu ici est le mécanismede l’actualisation, qui est à l’œuvre dans toute décision économique.Lors d’une décision, on engage des moyens ‘maintenant’ qui parconséquent ne sont plus disponibles pour la consommation ultérieu-re. Cette décision n’est donc rationnelle que si elle tient compte de lacomparaison de la situation future avec celle sur laquelle porte la dé-cision actuelle. Celle-ci implique donc une évaluation de l’avenir etcontient une dimension temporelle. En même temps, cependant, cefutur n’est pris en compte qu’en comparaison avec l’actualité. Le fu-tur n’est pas autre chose qu’un maintenant qui doit encore venir. Quedans ce passage vers l’avenir quelque chose puisse advenir et que tou-te décision implique un rapport à cette possibilité, n’est pas pensé.

Il s’avère cependant que l’agent économique, lors de sa compa-raison du futur avec le présent, peut être plus ou moins impatientselon que le moment de la comparaison s’éloigne. Une incohérenceintertemporelle peut par conséquent naître selon que l’impatience

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ité est inséparable de l’idée de temps. Un processus de changementimplique un début et un devenir et ceux-ci sont seulement concev-ables comme un processus de temps”13.

Ce processus est déterminé par la technologie. Celle-ci peut rac-courcir ces développements, mais pas les supprimer complètement.L’économie est donc à ce niveau de la théorie de la valeur princi-piellement temporelle. C’est dans cette technologie, qui établit laconnexion temporalisant entre les biens d’ordre inférieur et ceuxd’ordre supérieur, que réside la source principale de l’incertitude.Car elle exige des connaissances et est par conséquent sujette à l’i-gnorance et à l’erreur.

Le temps et l’incertitude sont donc, selon Menger, propres à l’é-conomie, parce que celle-ci ne concerne pas seulement la consom-mation, mais répond aussi de la production pour y pourvoir. Lachose surprenante est cependant que Menger, qui avait auparavantdémontré la pertinence de l’incertitude dans le cadre de sa théoriede la valeur, l’exclut dans sa théorie des prix en arguant qu’elle estun “phénomène pathologique”14, qui n’explique pas plus les lois ri-goureuses de l’économie que les corps malades expliquent les lois dela physiologie. L’incertitude n’est qu’une déviance par rapport à larationalité stricte de ce qu’il appellera dans son œuvre ultérieure les“lois exactes”, qui sont les vrais objets de la science économique.Cette exclusion de l’incertitude anticipe sur sa prise de positionantihistoriste dans la Methodenstreit avec Schmoller.

De là aussi sa condamnation “comme une des plus grandes er-reurs jamais commises”15 de la théorie de son élève Böhm-Bawerk,qui explique l’intérêt sur le capital par une préférence pour le mo-ment présent. Car il n’y a aucune raison rationnelle qu’un ‘mainte-nant’ ait un autre statut qu’un autre ‘maintenant’. Dans le temps des

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13 “Der Process, durch welchen die Güter höherer Ordnung stufenweisein solche niederer Ordnung umstaltet und diese schliesslich der Befriedigungmenschlicher Bedürfnisse zugeführt werden, ist (...), kein regelloser, sondernsteht gleich allen übrigen Wandlungsprocessen unter den Gesetzen der Causa-lität. Die Idee der Causalität ist aber unzertrennlich von der Idee der Zeit. Einjeder Wandlungsprocess bedeutet ein Entstehen, ein Werden, ein solches ist je-doch nur denkbar in der Zeit”, C. Menger, Grundsätze..., O.c., p. 21.

14 “pathologische Erscheinung”, Idem, p. 201.15 “one of the greatest errors ever committed”, J. A. Schumpeter, History

of Economic Analysis, Oxford, 1954, p. 847.

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avons déjà pu constater cela chez Menger, quand celui-ci déterminele jugement subjectif de valeur comme la “cause ultime” de touteactivité économique. Car ce jugement concerne la capacité des biensà satisfaire les besoins, ce qui n’est possible qu’avec des biens im-médiatement consommables. Le détour par (ou, pour parler avecDerrida, la supplémentarité de) la production afin d’y pourvoir –détour où il y va selon Menger du temps et de l’incertitude – nechange rien à la causalité ultime du jugement de valeur ‘maintenant’.L’enjeu de la rationalité des sciences économiques est par consé-quent d’éliminer le temps. Car le temps ouvre la porte à l’incertitu-de. La conception vulgaire et traditionnelle du temps comme suitedes ‘maintenant’ équivalents, vise à rendre calculable l’incertitude etélimine ce faisant le temps dans le temps.

3. “De cost gaet voor de baet uyt”18

Cette élimination du temps dans le temps n’est cependant plussoutenable quand on lit chez Paul Samuelson:

Economic activity is future oriented. By the same token, cur-rent economic consumption is largely the consequence of past ef-forts. Current productive efforts, so to speak, produce for the fu-ture, in order to repay the past for present consumption19.

Selon cette perspective, la temporalité économique semble es-sentiellement ouverte à un avenir au-delà de ce qui est connaissableet maîtrisable. Le temps semble ici de nouveau avoir la significationd’un cours illimité qui déplaisait tellement à Aristote et Hegel, par-ce qu’il n’offre pas de direction vers une fin et reste à cause de celaincalculable et incertain. De cette conception du temps, l’histoire dela pensée économique offre aussi de nombreux exemples comme lesanticipations, l’inflation et la déflation, la confiance monétaire... Jem’arrête un instant au dernier exemple.

A première vue, l’argent semble être le calculable par excellen-ce. Ne l’appelle-t-on pas en français aussi ‘numéraire’? Pas un billet

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18 “Le coût précède le profit”, ancien dicton hollandais. 19 P. A. Samuelson, Economics, International Student Edition, New York,

Tokyo, McGraw-Hill, Kogakusha, 1964, 6th ed., p. 48.

croît ou diminue. Une période proche peut être perçue comme pluslongue ou plus courte que celle plus lointaine, alors que les deux pé-riodes peuvent être d’égale durée en terme d’horloge ou de calen-drier. A ce moment, par exemple, le mois prochain peut semblerplus long que un mois d’égale durée l’année prochaine. Dans ce cas,l’agent devient moins impatient selon que le futur s’éloigne et parconséquent exigera moins d’intérêt pour une attente de même du-rée à un moment plus rapproché. L’incohérence intertemporelle quien résulte, a conduit les économistes néo-classiques à n’acceptercomme rationnelle une impatience qui est constante dans le temps,attribuant à chaque période dans le futur la même durée. Il est ce-pendant parfaitement possible de comprendre l’impatience desagents à partir de leur perception subjective du temps16. La cons-tance néo-classique n’est autre que la perception du courant tem-porel conformément au temps horloger. Cette conclusion ne chan-ge cependant pas ma thèse selon laquelle la théorie économique re-présente le temps à partir de la primauté du moment actuel et com-me une suite de ‘maintenant’ équivalents, même si la distance entreces ‘maintenant’ est variable. Car la possibilité que quelque chosepuisse arriver reste exclue. Le temps continue à être pensé commeun courant de ‘maintenant’, sauf que ce courant connaît des rapideset des cascades ainsi que des passages lents voire apparemment im-mobiles dans des lacs profonds.

Ce qui est vrai pour la préférence du présent et l’impatiencepeut être attribué d’une manière plus générale à la microéconomienéoclassique des prix. Dans cette théorie, les choses se passent enmême temps. Les biens sont immédiatement produits, distribués etconsommés. De là aussi l’usage obsessionnel de la clause ceteris pa-ribus par les économistes et aussi leur ingéniosité à neutraliser l’in-fluence du temps. Les entrepreneurs tiennent d’ailleurs l’incertitu-de politique, sociale et juridique en horreur, la fuient et aspirent à larégularité du business as usual. Aussi, David Gray Carlson soutient-il que le temps n’existe pas en microéconomie17. Mais en fait nous

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16 Comme l’ont montré A. Lapied et O. Renault, L’introduction des per-ceptions temporelles dans les mécanismes d’actualisation, Conférence Phare, Pa-ris 2014.

17 D. G. Carlson, On the Margins of Microeconomics, in: D. Cornell, M.Rosenfeld and D. G. Carlson, Deconstruction and the Possibility of Justice,Routledge, London 1993, p. 278.

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ont donc toujours lieu avec de l’argent commun et donc institu-tionnellement et politiquement déterminés. L’argent circule spatia-lement et, à l’époque de la globalisation, les frontières de cet espacesont de moins en moins claires. L’argent circule cependant surtoutdans le temps. Nous acceptons de l’argent en échange des biens par-ce que nous pouvons obtenir demain ou plus tard des biens qui pos-séderont la même valeur. Et cela dépend, comme j’ai essayé de l’ex-pliquer, de la réussite de l’activité future de toute la société. Mais ce-la reste incertain. De là, la préférence pour disposer du capital‘maintenant’ au lieu d’un lendemain incertain, et le désir d’être payépour cette incertitude en recevant des intérêts. De là aussi l’impor-tance des anticipations, de la déflation et de l’inflation et le saut dansle temps et son avenir incertain qui est propre à toute décision d’in-vestissement.

Le temps dans l’économie est donc un courant qui noue l’actuel,le passé et l’avenir. Cet avenir advient car il est inconnu, incalcula-ble et immaîtrisable. Il vaut donc mieux l’écrire comme à-venir. Iltouche le moment de la décision ‘maintenant’, car cette décision estprise en vue de cet à-venir et refaçonnera le passé étant donné quel’à-venir rembourse une dette passée. Le ‘maintenant’ actuel n’estdonc pas seulement ‘maintenant’ présent. Il ex-siste vers l’à-venir,au-delà du connaissable et donne rétroactivement forme au passé.Le ‘maintenant’ ne coïncide pas avec ‘lui-même’ mais est un ‘main-tenant’ éclaté.

Ceci signifie que l’économie, tant pratique que théorique, serapporte toujours à un à-venir qui échappe à la rationalité écono-mique constituée. Dans sa temporalité elle n’est donc pas une sphè-re spécifique qui la séparerait des sphères politique, sociale, reli-gieuse, culturelle ou morale21. Le temps qu’elle déploie n’est pas ce-lui d’une répétition illimitée de ‘maintenant’ dans un cycle intem-porel de production et consommation contre lequel toute résistan-ce est vaine. Son illimitation expose à l’absence d’une fin ou limitedonnant sur un à-venir, grâce auquel aucune économie n’est seule-ment elle-même. Elle contient par conséquent toutes les forces quirésistent à l’économie et qui permettent de la combattre aussi poli-

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21 Je me permets de renvoyer pour cette problématique à mon livre La po-rosité. Un essai sur le rapport entre économie et politique, Ousia, Bruxelles2012.

ni une pièce de monnaie sans chiffre. De plus, ce n’est qu’un mor-ceau de papier ou de métal et actuellement souvent seulement unchiffre sur un compte dont nous pouvons disposer avec une carte enplastic ou un ordinateur; on peut néanmoins acheter des biens aveceux et ils possèdent donc de la valeur. D’où vient celle-ci? Le billetde banque de la Bank of England donne la réponse. Il est écrit surce billet, pourvu de la signature du Chief Cashier: “I promise to paythe bearer on demand the sum of [1, 5, 10...] Pounds. Avec cette ré-ponse nous en savons en fait déjà assez: l’argent est sans doute tou-jours numérique, mais il est aussi une promesse et exige donc laconfiance que la promesse sera tenue de payer la somme indiquée.

Mais cela vaut la peine de continuer encore un moment l’inter-rogation. Supposons qu’il soit permis à une personne particulière des’adresser au Chief Cashier et de lui rappeler sa promesse. La seulechose qu’il pourrait faire est d’échanger un vieux billet contre unnouveau avec exactement le même chiffre inscrit avec la même phra-se. Car l’argent est disjoint20 de l’or ou de n’importe quelle entitématérielle. Donc, le Chief Cashier ne peut que procéder à une ré-pétition de la même émission. Une répétition qui implique le coursdu temps avec à chaque fois le même mouvement comme dans unesuite de ‘maintenant’ équivalents. Dans ce cas, la capacité du ChiefCashier de bien compter suffirait pour avoir confiance en lui. Maiscela ne suffit pas. Car la monnaie est l’avance, émise par la banquecentrale, et actuellement aussi et surtout par d’autres pourvoyeursde crédit, avec laquelle une société donnée finance son activité éco-nomique future. Cet argent est donc une dette que la société rem-bourse en allant déployer des activités économiques. C’est pourcette raison que Samuelson disait que l’activité économique estorientée vers l’avenir et que les investissements actuels rendent pos-sible la production future afin de rembourser des dettes contractéesdans le passé et en faisant cela celles-ci payent la consommation ac-tuelle. Que le Chief Cashier tienne sa promesse dépend donc de laréussite des activités économiques futures de la société dans son en-semble. Les payements privés que nous sommes tenus d’effectuer

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20 Et même s’il n’en était pas disjoint, cela ne changerait rien au problème,car comment vivre avec une quantité d’or ou de blé sans avoir la confiance quecela représente une valeur avec laquelle je pourrai acheter ailleurs ou ultérieu-rement les biens dont j’ai besoin? L’argent est donc principiellement uneconvention impliquant une croyance.

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D’un côté donc un calcul du temps et de l’autre un rapport à unà-venir qui excède tout calcul. Dans mon discours, ces deux côtésdu temps vont ensemble mais ne sont pas pensables ensemble, carils sont la négation l’un de l’autre. On ne peut cependant pas direque la tradition philosophique et scientifique en Occident ait refu-sé de penser le temps. Mais l’enjeu de sa lutte avec la temporalitéétait de dépasser le temps et de vaincre la rechute incessante dans letemps et son à-venir inconnu. De l’eidos grec jusqu’aux objetsidéaux de Husserl, l’enjeu était chaque fois de penser le temps detelle manière que dans, ou plus exactement grâce à cette lutte avecle temps, un concept transcendantal, supra-temporel pouvait êtreobtenu, indépendant des cas empiriques et temporels que ceconcept était censé rendre intelligibles. Un concept transcendantalreste donc toujours lui-même et répétable, quelle que soit l’évolu-tion de la situation à laquelle il s’applique. Du point de vue trans-cendantal, les deux conceptions du temps dont il était question ci-dessus ne sont donc pas seulement pensées ensemble mais sont aus-si réductibles l’une à l’autre. Dans ce cas le cours du temps à la Sa-muelson pourrait être repris sans reste dans le temps sans temps dela microéconomie et l’incalculable de l’à-venir pourrait être calculécomplètement.

Dans cette contribution, cette possibilité est contestée pour l’é-conomie, parce que l’ouverture de l’à-venir ne peut pas être penséeen terme de calculabilité. Elle est bien plutôt de l’ordre du“veilleicht”23 nietzschéen, qui invite tout au plus à la confiance ouaux conventions mais n’est de toute façon pas du domaine duconnaissable. Les économistes le représentent comme une règleconventionnelle ad hoc qui clôt le regressus ad infinitum, qui mena-ce les décisions sous conditions de bounded rationality.24 La tem-poralité avec une ouverture sur un à-venir exclut donc qu’une répé-tition ne soit pas aussi une altération, un devenir ‘itera’ qui signifieen sanskrit ‘autre’. Le temps ne se répète pas, mais ne connaît quedes itérations. Le ‘maintenant’ n’est donc pas une répétition d’un‘maintenant’ passé ou à venir et le temps n’est pas une suite de

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si la page 63 du même livre. Une césure entre un premier et un dernier Derri-da semble difficilement soutenable.

23 F. Nietzsche, Par delà le bien et le mal, I, 2 et II, 43.24 Voir J. Conlisk, Why bounded rationality?, in «Journal of Economic Li-

terature», 1996, pp. 669-700.

tiquement, socialement, religieusement, culturellement et morale-ment.

4. Indécidabilité et singularité

Tu n’es qu’un mortel. Aussi, ton esprit doit-il nourrir deux pensées à la fois.

Bacchylide

La question se pose bien évidemment du rapport entre les deuxconceptions du temps qu’on retrouve manifestement dans les scien-ces économiques. Car on ne peut nier que les deux y sont à l’œuv-re. Les investissements peuvent bien être un saut dans un à-venir,l’investisseur tâchera néanmoins de calculer au maximum le coursde ce futur, voire de se retirer si ce futur est trop chargé d’incertitu-des en attendant le retour du business as usual. L’enjeu des scienceséconomiques est de lui tendre le savoir pour le faire. Le processuséconomique consiste précisément en une augmentation perpétuellede la productivité, ce qui implique une rationalisation toujours pluspoussée du temps. Time is money, dit-on. Mais il est encore plusvrai que money rend time calculable et crée de ce fait la possibilitéd’accélérer le temps et le rendre par là plus productif.

Dans cette contribution je défends la thèse que les deux concep-tions du temps sont à la fois reliées et irréductibles l’une par rapportà l’autre. Leur rapport est une figure de ce que Derrida appelle la“différance”, quand il se demande comment penser:

à la fois la différance comme détour économique qui, dans l’élé-ment du même, vise toujours à retrouver (...) la présence différéepar calcul (conscient ou inconscient) et d’autre part la différancecomme rapport à la présence impossible, dépense sans réserve,comme perte irréparable de la présence et rapport au tout autre in-terrompant en apparence toute économie? Il est évident – c’est l’év-idence même – qu’on ne peut penser ensemble l’économique et lenon-économique22.

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22 J. Derrida, Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972, p. 20. Dans undes derniers textes publiés de son vivant, Voyous, Galilée, Paris 2003, Derridadonne à la page 208 à peu près la même ‘définition’ de la ‘différance’. Voir aus-

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ment de la place pour des déterminations scientifiques mais il les ap-pelle. Nous approchons ici le nœud du rapport économique autemps, voire du rapport au temps en général.

Comme nous l’avons vu, se nouent dans ce nœud, liés mais sé-parés, le calculable et l’à-venir. Leur séparation signifie que l’à-ve-nir se soustrait à la rationalité. Par conséquent, l’à-venir surprend etest subi. Il précède donc dans un sens la rationalité. On trouve cet-te idée aussi chez Keynes:

... our decisions to do something positive, the full conse-quences of which will be drawn out over many days to come, canonly be taken as the result of animal spirits – a spontaneous urge toaction rather than inaction and not as the outcome of a weightedaverage of quantitative benefits multiplied by quantitative proba-bilities.26

Les décisions d’investissement exigent donc des “animal spirits”et pas seulement des calculs. L’expression “animal spirits” renvoie àune longue tradition dans la pensée occidentale au sujet du ‘spiritusanimales’ ou, comme chez Descartes auquel Keynes semble penser,des ‘esprits animaux’.27 “Animal spirits” désigne à côté d’actionprompte et impulsive, la passion comme sentiment qui est subi etque précède donc la venue d’influences antérieures. L’à-venir pré-suppose ainsi une certaine passivité dans la décision et le temps estcaractérisé par une certaine asymétrie entre la calculabilité et l’in-calculable de l’à-venir. Ce dernier est toujours plus fort que la pre-mière. Il est impossible d’échapper au temps. Chaque effort pour letranscender est une nouvelle temporalisation et donc une exposi-tion à un à-venir.

La rationalisation du temps se heurte toujours à une limite, quidès lors peut être pensée par Derrida, dans son discours londoniende 198228 sur ‘Vor dem Gesetz’ de Kafka, comme ‘loi’ ou plus exac-

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26 J. M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money,MacMillan, London 1936, pp. 161-162.

27 Tout comme la tendance de Keynes de comprendre les “animal spirits”comme des propriétés d’une subjectivité constitutive, je dois laisser aussi de cô-té dans le cadre de cette contribution, l’animalité de cet esprit.

28 Publié plus tard in J. Derrida, Préjugés. Devant la loi, in J. Derrida etalii, La faculté de juger, Minuit, Paris 1985, pp. 87-139.

‘maintenant’ équivalents, mais un ‘maintenant’ se répète dans unautre sans qu’une déviance puisse être exclue.

Leur irréductibilité ne signifie cependant pas que les deuxconceptions du temps ne se rapportent pas l’une à l’autre. La choseà penser est précisément l’aporie de deux choses qui ne peuvent pasaller ensemble, mais vont néanmoins ensemble. Cette aporie signi-fie par exemple que les investissements impliquent toujours une dé-cision. L’investisseur tâchera toujours de rassembler le plus de ga-ranties possibles pour s’assurer d’un return. Mais si les garanties luidonnaient une certitude complète, une décision ne serait plus né-cessaire. L’investissement serait alors la conséquence programma-tique des data. Qu’il soit question d’une décision en matière d’in-vestissement est la conséquence du fait que l’investisseur doit com-parer deux choses incomparables, à savoir les déterminations quisont calculables et l’indétermination d’un à-venir incertain.25 Cettecomparaison crée une indécidabilité qui ne peut être rompue quepar une décision. L’indécidabilité est donc une condition de possi-bilité pour une décision.

L’indécidabilité, dont il est question ici, ne signifie pas une in-détermination. Elle se réfère plutôt à une surdétermination. L’im-possibilité d’une comparaison entre des déterminations et une indé-termination ouvre l’espace à une grande variété d’options qui s’ex-cluent et se combattent réciproquement et n’offrent aucune possi-bilité de synthèse ou de solution. Ainsi, le système monétaire fonc-tionne seulement tant qu’il reste indécidable, si nous avons confian-ce dans les autorités monétaires parce qu’elles sont compétentes ouqu’elles sont compétentes parce que nous avons confiance en elles.Dès que nous pouvons supprimer l’indécidabilité, parce que cesautorités se révèlent soit corrompues soit incompétentes, le systèmechancelle. Les deux dimensions, temps calculable et à-venir, sonttoujours ensemble à l’œuvre, mais établissent de ce fait aussi unmonde indécidable où ‘time is out of joint’, comme Derrida aime ledire. La décision rompt l’indécidabilité, mais ne la résout pas. Ellestabilise for the time being, tant que ça dure.

L’indécidabilité ne renvoie pas davantage à un monde dominépar la doxa ou des savoirs infondés. Car ce monde offre non seule-

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25 J. Derrida, Séminaire. La bête et le souverain, I (2001-2002), Galilée, Pa-ris 2008, p. 235.

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la notion d’autrui, mais n’a jamais été questionné dans la traditionphilosophique d’une manière radicale. La thèse générale poststruc-turaliste était même que la tradition philosophique, celle que Hei-degger appelle ‘la métaphysique’, ne pouvait pas penser l’altérité etétait pour cette raison à rejeter. La philosophie serait profondémentégologique.

L’égologie est ce que la philosophie a en commun avec l’écono-mie dont les calculs intéressés de l’ homo oeconomicus sont le cent-re et c’est pour cette raison que Heidegger dira que la pensée calcu-latrice est l’accomplissement de la métaphysique. Ou pour le direautrement: tant que l’autre n’est pas pensé dans son altérité, sonsens reste économique, si on entend par là que l’autre se rapportetoujours et d’une manière ou d’une autre à soi-même (ce qui n’ex-clut nullement l’altruisme), comme dans la figure de l’homo oeco-nomicus de l’économie néoclassique.

Si tel est le cas, la possibilité de l’altérité ne peut être soutenueque si elle résiste lors d’une confrontation à cette économie. Cela estparticulièrement vrai dans notre ère de la globalisation, réputée do-minée par la rationalité calculatrice de l’économie niant toute alté-rité. La question est donc: comment donner un sens à l’altérité éco-nomiquement? Il ne s’agit pas d’introduire l’autre dans l’économiecomme une instance externe (par exemple comme une contraintemorale) mais de démontrer, contre Heidegger, le travail de l’altéritéà l’intérieur de l’activité économique. Comment penser ce travail?Est-ce le visage d’autrui ou plutôt un autre qui nous advient et dontla neutralité vise à maintenir l’indécidabilité et donc l’interdictionde toute catégorisation morale préalable?

On objectera cependant que cette asymétrie qui donne la pré-séance à l’à-venir, risque de mettre en question le lien entre calcul età-venir qui caractérise aussi la ‘différance’. Beaucoup, dont parexemple Slavoj Žižek30 ou Jacques Rancière31, n’en font-ils pas lereproche à Derrida? Mais ce qui advient n’est pas une donnée, unétant qui existerait quelque part. Les données et les étant sont tou-jours calculables, toujours catégorisables. L’à-venir arrive et est re-

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30 S. Žižek, Did Somebody Say Totalitarism? Five Interventions in the(Mis)Use of a Notion, Verso, London, New York 2001, chap. IV.

31 J. Rancière, La démocratie est-elle à venir?, in «Les Temps Modernes»,juillet-octobre, 2012, pp. 157-173.

tement ‘loi des lois’, comme l’arrêt que toute loi formule. Derridaréitère ainsi le pas kantien de l’inconnaissabilité de la chose en soivers l’indétermination de l’impératif catégorique et ouvre la voiepour une interprétation politique et morale de la ‘différance’. Audelà de cette limite règne l’autre. Et la loi interdit précisément del’approprier

‘L’autre’ qui domine le discours poststructuraliste, est cepen-dant en français un terme ambigu. Désigne-il une autre personne ouun autre neutre? La loi interdit-elle l’appropriation d’une autre per-sonne ou interdit-elle l’accès à ce qui arrive et qui doit rester un lieuinterdit? Dans le premier cas, on pense l’autre plutôt moralement.Pour cette raison, Levinas garde encore le nom d’autrui pour dési-gner l’autre. Dans le second, on soutient que la morale ne peut êtrequ’une détermination ultérieure de quelque chose de plus ‘neutre’,pour employer un terme de Blanchot, et qui fait événement. Dansles deux cas, cependant, ‘l’autre’ est pensé comme altérité, rompantavec toute logique dont le ‘soi-même’ serait l’origine. Cette volon-té de rupture explique la proximité, amicale aussi, entre Lévinas etBlanchot. Mais cette proximité ne doit pas voiler leur différence.Pour Blanchot la moralisation de la rupture et donc le passage queLevinas entreprend de l’autre à autrui se fait au détriment de la radi-calité de la rupture. Aussi, Blanchot ne peut-il accepter la hauteur lé-vinassienne du visage, car elle introduit une détermination, éthiqueen l’occurrence, alors qu’il partage voire utilise pour son proprecompte (littéraire) la rupture absolue que Lévinas vise à installer enmettant l’éthique à la place de la philosophie première. Cette altéri-té neutre, telle que Blanchot l’entend, n’étant pas qualifiable mora-lement, est néanmoins une condition – ni plus, mais ni moins nonplus – pour la moralité pour autant qu’elle introduise justement l’al-térité en neutralisant toutes les déterminations “pour atteindre à lasingularité pure comme dignité ou droit universel”29 comme le pré-conise l’impératif catégorique kantien, lui aussi indéterminé. Il s’a-git dans l’approche poststructuraliste toujours de l’autre en tantqu’autre. Cela n’est donc sans doute pas nécessairement contraire à

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29 “C’est la possibilité même de l’argent, du prix, à savoir le principe d’é-quivalence, qui permet aussi de neutraliser les différences pour atteindre à lasingularité pure comme dignité ou droit universel”, J. Derrida “Du ‘sans prix’ou ‘le juste prix’ de la transaction”, p. 398, in R.-P. Droit (dir.) Comment pen-ser l’argent, Le Monde Editions, Paris 1992, pp. 386-401.

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pas ce quelqu’un ou ce quelque chose pour autant qu’ils puissent êt-re pris dans les formes toujours déjà rationnelles d’une langue, d’u-ne économie, d’une religion etc. Leur singularité n’est pas quelquechose qu’on pourrait désigner. Elle n’existe pas en soi, mais seule-ment dans l’advenir, dans l’avoir lieu de quelqu’un ou quelque cho-se. “La singularité [est] ce qui arrive”, dit Derrida35. Cet événementdisparaît cependant, dès qu’il est saisi, alors qu’il met au défi juste-ment d’être saisi. La singularité de quelqu’un ou de quelque choseprécède donc toujours la détermination dans laquelle elle est évo-quée et qu’elle provoque, puisque cette détermination est toujoursune généralisation. Elle n’est que l’écho d’un événement, qui inciteà parler et à décider, mais qui est en même temps effacée dans ces di-re et décision. Elle résonne dans la nomination et dans la décisioncomme ce à quoi un nom doit être donné ou ce au sujet de quoi unedécision doit être prise, alors qu’il appert chaque fois que ce nom oucette décision ne satisfont pas et donnent lieu à une résistance à cet-te nomination ou à cette décision. Le changement, qui dévie touterépétition, provient de cette singularité.

La singularité exclut donc toute détermination définitive qui ex-céderait le temps. Elle n’est donc ni ceci ni cela, la double négation,ne uter. On pourrait appeler la singularité l’indécidabilité même, s’iln’existe en ce domaine justement pas de même sans autre. En tantqu’indécidable, ni telle détermination ni une autre ne font justice àla singularité de quelqu’un ou de quelque chose. Pour cette raison,la singularité nous force à penser le neutre.

Cette conclusion n’est cependant pas satisfaisante. Car elle estdifficilement pensable sans faire appel à une subjectivité à qui l’à-ve-nir arrive. Ce sujet n’est bien entendu plus un homo oeconomicuscalculateur souverain, car ses décisions ne sont plus des actes pursmais sont affectés par la passivité des animal spirits captivés par l’à-venir dont lui-même ne comprend les ressorts que quand il est troptard. Mais cela laisse intact que cet à-venir reste pensé à partir de laperspective des décisions subjectives. Il ne pourrait d’ailleurs pas enêtre autrement, puisque notre analyse partait des conceptions dutemps à l’intérieur de l’économie néo-classique, qui porte une at-tention particulière à la problématique des choix et des décisions.Sur ce point, la perspective historisante du temps long du Capital

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35 J. Derrida, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994, p. 35.

çu dans les catégories qui sont à ce moment disponibles. Il ne semontre que pour autant qu’il excède ces catégories et leur offre unerésistance.32 Ce qui advient ne se ‘montre’ donc en fait jamais, car ilse soustrait des calculs et déterminations catégoriales dans lesquelsil aurait pu se montrer. Sa venue préalable se révèle donc seulementquand il est trop tard33 et reste en tant qu’événement hors de la pré-sence. L’à-venir arrive, bien que cela ne se remarque qu’après coup.L’événement ‘lui-même’ précède toujours et mélange toute activitéde passivité. Ce Nachträglichkeit temporalise chaque rapport,chaque mouvement, chaque décision. Pour cette raison, chaque ra-tionalité se heurte à une limite, qui interdit d’excéder le temps et quila confronte à l’ouverture d’un à-venir. Alors un monde se déploiedans lequel il peut être pensé, dit et décidé. La décision d’investir estprovoquée par la chance que l’ouverture d’un à-venir offre. En dé-cidant, l’investisseur dispose sur l’à-venir qui, d’un côté, reste incal-culable, mais qui, d’un autre côté, prend une forme rationnelle. Le‘maintenant’ ne repose donc pas en lui-même mais contient ‘en lui-même’ un à-venir incertain, dont dépendra aussi la déterminationplus ample du passé et qui en même temps motive ‘maintenant’ ladécision d’investir, de chercher des garanties pour la confiance mo-nétaire, de préférer le travail au lieu du loisir ou vice-versa34 etc. L’à-venir est donc à la fois ce qui se dérobe à la rationalité et qui en estla source. Il donne à penser et à décider.

Peut-être devient-il maintenant possible de dire quelque choseau sujet de la singularité. Qu’est ce qui constitue la singularité dequelque chose? Tout peut être singulier, une personne, un acte, unepensée, une chose. Comme décrit ci-dessus, il s’agit toujours del’arrivée de quelqu’un ou de quelque chose. Mais la singularité n’est

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32 “Bien sûr, la singularité résiste, elle reste. Parfois elle résiste même à sonassignation à subjectivité”. J. Derrida et E. Roudinesco, De quoi demain... Dia-logue, Fayard/Galilée, Paris 2001, p. 163.

33 “Penser l’à-présent du maintenant (présent, passé ou à venir), repenserl’instantané à partir du retard et non l’inverse”. J. Derrida, Demeure, Athène,Galilée, Paris 2009, p. 24. “S’il s’agit (...), en termes heideggeriens, de l’être-hors-de-soi, Blanchot en souligne le trait décisif”: “c’est que celui qui l’éprou-ve n’est plus là quand il l’éprouve. Si [cela] peut être remémoré – et ainsi parléet écrit – ce n’est que par la “mémoire d’un passé qui n’aurait jamais été vécu auprésent...” J.-L. Nancy, La communauté désavouée, Galilée, Paris 2014, p. 50.

34 R. Claassen, Temporal Autonomy in a Laboring Society, in «Inquiry. AnINterdisciplinary Journal of Philosophy», 55(5), 2012, pp. 543-562.

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sent des revenus, comme des fermages, des loyers, des intérêts, desdividendes, des gains de change. Souvent on peut librement dépen-ser ou placer son patrimoine. Mais parfois cela n’est pas le cas. Ain-si, la reine anglaise possède-t-elle une immense fortune, mais elle nepeut librement disposer de sa collection des maîtres anciens ou deses palais. Elle ne peut donc pas vendre ces choses et en investir leproduit ou s’en servir pour la consommation. Le capital est la par-tie du patrimoine qui peut être librement dépensée. Bien que lesdeux termes – capital et patrimoine – ne soient donc pas synony-mes, Piketty les emploie indistinctement39. Peut-être pense-t-il queles gens fortunés disposent généralement aussi d’un capital élevé etqu’il est du point de vue historico-empirique, caractérisant son ou-vrage, superflu et impraticable de les distinguer.

Selon Piketty, l’économie est une constellation historique deforces convergentes qui améliorent l’égalité des fortunes et des for-ces divergentes qui favorisent leur inégalité40. En déployant unéventail impressionnant de données statistiques, il montre qu’ac-tuellement le volume des patrimoines en occident a atteint les ni-veaux d’avant la guerre. L’abondance des capitaux qui en découlediminue, bien entendu, le rendement de ceux-ci. C’est une forceconvergente. La croissance des patrimoines diminue de ce fait. Maisqu’en est-il de la croissance de la richesse nationale dans sa totalité?Si son taux de croissance diminue aussi et peut-être même plus for-tement que la diminution du taux d’intérêt, alors les patrimoinescroissent relativement plus fortement que la richesse nationale. Letaux de croissance résulte de la croissance démographique et tech-nologique. Il existe un large consensus parmi les économistes pourdire que dans le futur le taux de croissance restera faible. La crois-sance démographique stagne en effet un peu partout et la croissan-ce induite par la technologie semble actuellement surtout consisteren un rattrapage asiatique. A l’exception d’une trentaine d’annéesaprès la deuxième guerre mondiale en Europe de l’Ouest, le taux decroissance en Occident par tête d’habitant n’a d’ailleurs jamais dé-passé un pourcent et demi41. Reste donc la question de savoir sil’augmentation du volume du capital pèse si fortement sur le taux

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39 Idem, p. 84.40 Idem, p. 50.41 Idem, pp. 156-159.

du XXIe siècle de Piketty, qui relativise fortement l’importance desdécisions à court terme, peut nous aider.

5. Le temps de l’inégalité

Ci-dessus, je mentionnais la thèse de Samuelson comme quoi“economic activity is future oriented”. Mais est-il soutenable quel’économie soit en fin de compte orientée vers l’à-venir et que le cal-cul économique se conjugue toujours avec un à-venir incertain etouvert? L’enjeu du livre de Piketty est de saper ce conte et de mon-trer que l’économie vise précisément à défaire l’à-venir de son ou-verture.

Deux variables jouent un rôle principal dans ce contexte. D’unepart, nous avons le revenu annuel du capital, exprimé en un pour-centage de celui-ci, autrement dit le taux d’intérêt. Et d’autre part, ily a le pourcentage avec lequel l’économie croît chaque année ou letaux de croissance. Or, quand le taux d’intérêt est plus élevé que letaux de croissance, les forces économiques tendent “mécanique-ment”36 à augmenter la part du capital dans la richesse nationale,puisque celle-ci ne se constitue pas seulement grâce au revenu du ca-pital mais aussi, et bien plus, grâce au revenu du travail, et cela de tel-le sorte que cette augmentation profite à toujours moins de gens. Lecapital augmente en effet non seulement dans sa totalité plus viteque la richesse nationale, mais cette augmentation est en outre plusforte à mesure qu’on dispose déjà de plus de capital. Croissance etconcentration du capital vont donc de pair. Et, selon Piketty, ceci ré-trécit l’espace pour que d’autres développements puissent advenir.L’à-venir des sociétés est donc déterminé par les positions capitalis-tiques et patrimoniales du passé. “Le passé dévore l’avenir”37. Il n’ya pas d’autorégulation économique qui corrige ce développement38.

Commençons par regarder de plus près l’augmentation du pa-trimoine dans les sociétés contemporaines. Le patrimoine, ou la for-tune, est un collectif pour des possessions comme les terres, les mai-sons et bâtiments, les machines, les actifs financiers. Elles produi-

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36 T. Piketty, O.c., p. 55, p. 674.37 Idem, p. 942.38 Idem, p. 38, p. 47.

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soit plus élevé que le taux de croissance43. La dérégulation financiè-re contemporaine et l’internationalisation de ce marché y sont évi-demment pour quelque chose. En outre, une large éventail des don-nées statistiques du passé, que Piketty déroule devant les yeux deses lecteurs, montre que le rendement du capital a toujours été de 4à 5 pour-cent et que la croissance, même pendant les Trente Glo-rieuses, était toujours plus basse. La concurrence fiscale absurde aubénéfice du capital que les états, en particulier au sein de l’UnionEuropéenne, se font les uns aux autres et une imposition toujoursplus proportionnelle sinon même dégressive au détriment d’une im-position progressive, renforcent encore cette évolution44. Il est im-portant d’ajouter que seules les grosses fortunes, gérées par des ex-perts, ont accès aux rendement internationaux élevés. Un manquescandaleux de transparence – on pense aux paradis fiscaux et à lafraude et à l’évitement fiscal – n’y est pas étranger. Et tout cela ren-force encore l’effet mécanique de la concentration.

Ce qui frappe dans le livre de Piketty est l’absence du travailcomme pouvoir. Il est beaucoup question des revenus du travail,tant ceux qui expliquent la naissance d’une classe moyenne après ladeuxième guerre mondiale que l’explosion économiquement irra-tionnelle des hauts salaires aux Etats-Unis depuis les années quatre-vingt. Mais le capital, pourtant au centre du Capital au XXIe siècle,est toujours analysé comme si une relation de pouvoir avec le tra-vail n’était pas en jeu. Le capital et le travail réalisent néanmoins en-semble la production et la distribution voire la lutte concernant leproduit de celle-ci fait partie des chapitres centraux des scienceséconomiques ou, comme Piketty préfère le dire, de “l’économie po-litique”45. Le sixième chapitre est entièrement consacré à ce sujet,mais on y chercherait en vain quelque chose comme une lutte desclasses. Pour beaucoup d’économistes ‘de gauche’46, ce découple-ment du capital et du travail constitue le point faible du livre etmontre à leurs yeux, que Piketty n’est en fin de compte qu’un éco-nomiste mainstream. Je ne crois pas que cela soit correct, car il ré-

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43 Idem, pp. 57, 674, 944.44 Idem, pp. 793-834.45 Idem, pp. 11 et 945.46 Comme par exemple l’excellent article de R. Boyer, Le capital au XXIe

siècle, «Revue de la régulation», 14, 2ème semestre, mis en ligne le 12 décemb-re 2013, http://regulation.revues.org/10352.

d’intérêt qu’il descend sous ce taux de croissance de toute façonbien bas.

Bien que Piketty reconnaisse que cela soit possible théorique-ment42 et que beaucoup d’économistes n’en démordent pas et insis-tent plus sur l’interdépendance entre taux d’intérêt et de croissance,il montre sur la base d’innombrables séries temporelles que cettepossibilité théorique n’est pas pertinente historiquement. Malgré laforce convergente de la croissance du volume du capital, cette crois-sance ne fait pas descendre le taux d’intérêt sous le taux de crois-sance. La force divergente provenant d’un taux d’intérêt plus élevéque le taux de croissance reste à l’œuvre de telle sorte que les patri-moines peuvent augmenter plus vite que la richesse nationale. Laconvergence ne régule donc pas la divergence. Leur rapport est dé-terminé par la constellation historique dans laquelle elles apparais-sent. La convergence peut tout au plus affaiblir la divergence.

Cette augmentation de la part du capital dans la richesse natio-nale implique que cette augmentation profite à toujours moins degens. Le capital ne croît donc pas seulement, mais il se concentreaussi. En effet, selon qu’un détenteur de capital dispose de plus decapital, il profite aussi plus de l’écart entre le taux d’intérêt et celuide la croissance. Et grâce à ce profit supplémentaire, il dispose d’en-core plus de capital, de telle sorte que celui-ci peut croître encoreplus vite. L’infinitude du temps est ici une force divergente qui aug-mente sans cesse l’inégalité. Les mérites importent alors de moinsen moins. L’à-venir n’est pas ouvert à des changements. L’économiele fixe justement. Il est bien question ici d’un développement tem-porel, mais celui-ci n’est rien qu’un courant qui ne cesse de s’écou-ler. Et c’est cela qui constitue la base de l’enrichissement illimité.C’est donc le temps, compris comme courant, qui rend possible lamécanique de l’enrichissement, mais qui prive aussi le temps d’un à-venir qui pourrait changer la situation. Dans l’Antiquité et auMoyen-Age, lorsque la croissance était très basse, cette illimitationétait vécue par la société comme particulièrement destructive. De làaussi la résistance contre l’usure.

Ce développement mécanique n’est pas la conséquence d’unmarché des capitaux inadéquat. Au contraire, plus ce marché fonc-tionne parfaitement, plus il devient probable que le taux d’intérêt

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42 Idem, pp. 341-343.

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Aussi, formule-t-il ses séries temporelles en termes de déciles et pasen termes de classes, car celles-ci sont liées à ce qui différencient lescultures49.

D’un autre côté cependant, la fugacité implique que les déci-sions d’investissement, qui visent à augmenter le capital, sont tou-jours risquées et sujettes à une grande volatilité. Les prix des biensimmeubles et des actifs financiers sont très difficile à évaluer parceque dépendants des évolutions ultérieures et des anticipations. Lesbulles spéculatives sont aussi anciennes que le capital lui-même50.Ces décisions produisent des effets de courte ou de moyenne durée.Bien que celles-ci constituent les développements de longue durée,bien qu’elles soient pour les agents économiques généralement lesplus pertinentes et constituent l’activité par excellence de l’homo oe-conomicus et le point de départ de l’économie néoclassique, ellesperdent beaucoup de leur importance dès qu’on se met dans la per-spective de la longue durée. On pourrait par conséquent dire que lathèse qu’“economic activity is future oriented” ne vaut que pour laperspective de courte et moyenne durée, dans laquelle l’à-venir esteffectivement enveloppé de brouillard. Dans la longue durée, parcontre, le processus économique transforme lui-même l’à-venirdans un courant calculable qui élimine le temps dans le temps.

6. Histoire et singularité

La non-pertinence de la courte durée est d’abord due au fait queles innombrables décisions des agents économiques se compensenten partie mutuellement. Mais il y a plus. Il y a d’abord un certainnombre de facteurs anthropologiques à l’œuvre qui font que la crois-sance illimitée de l’inégalité est freinée et même stabilisée. Le patri-moine est traditionnellement lié à la famille et transmis par héritage.Les systèmes de parenté, déterminés par la tradition et la loi, s’avè-rent être d’une grande diversité, particulièrement en Europe et pè-sent lourdement sur les développements des fortunes. La primogéni-ture mâle anglaise en est une bonne illustration. Il est vrai que la fa-

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49 Idem, p. 396.50 Idem, pp. 87-88, 271-272. Voir aussi le paragraphe sur “le choc des tem-

poralités” dans le chapitre 8, pp. 452-457.

fute la possibilité d’une autorégulation par l’économie et il comp-rend les forces économiques toujours à partir de leur enchâssementhistorique.

La raison de cette dissociation du capital par rapport au travailest que le capital est plus fugace que le travail. C’est pour cela queson rendement est plus élevé que la croissance et que par consé-quent l’inégalité augmente. On ne doit pas oublier que le capital estapparenté à l’argent et donc à un équivalent général. On peut toutacheter avec lui. Etant donné l’état de la technique, on peut l’utili-ser de beaucoup de façons et il peut se déplacer ailleurs s’il peut yobtenir des rendements meilleurs. Autrefois, quand le capitalconsistait souvent en terres, cette fugacité était moindre. Le travailest moins mobile. La dérégulation et l’internationalisation du mar-ché du capital renforcent encore cette mobilité du capital. Il est plusfacile et moins gaspillant en temps de déplacer le capital que de re-former le marché du travail ou de modifier le niveau et la nature descompétences de la population en adaptant l’éducation et la forma-tion aux exigences de la croissance. La flexibilisation et l’émigrationsont des tentatives difficiles et souvent douloureuses afin de ne pasperdre le pas de la fugacité du capital. Le protectionnisme, par cont-re, vise à arrêter ce pas, généralement d’ailleurs inopérant à causeprécisément de sa fugacité qui lui permet toujours d’échapper auxréglementations, surtout si celles-ci s’enferment dans un cadre deterritoire national comme c’est souvent le cas en protectionnisme.

La fugacité du capital a une double conséquence, chacune avecsa temporalité propre47. D’une part, elle produit mécaniquementune concentration toujours plus poussée des fortunes dans le futur.Le capital a donc une tendance à figer sa fugacité, à transformerl’entrepreneur en rentier48 et à priver ainsi le temps de son à-venirouvert. Cela est un effet de longue durée. Du point de vue écono-mique, la tendance à une plus grande inégalité est donc la situationsociale normale. Les forces économiques produisent à longueéchéance l’inégalité. Avec cette insistance sur le temps long Pikettyse révèle être un structuraliste. Les auteurs qu’il dit admirer (Brau-del, Levi-Strauss, Godelier) cherchent comme lui les structures delongue durée qui rendent comparatives des cultures différentes.

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47 Idem, pp. 452-457.48 Idem, p. 138.

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politique d’imposition des revenus du capital et des patrimoinesafin de freiner leur croissance. Cette imposition devrait être à sesyeux mondiale ou du moins européenne, car une imposition natio-nale est voué à l’échec à cause de la fugacité du capital. Inversement,l’explosion des hauts revenus aux Etats-Unis, est la conséquenced’une politique néolibérale de forte diminution des barèmes fiscauxsupérieurs aux Etats-Unis et ailleurs. Cette politique a renforcé l’i-négalité, car elle rend non seulement alléchant d’obtenir des salairesencore plus élevés (mais économiquement injustifiés) par des négo-ciations (rent seeking), mais également les avocats abordables pourmener ces négociations. L’augmentation de l’inégalité qui en résultemenace de faire des Etats-Unis une oligarchie où un petit maisquantitativement suffisante groupe de très riches disposent d’assezde moyens pour influer la décision politique en leur faveur53. L’aug-mentation des barèmes supérieurs, qui prélève ces fruits du rent see-king n’a selon Piketty aucune incidence économique négative, maismaintient par contre l’à-venir ouvert. La démocratie semble êtredans son livre l’instance qui produit des décisions en vue d’un aut-re à-venir que celui du courant mécanique de l’économie qui figel’à-venir.

Les références de philosophie politique sont rares chez Piket-ty. Le capital au XXIè siècle témoigne plus d’une sorte de senscommun démocratique que d’une réflexion philosophique et d’u-ne confiance dans la philosophie politique. Dans une lettre à In-grid Robeyns, il mentionne quatre philosophes dont les écrits l’ontinfluencé et qui sont tous les quatre connus pour leurs dispositionsdémocratiques: Rawls, Sen, Rancière et Habermas, et donc pasMarx, malgré le titre du livre54. L’exergue, qui ouvre le livre et quiest reprise encore quelques fois au cours de celui-ci, est la phrasefameuse de l’article premier de la Déclaration des droits de l’hom-me et du citoyen de 1789: “Les distinctions sociales ne peuvent êt-re fondées que sur l’utilité commune”. Elle ressemble fort au prin-cipe de différence de Rawls, selon lequel l’inégalité n’est justifiéeque si elle bénéficie aux plus défavorisés. Nous avons cependantvu que la mécanique économique ne préserve aucunement selon

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53 Idem, p. 833.54 Voir: http://bijnaderinzien.org/2014/10/28/de-verborgen-filosoof-in-

thomas-pikettys-boek

mille a résisté à l’usure du temps. Elle se compose néanmoins de per-sonnes dont le comportement est loin d’être constant. Les brebis ga-leuses qui jettent l’argent péniblement gagné par la fenêtre au lieu dele réinvestir ou qui tout simplement ne montrent aucun intérêt pourles affaires, se trouvent dans toutes les familles. Aussi constate-t-onque les fortunes familiales sont placées dans des fondations ou autresconstructions juridiques, bien entendu pour des raisons fiscales, maisaussi et surtout pour les soustraire aux vicissitudes des générationsfutures. De plus, certaines familles ont beaucoup d’enfants maisd’autres n’en ont que peu, voire un seul et la maladie, les accidents oules guerres peuvent frapper les familles et même les éteindre.

Beaucoup de ces chocs sont distribués stochastiquement et leursconséquences freinantes et à la longue même stabilisantes sur l’aug-mentation de l’inégalité peuvent donc être calculées. Ils expliquentpourquoi l’enrichissement ne se poursuit pas indéfiniment et tendvers un équilibre51. Par contre, ces chocs n’expliquent pas les inflé-chissement uniques. Or, les séries statistiques que Piketty avance,montrent bien ces genres d’infléchissements. Aussi, affirme-t-il êt-re sur ses gardes vis-à-vis de tout déterminisme économique52. Ain-si, l’inégalité actuelle aux Etats-Unis, même si elle retrouve le niveaud’avant la guerre, a-t-elle une autre structure, dans laquelle les trèshauts revenus jouent un rôle important. En Europe également, oùce retour vers la période d’avant la guerre n’a pas (encore?) eu lieu,il existe une autre structure au bénéfice des classes moyennes. Lesdécisions des acteurs économiques, dont les agrégations constituentles développements de longue durée, subissent donc d’autres in-fluences que celles qui s’enracinent dans la constellation historiquedes forces du passé. Il y a des événements: des guerres ont lieux, desimpôts deviennent très progressifs ou, au contraire, s’aplatissent, lasécurité sociale se crée, des colonies deviennent indépendantes, l’en-seignement se démocratise, l’Europe s’unifie etcetera. Ils témoi-gnent d’un à-venir qui produit des renouvellements et, donc, est ou-vert, en bien ou en mal. Par conséquent, l’histoire est en mesure derésister à la mécanique économique.

Cette résistance en vue d’un à-venir ouvert est chez Piketty sur-tout de nature politique et sociale. De là son plaidoyer à mener une

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51 Idem, pp. 577-578.52 Idem, p. 47.

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dre la réalité historique. Aussi, l’incertitude règne, mais “c’est labeauté des sciences sociales”59. De ce fait, des choses peuvent arri-ver et l’à-venir reste ouvert. Alors que dans le troisième paragrapheil était question d’un à-venir ouvert à l’intérieur de l’économie, ilappert que l’à-venir est également ouvert pour Piketty. Mais cetteouverture est offerte par la politique, la société, bref par l’histoire etnon pas par les décisions d’un homo oeconomicus. Historiquementle temps n’est pas privé de la possibilité de changements; au contrai-re, il rend cela possible. Mais ce temps-là n’opère dans l’économieque pour autant que ses mécanismes soient poreux.

Cette perspective historisante du temps long de Piketty peutsans doute éclairer un peu plus le neutre dont il a été dit ci-dessusqu’il caractérise la singularité. Je soutenais alors que la singularitéconcernait le moment de l’à-venir de quelqu’un ou de quelque cho-se. Comme nous l’avons déjà vu, ce moment n’existe pas en soi. Seulson écho nous atteint. Toutefois, cet à-venir arrive toujours encoreà un sujet qui prend des décisions concernant le futur. La perspec-tive de la longue durée montre cependant la vanité des décisions etl’importance d’événements comme des guerres, des lutte pour l’in-dépendance des pays colonisés, de la démocratisation de l’enseigne-ment, de l’émancipation féminine, de la globalisation, de la domi-nance de l’anglais, de l’explosion du numérique ... Ces changementssont bien plus difficiles à comprendre en termes de décisions. Nousles appelons “historiques”. Non pas pour désigner l’Histoire com-me mouvement englobant et nécessaire, mais pour désigner la pos-sibilité que des événements arrivent, ouvrant de nouvelles perspec-tives, en mieux ou en pire, éclairant le passé et le présent d’une nou-velle manière.

Il y a plus. L’à-venir ouvrant sur un événement est aussi l’à-ve-nir qui peut être dévoré par le passé. Les deux dimensions de l’à-ve-nir – l’ouverture qu’il offre et la mécanisation par laquelle le passépeut le juguler – sont subies et impliquent donc une passivité irré-ductible dans toute activité. Dans le premier cas, cette passivité in-dique que nos actes ont lieu grâce à une ouverture dans laquelle uneréalité advient qui excède nos traditions, rationalités et rapports deforces établis, et pour cette raison ne se montre qu’après coup et ja-mais comme telle. Nous subissons alors l’à-venir dans son indéter-

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59 Idem, p. 830.

Piketty d’un déraillement des différences sociales. Par contre, l’-histoire lui apprend que la politique et la société peuvent contri-buer à la justice sociale. Ce fils de trotskistes militants a cependantperdu toute fascination pour le modèle soviétique, car les marchéssont des institutions nécessaires pour réaliser une coordination so-ciale suffisante. Mais l’inévitabilité des marchés peut s’accompa-gner de justice sociale. Une fiscalité progressive est le moyen adé-quat pour établir un compromis entre individualisme libéral et jus-tice sociale55. Cet économiste mathématique a appris chez Haber-mas que seulement la concertation démocratique peut conduire àce compromis. Cela présuppose cependant de la transparencequant aux données sociales. De là son plaidoyer incessant des bon-nes statistiques au sujet de l’inégalité et sa propre recherche pourétablir ces statistiques56. Il va sans dire que cette exigence detransparence soulève les mêmes questions qu’on pose souvent ausujet de la possibilité d’un dialogue libre de pouvoir que Habermascroit possible: le patrimoine, tout comme la famille, n’ont-ils pastoujours des faces obscures?

L’économie n’est pas déterministe parce que ses mécanismessont enchâssées politiquement et socialement et de ce fait suscepti-bles d’influences politiques et sociales. C’est pour cette raison quePiketty préconise la pratique de l’économie comme science socialeavec une composante normative57. Il ne craint pas de publier en lan-gue nationale, ni de renvoyer à la littérature et au cinéma, il pensevolontiers en ordre de grandeur et évite le fétichisme des chiffres etéquations. Les scientifiques qu’il admire ne sont pas des économis-tes mais des historiens (Braudel, Furet, Febvre), des anthropologues(Lévi-Strauss, Godelier) et un sociologue (Bourdieu)58. Les méca-nismes économiques n’ont donc pas une efficacité concrète tellequ’ils pourraient saturer les processus sociaux. Ils restent abstraits,dans le sens de Hegel, c’est-à-dire sans saisir toute la réalité. Leurslois sont mécaniques, mais aussi fragiles et partielles. Par consé-quent, beaucoup de choses leur échappent. L’économie n’offre doncpas une rationalité suffisante et il faut de la suppléance pour attein-

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55 T. Piketty, O.c., p. 816.56 Idem, pp. 521-522, 835 et 937-940.57 Idem, p. 41 et p. 945.58 Idem, p. 64.

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le se retienne et observe une réserve for the time being, car l’usureest sans cesse à l’œuvre et la mort gagne finalement toujours. Dumoins en ce qui concerne la vie individuelle, bien que la course so-ciétale contemporaine vers une croissance continue sans tenircompte de son coût, conduise à une destruction qui pourrait aussisignifier la mort de l’espèce humaine dans sa totalité62.

Dans ce qui vient d’être dit, le sujet ne se trouve plus en face del’à-venir, par rapport à qui il doit prendre une décision. Il est enroute vers l’à-venir avec le poids du passé. Il est toujours déjà enroute lorsqu’il prend des décisions et donc en subissant le passé etl’à-venir et en étant immergé en eux. Cet à-venir, tout comme lepassé agissent tous les deux dans le sujet. Le temps est donc ici lapossibilité que quelque chose arrive et que le passé ne s’y reprodui-se pas de manière répétitive. La singularité marque l’homme pourautant qu’il se rapporte au temps. Ce que l’à-venir apporte arrivedans la singularité, tout comme cette singularité est marquée par lepoids du passé. Et il ne s’agit pas seulement des événements dans lesens historique tel que Piketty le décrit, mais aussi dans le sens plusrestrictif des péripéties qui ont lieu dans chaque vie humaine indi-viduelle et dans chaque communauté. La même chose vaut pour lepoids du passé, qui ne concerne pas seulement les rationalités pluslarges comme les langues, les connaissances ou les religions maisaussi les coutumes locales, les positions et expériences sociales et fa-miliales, les propriétés corporelles et génétiques jusqu’aux proprié-tés que nous ne considérons généralement plus comme appartenantà l’ordre humain. L’homme singulier n’est pas le même qu’un autrehomme, mais il est quelqu’un, quelqu’un d’autre qu’un autre quel-qu’un, parce qu’il a eu une autre histoire à cause de son rapport autemps. Cette singularité est cependant, comme je l’ai déjà dit sou-vent, un écho et une résistance et pas une propriété, car celle-ci lerend similaire à un autre et catégorisable, par exemple comme sujetpolitique, économique ou médical.

La passivité se trouve donc au cœur de la singularité. A cause decela, l’homme est livré à l’à-venir et soumis au passé. Cela “ébran-le”63, pour utiliser un mot de Blanchot, la subjectivité de l’homo

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62 Pour ces considérations plus écologiques, voir mon livre La porosité,O.c., pp. 110-117.

63 M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, p. 563.

mination. Dans le deuxième cas cette réalité arrive comme consti-tuée par ces traditions, rationalités et rapports de forces hérités dupassé. Nous subissons alors l’à-venir dans sa détermination. La pas-sivité est dans un cas la condition, voire l’angoisse de l’ouverture etdans l’autre le poids du passé. Dans le premier cas ce poids empê-che que l’à-venir “lui-même” se montre autrement qu’en écho, alorsque dans l’autre cas il “dévore” l’à-venir. Les deux côtés de la diffé-rance, telle que je l’ai définie dans une citation de Derrida, sontdonc, malgré l’irréductibilité réciproque de l’ouverture et du poids,totalement entremêlés. Ils sont ouverture et poids réunis. L’à-venirne peut être compris qu’à partir du passé et est donc méconnu. Etle passé n’échappe pas à l’ouverture de l’à-venir. Il ne s’agit pas decomprendre cela de manière dialectique. Il est toujours possible quele passé dévore l’à-venir et qu’ “il ne restera plus rien”60 étant don-né que le poids du passé et l’ouverture de l’à-venir sont, dans la dif-férance, absolument irréductibles l’un par rapport de l’autre. Leurimbrication n’est pas nécessaire mais advient justement. Ce qui si-gnifie que, dès qu’il y a temps, aucune rationalité établie n’échappeà l’ouverture de l’à-venir et donc à la possibilité de mettre en ques-tion ses prétentions. Aucune rationalité ne transcende donc letemps, mais celui-ci défie toute rationalité établie de se renouveler.Les deux côtés de la différance, irréductibles entre eux, sont donctenus ensemble dans et par le temps.

Derrida a essayé de penser cette ouverture et ce poids entremê-lés en termes de survie. “Vivre est survivre”61. La vie n’est donc pasune productivité pure qu’un à-venir rendrait possible sans coût nicharge. Nous avons déjà vu que ce poids obscurcit toujours l’à-ve-nir et que l’exploitation de celui-ci n’est possible que moyennant lesrationalités établies du passé. Cet à-venir ne produit que grâce à cesmoyens, dans une répétition qui renouvelle aussi. La vie vit, maisnon pas sans se consumer. Elle s’use. L’illimité de l’économie seperd donc dans l’usage de ses moyens et est dans ce sens une illu-sion. En même temps cependant, cet usage produit quelque chose.La vie économique est l’usage productif de cette usure. Elle semaintient, elle peut avoir une certaine durabilité pour autant qu’el-

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60 J. Derrida, Apprendre à vivre enfin. Entretien avec Jean Birnbaum. Ga-lilée/Le Monde, Paris 2005, p. 35.

61 Idem, p. 26.

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ALESSANDRO ARIENZO

Il lavoro del comune

1. Il mondo del lavoro

Come è cambiato “il mondo del lavoro” negli ultimi decenni delNovecento? Qual è il nostro “mondo del lavoro”? A queste duequestioni non si può rispondere unicamente nei termini della socio-logia del lavoro. Né possiamo dare una risposta esclusivamente eco-nomica, fondata sulle trasformazioni nei processi della produzione edistribuzione delle merci, e nei percorsi della valorizzazione capita-listica. Il fatto stesso che si parli di un “mondo” del lavoro, e nonsemplicemente di lavori (così come molto significativamente avvienecol Jobs Act) rinvia ad una sorta di lebenswelt: un “mondo vitale”,una forma di esistenza che si costituisce intorno ad un fare e a unoperare che compongono esistenze individuali e collettive. Il lavoroproduce, e nel produrre, realizza innanzitutto il produttore, il sog-getto che lavora.

Il nesso tra un “realizzare” inteso come un oggettivare il pro-prio lavoro e come “realizzarsi” attraverso di esso – segna i legamiche questo specifico mondo della vita, il mondo del lavoro appun-to, istruisce innanzitutto con l’etica. Infatti, questi legami fondanoun’etica del lavoro, come quel complesso di valori, norme e princi-pi che orientano al buon vivere, e un l’etica attraverso il lavoro, per-ché esso “educa” gli uomini ai principi del retto vivere in comuneper mezzo di una disciplina dell’opera e della relazione. Il nesso trail realizzare e il realizzarsi attraverso il lavoro segna, quindi, anchei momenti in cui questo mondo della vita incontra la politica, inter-pretata non semplicemente come governo del presente, ma anchecome strumento della piena emancipazione umana. Una politica dellavoro che nel campo “riformista” ha tradotto il modello emanci-pativo delle costituzioni sette e ottocentesche, le dichiarazioni dei

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economicus.Cette passivité n’écrase donc pas la subjectivité64. Blan-chot parle même de “subtilement ébranlé”. Elle renvoie à l’anony-mat du dehors, celui de l’à-venir et celui du passé, qui traverse le de-dans de la subjectivité, la désubjectivise ainsi et rend impossibled’intérioriser et maîtriser ce qui lui arrive et lui pèse. En effet, entant que rapport au temps la possibilité d’appropriation et de maî-trise par la conscience de soi est elle-même marquée par la passivi-té. Pour cette raison, la singularité est quelque chose de neutre,quelque chose dans l’homme qui échappe à la conscience de soi,mais le marque comme quelqu’un de singulier. Pour cette raisonaussi, le cheminement d’une vie singulière est un errance, où lumiè-re et obscurité s’entremêlent. Ou pour le dire avec Celan: “Parle –/Cependant ne sépare pas le Oui du Non / Donne à ta parole le sens:/ lui donnant l’ombre”65.

Cette passivité ne signifie aucunement une existence résignéepour la singularité. Elle ne dit rien d’autre que l’existence humaineest temporalisante, que l’homme est un mortel, qui, certes, ne peutéchapper au temps, mais peut aussi grâce au temps et plus particu-lièrement grâce à l’ouverture de l’à-venir penser, dire, agir et déci-der. Grâce à sa situation il dispose de moyens – langue, traditions,religion, coutumes, capacités, fortune et pouvoir, mais aussi corps,constitution génétique, traumas et expériences – pour comprendrece qu’il lui arrive, ce qui veut dire en même temps méconnaître etrenouveler le cours des choses. Dans ce renouvellement, le passén’est plus une simple répétition et de ce fait il est surgissement desens et d’autres rapports de forces.

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64 Voir: A. Cools, Intentionalité et Singularité. Maurice Blanchot et la phé-noménologie, in E. Hoppenot et A. Milon (dir.), Maurice Blanchot et la philo-sophie, Presses Universitaires de Paris Ouest, Nanterre 2010, pp. 137-155.

65 Cité par J. de Grammont, Préface, in E. Pinat, Les deux morts de Mau-rice Blanchot. Une phénoménologie, Zetabooks, Bucarest 2014.

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diritti, nell’esperienza storica dello “statuto dei lavoratori” e dellacontrattazione/concertazione. E che ha invece segnato il campo po-litico della rivoluzione come tensione etico-politica alla sovversio-ne dell’esistente a partire dalla riappropriazione dell’operare pro-duttivo come operare sociale. Questo duplice nesso – lavoro/etica elavoro/politica – mette in relazione l’essere “singolare” del lavora-tore e il suo essere agente collettivo, poiché lavoro è sempre produ-zione in comune di un mondo comune. I mutamenti nel mondo dellavoro sono quindi anche mutamenti nei percorsi attraverso cui inquesto mondo di vita i singoli costituiscono se stessi entro, attra-verso e nonostante il lavoro. Descrivere e intendere le trasforma-zioni che hanno segnato i soggetti in quanto singolarità lavorantinell’epoca della grande industria e quindi della globalizzazione di -spiegata non è semplice.

Per cogliere il piano degli stravolgimenti che hanno segnato ilmondo del lavoro negli ultimi decenni possiamo far riferimento al-la letteratura che ha descritto i percorsi attraverso cui, in poco piùdi un secolo, si è assistito alla nascita e (forse) alla scomparsa dellaclasse lavoratrice in quanto “mondo del lavoro”. Una “scomparsa”che – almeno in gran parte dell’Occidente ricco – costituisce il ve-nir meno di un orizzonte simbolico e valoriale, non certo delle par-ti che quel mondo componevano. L’ascesa al paradiso della classeoperaia non è certamente la scomparsa di quella forza lavoro, diquel lavoro vivo, che quotidianamente esercita, nelle forme più di-verse, l’attività produttiva e vive la condizione dello sfruttamentodel proprio lavoro.

In tal senso, la lunga tradizione narrativa che possiamo definirecome romanzo “di classe” ha variamente raccontato la nascita delmovimento operaio come dell’emergenza di un nuovo soggetto ri-voluzionario. Sono moltissimi gli sforzi letterari che già agli inizidel secolo descrivevano questo momento “germinale”, a partire daGerminal di Émile Zola1. Del resto, ancora oggi la più efficace de-scrizione del brutale avvio della grande industria resta quella offer-ta da Engels nel suo La situazione della classe operaia in Inghilter-ra2.Uno dei romanzi italiani che ha meglio rappresentato l’insorge-

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1 É. Zola, Germinal (1885), Mondadori, Milano 2010.2 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra: in base a os-

servazioni dirette e fonti autentiche, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2011.

re di questa nuova soggettività operaia è certamente il Metello diVasco Pratolini3. Romanzo tanto più importante in quanto esprimeancora oggi una delle espressioni più chiare di un mondo del lavo-ro (politico e sindacale) che dopo l’esperienza della Resistenza, e nelcontesto del rafforzamento e della ristrutturazione del movimentosindacale italiano, aspirava ad essere parte decisiva della nuova ar-chitettura politica repubblicana. Metello è insieme romanzo storico,politico e di formazione perché il protagonista Metello Salani – nona caso figlio di anarchico – si educa alla lotta politica attraverso il la-voro, e attraverso il lavoro educa se stesso alla responsabilità (in-nanzitutto familiare), alla dignità e alla giustizia.

In Germinal e in Metello, pur in due momenti storici così diffe-renti, troviamo descritti e rappresentati con l’efficacia della lettera-tura non tanto dei processi storici o economici – che pure segnanoil quadro, lo sfondo e l’orizzonte di queste narrazioni – quanto del-le singolarità individuali e collettive. Del resto, entrambe questenarrazioni raccontano di lavoratori generici, non ancora propria-mente “operai”: Étienne Lantier di Zola attraversa la fabbrica e laminiera; Metello lavora nell’edilizia e nell’agricoltura, ed è insiemeoperaio, bracciante, lavoratore a cottimo. Entrambi, attraverso il lo-ro lavoro, costruiscono pian piano un mondo simbolico che sostie-ne una forza collettiva, che cresce insieme a loro, ed il cui desideriodi trasformare l’esistente si affianca al bisogno di una vita degna. Lastoria dei movimenti dei lavoratori che prende avvio con questenarrazioni è quindi storia del comporsi di una comunità di lavoro edi vita che si affianca a un proliferare e disseminarsi di forme di lot-ta che lentamente investono una pluralità di luoghi: dalle terre con-tadine alle fabbriche, dalle botteghe artigiane ai cantieri, dai merca-ti cittadini alle colonie. Quindi i luoghi politici, prima informali –dalle bettole ai retrobottega, dagli oratori ai circoli – quindi struttu-rati – le camere del lavoro, le sezioni dei partiti – per giungere alcuore delle istituzioni con il consolidarsi delle organizzazioni poli-tiche. La storia della lotta del movimento operaio e delle lotte dei la-voratori si affiancherà, quindi, a quella delle donne, poi a quella de-gli studenti così come ai movimenti di liberazione nazionale, allelotte antiautoritarie della fine degli anni ’70 e ’80. La storia dei mo-vimenti operai sarà quindi associata alla storia della democrazia po-

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3 V. Pratolini, Metello, Vallecchi, Firenze 1955.

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litica, almeno fino a quando il crollo del muro e il venir meno del-l’alternativa comunista favoriranno la lenta ritrascrizione di questastoria nella retorica di un Novecento ormai passato e passatista.

2. Il soggetto produttivo

Tra le narrazioni che in maniera più netta segnano gli esiti tardonovecenteschi della lunga storia operaia europea c’è forse la Dismis-sione di Ermanno Rea, un romanzo che racconta della chiusura e del-lo smantellamento di una fabbrica/quartiere – l’Italsider di Bagnoli,quartiere di Napoli – alla fine degli anni ’80, non a caso a opera diuno degli operai specializzati che quel luogo avevano “governato”4.Il sapere operaio è messo a lavoro per chiudere con efficienza e com-petenza quello stabilimento che proprio all’operaio dava lavoro. Manmano che l’impianto viene smontato, Vincenzo Bonocore, il prota-gonista, scopre che a venire meno non è solo una fabbrica, ma èun’intera comunità di quartiere, l’insieme delle relazioni umane e po-litiche che circondavano e attraversavano il luogo della produzione.A differenza di Metello, Bonocore è un operaio specializzato, espres-sione migliore di quella che sarà a lungo descritta come “aristocraziaoperaia”, la cui competenza dei processi della produzione di fabbri-ca è tale da rendergli possibile lo smontaggio di un impianto com-plesso e, per quei tempi, ancora all’avanguardia.

Parabola strana quella dell’operaio. Da lavoratore generico co-struisce un mondo di vita e le forme organizzate della sua lottaemancipatrice. Da lavoratore specializzato partecipa di quel proces-so di smantellamento di quei luoghi della produzione senza i qualiesso non può, apparentemente, sussistere. In realtà, nella narrazio-ne di Rea siamo ormai ben oltre quelle trasformazioni storiche neiprocessi della produzione capitalistica descrivibili come neo-capita-lismo, e che la letteratura aveva già colto da tempo. Basti pensare al-la straordinaria figura di Luciano Bianciardi che nei suoi Il lavoroculturale, L’integrazione e La Vita Agra5 descrive ormai la coesi-

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4 E. Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002.5 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 1957; L’integrazio-

ne. Un ritratto scettico e pungente di “giovane letterato disintegrato”, Bompia-ni, Milano 1960; e La Vita Agra, Rizzoli, Milano 1962.

stenza dei percorsi del lavoro di fabbrica nella Milano industrialedegli anni ’60 con quelli del lavoro culturale, dei servizi, del cosid-detto cognitariato. Facendo emergere, in altri termini, quella nuovacondizione umana desolata – ben rappresentata da una Milano spet-trale – che diffusamente descriviamo oggi come precarizzazione, eche indicava con estrema lucidità i mutamenti profondi di societàche si avviavano ad essere “post-fordiste”. A compimento di questalunga narrazione operaia e “di classe” rimangono oggi espressioniletterarie importanti, almeno in Italia, della storia del mondo del la-voro e delle sue lotte: ad esempio in lavori come quelli di LutherBlissett/Wu Ming, che si presentano come una memoria attiva – unanuova epica – nel quadro di uno sforzo più ampio di riscrittura nar-rativa e simbolica di orizzonti di lotta che si cerca di riattualizzaree riadattare al presente6.

Tuttavia, una inedita presenza letteraria la troviamo, oggi, nel-l’insieme variegato delle narrazioni intorno al contemporaneo pre-cariato, spesso cognitivo, che non a caso hanno assunto fino ad og-gi la forma prevalente del racconto breve e non quella del roman-zo7. Una narrazione nella quale la politica appare come una sorta disignificante vuoto, come un’assenza presente che segna lo scarto trai malesseri individuali e collettivi che faticano a trasformarsi in uncomune orizzonte emancipativo proprio perché non vivono e nonpartecipano di un mondo comune. È questa una letteratura variega-

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6 Cfr. NIE, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futu-ro, Torino, Einaudi 2009 e, per i romanzi, segnalo Q firmato come Luther Blis-sett e 54 e I Sonnambuli, firmato da Wu Ming.

7 Tra i molti: AA.VV., Tu quando scadi? Racconti di precari, Manni, S. Ce-sario di Lecce 2005; AA.VV., Laboriosi oroscopi. Diciotto racconti sul lavoro, laprecarietà, la disoccupazione, Ediesse, Roma 2006; A. Bajani, Mi spezzo ma nonmi impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili, Einaudi, Torino 2006; F.Buratto, Curriculum atipico di un trentenne tipico, Marsilio, Padova 2007; M.Monaco, Il momento è atipico. Cinque dialoghi fra lavoratori precari e lavora-tori dipendenti, Terre di mezzo, Milano 2005; A. Murgia, Dalla precarietà la-vorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro,Odoya, Bologna 2010; A. Murgia, Il mondo deve sapere, ISBN, Milano 2005;A. Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…, Ei-naudi, Torino 2006. Su questi temi rimando al mio The Italian Job – Singolari-tà precarie tra rifiuto della rappresentanza e strategie di riconoscimento, vol. I,pp. 221-245, in E. Armano, A. Murgia, (a cura di), Mappe della precarietà. For-me e processi della precarizzazione, rappresentazioni e immaginari, 2 voll.,Odoya, Bologna 2011.

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ta e multiforme, che descrive la polverizzazione dei legami socialifondati sulla simbolizzazione e sulla narrazione “collettiva” del la-voro, e la sua sostituzione con la rappresentazione della frustrazio-ne e dei malesseri individuali e individuati. Essa racconta le trasfor-mazioni profonde nelle forme del lavoro – l’intermittenza, la flessi-bilità d’impiego, l’impossibilità di separare tempo di lavoro dal tem-po di vita, l’insignificanza del passato e la rimozione del futuro inrapporto con un presente evanescente e instabile – e nei processi disoggettivazione che accompagnano queste trasformazioni, e cheesprimono soprattutto il male del lavoro.

In effetti, solo con difficoltà la narrativa sul precariato riesce asuperare la formula del racconto breve, quasi a esprimere la diffi-coltà di ricomporre condizioni individuali in una sintesi narrativapiù ampia, eventualmente politica, articolandosi come vero e pro-prio romanzo. Ed in queste difficoltà risiedono, forse, anche le ra-gioni della scelta dei movimenti dei lavoratori precari di dotarsi ne-gli ultimi due decenni di identità fittizie, prevalentemente virtuali,come Nora Precisa, Serpica Naro, Anna Adamolo, San Precario.Identità virtuali, fluide, non rappresentabili se non attraverso per-corsi scritturali di cui i blog sembrano essere la forma più adeguata.E che sembrano segnalare in maniera anche qui contraddittoria siala difficoltà nell’esporsi de visu, o comunque di identificarsi – rap-presentandosi nella fissità di un personaggio – legata alla condizio-ne di radicale subordinazione e ricattabilità lavorativa ma anche difluidità e precarizzazione individuale, quanto forse il rifiuto di queipercorsi di soggettivazione politica identitaria che hanno segnato, esegnano, la tradizione politica socialista e comunista attraverso lacostruzione di persone fittizie, di singolarità collettive senza volto.

Se questa letteratura, e queste nuove forme comunicative, se-gnano gli elementi di novità negli sforzi di costruzione di un se plu-rale e collettivo, esse segnalano anche la condizione di frammenta-zione di soggettività che non riescono ancora a comporre una di-mensione radicata e organizzata. La pluralità dei racconti, in altritermini, sembra rappresentare proprio le difficoltà di comporre lestorie individuali in un sistema simbolico fatto da valori etici, cul-turali e linguistici condivisi, che faccia da filo conduttore ad unanarrazione (e ad una azione politica) non frammentata.

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3. Riprendere tempo

Cambiano le forme della produzione, cambia quindi l’organiz-zazione del lavoro, cambiano gli stessi lavoratori. Ecco perché, ol-tre alla trasformazione dei percorsi di composizione delle formedello stare insieme comunitario, ed in maniera forse anche più pro-fonda e radicale, da questa letteratura emerge come a mutare pro-fondamente siano proprio i processi di costruzione del sé. Il lavoroe la comunità di lavoro scompaiono come elementi portanti dei per-corsi di identificazione dei singoli. Questo fenomeno è forse decisi-vo poiché rende evidente, più di molte indagini, lo iato enorme trail mondo politico e culturale proveniente dalle tradizionali lotteoperaie e quello che invece emerge dalle lotte degli attuali precari.Se la struttura della cosiddetta narrativa industriale – vedi i roman-zi già citati di Luciano Bianciardi, ma anche di autori come OttieroOttieri, di Paolo Volponi – si reggeva su un sistema di valori fortilegati a temi come la solidarietà operaia, il contrasto col padrone, illicenziamento, nella narrativa che ha al suo centro la questione pre-cariato questo sistema di valori e rappresentazioni, di mediazionisimboliche, scompare.

Ciò nonostante, il senso comune rappresenta ancora oggi il la-voro, insieme con la famiglia, come uno dei due perni dell’identitàe del benessere degli esseri umani. Quindi come quella condizionesociale virtuosa che vale da prerequisito dell’agire sociale e della cit-tadinanza. Questo senso comune contrasta in maniera sempre piùdrammatica con un mondo del lavoro instabile, mutevole, paupe-rizzato. Se è stato per qualche tempo possibile che l’adesione a unadisciplina del lavoro abbia reso quest’ultimo uno dei fini dell’esi-stenza, e uno dei momenti più nobili della vita, tanto da rendere “ilLavoro” un fine e non un mero mezzo, appare difficile che le sog-gettività che si affacciano al nuovo millennio possano ancora oggipartecipare ad un etica del lavoro e agli stili e ai percorsi di quellamilitanza politica che ha segnato la storia dei movimenti socialisti ecomunisti.

Del resto, tra i temi che attraversano i lavori raccolto in questovolume vi è quello che Foucault descrive con l’espressione “con-versione alla rivoluzione”. Il francese tratteggia infatti un percorsodi formazione di pratiche del sé che prendono avvio a partire daglianni trenta/quaranta dell’Ottocento con l’affermarsi di una specifi-ca soggettività rivoluzionaria che sarebbe stata “prima legittimata, e

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poi progressivamente assorbita, in seguito prosciugata, e infine an-nullata, proprio dall’esistenza di un partito rivoluzionario”8. Primal’esaltazione degli aspetti ideologici e disciplinari della militanza ri-voluzionaria, quindi l’incanalarsi delle resistenze individuali e col-lettive verso aspettative economico-sociale rivolte al miglioramentodelle condizioni di vita della classe lavoratrice che finiscono perporre in secondo piano le aspirazioni alla trasformazione radicaledell’esistente. In ultimo, le forme dell’organizzazione sindacale epartitica finiranno per disciplinare il corpo rivoluzionario da cuiprendevano le loro origini e le singolarità che lo componevano. So-no questi gli elementi più maturi di una critica al movimento mar-xista che attraversa tutta la riflessione filosofico politica radicale delsecondo Novecento e che resta ben espressa, ad esempio, da un im-portante confronto tra Michel Foucault e l’intellettuale giapponeseYoshimoto raccolto col titolo Metodologia per la conoscenza delmondo: come sbarazzarsi del marxismo9, ma anche nelle opere diGilles Deleuze e Felix Guattari o nel percorso teorico e militante diun’ampia parte dell’operaismo italiano, quindi del cosiddetto post-operaismo.

Per certi versi, se assumiamo fino in fondo la radicalità di quel-le analisi, non possiamo interpretare l’esaurirsi dell’immaginazionepolitica o delle spinte rivoluzionarie come il frutto del “tradimento”politico di burocrazie politiche corrotte o degradate, né come la me-ra trasformazione riformista delle spinte più autenticamente rivolu-zionarie. Le ragioni della scomparsa dell’orizzonte simbolico dellarivoluzione, in particolare nella determinazione che essa assumevanel contesto dei movimenti dei lavoratori, è da cercarsi forse nel nes-so problematico che tiene insieme il soggetto lavoratore, il soggettoproduttivo secondo Pierre Macherey10, in quanto singolarità e leforme della produzione capitalistica, le istanze di trasformazione delmondo con quelle della liberazione del sé nel mondo. Le istanze del-la rivoluzione sociale che emergevano nella fase storica della con-

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8 M. Foucault, L’Ermeneutica del Soggetto, Corso al Collège de France1981-1982, Feltrinelli, Milano 2003, p. 185.

9 M. Foucault, Metodologia per la conoscenza del mondo: come sbarazzar-si del marxismo, in Idem, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984,Einaudi, Torino 2001, pp. 241-267.

10 P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombre Cor-te, Verona 2012.

versione alla rivoluzione – in quelli che sono i suoi percorsi connes-si alla storia del movimento dei lavoratori – sono venute meno per-ché è venuto meno quel “mondo del lavoro” che le sosteneva.

L’estinguersi dello spazio rivoluzionario espresso dai partiti “diclasse”, e le profonde trasformazioni nelle soggettività dei lavorato-ri, sono stati due temi centrali del ricchissimo dibattito italiano sul-la classe e sull’identità operaia che si svolge a partire dalla fine deglianni ’50 fino alla prima metà degli anni ’80 del secolo scorso; a val-le della cosiddetta “marcia dei 40000” della Fiat. Un dibattito chepartiva con l’assunzione dell’esistenza di una specifica classe ope-raia – le cui radici erano nelle forme sociali della produzione capi-talistica – e che questa fosse il vero elemento propulsore dei processidi sviluppo capitalistico. Del resto, era la lezione marxiana che ve-niva ripresa, seppure in maniera inedita, perché nel terzo libro delCapitale Marx descrive il capitale come una relazione sociale speci-fica: “un determinato rapporto di produzione sociale, appartenentea una determinata formazione storica della società. Rapporto che sipresenta in una cosa e dà a questa cosa un carattere sociale specifi-co”11. Proprio perché il capitale è un rapporto sociale, il “governo”che esso esercita sui singoli non è semplicemente il diretto coman-do sul momento della produzione – quindi il governo della forza-lavoro nell’ambito ristretto dell’unità produttiva – ma costituisce lacreazione di un intero mondo sociale fatto di relazioni che “dallafabbrica” si allargano “alla metropoli”12. E che dall’attività lavorati-va come forma dell’impiego della propria forza lavoro si allarga al-la creazione del mondo proprio. Il capitale produce merci, e nelprodurre merci, delineando l’insieme di rapporti che caratterizzanola società, promuove “forme di vita” operando sul duplice versantedella produzione e della circolazione. Beninteso, da un lato, “nellaproduzione sociale dell’esistenza, gli uomini entrano in rapporti de-terminati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti diproduzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppodelle loro forze produttive materiali”13. Dall’altro lato, la storia è

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11 K. Marx, Il Capitale, libro III, Einaudi, Torino 1975, pp. 927-928.12 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, Ombre Corte, Verona 2008.13 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il Capitale. Critica del-

l’economia politica, Libro primo, Il processo di produzione del capitale, Einau-di, Torino 1975, p. 957.

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sempre “il regno della libertà” e per quanto le condizioni nelle qua-li gli uomini debbono agire e operano gli appaiano come poste enon siano mai arbitrarie, esse non debbono per questo essere inter-pretate come “necessitanti” o deterministiche. Le condizioni nellequali agiamo sono sempre intrise di relazioni conflittuali, di mo-menti critici e una condizione di permanente contraddizione tra lecondizioni storiche – e le sue necessità – e quella capacità di inter-vento sulla storia, di trasformazione, di potenza eccedente che per-mea il nostro essere singolarità agenti e collettività desideranti14.

Dalla peculiare funzione “produttiva” attribuita alla classe ope-raia nella tradizione operaista ne derivavano due importanti conse-guenze: la prima è che questa classe rimaneva l’agente principale diun processo rivoluzionario che passava attraverso la critica radicaleverso le forme strutturate del movimento dei lavoratori (sindacati epartiti). La seconda, era la necessità di una conoscenza approfondi-ta di questa classe che assumesse, tuttavia, le prassi – in fondo anti-che – dell’inchiesta operaia. Antiche perché presenti fin dai primor-di della storia del movimento operaio – basti pensare al questiona-rio preparato da Marx per il Partito operaio francese e pubblicatosulla «Revue socialiste» di Benoît Malon il 20 aprile 1880; non a ca-so riprese su «Quaderni Rossi» nel 1963. Cioè su quella rivista cheavviava la straordinaria stagione dell’operaismo italiano. Non èquindi un caso che nei suoi scritti più recenti Mario Tronti sia piùvolte tornato a riflettere su quelle linee di sperimentazione teorica epolitica; in particolare sull’esigenza cui esse davano corpo di fare iconti col processo storico che dal proletariato portava alla classeoperaia ma nel solco specifico di un’indagine sulla soggettività dellavoro piuttosto che sulle determinanti “strutturali”. In particolarein Noi operaisti, Tronti ricostruisce le vicende e il contesto culturalee politico dell’esperienza operaista collocandola in una riflessionepiù ampia sulla storia del movimento operaio italiano per metternein evidenza le soglie critiche, le profonde debolezze. Quello che pe-rò appare significativo è che Tronti riconosce che la scoperta dellaclasse operaia era piuttosto una autorappresentazione simbolica.15

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14 Su questo tema trovo molto utile e bella la lettura di Sandro Mezzadra,Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, Manifestolibri, Roma2014, pp. 45-46.

15 M. Tronti, Noi Operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 10.

4. Il lavoro del comune come lavoro in comune

In un suo volumetto recente su e intorno Marx e il marxismoSandro Mezzadra ha quindi posto l’attenzione su uno scritto diGiovanni Arrighi nel quale si osservava come la pretesa marxiana,secondo cui alla tendenza del capitale a sfruttare la forza lavoro “co-me massa indifferenziata” corrispondesse la tendenza del lavoro “amettere da parte le differenze naturali e storiche come mezzi per af-fermare individualmente e collettivamente un identità sociale di-stinta”, appare smentita dalle vicende del Novecento16. La questio-ne posta da Arrighi è ancora oggi decisiva, perché mostra come alcuore di un tema cruciale come quello della produzione di sogget-tività si collochino due problemi: il primo, connesso all’emergerenel corso del Novecento di una pluralità di soggettività che ha datovita, dentro, fuori, intorno e talvolta nonostante la distinzione tracapitale e lavoro, ad istanze di radicalità; il secondo, è invece pro-prio in quel nesso tra produzione capitalistica e produzione di sog-gettività che tiene insieme sia la produzione di soggetti assoggettatial Capitale, sia l’emersione di soggettività che vivono di forme plu-rime di antagonismo al Capitale. Una produzione di soggettivitàche opera “nei due sensi del genitivo; da una parte la costituzionedella soggettività, di un particolare comportamento soggettivo, edall’altra la potenza produttiva della soggettività stessa, la sua capa-cità di produrre ricchezza”17. Un processo di trasformazione deipercorsi di individuazione della soggettività “operaia”, e generica-mente lavoratrice, che parte da lontano ma che forse si compie, sto-ricamente, in quegli anni ’70 del secolo scorso che hanno segnato ilcambio di passo nelle relazioni produttive, nei rapporti tra econo-mia e politica, nelle forme del governo capitalistico dei soggetti.

In una bella intervista pubblicata pochi anni dopo gli eventi con-nessi alla marcia dei 40000, significativamente intitolata RiprendereTempo, Pietro Marcenaro e Vittorio Foa riflettevano proprio suquella serie di cambiamenti nella condizione operaia che avevanocaratterizzato gli anni ’60 e ’70 interpretandoli, innanzitutto, comeespressione di una mutazione nelle soggettività che attraversavano il

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16 S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. cit., pp. 15-16.17 J. Read, The Micro-Politics of Capital. Marx and the Prehistory of the

Present, State University of New York Press, Albany 2003, p. 153, tr. it in S.Mezzadra, Accumulazione originaria, p. 31.

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lavoro in fabbrica18. Ad una generazione formata sull’etica del lavo-ro, sulla realizzazione dei singoli nello spazio della produzione, se-guiva una generazione che guardava innanzitutto fuori la fabbrica, eche faceva delle questioni del tempo di lavoro – della sua limitazio-ne (perché la realizzazione è altrove) e della disciplina di fabbrica lesue priorità. Emergeva in queste soggettività nuove, in fabbrica, unapluralità di tensioni, bisogni, difficoltà inedite che richiedevano for-me di organizzazione solidaristica e mutualistica capaci di farsi cari-co delle tensioni che vivevano innanzitutto fuori la fabbrica e aimargini del lavoro. Come segnalava Marcenaro, tuttavia “il sindaca-to … non è in grado di assumere questi problemi. Questi probleminon si risolvono con la contrattazione. Supponi di dover affrontareuna questione così seria come quella della droga, questione che ef-fettivamente si pone in modo grave in diverse fabbriche. Non è unacosa che possa essere affrontata con la contrattazione col padrone.A me pare che ci sia una serie di problemi, che una volta erano (oerano considerati) nettamente secondari e che tendono ad emergerecon sempre maggiore forza. Sono in larga parte i problemi dellacondizione personale. Sono i problemi che riguardano la condizio-ne psicologica dell’individuo, quelli che i più giovani chiamano lostar bene e lo star male. L’organizzazione dei rapporti interpersona-li, le vicende sentimentali, le possibilità di comunicazione all’inter-no e all’esterno della famiglia”19. A cavallo del corteo dei 40000 del-la Fiat, le trasformazioni e i mutamenti “in fabbrica” a partire da unamodalità nuova di vivere il tempo di lavoro mostra come “non c’èuna classe sola”, né una sola etica del lavoro perché le modalità di vi-vere il lavoro sono oramai plurime, differenziate e acquistano sem-pre più senso fuori dal lavoro. Nella sua intervista Marcenaro affer-ma allora che: “Le visioni della classe operaia come realtà sociale eculturale uniforme non sono che il risultato dell’accettazione delmovimento operaio del processo capitalistico di produzione e inparticolare le sue norme temporali”20. Una tesi forte, forse non deltutto condivisibile, certamente quello che nell’intervista a Marcena-ro emergeva erano le esigenze nuove e diverse di sottrazione al tem-po di lavoro e di gestione autonoma del tempo di lavoro a fronte di

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18 P. Marcenaro, V. Foa, Riprendere tempo. Un dialogo con postilla, Einau-di, Torino 1982.

19 Ivi, p. 35.20 Ibidem.

più tipiche, per l’epoca, richieste “di classe”. Un profondo e radica-le mutamento nel corpo della stessa classe operaia, in altri termini,che giungeva essa stessa a mettere in discussione quei principi idea-li e valoriali che ne avevano fino a quel momento retto le sorti comeclasse politica. Le trasformazioni produttive e i profondi cambia-menti sociali e culturali accompagnavano degli altrettanto profondimutamenti nelle soggettività di lavoratori che vivevano sempre piùil loro essere nel lavoro, quindi, come parte separata, non certo pre-valente, della loro vita. Nel contempo, anche la “militanza” si tra-sformava radicalmente: sempre meno totalizzante, sempre menocentrata sui temi del lavoro, sempre meno strutturata nelle forme“tradizionali” di attività politica sindacale e partitica.

Al termine di una sconfitta storica della “classe operaia” in Oc-cidente, si pone nuovamente oggi in questione il tema delle identità– anzi delle soggettività – nel lavoro oggi. Se la stagione operaistagrazie ai contributi straordinari di Romano Alquati e di Vittorio Ri-eser ha costruito uno specifico discorso operaio a partire da un la-voro di inchiesta che ne voleva soprattutto ricostruire le soggettivi-tà, i nuovi bisogni e quindi tracciarne le forme della partecipazionepolitica, l’attuale condizione di un mondo del lavoro disperso eframmentato, che non ha più né orizzonti simbolici condivisi, nésoggetti collettivi trainanti, chiede una nuova e specifica forma di in-dagine condivisa che si allarga dai centri della produzione ai nucleidi relazione tra produzione, circolazione e riproduzione. In effetti,il lavoro è sempre lavoro sociale anche quando esso appare nelle sueforme particolari, polverizzate e apparentemente irrappresentabili.E il lavoro è sempre lavoro in comune che lascia emergere ciò cheabbiamo “in comune”. E allora, nel contesto di quella torsione spe-cifica dell’operaismo italiano che chiamiamo oggi “post-operaismo”(come tutti i post, termine erroneo e fuorviante), e che ha come suoprincipale (ma non certo unico) ispiratore Toni Negri emerge conforza come il lavoro non è solo in comune ma è anche lavoro del co-mune. Il lavoro, in sostanza, è prassi produttiva, ma nel quadro del-le nuove forme capitalistiche si colloca anche nelle relazioni semprepiù strette – potremmo dire porose – tra produzione, circolazione eriproduzione21. È l’intero mondo sociale che “produce” e riprodu-

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21 Ch. Marazzi, Il posto dei calzini, Casagrande, Bellinzona 1997 (poi, Bol-lati Boringhieri, 1999); C. Vercellone, (a cura di) Capitalismo cognitivo. Cono-

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ce “valore”, sebbene questo venga poi sussunto nei circuiti della cat-tura capitalistica. La prospettiva di una trasformazione effettiva-mente radicale del sistema capitalistico starebbe, allora, nell’assume-re in comune i prodotti e i frutti del lavoro del comune.

In effetti, nel discutere quelli che a suo parere sono i nuclei teo-rici di fondo del Capitolo VI inedito di Marx, Negri è tra coloro iquali hanno posto esplicitamente in questione il problema della na-tura del valore, del lavoro e del capitale oggi e mi pare una indica-zione problematica importante per le sue implicazioni22. Negri sisofferma su tre temi, il primo dei quali è la natura della sussunzio-ne reale. Nella sua lettura, il capitale, divenuto sociale, traduce leproprie forze produttive in forze produttive “immediatamente so-ciali”. In tal modo, per mezzo dell’incorporazione del lavoro vivonel sistema delle macchine, “il macchinismo imbraga la vita”. Siamoqui nel solco, ma ampliato e disseminato, della lettura che Panzieriaveva offerto dell’uso capitalistico delle macchine23. In tal senso,egli si spinge ben oltre Panzieri, traducendo ciò che questi aveva de-scritto come piano del capitale in “capitale macchinico”, per mezzodella mediazione teorica delle analisi di Deleuze e Guattari e dellabiopolitica foucaultiana. Il capitale macchinico (che è unità imme-diata di capitale costante e variabile, di lavoro vivo e lavoro morto,nella forma peculiare della massima estrazione di plusvalore relati-vo) sussume al capitale la vita stessa. In tal modo, però, esso assumein ogni sua più intima determinazione quella dimensione intrinse-camente antagonistica che è espressa dal lavoro vivo. Quanto più ilcapitale sussume la vita stessa, tanto più questa rende il capitale in-stabile. In Negri troviamo l’allargamento, in sostanza, dell’ambitodella sussunzione reale alla vita stessa: al termine di un percorso sto-rico che, a partire dall’ organizzazione complessiva della produzio-ne nel luogo della produzione – il sistema di fabbrica –, attraversociò che in Panzieri è descritto come “il piano del capitale” giunge al-la “biopolitica foucaultiana”.

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scenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006; Y. MoulierBoutang, Le capitalisme cognitif, Éd. Amsterdam, Paris 2007; E. Berns, La po-rosité. Un essai sur le rapport entre économie et politique, OUSIA, Paris 2012.

22 T. Negri, Spunti di ‘critica preveggente’ nel Capitolo VI inedito di Marx,http://www.uninomade.org/critica-preveggente-capitolo-sesto/

23 R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, inLotte operaie e sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976, pp. 3-23.

Il secondo punto discusso da Negri è relativo al rapporto tra la-voro produttivo e improduttivo. Tema decisivo perché Marx sem-bra ritenere che sia produttivo di valore soltanto l’operaio “il cuiprocesso lavorativo equivale al processo di consumo produttivodella forza-lavoro, del depositario di questo lavoro, da parte del ca-pitale o del capitalista”. La distinzione tra lavoro produttivo, ossiache “produce plusvalore” e lavoro improduttivo – che partecipadella sola fase riproduttiva del capitale – è decisiva non solo per unacorretta critica dell’economia politica, ma anche per la definizionedei luoghi e dei modi propri dell’antagonismo di classe e delle sue“condizioni oggettive”. Ancora una volta, qui il tema è ribaltatosulla produzione intesa come produzione sociale, ossia come co-operazione allargata, in cui le forze produttive – ormai inseparabilidalla scienza che ha assunto le forme di una generale capacità co-gnitiva – si sciolgono in una fabbrica sociale in cui la separazione traproduzione, circolazione e riproduzione resta astratta e formale. Diqui la centralità che Negri attribuisce all’“innesto della scienza e dellavoro cognitivo sul tetto dell’edificio capitalista costruito dalla sus-sunzione reale della società. Oggi si direbbe: dalla ‘messa a lavoro’dell’intera società nello sfruttamento della cooperazione lavorativae della valorizzazione cognitiva alla determinazione di un nuovosoggetto rivoluzionario”.

Questo è il terzo dei punti discussi da Negri: quali sono i con-fini dello sfruttamento, quindi le delimitazioni che permettono disegnare una separazione tra le classi, se la produzione sociale è or-mai tanto socializzata da non permettere – apparentemente – piùalcuna definizione netta tra lavoro e capitale? Qui la questionecentrale – il corretto punto di vista – diviene quello della determi-nazione del processo di valorizzazione: “non è il processo lavora-tivo che include il processo di valorizzazione ma piuttosto quellodi valorizzazione che configura e disciplina quello lavorativo; ed ilvalore-lavoro stesso è colto prima di tutto dall’esperienza dellosfruttamento, nella figura del plusvalore”. Non si può quindi par-tire dalla produzione per cogliere chi è che sfrutta e chi è sfrutta-to, ma dall’esistenza antitetica – quindi conflittuale – tra lavoro vi-vo e condizioni capitalistiche dello sfruttamento. In altri termini,sono quelle fratture e quei conflitti che si danno dentro il proces-so sociale di produzione, e che lo condizionano, a separare di vol-ta in volta i confini dello sfruttamento e quindi il campo della lot-ta di classe.

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Di qui la lettura più radicale che nel neocapitalismo la produ-zione “cognitivo/affettiva” diviene forma tendenzialmente egemo-ne nonché la punta più avanzata di un processo di socializzazionedella produzione. Sia chiaro, l’elemento della cognizione non riferi-sce di un sapere astratto applicato a un processo produttivo che sivorrebbe sempre più immateriale – quindi connesso ai servizi e allacura piuttosto che alla produzione di beni immateriali. Quella delcapitalismo cognitivo è piuttosto una categoria che vuole eviden-ziare come nell’attuale forma di produzione capitalistica i momentidella produzione, della circolazione e della riproduzione sono tan-to strettamente integrati da rendere l’insieme di questi momenti ilnucleo dei processi di sussunzione reale del lavoro vivo24. Esso co-stituisce quindi uno specifico sistema di accumulazione “nel qualeil valore produttivo del lavoro intellettuale e immateriale divienedominante e dove l’asse centrale della valorizzazione del capitaleporta direttamente all’espropriazione ‘attraverso la rendita’ del co-mune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce”25. Ov-viamente, Negri, così come Vercellone e gli autori che si collocanolungo questi percorsi teorici, lungi dal rinnegare o sminuire le lotteintorno al salario da lavoro dipendente così come quelle legate alreddito da lavoro indipendente o le lotte intorno all’orario di lavo-ro che appartengono alla più tradizionale lotta operaia, descrivonoquesti conflitti come momenti necessari, ma particolari, di un piùgenerale percorso di ri-appropriazione e di re-distribuzione dellaricchezza sociale slegato dalla relazione diretta tra lavoratore e pro-cessi di produzione. Un percorso che deve essere ricompreso inquello più ampio del legame tra lavoro vivo e insieme dei processidi produzione, circolazione e riproduzione.

5. Lavoro e non lavoro in comune

Nel porre la tendenziale egemonia della dimensione cognitivanella produzione e il ripensamento delle forme di relazione tra ca-pitale e lavoro, la lettura proposta da Negri implica quindi una re-

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24 Su questi temi, il riferimento sono certamente i lavori di Carlo Vercellone. 25 A. Negri, C. Vercellone, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo co-

gnitivo, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 46-56, (la citazione è a p. 47).

visione – non certo un abbandono – della teoria del valore marxia-na. Questo perché la relazione tra sussunzione formale e sussun-zione reale sarebbe forma della sussunzione del lavoro vivo sociale– ossia riscontrabile in un processo di produzione ormai social-mente diffuso. Tanto diffuso da essere essenzialmente produzionedi soggettività e di soggettività come merci. Di qui una progettuali-tà politica fondata sulla ri-appropriazione sociale della ricchezzaprodotta attraverso strumenti come il reddito universale che sonodel tutto svincolate dalla centralità del salario, e che sono solo indi-rettamente legate alle lotte sull’orario di lavoro. Riappropriazionesociale della ricchezza prodotta dicevamo, che è riappropriazionedelle capacità autopoietica dei soggetti in quanto soggetti social-mente produttivi. Svincolare il reddito dal lavoro significa, innanzi-tutto, svincolare i percorsi di costruzione della propria soggettivitàdalla disciplina di un lavoro che è sempre momento del governo ca-pitalistico sull’esistenza.

Lungo quest’asse di pensiero – ma con esiti politici differenti –Andrea Fumagalli ad apertura del suo libello Lavoro Male Comunepone in maniera tanto provocatoria quanto opportuna il problemadel “senso” e del “fine del lavoro umano”26. Una questione, comeben si comprende dal titolo del suo scritto, che non può certamen-te collocarsi entro il quadro del mero recupero di quell’idea di la-voro che ha segnato la cultura operaia – più in generale lavorista –della seconda metà del Novecento. È che era il perno ideologicodelle prospettive politiche costruite dai partiti e dai sindacati socia-listi e comunisti almeno fino alla fine degli anni ’70. Del resto, il su-peramento marxiano della distinzione tra praxis e poiesis rappresen-tava un materialismo peculiare secondo cui l’uomo non semplice-mente produce un mondo materiale di beni necessario alla sussi-stenza, perché questa stessa produzione è “produzione di vita”. Inaltri termini, “la produzione produce l’uomo”27 perché essa è “crea-zione pratica di un mondo oggettivo”28 nella quale se è vero che “illavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomoin primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un

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26 A. Fumagalli, Lavoro male comune, Mondadori, Milano 2013.27 K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, Einaudi, Torino

2004, p. 90.28 Ivi, p. 78.

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bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica”. Essa però “èla vita della specie. È la vita che produce la vita. In una determinataattività vitale sta interamente il carattere di una ‘species’, sta il suocarattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere del-l’uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita”29.

La straordinaria densità di questi passi marxiani apre a diverseletture. Certamente la storia della gran parte dei movimenti dei la-voratori, particolarmente quando hanno assunto la forma struttura-ta del partito e del sindacato di classe, hanno inteso questi passi se-condo una peculiare soggettività del lavoro che si accompagnava adun’etica e ad una politica nelle quali l’oggettivazione attraverso lapropria opera non erano più solo i prerequisiti della vita associatama diventavano il fine del buon vivere “operaio”. Secondo AndreaFumagalli oggi il lavoro non rende più – se mai lo abbia fatto – “li-beri”. Le trasformazioni produttive che segnano il cosiddetto neo-capitalismo hanno invece rotto quella relativa separazione tra tem-po di lavoro e tempo di vita che ha caratterizzato l’equilibrio fordi-sta e hanno reso aspetti come quelli dell’affettività, della relaziona-lità orizzontale, le capacità cognitive, parti dei processi di sussun-zione della vita alla produzione capitalistica che vincolano i singolial lavoro in ogni momento del quotidiano. Rompere il vincolo tranecessità e fatica, che segna in maniera crescente qualsiasi forma dilavoro, è possibile oggi solo spezzando i nuclei delle forme attualidella “schiavitù del lavoro salariato”. Se assumiamo fino in fondoquesta articolazione problematica, le molteplici proposte di redditouniversale (di esistenza, di cittadinanza) non sono semplicementestrumenti di redistribuzione delle ricchezze, o di restituzione diquella produttività sociale che è la potenza del lavoro vivo sussuntadal capitale.

Queste proposte rappresentano, piuttosto, i nuclei di una pro-spettiva politica che vuole costruire un nuovo orizzonte simbolicoe politico fondato sui principi del tempo liberato, della libera auto-realizzazione dei singoli, sulla cooperazione volontaria. L’uomoproduce se stesso producendo il mondo che lo circonda nel conte-sto delle condizioni storiche che egli stesso ha creato. E la produ-zione del mondo sociale è la risultante dell’insieme delle sfere – so-lo logicamente separate – della produzione, della circolazione e del-

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29 Ivi, p. 77.

la riproduzione. Liberarsi dalla produzione, nella forma di una li-berazione dal lavoro, rischia però di essere solo un momento sepa-rato di una esistenza che per essere effettivamente libera deve ren-dersi autonoma anche dai momenti della circolazione capitalistica edalle forme dello sfruttamento capitalistico dello stesso momentoriproduttivo. L’orizzonte del superamento del vivere capitalisticonon è allora rinunciabile. Tuttavia, lo sforzo di realizzare tale supe-ramento non può tradursi più in un ritorno a quella conversione al-la “Rivoluzione” che ha segnato la storia di una parte importantedei movimenti del lavoro otto e novecenteschi. In tal senso, stru-menti di liberazione dal lavoro come il reddito universale – che nonpotranno che affiancarsi a momenti di liberazione nel lavoro – co-stituiscono i prerequisiti per la ricerca individuale e collettiva di for-me di vita effettivamente in comune. Tempo guadagnato, quindi.Per la gioia e le “rivoluzioni”.

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FRANCESCA COIN

Disfare il soggetto neoliberale1

Lasciatevi rovesciare!Zarathustra

Qualche mese dopo l’occupazione di Gezi Park StephenSnyder2 scriveva un articolo per Roar Magazine nel quale descrive-va le proteste turche come un processo di trasvalutazione. È un pro-cesso di trasvalutazione quello che ha infiammato Istanbul, scriveSnyder, un intreccio di danza e arti, intensità estetiche e performan-ce creative nel quale la singolarità si era strappata di dosso la vecchiapelle del lavoro astratto ed era esondata nelle strade celebrandonuovi valori. È la stessa scena, infondo, quella che perturba le piaz-ze mondiali, quella di una soggettività che si strappa di dosso il la-voro e lo dismette insieme alla sua morale, insieme alla sua inter-pretazione di vero e falso, giusto e sbagliato, di buona o cattiva con-dotta, insieme a quell’attualità “falsa crudele contraddittoria corrut-trice e senza senso” che Nietzsche descrive nella Volontà di Poten-za. È un processo di trasvalutazione, quello che dissolve la vecchiaepoca neo-liberale e afferma “il movimento ascendente della vita, labuona riuscita, la potenza, la bellezza, l’affermazione di sé sulla ter-ra”3 in una socialità che interrompe l’eterno ritorno del medesimo,quel processo continuo che dall’accumulazione primitiva si ripeteogni giorno tessendo uno stretto legame tra morale, produzione ca-

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1 Questo testo è una versione estesa e rivista del saggio Tearing the neoli-beral subject di prossima pubblicazione in Elisabeth von Samsonow (ed.), Epi-demic Subjects - Radical Ontology, University of Chicago Press, Chicago 2016.

2 S. Snyder, Gezi Park and the Transformative Power of Art, «Roar Maga-zine», January 8th 2014, http://roarmag.org/2014/01/nietzsche-gezi-power-art/

3 F. Nietzsche, L’anticristo, cap. XXIV.

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stra nasce ridendo. Lo slogan lost my job found an occupation rias-sumeva l’abbandono felice della morale lavorista e il rifiuto dellacompravendita di corpi e capacità di lavoro a favore della produ-zione comune di nuovi saperi e nuovi valori.

È un processo di trasvalutazione, da questo punto di vista, quel-lo di cui Marx parla nel Frammento sulle Macchine. È un processodi trasvalutazione quello che intravediamo quando “la produzionebasata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione ma-teriale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e del-l’antagonismo”5. Allora, scrive Marx, la “ricchezza” non coincidepiù con l’accumulazione di denaro ma con la possibilità di disporredel tempo. Alla morale lavorista “subentra il libero sviluppo delleindividualità e dunque non la riduzione del tempo di lavoro neces-sario per creare plus-lavoro ma in generale la riduzione del lavoronecessario della società a un minimo cui corrisponde poi la forma-zione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie altempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro”6.

Questo articolo propone una lettura morale di Marx o una let-tura materialista di Nietzsche. Guarda, in altre parole, alla crisi del-la legge del valore attraverso i valori. Deleuze scriveva che i valorisembrano, o si fanno passare per principi: “una valutazione pre-suppone determinati valori sulla cui base stimare i fenomeni. D’al-tra parte, però, se si va più a fondo, sono i valori a presupporre va-lutazioni, punti di vista di apprezzamento da cui proviene il lorovalore”7. Se i valori vengono fatti passare per principi, all’originedei valori, ci dice Nietzsche, è sempre la gerarchia. All’origine del-la valutazione è sempre una gerarchia tra le forze, non a caso scriveDeleuze, il valore e la valutazione sono compito della genealogia.Da questo punto di vista il merito, l’aspirazione ad eccellere, per ci-tare Nietzsche, in generale quell’ordine di valori morali superioriattraverso il quale il capitale promette di compensare la messa a va-lore del tempo con un’utilità rimanda sempre a un ordine dialetti-co entro il quale il capitale si pone come il punto di vista di ap-prezzamento dal quale dipende il valore di tutti i valori. Durante

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5 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, LaNuova Italia, Firenze 1968-70, vol. II, p. 389.

6 Ibidem.7 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Milano 1978, p. 23.

pitalistica e stato per lasciarlo dietro sé. In questo contesto quellostrano incontro per cui il “libero proprietario della propria capaci-tà di lavoro, della propria persona” si incontra sul mercato con ilpossessore di denaro “e i due entrano in rapporto reciproco comepossessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno com-pratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali”4si fa esotico. L’incontro tra il possessore di denaro e il possessore diforza lavoro è qui sospeso, umiliato dall’altera indifferenza di unadelle due parti. Esiste un duplice processo, in questa esondazione.Per cessare di essere agite e di agire come lavoro astratto, le forzereattive devono non solo rifiutare lo scambio e il suo valore, sot-trarsi all’infinita negoziazione di “giusti” tempi e orari di lavoro.Non si tratta solo di rifiutare le condizioni dello scambio o di ri-bellarsi al primato dei forti sui deboli e dei signori sugli schiavi. Sitratta di trasformarne i valori.

Una cosa simile era avvenuta con il movimento Occupy, dove ilprocesso era forse più nitido da osservare. Gli studenti e i precariche liberavano Wall Street descrivono, infatti, quell’intellettualitàdiffusa nata negli ultimi quarant’anni e soggetta ad una crescentedisoccupazione ed a un crescente indebitamento. Negli ultimi ven-t’anni l’amministrazione statunitense ha vincolato l’accesso al cre-dito a dispositivi continui di valutazione. La trasformazione delwelfare in debtfare, la dipendenza dall’accesso al credito per l’ac-cesso alla riproduzione, ai saperi al sistema pensionistico, al merca-to immobiliare alla sanità, ha imposto un processo di valutazionecontinua. Attraverso la valutazione il capitale misura, enumera,compara e classifica ogni soggetto in modo tale da premiarlo o pu-nirlo, scremando così i meritevoli dai colpevoli, gli individui utili daquelli inutili, i migliori da tutti gli altri. Il “merito” descrive qui lacapacità di costituirsi sulla base di aspettative predeterminate, di-mostrando la propria disposizione a trasformare il tempo libero intempo di lavoro per primeggiare nella competizione al ribasso ditutti contro tutti. Nel 2011 questo processo si è rotto. Non si trat-tava più di erogare la massima quantità di lavoro al minor costopossibile. Si trattava di sottrarre il corpo allo scambio con il posses-sore di denaro, di sottrarre la volontà al suo apprezzamento e diprodurre una nuova volontà capace di ridere di lui come Zarathu-

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4 K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1964, Vol. l, pp. 200-204.

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leuze11, il rapporto differenziale da cui nasce il valore dei valori,quell’idea di vero e falso giusto e sbagliato dietro a cui si cela la vo-lontà più forte di un soggetto interpretatore. Eccoci, dunque, inse-guendo un Marx che indossa gli abiti desueti del genealogista, ritor-nare in quel luogo al riparo dal tempo dove la nascita della gerarchiaci rivela l’origine di tutti i valori.

In un certo senso la lettura che Deleuze dà di Nietzsche ci con-sente di incontrare un altro Marx. L’accumulazione originaria è an-zitutto una storia di espropriazione, scrive Marx nel famoso capito-lo 24 del primo libro del Capitale, è la violenza che separa il pro-duttore dai mezzi di produzione. Ma la storia di espropriazione cheproduce forze dominate e forze dominanti, forze attive e forze reat-tive, possessori di denaro e indigenti ambulanti o vagabondi, ri-manda a una distinzione morale. La gerarchia è effetto del merito edella colpa, dicono le forze dominanti: è la modalità con cui dio siserve del denaro per esprimere un giudizio morale sulla condotta diciascuno. In questo senso, la lettura che Deleuze dà di Nietzsche ciconsente di rileggere l’accumulazione in chiave morale, lo stessoprocesso che compie Marx quando identifica la divisione tra forzedominanti e forze dominate nel peccato originale dell’economia po-litica. “Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa al-l’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia”12, scriveMarx. Non di violenza si tratta, ma di due forze qualitativamentedistinte, “da una parte una élite diligente, intelligente e soprattuttorisparmiatrice”, e dall’altra quell’insieme “di sciagurati oziosi chesperperavano tutto il proprio e anche più”. “E da questo peccatooriginale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non haaltro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, ela ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da grantempo essi abbiano cessato di lavorare”13.

L’origine fissa un punto di vista di apprezzamento nel quale lagerarchia diventa una conseguenza della condotta. La forza che si faobbedire “afferma la propria differenza e ne gioisce”, mentre la for-za costretta ad obbedire rappresenta qualche cosa di cattivo, qual-che cosa “da rettificare, da imbrigliare, da limitare, addirittura da

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11 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 23.12 K. Marx, Il capitale, cit., Libro I, cap. 24, p. 782.13 Ibidem.

tutto il primo capitalismo industriale la presenza di un soggetto in-terpretatore era celata nella produzione di profitto: l’istruzione e ilsalario, in particolare in Occidente, erano presentati come monetadi scambio per la sussunzione – un processo che faceva tornare lerelazioni tra capitale e lavoro continuamente a un punto di media-zione. È sublime, secondo Nietzsche, la volontà di potenza che leforze reattive esprimono nell’adattamento a una volontà più forte,quasi il potere nuovo che le cattura portasse in sé la possibilità diun nuovo divenire attive. È sublime, ma è pur sempre un aborto –l’aborto della volontà di potenza a favore di quella che si chiama“responsabilità”. Nell’epoca neo-liberale tale moneta di scambionon c’è più. Il capitale riduce a zero la parte di valore scambiata conil lavoro e, per dirla con Harvey, cessa di essere responsabile dellariproduzione sociale. In questo contesto, che cosa consente e checosa impedisce un processo di trasvalutazione?

1. L’origine dei valori.

Dobbiamo ritornare all’origine, cioè al momento in cui osser-viamo “l’entrata in scena delle forze, il balzo con il quale dalle quin-te saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è pro-pria”8. Riprendo questa metafora da Sandro Mezzadra9 laddove os-serva una possibile affinità tra il concetto marxiano di origine – Ur-sprung – e ciò che Nietzsche definisce come emergenza – Entste-hung. Dobbiamo ritornare all’origine perché è lì che conosciamo “iprotagonisti del dramma che costituisce la trama storica del mododi produzione capitalistico”10, le forze attive e le forze reattive, leforze dominanti e le forze dominate, insomma quella gerarchia traforze che trasforma una lunga serie di processi di sopraffazione inuna gerarchia. L’origine è sempre la gerarchia tra le forze, è il pro-cesso di sopraffazione da cui deriva la differenza tra le forze. Ma “ladifferenza nell’origine è anche l’origine della differenza”, scrive De-

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8 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del pote-re, Einaudi, Torino 1977, p. 39.

9 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presenteglobale, Ombre corte, Verona 2008.

10 Ivi.

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nasce l’idea della libertà; che degli uomini si impadroniscano di co-se di cui hanno bisogno per vivere, che impongano loro una dura-ta che non hanno, o che le assimilino a forza – ed è la nascita dellalogica. È per questo che in ogni momento della storia si fissa in unrituale. […] Un universo di regole che non è destinato ad addolci-re, bensì a soddisfare la violenza17.

Dietro alle credenze, i sentimenti, i modi di essere, di dire sen-tire e concepire, dietro agli stili di vita inaugurati dall’origine, esistesempre una gerarchia: “modi di esistere di coloro che giudicano evalutano e fungono, appunto, da principi ai valori in base ai qualiquelli giudicano”18. Il problema da porre è, dunque, quale sia l’ori-gine dei valori: quale soggetto si celi dietro al punto di vista di ap-prezzamento in base al quale calcoliamo il valore di tutte le cose.

2. La legge del valore

Nietzsche e Marx scrivevano a pochi anni di distanza, in Ger-mania. A quei tempi “la grande industria stava appena uscendo dal-l’infanzia”, e in modo distinto in tre angoli diversi di Europa Je-vons, Menger e Walras ponevano le basi per il costituirsi dell’eco-nomia in una scienza autonoma pronta a liberarsi dell’aggettivo“politica” dando luogo a quella che generalmente viene definita co-me rivoluzione Jevonsiana del valore. In quel momento l’analisieconomica descrive la produzione non più come spontanea innova-zione dei processi sociali, bensì come funzione di un obiettivo il cuiargomento è l’utilità, aprendo alla matematizzazione del discorsoeconomico e all’individualismo metodologico19. Da questo puntodi vista la nascita dell’economia politica può essere vista come l’af-fermazione di un nuovo punto di vista di apprezzamento, il punto

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17 M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Ei-naudi, Torino 2001, p. 48.

18 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 24.19 Come scrivono Ranchetti e Lunghini, la rivoluzione del valore “nega

che il valore delle merci dipenda da loro proprietà intrinseche: esso dipende-rebbe invece dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudinedei beni economici di soddisfare i bisogni”. G. Lunghini e F. Ranchetti, Teoriedel valore, Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, Milano 1998.

negare, da sopprimere”14. In questo senso la volontà di potenza chesi afferma nella gerarchia come elemento genealogico della forza edelle forze – l’elemento qualitativo che determina la differenza trale forze, afferma anche il punto di vista di apprezzamento sulla cuibase stimare i fenomeni. La forza dominante incarna la vittoria, ilmerito, l’eccellenza, mentre la forza dominata incarna il peccato, lacattiva condotta e la colpa, in una relazione dialettica che descrive lastoria attraverso la voce delle forze dominanti, e identifica le forzedominanti nell’incarnazione stessa del progresso: l’avanguardia in-caricata di separare la preistoria dalla storia, l’antichità dal futuro e“gettare dietro di sé uno sguardo da fine del mondo”15.

Sarebbe interessante guardare il ripetersi quotidiano dell’accu-mulazione da un punto di vista morale a partire dall’alba del capita-lismo, vedere in altre parole in che modo la violenza della sopraffa-zione si inscrive nei corpi a definire non tanto l’origine della pro-prietà quanto l’origine del bene e del male, della buona e della cat-tiva condotta. Fanon non a caso si sofferma a lungo sull’indecidibi-lità del vero e del falso, in colonia. In colonia “la struttura diviene lasovrastruttura”, scrive. “La causa diventa la conseguenza, si è ricchiperché si è bianchi e si è bianchi perché si è ricchi”. Il potere colo-niale tesse un legame molto stretto con la morale sovvertendo cosìle coordinate mentali dell’indigeno. Celebra le forze dominanti nei“monumenti intellettuali immutabili”, nell’istruzione, la letteratura,le università, mentre l’indigeno “finisce per riconoscere, seppure adenti stretti, che Dio non sta dalla sua parte”16.

“In un certo senso, l’opera recitata su questo teatro senza luogoè sempre la stessa”, scrive Foucault.

È quella che ripetono indefinitamente i dominatori e i domina-ti. Che degli uomini dominino altri uomini, ed ecco che nasce ladifferenziazione dei valori; che delle classi dominino altre classi, e

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14 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 54.15 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del pote-

re, Einaudi, Torino 1977, p. 44.16 F. Fanon, I dannati della terra (1961), Einaudi, Torino 2007, p. 7. Su

questo anche M. Mellino, Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi, Om-bre Corte, Verona 2012, e al suo interno il saggio di S. Visentin, Trasformazio-ni della Verwandlung. Rileggere l’accumulazione originaria attraverso Fanon,pp. 75-89.

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le parole di Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. “Un’interpretazio-ne di determinati fenomeni, o per parlare con maggior precisione,una falsa interpretazione”21. Non solo il concetto di valore, dun-que, ma il senso stesso delle cose è in discussione: la finalità che es-se fanno proprie in base alla forza che le cattura. Al posto della vitavive dunque ora il lavoro astratto, vita riconducibile a una scala nu-merica e quantitativa come costante antropologica della rappresen-tazione aritmetica del lavoro22.

Da questo punto di vista l’epoca industriale appare un traguar-do antropologico esotico. Nel concetto di valore e nel concetto dilavoro astratto si nasconde una società sradicata dai commons. Unasocietà in cui il ritmo della monetizzazione cresce insieme all’im-possibilità di accedere direttamente alla riproduzione. Ecco che nelprimo capitalismo industriale “la nozione di lavoro astratto divienequasi una categoria naturale, una semplice astrazione mentale, libe-ra da tutte le caratteristiche che, dall’alienazione mercantile all’e-spropriazione dell’atto del lavoratore, ne fanno una categoria speci-fica del capitalismo”23. Nell’introduzione del 1857 ai GrundrisseMarx descriveva non a caso il lavoro astratto come il punto di par-tenza dell’economia politica moderna e fattualità stessa del sogget-to produttivo. La domanda che a lungo ha ossessionato Nietzsche èdunque perché il soggetto abdica la propria volontà e si costituiscesulla base di valori altri. Perché una forza accetta di essere nuova-mente catturata a nuovi propositi, nuovamente sequestrata e adatta-

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21 “La morale è soltanto un’interpretazione di determinati fenomeni, o perparlare con maggior precisione, una falsa interpretazione. [...] In questo senso,il giudizio morale non è mai da prendersi alla lettera [...] Come semiotica, tut-tavia, resta inestimabile: esso rivela, almeno per il sapiente, le più preziose real-tà della civiltà e delle interiorità, che non sapevano abbastanza per «compren-dere» se stesse. La morale è un mero discorso per segni, una mera sintomato-logia: si deve già sapere di che si tratta, per trarre da essa un vantaggio”. F.Nietzsche, «Quelli che migliorano» l’umanità, in Crepuscolo degli idoli. O co-me si filosofa col martello, Adelphi, Milano 2005, § 1, p. 66.

22 “The arithmetical presentation assumes abstract labor: that is, it assumesthat labor power as an anthropological constant. Human beings are already ex-changeable as different deposits of labor power and thus capitalism is alwayspossible”, J. Read, Primitive Accumulation: The Aleatory Foundation of Capi-talism, «Rethinking Marxism», vol. 14, n. 2, Summer 2002, p. 44.

23 C. Vercellone, La legge del valore nel passaggio dal capitalismo indu-striale al nuovo capitalismo, 27 agosto 2012, www.uninomade.org/vercellone-legge-valore

di vista di un nuovo soggetto capace di affermarsi come mediatorenella relazione tra gli individui e di interpretare la corporeità uma-na come la sua stessa composizione organica. Quanto definiamo co-me capitale sociale descrive questo: l’epoca in cui il denaro si ponecome mediatore nella relazione tra gli individui descrivendo il valo-re di ciascun individuo a partire dalla moneta. Si tratta di una cesu-ra storica: il valore non è più intrinseco a ciascuna merce ma si espri-me come frazione di un’unità di misura universalmente applicabile.

È lo stesso Marx nel poscritto alla seconda edizione de Il capi-tale datata 24 gennaio 1873, che ci offre gli elementi per interpreta-re l’economia politica come il risultato dell’affermazione di un pun-to di vista di apprezzamento nuovo. L’economia non è una scienza,scrive Marx nel poscritto alla seconda edizione del Capitale. Può ri-manere scienza soltanto fino a quando riflette i valori di uno speci-fico soggetto interpretatore.

L’economia politica, in quanto è borghese, e cioè in quantoconcepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado disvolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso comeforma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanerescienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si mani-festa soltanto in fenomeni isolati.

Non esiste la scienza come tale, sembra dire Marx. Quantochiamiamo scienza descrive la modalità con cui un’interpretazionesi afferma quale punto di vista di apprezzamento universale. Lascienza è una “sintomatologia” e una “semiologia”, potremmo direcon Nietzsche. Descrive un processo di cattura, appropriazione egestione di una porzione di realtà. Non di scienza, stiamo parlandoma di un processo di sopraffazione all’interno del quale le forze piùpotenti catturano delle altre il nome e la funzione. Anche in questocaso è difficile non incontrare Nietzsche nelle parole di Marx: nondi scienza stiamo parlando ma di una generale tendenza verso l’in-differenziato volta in ultima istanza a “neutralizzare le disegua-glianze”20, a negare le differenze e a trasformare la vita in una mate-ria riconducibile a una scala numerica e quantitativa.

Il concetto stesso di lavoro astratto, in questo contesto, descri-ve una sintomatologia. Un mero discorso per segni, per riprendere

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20 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 78.

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Nietzsche rintraccia l’aborto della volontà in tutto ciò che stu-diava: dal salario all’istruzione, i suoi obiettivi polemici principali.

Il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’edu-care uomini quanto più possibile “correnti”, nel senso in cui sichiama “corrente” una moneta. Quanto più numerosi saranno taliuomini correnti, tanto più felice sarà un popolo. E il fine dellescuole moderne dovrà essere proprio questo: far progredire ogniindividuo nella misura in cui la sua natura gli permette di diventare“corrente”, sviluppare ogni individuo in modo tale che dalla suaquantità di conoscenza e di sapere egli tragga la più grande quantitàpossibile di felicità e di guadagno28.

Il problema per Nietzsche era il desiderio degli schiavi di dive-nire “correnti”, ciò che circola: moneta. Per dirla con Deleuze, ilproblema è la modalità con cui lo schiavo non concepisce la poten-za “se non come oggetto di riconoscimento, materia di una rappre-sentazione, posta in palio di una competizione”29, e la fa discende-re come esito di uno scontro il cui premio è una semplice attribu-zione di valori stabiliti. La produzione di soggettività produttive inquesto senso, l’incarnazione di valori riconoscibili assume un aspet-to da un lato coercitivo e dall’altro mimetico: vendersi è la buonacondotta dal punto di vista morale, uno scambio velato di cattivacoscienza e di utilità.

Siamo sempre all’interno di una relazione dialettica. La subor-dinazione del nobile all’utile, dell’affermazione della prudenza, del-l’intelletto calcolatore al posto del coraggio o del vigore vitale sonoper Nietzsche la vergogna dello schiavo. Solo lo schiavo può sosti-tuire ai rapporti reali un punto di vista che li esprima tutti, come una“misura”30. Solo uno schiavo vende la propria volontà per una mo-neta di scambio. Solo lo schiavo pensa in termini di utilità.

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28 F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, in Opere di FriedrichNietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Mila-no 19903, Vol. III, t. II, p. 109.

29 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 16.30 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 114. “La morale degli schia-

vi è essenzialmente morale utilitaria”, scrive Nietzsche in Al di là del bene e delmale. “La morale utilitaria tende sempre a sostituire ai rapporti reali un puntodi vista che li esprima tutti, come una ‘misura’”.

ta a nuove utilità?. Che cosa mai, chiede dunque Nietzsche. “Chimai? Dovresti chiedere”. Per Nietzsche la parola “chi” significaquali forze si sono impadronite del senso di ogni cosa, chi si na-sconde in loro?24 Ecco che nel passaggio da ciò che una forza “è già”a ciò che essa “non è ancora”, per riprendere Pierre Macherey25;dall’Abreitskraft all’Arbeitsvermöngen, dal corpo attuale al corpovirtuale, scrive Legrand, compare un’altra volontà, una volontà piùpotente capace di misurare l’azione altrui dal punto di vista del be-neficio che ne può trarre, un terzo passivo che calcola il valore diogni oggetto sulla base dell’utilità che questa fornirà a lui.

Nietzsche si sofferma con attenzione questo processo di cattu-ra, il processo per cui la forza reattiva abdica la propria volontà e sicostituisce sulla base di valori altri. Nietzsche non accetta l’adatta-mento. È disgustato dalla volontà adattiva delle forze reattive, ne harepulsione. “È obbrobrioso credere che attraverso un più elevatosalario la sostanza della lor miseria, voglio dire la loro impersonalecondizione servile, possa essere eliminata!”, scrive. “È obbrobriosocredere che possa essere trasformata in virtù”26. “Ahimè, l’uomo ri-torna eternamente! Il piccolo uomo ritorna eternamente!’ Oh, schi-fo! schifo! schifo!”27.

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24 “‘Cosa mai?’, chiesi io incuriosito. ‘Chi mai? Dovresti chiedere’. Cosìparlò Dioniso, e tacque quindi nel modo che gli è proprio, e cioè in manieratentatrice”, F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1885-1887, Aldelphi, Milano1975, p. 66; G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 114.

25 S. Legrand, Les normes chez Foucault, Puf, Paris 2007, ripreso in Ma-cherey P., Il soggetto produttivo, Ombre Corte, Verona 2014, p. 47.

26 “Povero lieto e indipendente!”, dirà Nietzsche, “queste cose insieme so-no possibili; povero lieto e schiavo! – anche queste sono possibili, e, della schia-vitù di fabbrica non avrei dire nulla di meglio agli operai, posto che essi non sen-tano in generale come ignominia il venire in tal modo adoperati, ed è quello chesuccede, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come accessori del-l’umana inventività tecnica. È obbrobrioso credere che attraverso un più eleva-to salario la sostanza della lor miseria, voglio dire la loro impersonale condizio-ne servile, possa essere eliminata! È obbrobrioso farsi convincere che attraversoun potenziamento di questa impersonalità all’interno del convegno meccanicodi una nuova società l’ignominia della schiavitù possa essere trasformata in vir-tù! È obbrobrioso avere un prezzo, per il quale non si resta più persone, ma sidiventa ingranaggi. Non siete voi i cospiratori, nell’attuale pagliacciata delle na-zioni che vogliono soprattutto produrre il più possibile ed essere il più possibi-le ricche? ”, F. Nietzsche, Aurora, Adelphi, Milano 2010, pp. 152-153.

27 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p. 267.

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sempre un punto di vista altro, un soggetto che quantifica le azionialtrui dal punto di vista dell’utilità che ne può derivare.

A guardare in profondità, Nietzsche ha però un atteggiamentoambivalente sull’aborto della volontà. «Il divenire reattivo delle for-ze ha un che di prodigioso e pericoloso”37, scrive Deleuze, perchéda un certo punto di vista è volontà di potenza che in questo scam-bio le forze reattive dimostrano. «La forza reattiva è forza utilitariadi adattamento e parziale limitazione”38, scrive Deleuze. «È forzaseparata da ciò che è in suo potere, forza che si nega o si volge con-tro se stessa”. «Per altro verso tuttavia questa rinuncia rivela unanuova potenza, fornisce una nuova volontà di cui posso impadro-nirmi per spingermi al limite di uno strano potere”39. È qui che De-leuze definisce ambivalente l’atteggiamento di Nietzsche verso ilprocesso di adattamento delle forze reattive. È sublime, infatti, se-condo lui, la volontà di potenza che esse esprimono nell’adatta-mento, quasi il potere nuovo che esso fornisce loro portasse in sé lapossibilità di una nuova soglia da varcare, il presupposto di un nuo-vo divenire attivo. Non si tratta solo di non concepire la potenza senon come oggetto di riconoscimento, ma di accedere a una potenzapiù grande. In questo senso l’aspirazione ad eccellere è la quintes-senza del desiderio dello schiavo. Descrive quell’ordine di valori su-periori al quale la forza reattiva ambisce per celare la propria bas-sezza. Aspirare ad eccellere significa desiderare che «il prossimo,esteriormente o interiormente, soffra di noi”40, scriveva. Significaaspirare a quella «lunga serie di gradi di sopraffazione segretamen-te bramata”41, quel connubio di smorfie, raffinatezza e “morbosaidealità” che non a caso è «quasi simile a una storia della cultura”42.Dunque: «far del male ad altri per far del male, con ciò, a se stessi,per trionfare così di nuovo sopra se stessi e la propria pietà e per an-negare nell’orgia dell’estrema potenza!”43. Si scusa quasi, Nietz-sche, per la sua eccitazione, per la seduzione orgiastica della volon-tà di potenza, ma tale era la sua ricerca che non sapeva trattenersi, la

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37 Ivi, p. 98 ss.38 Ibidem.39 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 99.40 F. Nietzsche, Aurora, cit., pp. 82-83.41 Ibidem.42 Ibidem.43 Ibidem.

“Si deve escludere pessimisticamente una volta per tutte propriola prospettiva di un riscatto definitivo”31, scrive Nietzsche. “Losguardo deve ritrarsi tristemente davanti a una ferrea impossibilità”;“ora quei concetti di colpa e di dovere debbono volgersi all’indie-tro”32 contro il debitore stesso. Lo schiavo, per Nietzsche, è esatta-mente questo, è colui che ha guardato troppo a lungo le sue ten-denze naturali con “occhio cattivo”, sino a che queste “hanno fini-to per legarsi strettamente alla cattiva coscienza” ovvero a tuttequelle tendenze “innaturali”, “contrarie al senso, all’istinto, alla na-tura, all’animalità, in breve tutti gli ideali che sono esistiti sino a og-gi, ideali che sono tutti ostili alla vita, ideali che denigrano il mon-do”33. Ecco che lo schiavo fa proprio il punto di vista delle forzedominanti: fa propria la colpa, la responsabilità, la “sacralità del do-vere”, e diventa un animale che “sa promettere”, “necessario, uni-forme, uguale tra gli uguali, conforme alla regola e di conseguenzaprevedibile”34.

Nietzsche vedeva sempre l’utilitarismo dietro alla morale. Sa-rebbe precipitoso scriveva Deleuze definire l’utilitarismo una dot-trina superata. “In primo luogo, se lo è, lo si deve in parte a Nietz-sche. E poi succede che una dottrina non si lasci superare, se non acondizione di estendere i propri principi, di farne dei postulati bennascosti nelle dottrine dalle quali viene superata”35. Ancora unavolta il punto non è tanto l’utilitarismo in sé. Il punto è che il con-cetto di utilità rimanda sempre a un soggetto capace di interpretarel’azione altrui come qualcosa da valutare dal punto di vista del be-neficio che se ne può trarre. L’inquadramento dell’utilità nella filo-sofia di Nietzsche evidenzia dunque una specie di cattura, una vo-lontà più potente che separa la forza da ciò che è in suo potere e leregala un nome un uso uno scopo una finalità. La stessa morale insé nasconde il punto di vista utilitaristico, puntualizza Deleuze, inquanto tutte le qualità descritte dalla morale, bene e male, buono ecattivo, nascondono un soggetto che rivendica un interesse perazioni che non compie36. L’utilitarismo in questo senso presuppone

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31 F. Nietzsche, Genealogia della morale, 2.23.32 Ibidem.33 Ibidem.34 Ibidem.35 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 110.36 Ivi, p. 178.

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La celebre formula generale del Capitale di Marx D-M-D’ comeespressione della modalità antagonistica con cui il capitale tenta diaumentare incessantemente la quantità di plus-valore sottratto al la-voro descrive una specie di guerra la cui posta in palio è la cattura ela gestione della realtà – se vogliamo, del senso stesso dell’esistenza.Di fatto, siamo di fronte a una guerra tra punti di vista di apprezza-mento antagonistici che non a caso suggeriscono una lettura dellarealtà opposta – come un’immagine rovesciata. Per il soggetto chevende la sua forza lavoro, il punto è liberare il tempo per lo “svi-luppo delle individualità, e dunque [...] in generale la riduzione dellavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poila formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individuigrazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro”47.Per il possessore di denaro, il punto è catturare la vita a nuovi pro-positi, nuovamente manipolarla e usarla come una risorsa estrattivainadeguata a godere della prosperità che essa stessa ha prodotto.

3. La crisi della legge del valore

Durante il capitalismo industriale la volontà affermativa dellaforza che produce è ricondotta all’interno della volontà del capitalegrazie a una produzione di plusvalore capace di fungere da monetadi scambio per la sussunzione, abbiamo detto. In questo senso lademocrazia liberale e i governi rappresentativi avevano, specie inOccidente, un onere distributivo al quale erano continuamente ri-chiamate dalle lotte e dai conflitti sociali. Di fatto, la negoziazionetra interessi conflittuali era in buona parte possibile grazie alle spro-porzioni – “senza una sproporzionata dilatazione del credito nes-suna capacità moltiplicativa del sistema industriale, senza una spro-porzionata crescita della composizione organica del capitale nessunaumento della massa del profitto, senza uno sproporzionato au-

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economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. [...] Io esigo quindiuna giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza fare appello altuo cuore, perché in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. [...]Esigo la giornata lavorativa normale, perché esigo il valore della mia merce, co-me ogni altro venditore”. K. Marx, Il capitale, libro I, sez. III, cap. 8.

47 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,cit., p. 389.

brama per quel luogo in cui lo schiavo finalmente trionfa “nello spi-rituale eccesso della libidine di potenza”44.

Sarà ora più semplice rispondere a chi chiede cosa possiamo rin-venire dietro al divenire reattivo delle forze. Dietro al divenire reat-tivo delle forze rinveniamo un mondo diviso tra l’alto e il basso, cie-lo e inferno, bene e male, un mondo caratterizzato dai valori mora-li superiori tipici della dialettica moderna e dell’ideologia cristiana,lo stesso mondo che Bataille prendeva in giro quando celebrava l’al-luce o gli alti monumenti delle forze dominanti. In questo mondole forze dominanti incarnano la vittoria, il merito, la virtù, l’eccel-lenza mentre le forze dominate descrivono il peccato, la colpa ciòche va rettificato, imbrigliato, soppresso. Per quanto patetica possasembrare ai nostri occhi tale relazione dialettica, vero è che a lungoessa ha descritto non solo un rapporto sociale, ma una direzionali-tà precisa per l’evoluzione umana. Non è il caso qui di ripensare atutte le polemiche sul concetto marxiano di modernità, diciamo so-lo che il capitale si è sempre servito della dialettica non solo per op-primere, ma per incarnare la promessa del progresso, dell’emanci-pazione della liberazione o finalmente della potenza. Il capitale nonsi presenta solamente “come misura e come sistema”, scriveva ToniNegri, si presenta come “progresso”45. Questa definizione è essen-ziale per la sua legittimazione interna ed esterna, continuava, comeluce che tinge gli inferi di grazia.

In un certo senso è questo che si cela dietro il concetto di misu-ra. Marx descriveva la misura del valore come la risultante di un rap-porto antagonistico: il processo per cui “il capitalista”, scrive Marx,“cercava di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa men-tre il venditore cercava di ridurla ad una grandezza determinata”46.

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44 Ibidem.45 “Capital not only presents itself as measure and as system, it presents it-

self as progress. This definition is essential to its internal and external legitima-tion. [...] Progress is the eternal return lit-up by a flash of a now-time (Jetzt-Zeit). Administration is illuminated by charisma. The city of the devil is illu-minated by grace”, cfr. A. Negri, Time for Revolution, Continuum Publishers,London 2003, p. 108.

46 “A te dunque appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana. Ma,col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente, poterla ri-produrre, per poterla tornare a vendere. [...] Tu mi predichi continuamente ilvangelo della ‘parsimonia’ e della ‘astinenza’. Ebbene: voglio amministrare ilmio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso

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precarietà e disoccupazione vivono in forma relativamente autono-ma fuori dal processo produttivo.

Siamo di fronte a un’inversione, o forse a una separazione.

al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diven-ta un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto del capitale diventaun ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. Giun-to a questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone,rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produt-tive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù del-la gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta una catena, viene nec-essariamente eliminato. […] Questa è, sotto ogni aspetto, la leggepiù importante della moderna economia politica, e la più essenzialeper comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storicoè la legge più importante. È una legge che, ad onta della sua sem-plicità, non è stata finora mai compresa e tantomeno espressa con-sapevolmente51.

Al di là di un certo punto, il processo di negoziazione del valo-re che descriveva l’epoca industriale si rompe. Come un’immaginecapovolta la svalorizzazione del lavoro si riflette nel luccichio dellaricchezza privata e l’enorme sviluppo delle forze produttive si ri-flette nell’utilizzo della vita come risorsa estrattiva. Quanto Vercel-lone52 descrive come il divorzio tra la logica del valore e quella del-la ricchezza si estrinseca in due soggettività pienamente sviluppateche si confrontano come punti di vista di apprezzamento antagoni-stici ai margini del processo produttivo. Da un lato il capitale nellasua forma molare: il creditore universale e il governo centrale dellaliquidità, la manifestazione stessa della gerarchia. Dall’altro un’in-tellettualità diffusa che rivendica non solo la condivisione della ric-chezza ma una rottura etico-politica con quel mondo dialettico di-viso tra forze dominanti e forze dominate contro il quale si scaglia-no i movimenti degli anni Sessanta e Settanta.

In questo contesto ciò che osserviamo è precisamente un pas-saggio da Marx a Nietzsche: un capovolgimento di novanta gradi in

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51 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,La Nuova Italia, Firenze 1968, II, p. 460.

52 C. Vercellone, La legge del valore nel passaggio dal capitalismo indu-striale al nuovo capitalismo, cit.

mento del plus-lavoro nessun controllo sul lavoro necessario”48. Ilconcetto di sproporzione è intrinseco al capitalismo industriale –solo sulla sproporzione, in particolare sulla sproporzione fra plus-lavoro e lavoro necessario, si gioca la possibilità di estrazione diplus-valore e solo tale plusvalore consente un accordo temporaneotra interessi conflittuali. È questa visione di progresso che il capita-le incarna che spinge le forze produttive a uscire dalla propria con-dizione di inerzia, “e in tal modo crea gli elementi materiali per losviluppo di una individualità ricca il cui lavoro non si presenta nem-meno più come lavoro”, in quanto la necessità naturale nella suaforma immediata è scomparsa. “Per questo il capitale è produttivo;è una relazione essenziale per lo sviluppo delle forze produttive.Cessa di esistere come tale solamente quando lo sviluppo di questeforze trova un limite nel capitale stesso”49. In questo contesto il ca-pitale funziona come un’esca, potremmo dire. È la promessa di pro-gresso che cattura il desiderio delle forze produttive. Una catturache sussiste sino a quando lo sviluppo del capitale e lo sviluppo del-le forze produttive non entrano tra loro in contraddizione.

La fine del capitalismo industriale mette in crisi tutto questo.Alla fine dell’epoca fordista, l’enorme aumento della composizionetecnica e organica del capitale riduce il saggio di profitto anche se losfruttamento del lavoro sale, scrive Marx. Ciò che lentamente si sta-glia davanti agli occhi è il capitale come capitale, un soggetto cheesiste nel suo pieno sviluppo quando sussume a sé le condizioni del-la riproduzione sociale. Durante le crisi il capitale diviene visibile,scrive Marx: non è più direttamente coinvolto nel processo di pro-duzione ma “compare in forma (relativamente) autonoma come de-naro al di fuori di esso”50. Anche le forze produttive non sono piùdirettamente coinvolte nel processo di produzione: lavoro gratuito,

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48 S. Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, Derive Approdi,Roma 2012, p. 31.

49 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,La Nuova Italia, Firenze 1968, I, p. 278.

50K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,La Nuova Italia, Firenze 1968, II, p. 16: “nella crisi generale di sovrapprodu-zione la contraddizione non è tra le diverse specie di capitale produttivo, ma tracapitale industriale e capitale di prestito, ossia tra il capitale direttamente coin-volto nel processo di produzione e il capitale che compare in forma (relativa-mente) autonoma come denaro al di fuori di esso”.

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dalla merce la moneta si rivela come il punto di vista di apprezza-mento di una gerarchia economica al cui vertice siedono i pochioperatori finanziari in grado di controllare i flussi finanziari globa-li. La moneta in questo senso come quintessenza del capitale ci por-ta ai vertici di una gerarchia situata nel cuore dei mercati finanziari.Di fatto, siamo nel pieno sviluppo del capitale, quel processo percui, scrive Marx, “Il capitale raggiunge il suo più alto sviluppoquando le condizioni generali del processo sociale di produzionenon vengono create traendole dal prelievo del reddito sociale, dalleimposte pubbliche – dove è il reddito, e non il capitale, che figuracome labour funds, e l’operaio, pur essendo operaio salariato liberocome chiunque altro, tuttavia dal punto di vista economico è in unrapporto diverso –, ma dal capitale in quanto capitale. Ciò denun-cia da un lato il grado in cui il capitale ha subordinato a sé tutte lecondizioni della produzione sociale, e perciò, dall’altro, il grado incui la ricchezza riproduttiva sociale è capitalizzata e tutti i bisognivengono soddisfatti nella forma dello scambio”54. Se la rivelazionedella moneta dovrebbe ora aiutarci a individuare il soggetto incari-cato di stabilire il valore di ogni cosa, la difficoltà deriva dal fattoche, per citare Orléan, “alla base di tutte le crisi, si osserva una rot-tura della convenzione di valutazione, che conduce a rendere la sti-ma di numerose attività soggetta a cautela”55. La crisi, in altre paro-le, descrive una “rottura nella convenzione di valutazione che per-turba completamente le relazioni strategiche tra attori finanziari.Non si sa più rispondere a questa semplice domanda: quanto valeoggi un titolo che valeva 100 ieri? O meglio: quanto stimano gli al-tri investitori questo titolo che valeva 100 ieri?”56 Ciò che Orléandefinisce “autoreferenzialità” dei mercati rimanda in ultima analisial fatto che la fine del tempo di lavoro come misura del valore hamesso in discussione non tanto “la capacità individuale di valuta-zione del rischio quanto il fatto di non disporre di un riferimentocomune, accettato dal mercato, ossia di una convenzione di valuta-

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http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/Materia-le%20sul%20sito%20del%20corso/Parte%202a%20-%20Teorie%20del-la%20moneta.pdf

54 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,cit., q.V, f.24 ss.

55 A. Orléan, Dall’euforia al panico, Ombre Corte, Verona 2010, p. 75.56 Ibidem.

cui il conflitto si basa non più tanto sull’appropriazione del valorema sull’affermazione dei valori. Il rompicapo del capitale è come ri-produrre la vita come risorsa estrattiva nonostante la fine della scar-sità; come trasformare il tempo libero in tempo di lavoro nonostan-te il lavoro produttivo (non riproduttivo) in sé sia diventato, in li-nea tendenziale, superfluo; come impedire che le forze produttiveutilizzino il sapere per una finalità affermativa. Per le forze produt-tive il problema è un altro. Ora che il salario non è più la moneta discambio della sussunzione; ora che il terreno di mediazione tra ca-pitale e lavoro, quello che nel primo capitalismo industriale coinci-deva con la negoziazione della forma salario, del tempo di lavoro edell’istruzione di massa, la prima e magra concessione del capitale,scriveva Marx, viene meno, torniamo alla domanda iniziale: che co-sa consente e che cosa impedisce un processo di trasvalutazione?

4. La valutazione

Abbiamo detto che nelle crisi di sovrapproduzione il capitalenon è più direttamente coinvolto nel processo di produzione macompare in forma (relativamente) autonoma come denaro al di fuo-ri di esso. E che qui la sproporzione si trasforma in crisi: crisi nellarelazione tra domanda e offerta rispetto alla capacità di assorbi-mento del mercato; crisi nella svalorizzazione del lavoro che nondiventa profitto; crisi tra la potenza produttiva del general intellectinteso come conoscenza diffusa e sapere incarnato nei corpi. Oranon vi è più un accordo temporaneo tra interessi conflittuali. Esi-stono due soggettività distinte che dipendono per la propria so-pravvivenza dalla cattura dell’altra forza come parte di sé.

Per parlare di valutazione dobbiamo partire da questo elemen-to: dalla relativa autonomia del denaro al di fuori dal processo pro-duttivo. Dire che il denaro si sposta in modo relativamente autono-mo al di fuori dal processo produttivo significa già riconoscere allamoneta il ruolo di riserva di valore e moneta credito, un ruolo checi riporta alla fine di Bretton Woods come sintomo, se vogliamo,della crisi del tempo di lavoro come misura del valore53. Sganciata

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53 Su questo, particolarmente utile, A. Fumagalli (con il contributo di S.Lucarelli e Luca P. Merlino), Lezioni di teoria della moneta, disponibile qui:

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valutazione descrive il tentativo di sopperire all’incertezza dei mer-cati finanziari affermando i criteri in base ai quali selezionare le op-portunità di investimento su cui allocare il credito. La valutazionecome abbiamo detto descrive qui non tanto il tentativo di misurareil valore, bensì il tentativo di affermare i valori. Per valutazione siintende il processo attraverso il quale il capitale classifica, ordina ecompara le opportunità di investimento nel momento stesso in cuila moneta si smaterializza. A partire dagli anni Settanta, dunque, lariforma globale della governance affianca la nascita di un governocentrale della liquidità all’istituzione di agenzie preposte ad esten-dere alla sfera pubblica le finalità di efficacia ed efficienza tipichedella corporate accountability nel tentativo di stimare il valore pro-dotto da tutti quei servizi pubblici che caratterizzavano la societàwelfarista e keynesiana del secondo dopoguerra. Volendo ritornareall’idea espressa da Marx nel III libero del capitale e ripresa poi daGramsci, la risposta alla crisi dell’epoca fordista è qui precisamenteaumentare lo sfruttamento: imporre, in altre parole la crescita dellaproduttività e la riduzione del costo del lavoro nel tentativo di sop-perire alla caduta del saggio di profitto. In questo contesto la rifor-ma della governance ha come proprio bersaglio precisamente la for-ma salario e il patto sociale che con essa si era venuto a costituire neltentativo di compensare con il controllo della produttività la ridu-zione dei profitti. Così nelle fabbriche la valutazione si presenta co-me dispositivo di inquadramento alternativo alla contrattazione na-zionale che consentiva di ripensare il salario sulla base di criteri de-finiti di tipo premiale, che nella sostanza trasferivano sul lavoro par-te della crisi di accumulazione dell’epoca fordista. Il salario, in que-sto contesto, diviene legato strettamente alla performance, allaquantità di lavoro erogata dal singolo operaio e dalla sua unità pro-duttiva tant’è che veniva interpretato come uno strumento in ulti-ma analisi antisindacale, “utilizzato (anche in termini salariali) comecorrettivo di riconoscimento della qualificazione e della competen-za dei lavoratori”60. Lo stesso principio vale per il finanziamento al-la Pubblica Amministrazione dove il credito diventa legittimo neilimiti in cui consente una possibilità di valorizzazione. Nel passag-gio dalla sproporzione alla crisi dunque il New Public Managementdiventa il paradigma di gestione del settore pubblico che estende al-

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60 B. Trentin, A proposito di merito, «l’Unità», 13 luglio 2006.

zione”57. In questo momento non ci interessa in particolare l’effet-to di questo processo, l’inevitabile condizione strutturale di flut-tuazione e incertezza nei mercati. Ci interessa il passaggio prece-dente, ovvero quali parametri, quali convenzioni, riferimenti co-muni, quale ordine di valori morali vengono mobilitati per elabo-rare una convenzione di valutazione che possa essere consideratalegittima. Il punto è duplice. Il primo punto è la modalità con il ca-pitale sopperisce alla crisi della razionalità progressiva dell’epocaindustriale, in un processo volto in ultima analisi a negare la dis-continuità dell’epoca fordista – a negare in altre parole la crisi di unmodello di accumulazione e le sue ragioni attraverso un processodi produzione di denaro a mezzo di denaro, ciò che Vercellone hadefinito il divenire rendita del profitto. Il secondo punto sono leimplicazioni che tutto questo ha sulla soggettività – quale sia l’im-patto sulla vita di una rendita finanziaria la cui riproducibilità siregge essenzialmente sulla prescrizione della produzione come unobiettivo in sé, una performance che si fa tanto più intensa quantopiù insidiose sono la svalorizzazione del lavoro e l’estrazione di va-lore nelle sfere della riproduzione e della circolazione, il processoper cui l’accesso ai bisogni primari, l’accesso ai saperi all’istruzio-ne alla casa, rappresenta “l’esca per riavviare il processo di valoriz-zazione, producendo forme inedite di sfruttamento della vita degliindividui”58. In questo contesto il nostro rompicapo è in quale mo-do certi valori vengono mobilitati e prodotti come “veri” quandola misura del valore entra in crisi: che cosa viene affermato comevero o falso, colpa o merito e in quale momento tale affermazioneentra in crisi: quand’è che il corpo sociale si fa parresiasta e dissol-ve come falsa la verità del capitale.

Il nostro punto di partenza è dunque la modalità con cui la mo-neta è situata in modo relativamente autonomo al di fuori dal pro-cesso produttivo e funge, per riprendere Lazzarato59, da creditoreuniversale o governo centrale della liquidità. In questo contesto la

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57 Ibidem.58 A. Fumagalli, S. Lucarelli, prefazione a A. Orléan, Dall’euforia al pani-

co, p. 21.59 M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione

neoliberista, Derive Approdi, Roma 2012, p. 54, e M. Lazzarato, Il governodell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi,Roma 2013.

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trollo, ndr.]62, in quanto “la disciplina si è sempre relazionata a del-le monete stampate che riaffermavano l’oro come valore di riferi-mento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modula-zioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differentimonete”63. Qui bisogna chiedersi esattamente cosa si intenda permerito e credito. Entrambi i concetti, infatti, si riferiscono alla mo-neta. Non ha senso parlare di valutazione senza parlare di moneta.Ecco che il merito descrive qui il giudizio di apprezzamento attra-verso il quale il capitale premia la capacità di costituirsi in base allapropria domanda. Attraverso la valutazione la moneta calcola il va-lore di scambio di ogni soggetto e indirizza l’allocazione degli inve-stimenti dove maggiore è l’opportunità di profitto. In questo con-testo, la moneta è il soggetto espropriatore che descrive “il discri-mine economico” tra chi detiene i mezzi di produzione e chi detie-ne solamente la propria forza lavoro, è il simbolo stesso della capa-cità di espropriazione della gerarchia economica. Ma la moneta èanche il soggetto interpretatore che valuta il valore di scambio diciascuno. In questo senso la valutazione traduce il valore di ogni co-sa in moneta, ne riflette le proprietà informative, comunicative. Lamoneta, infine, quale sovrano che può in modo unilaterale allocareil credito là dove si presentano le principali opportunità di profittopremia il merito con il credito e la colpa con la sua negazione. Sem-brerà superfluo fare questo lavoro didattico di traduzione dei con-cetti, ma è esattamente quest’idea di credito al merito che riprodu-ce il capitale facendo leva sulla sua capacità di distinguere ciò che èvero da ciò che falso, mentre utilizza la moneta per obbligare i de-bitori a ricercare l’apprezzamento di chi li ha espropriati.

Ecco che il concetto di merito va problematizzato. In questi an-ni il concetto di merito è stato usato per sostenere la necessità dicontrastare la corruzione delle forze dominanti: il loro nepotismo,la loro corruzione, i loro privilegi. Questa interpretazione tradisceuna impostazione teorica neoclassica retta a tal punto sull’equilibriodei mercati da esternalizzare nella condotta il capro espiatorio del-le proprie contraddizioni. Di fatto, il concetto di merito è stato pen-sato per riportare la fiducia nel mercato nel momento stesso in cui

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62 G. Deleuze, La società del controllo, «L’autre journal», n. 1, maggio1990.

63 Ibidem.

la Pubblica Amministrazione le finalità di produttività ed efficienzatipiche del settore privato, vincolando l’accesso al credito a quellesole strutture capaci di valorizzare gli investimenti del capitale.

Siamo di fronte a un’inversione. Nel momento in cui l’aumentodella composizione tecnica e organica del capitale è tale da rendereil lavoro superfluo, l’impostazione neoclassica obbliga soggetti, og-getti e strutture ad adeguarsi alle esigenze del mercato divenendoesse stesse l’offerta per cui esiste una domanda. In questo contestola moneta diventa la leva attraverso la quale il capitale prescrive allasoggettività di trasformarsi in ciò di cui esso abbisogna e produce ilsoggetto come offerta capace di competere al ribasso per risponde-re alle esigenze della domanda del mercato. La cosa ovviamente èstata particolarmente intensa nelle istituzioni del sapere, per ragio-ni che vedremo. Qui, infatti, la riforma dell’istruzione aveva essen-zialmente uno scopo: produrre il soggetto come un assemblaggio dicompetenze forgiate sulla base della domanda del capitale non-ostante tale domanda fosse in sé sempre più ridotta. Un po’ a ri-chiamare il lavoro del 1973 di Arrow o Spence61, qui la valutazioneinforma gli investitori del valore monetario di ogni soggetto e indi-ca loro su quali investire. Nel momento stesso in cui la moneta sismaterializza, essa sopravvive nei corpi. In questo contesto la valu-tazione adempie essenzialmente al ruolo informativo della moneta:informa del valore di ogni soggetto. Il capitale attribuisce ad ognisoggetto un valore numerico – un rating – sulla base della sua col-locazione in una classifica – un ranking – che indica la sua capacitàdi eccellere in una competizione al ribasso di tutti contro tutti. Do-po aver smantellato la forma salario il sistema di premi celebra i vin-citori di una competizione al ribasso di tutti contro tutti nella qua-le eccellenza descrive il soggetto che come capitale fisso risponde al-le esigenze del capitale.

In generale quanto interessa a noi in questo contesto è la logicadi tutto ciò. Deleuze parlava di “salario al merito”, un concetto cheoggi potremmo parafrasare con la dicitura di “credito al merito”. Èquesto in un certo senso il concetto che meglio esprime la distin-zione tra le due società [la società disciplinare e la società del con-

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61 J. K. Arrow, Higher Education as a filter, «Journal of Public Econo-mics», 1973, vol. 2, issue 3, pages 193-216; Spence Michael, Job Market signa-ling, «The Quarterly Journal of Economics», 87.3, 1973, 355-374.

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to quale strumento di comando capace di selezionare quali saperi,soggetti e strutture sono meritevoli di investimento e quali invecesono destinati all’oscuramento descrive un passaggio centrale con-tro l’uso del sapere come pratica affermativa. La riforma dell’istru-zione da questo punto di vista aveva essenzialmente questo scopo:produrre il soggetto come un assemblaggio di competenze obbliga-to a costituirsi sulla base della domanda e a competere al ribasso perricevere l’apprezzamento del capitale nel momento stesso in cui ladomanda non c’è più. Laddove la vita diventa una merce costretta acompetere per l’apprezzamento nel mercato l’università quale sigil-lo del vero e del falso da questo punto di vista diviene la fucina stes-sa della verità del capitale. Il suo ruolo è tradurre ogni cosa in mo-neta nel momento in cui la moneta si smaterializza. Da questo pun-to di vista la pressione con cui la riforma dei saperi ha insistito sul-la valutazione descrive precisamente il tentativo di voler dare unrango alla verità – di affermare certi saperi e certe impostazioni teo-riche come vere – affermando una specifica visione della realtà co-me vera ed efficiente nel momento in cui la sua falsità più è esplici-ta. In questo contesto c’è una sola cosa che il soggetto dovrà fare sevuole “valere qualcosa” ed è competere, incalzato dal fatto che nelmomento in cui nulla più ha valore il concetto del valore sopravvi-ve nel nostro corpo.

Torna qui utile il testo di Marx Appunti su James Mill che Laz-zarato ha ripreso nel suo lavoro. Il credito, scrive Marx, camuffan-dosi di un estremo apprezzamento del soggetto, premia l’individuoche “diventa denaro”65. La transustanziazione della carne in mone-ta, il processo per cui, scrive Marx, il credito si camuffa di un pro-cesso premiale all’interno del quale “il denaro viene incorporato nel-l’individuo stesso”66 seduce il soggetto ad abortire la propria volon-tà per trasformarsi nell’oggetto del desiderio altrui. Non si tratta piùdi un aborto della volontà al quale corrisponde una razionalità pro-gressiva. La fine della razionalità progressiva del capitale ci porta difronte a un’inversione nella quale la cattura delle forze produttivecome opportunità di accumulazione diventa un fine in sé, una que-stione di vita o di morte. In questo contesto, l’individualità umana,

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65 K. Marx (1963), Appunti su James Mill, in K. Marx, Scritti inediti di eco-nomia politica, Editori Riuniti, Roma, pp. 5-27.

66 Ibidem.

la caduta del saggio di profitto dell’epoca industriale la metteva indiscussione. Il suo compito pertanto è fungere da coach motivazio-nale della produttività e della morale lavorista, nel momento in cuii salari iniziano a scendere. Lungi da apportare un beneficio al lavo-ro, tuttavia, il concetto di merito lo frustra, lo riporta in una posi-zione dialettica. Di fatto, l’essenza elusiva del concetto di meritoscompare laddove dietro ad esso si metta a fuoco un soggetto. An-cora una volta dietro al concetto di merito non bisogna chiedere co-sa, bisogna chiedere chi: non “cosa mai”: “chi mai”: quali forze sisono impadronite del significato di questa parola, chi si nasconde inlei? Il merito non è l’arma con cui sconfiggere il privilegio delle for-ze dominanti. È l’arma attraverso la quale le forze dominanti ripor-tano l’altrui volontà all’interno della propria assicurando che la tra-sformazione delle sproporzioni in crisi non metta a rischio la gerar-chia come forma naturale della struttura sociale. Laddove la crisidell’epoca fordista si estrinseca nella contraddizione tra tempo di la-voro superfluo e necessario, produzione e consumo, sapere comepotere e sapere come innovazione64, il credito al merito è lo stru-mento di controllo attraverso il quale il capitale tenta di aumentareil tempo del lavoro superfluo nonostante la riduzione del tempo dilavoro necessario; di disgiungere l’innovazione dallo sviluppo delleforze produttive; di affermare insieme la prosperità e l’inadeguatez-za della vita a goderne. Il merito in questo senso è la quintessenzadella gerarchia: più che liberarsene la ribadisce. Dietro il concetto dimerito vive un soggetto interpretatore che funge da esca per il desi-derio di espansione delle forze dominate e le trasforma in un corpodal quale succhiare valore.

È importante fermarci a ragionare un istante sulle disgiunzioniche il credito al merito tenta di operare. Punto di vista di apprezza-mento sul quale il credito fa leva per riportare la vita in una posi-zione dialettica, non è un caso che il concetto di merito sia stato usa-to principalmente nel campo dei saperi e dell’istruzione. Abbiamogià detto che lo sviluppo delle forze produttive è il simbolo stessodella razionalità progressiva del capitale e il perno su cui poggia tan-to l’emancipazione del capitale dal lavoro quanto l’emancipazionedel lavoro dal capitale. In questo contesto, l’uso del credito al meri-

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64 C. Vercellone, La legge del valore nel passaggio dal capitalismo indu-striale al nuovo capitalismo, cit.

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facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente– la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Daun lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natu-ra, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al finedi rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendentedal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intendemisurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tem-po di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per con-servare come valore il valore già creato69.

Torna qui alla mente il lavoro di Lazzarato quando descrive ilcapitale come creditore universale e il lavoro come una condottamorale volta ad espiare un debito verso l’esistenza. Torna alla men-te Benjamin70, laddove indica nel capitalismo un culto che non offreredenzione ma come unica prospettiva la continua espiazione deldebito e della colpa. Il dispotismo si fa monoteismo, direbbe Deleu-ze, la dialettica moderna si risolve nell’ideologia cristiana. “Il credi-tore non ha ancora prestato mentre il debitore non cessa di rendere,poiché rendere è un dovere, mentre prestare è una facoltà, come nel-la canzone di Lewis Carroll, la lunga canzone del debito infinito: Unuomo può certo richiedere il dovuto, ma quando si tratta di un pre-stito, può allora scegliere il tempo che più gli aggrada”71.

5. Conclusione

Un alieno sbarcato sulla terra probabilmente riderebbe con or-rore della modalità con cui la vita accetta di competere per essereapprezzata dallo stesso soggetto che l’ha espropriata. Quanto sto-nerebbe agli occhi di tale alieno è ciò che spesso sfugge agli studio-si della valutazione qui: la relazione inscindibile tra il valore intesocome plus-valore sottratto al soggetto produttivo nel corso dei se-coli e la valutazione intesa come il giudizio morale del soggettoespropriatore nei confronti di chi l’ha prodotto. In questi anni il

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69 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,La Nuova Italia, Firenze 1968-70, vol. II, pp. 389.

70 W. Benjamin, Il capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013.71 G. Deleuze, F. Guattari, L’ Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it.

Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1975-2002, p. 221 e ss.

la moralità umana, continua ancora Marx, diventa un oggetto dicommercio nel quale la possibilità di riproduzione dipende dalla ca-pacità di prodursi come possibilità di accumulazione. L’antitesi tra ilcreditore e il debitore, laddove il creditore descrive “il discrimineeconomico” tra chi detiene i mezzi di produzione e chi detiene so-lamente la propria forza lavoro, descrive una competizione in cui ilcompito del debitore è dimostrare di eccellere, laddove eccellere si-gnifica dimostrare di essere disposti a farsi sfruttare di più. GiàNietzsche aveva osservato come la relazione di dipendenza tra ilcreditore e il debitore consentisse al primo di infliggere al secondo“ogni genere di offesa e di tortura, per esempio farne tagliare tantaparte quanta riteneva fosse commisurata all’ammontare del debito –e proprio da questo modo di vedere si originarono molto presto edovunque parametri valutativi molto precisi, in parte atroci nei loropiccoli e minutissimi dettagli, valutazioni, opportunamente fissate,per le singole membra e parti del corpo”67. Non cambia oggi la mo-dalità con cui il creditore impone parametri valutativi atroci nei lo-ro piccoli dettagli, ciò che cambia è che esiste un solo creditore dalcui giudizio dipende l’accesso alla riproduzione di ogni altro. Inquesto contesto non vi è moneta di scambio nell’aborto della vo-lontà, nel costituirsi secondo le esigenze del capitale. Vi è la chancedi lusingarlo e di farsi riconoscere da questo come necessari. In un’e-poca in cui il lavoro produttivo diventa superfluo, il segreto per ac-cedere alla riproduzione è dimostrarsi necessari. Dopo aver sman-tellato la forma salario il credito al merito celebra dunque i vincito-ri di una competizione al ribasso di tutti contro tutti nella quale di-mostrarsi meritevoli significa lavorare di più, a minor costo, più infretta. Quasi a parafrasare la provocazione di Joan Robinson del1962 per cui: “la miseria dello sfruttamento capitalistico è nulla ri-spetto alla miseria di chi non è sfruttato per niente”68, merito signi-fica gloria all’auto-sfruttamento. In questo contesto il capitale:

riduce il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro neces-sario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo;

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67 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit.68 J. Robinson, Under capitalism the only thing that is worse than being ex-

ploited by capital is not being exploited by capital, in Economic Philosphy, Pan-guin Books, 1962, p. 46.

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ricatto, è questione di vita o di morte. Ancora una volta, qui tornaancora utile Nietzsche. L’aspirazione ad eccellere non è separabiledalla gerarchia. Il soggetto che aspira ad eccellere fa soffrire ad altritutto ciò che gli altri farebbero altrimenti soffrire a lui. L’aspirazio-ne a eccellere in altre parole appare come l’unica via d’uscita a un ri-catto tra una violenza da subire oppure da esercitare. Sussiste esclu-sivamente in una società dialettica fondata su una razionalità hob-besiana del tipo mors tua, vita mea. L’eccellenza da questo punto divista è il luogo in cui lo schiavo invoca dio e si allea all’ordine di va-lori morali che lo vuole uccidere per liberarsi della sua minaccia.“Quel colpo di genio del cristianesimo”, direbbe allora Nietzsche:“Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, Dio stesso che sirisarcisce di se stesso. Dio come l’unico che possa riscattare l’uomoda ciò che per l’uomo stesso non è più riscattabile – il creditore chesi sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo crederci?), peramore del suo debitore!”74. Si può, da questo punto di vista, sotto-lineare che la valutazione si regga sul consenso. Che estrinsechi ildesiderio di sopraffare, di far soffrire, di prevalere sugli altri e su sestessi all’interno delle stesse regole con cui altri combattono controdi noi. Ma non è tutto qui. Parimenti, e forse ancor più, bisogne-rebbe guardare al terrore di scivolare negli abissi, la necessità “dievitare quelle masse, compatte, brulicanti, tumultuose, che si trova-vano nei luoghi di detenzione, quelle che Goya dipingeva o Ho-ward descriveva”75, alla necessità di mettere a valore ogni istantedella vita come unica condizione di sopravvivenza. Non dunquesemplice consenso o un puro esperimento estetico di auto-costitu-zione di sé – quale deriva reazionaria sarebbe – ma una necessità dicompetere non priva di resistenze e fondata in ultima analisi sullapaura e sulla vessazione.

Da questo punto di vista il problema della soggettività è piutto-sto complicato. Torna qui utile tutta quella letteratura che ha rac-contato le disfunzioni del capitalismo cognitivo come una tenaglianella quale la razionalità neo-liberale chiede di competere mentresussurra al nostro fianco “sei un buono a nulla”76. Torna alla men-te la letteratura angloamericana che si arrende alla consustanzialità

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74 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., 2. 21.75 M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 216.76 M. Fisher, Good for nothing, «The Occupied times», March 19th, 2014.

merito è stato interpretato in buona parte attraverso la categoriafoucaultiana di governamentalità attraverso la quale si metteva in ri-salto la disposizione del soggetto ad auto-costituirsi come soggettoproduttivo. Queste analisi, penso in particolare al lavoro di ValeriaPinto72, hanno il pregio di avere aperto un dibattito importante inItalia. Mi sembra però che tali analisi talvolta rischino di dimentica-re non solo le ragioni strutturali del contesto di crisi in cui ci tro-viamo ma non riescano a dare conto dei nessi tra valutazione e va-lore, impedendo altresì di individuare non solo i punti nevralgici delproblema ma i punti di rottura.

Di fatto, mi sembra che la critica di Lazzarato al concetto di go-vernamentalità vada qui presa sul serio. Non siamo più nel luogopericoloso in cui l’interpretazione supera un punto di non ritorno escompare insieme al soggetto interpretatore. Né è qui il potere in-visibile e ubiquo. La crisi rende il capitale visibile, scriveva Marx,per non dire spudorato. Il discorso del capitale – la sua voce, per ci-tare Marazzi – il tentativo di celare lo sfruttamento del creditore nelcorpo del debitore non danno mandato di dimenticare il capitale co-me soggetto. Da questo punto di vista è giusto riscontrare la ten-denza a “de-governamentalizzare” lo Stato e a “de-statalizzare” lepratiche di governo. Ma solo a patto di riconoscere dietro a tale ten-denza un soggetto capace di comandare la condotta altrui facendoleva sulla moneta come strumento di ricatto. Non si può in altre pa-role parlare di valutazione senza parlare di moneta a patto di con-fondere le cause con le conseguenze e rinvenirla lì, nel corpo, doveessa non appartiene.

Come osserva Lazzarato, sono “il debito e il rapporto credito-re-debitore a costituire il paradigma soggettivo del capitalismo con-temporaneo, dove il ‘lavoro’ è al tempo stesso un ‘lavoro su di sé’,dove l’attività economica e l’attività etico-politica della produzionedel soggetto vanno di pari passo. È il debito a tracciare addomesti-care, fabbricare, modulare e modellare le soggettività”73. Quello chemi preme qui è operare una smarcatura dalle interpretazioni di Fou-cault che parlano di auto-governo senza coercizione. La competi-zione è ben più che una razionalità interiorizzata. È coercizione, è

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72 V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012.73 M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione

neoliberista, Derive Approdi, Roma 2012, p. 54.

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scondeva allora nei corpi. Come il movimento femminista ha tenta-to di liberare il corpo da un’interpretazione che faceva dello sfrut-tamento un’essenza dell’affettività femminile e i movimenti anti-co-loniali hanno rifiutato la razza come espressione di una sorta di pre-disposizione alla schiavitù, il concetto di merito inscrive nel corpola responsabilità dello sfruttamento ed attribuisce a chi la subisce lecause della propria sussunzione. Riportare il capitale come sogget-to al centro dell’analisi, in questo senso, serve a liberare il soggettodella responsabilità che il capitale vorrebbe nascondere in lui. Inquesto senso fermare l’analisi all’idea reazionaria di auto-costitu-zione di sé significherebbe abortirla. Il punto, infatti, è capire dovetale nascondimento si cela e dove esso si rompe.

Foucault scriveva “ci vuole una lacerazione che interrompa il fi-lo della storia e le sue lunghe catene di ragioni, perché un uomo pos-sa, realmente, preferire il rischio di morire alla certezza di ubbidi-re”80. In “Sollevarsi è inutile?” Foucault cercava esattamente il pun-to di lacerazione. Esiste un momento, scriveva Camus, in cui l’uo-mo in rivolta si convince di avere ragione. “Che cos’è un uomo inrivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia:è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Unoschiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un trat-to inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo‘no’? Significa, per esempio, ‘le cose hanno durato troppo’, ‘fin quisì, al di là no’, ‘vai troppo in là’ e anche ‘c’è un limite oltre il qualenon andrai’. Insomma questo no afferma l’esistenza di una frontie-ra [...] Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una pre-sa di coscienza: la percezione, ad un tratto folgorante, che c’è nel-l’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure tem-poraneamente”81. Aldilà dell’uso assordante e ripetuto della parolauomo come universale, che bisognerebbe porre fine una volta pertutte, il confine di cui parla Camus è la lacerazione a cui fa riferi-mento Foucault. È lo spazio in cui il corpo irrompe nel linguaggiodel capitale per risuonare di verità. In quell’attimo il corpo inter-

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80 M. Foucault, “Sollevarsi è inutile?”, in Id, Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S.Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 132.

81A. Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani,Milano, 2010.

di competizione e abuso di sé77. Non si tratta solo di lavorare su disé ma di riconoscere l’esistenza di una frizione tra i valori attraver-so i quali il soggetto è chiamato a costituirsi e l’esperienza incarna-ta, una specie di cortocircuito continuo che da un lato promettel’eccellenza e dall’altro risveglia ogni mattina nell’auto-sfruttamen-to. Da questo punto di vista l’epoca neo-liberale sembra l’epoca delsoggetto bipolare. Mi influenza qui lo splendido pezzo di KeguroMacharia78 in cui l’eccitazione della competizione si risolveva con-tinuamente nella depressione e nella catatonia in una disturbo bipo-lare che egli riconduce precisamente alle patologie del capitalismocognitivo. L’epoca neo-liberale inscrive il corpo in un campo di bat-taglia conteso da interpretazioni antagoniste in cui maggiore è lapromessa di apprezzamento e più intenso si fa l’abuso di sé. In que-sto contesto il desiderio viene continuamente deragliato. Il capitalefa leva sul desiderio di espansione delle forze produttive per risve-gliarle continuamente a una condizione di mancanza. Quanto Ma-razzi79 descrive come crowdsourcing pare presupporre qui una spe-cie di soul-sourcing, la capacità del capitale di catturare il desiderioper risucchiare nella schiavitù, un’eccitazione che scivola continua-mente verso le sabbie mobili del debito in cui il merito si rivela sem-pre più apertamente come una mistificazione, come un imbroglio,come una bugia.

Se tutto questo ha un senso il problema è dove sta il punto di la-cerazione. Questo tentativo di reinquadramento teorico servivaprecisamente ad arrivare qui: alla lacerazione. Silvia Federici hascritto più volte che la ristrutturazione dell’economia globale degliultimi trent’anni ha risposto al tentativo di impedire l’affermazionedei movimenti che hanno fatto tremare le gerarchie alla fine deglianni Sessanta e Settanta. Nel caso delle donne lo sfruttamento si na-

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77 Penso a quello che è stato definito come un “growing sub-genre ofAmerican essays”: Rebecca Schuman, I quit academia, a growing sub-genre ofAmerican essays, «Slate», October 24, 2013; C. Beusman, Study: college makesyou feel like shit about yourself, September 9, 2013; altri riferimenti in F. Coin,Turning contradictions into subjects. The cultural logic of university assessment,pp. 142–166, in Stefano Lucarelli e Carlo Vercellone (eds.), «Knowledge Cul-tures», vol. 1, n. 4, 2013.

78 K. Macharia, On quitting, «The New Inquiry», May 3rd, 2013.79 C. Marazzi, Violence of financial capitalism, Semiotext(e), Los Angeles

2008, p. 49.

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PIERLUIGI AMETRANO

Soggettività 2.0

Attraversai il cortile e pensaiche le stelle nelle loro notti insonninon avevano mai visto l’esemplaredi una nuova specie di uomo

Robert Louis Stevenson

1. Inconscio virtuale

Il limes è oltrepassato, eppure non si è in un paese straniero; so-lida è la terra che ci sostiene, ma radicale è il cambio di prospettiva.Strumenti differenti occorrono per stabilire le nostre coordinate,ma non sarà difficile elaborare dei nuovi calcoli.

La virtualità ci accoglie e non è un inganno, eppure si è altrove,in un luogo dove acquisire nuove visioni, o meglio trasformare ilnostro modo di vedere. Eppure l’alterità informatica poggia su unagrammatica che gli internauti riconoscono, sebbene adoperi nuovisegni grafici, talvolta delle icone, ma è pur sempre una struttura si-gnificante, che “è la possibilità che ho, […], di servirmene per signi-ficare tutt’altra cosa da ciò che essa dice”1.

Nel web la logica del linguaggio sopravvive, anzi dimostra benaltro, ovvero che la rete è possibile solo perché siamo immersi dasempre in un ordine simbolico, che nemmeno i linguaggi informa-tici possono scardinare, “la virtualizzazione ci rende consapevoli dicome l’universo simbolico, in quanto tale fosse sempre già minima-

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1 J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, inScritti, RCS, Milano 2010, p. 499.

2 S. Žižek, G. Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Conversazionicon Žižek, Dedalo, Bari 2006, p. 122.

rompe la storia e le sue lunghe catene di ragioni. “Con la perditadella pazienza, con l’impazienza, comincia al contrario un movi-mento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentementeaccettato. Questo slancio è quasi sempre retroattivo. Lo schiavo,nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore, re-spinge insieme la sua stessa condizione di schiavo”82. Qui lo scam-bio con il possessore di denaro si interrompe. Il punto non è dimo-strarsi meritevoli, è che abbiamo già lavorato abbastanza. Il proble-ma non è il merito, è che il merito dovete dimostrarlo voi.

128

82Ivi.

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to e il futuro si incontrano in un immenso presente. Internet è ilpresente, in cui il “futuro è ora”, come ammonisce lo slogan di ungestore telefonico, e dove il passato ha già preso dimora, è sedi-mentato ma non è cancellato. Il web ha una memoria formidabile,che solo una legge della Corte di Giustizia Europea ha potuto limi-tare, così da sancire che anche l’oblio è un diritto.

Il cyberspazio è una dimensione in cui accade la storia del pre-sente, ovvero “un campo in cui si manifestano, si scontrano, si con-catenano e si specificano i problemi dell’essere umano, della co-scienza, dell’origini e del soggetto”6.

In rete il presente avviene nella sua molteplicità: i flussi econo-mici divengono inarrestabili; l’arte si coniuga in sempre altre forme;le informazioni ampliano le nostre conoscenze; la democrazia sem-bra diffondersi senza difficoltà; e le soggettività si moltiplicano,straripano, traboccano di là dal proprio centro.

Sempre più l’universo digitale dimostra la materialità della pro-pria struttura, “il virtuale possiede una realtà piena in quanto vir-tuale”7, ovvero si concretizza in avvenimenti che si irradiano oltrelo spazio/tempo del proprio divenire. Il virtuale esiste, è una realtàin cui accadono degli eventi, secondo delle precise categorie logiche,non è il dispiegarsi immaginario di un mondo parallelo da pensarecome ad un rifugio.

Il virtuale mostra di avere un fondamento ontologico, in cui “ilsolo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che ilpossibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una“realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, pos-siede di per sé una realtà piena, il suo processo è l’attualizzazione”8.Crisi finanziarie o rivolte studentesche sono l’attualità di un’origi-ne virtuale, la realtà dell’esistenza del virtuale.

Eppure, la realtà del virtuale non è un’affermazione che è statasubito compresa, si pensi all’esperienza di Second Life, un territoriosimulato in cui gli individui creavano nient’altro che dei fantoccidietro cui nascondersi, per rompere i vincoli della propria quotidia-nità, ma senza produrre alcun che di diverso dalle proprie consue-tudini. L’esperimento di quel mondo parallelo si è dimostrato un

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6 M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999, p. 23.7 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, p. 336.8 Ivi, p. 340.

mente virtuale, nel senso che un intero insieme di presupposizionisimboliche determina quel che sperimentiamo come realtà”2.

La dimensione virtuale è l’unica modalità grazie a cui il sogget-to riesce a sperimentare il mondo che lo circonda, giacché “c’è un’il-lusione e un misconoscimento inscritti nella nozione stessa di sogget-tività”3. Il soggetto si inganna ed è ingannato da una sintassi signi-ficante che lo precipita nell’illusione di una realtà che non percepi-sce direttamente. Il virtuale è il solo modo per il singolo di entrarein contatto con il mondo, così non c’è da stupirsi se le architetturedi internet hanno da subito avvinto il singolo disperso. C’è una so-miglianza tra reale e virtuale che connette il soggetto al web in undestino inaspettato.

Nella virtualità informatica non si assiste solo ad una mutazio-ne dell’ordine simbolico, ma anche al nostro approccio, infatti l’in-contro con questa dimensione non è immediato, bensì ci si “IN-TER-FACCIA [ovvero] il mio rapporto all’Altro non è mai un fac-cia a faccia, è sempre media(tizza)to attraverso il sistema digitale chesi interpone”4.

Il web non è mai uno spazio/tempo alieno ed effimero, maun’ulteriore trasformazione dell’ordine simbolico. Nell’anonimolabirinto del simbolico informatico, il soggetto resta inevitabilmen-te imbrigliato, e quel che scaturisce è una nuova forma di soggetti-vazione, “il soggetto segue la filiera del simbolico […], non è solo ilsoggetto, ma i soggetti; presi nella loro intersoggettività, che si met-tono in fila […] modellano il loro stesso essere sul momento dellacatena significante che li percorre”5.

Fra le nuove forme grammaticali c’è hashtag (#), ovvero un se-gno d’interpunzione che ha una funzione connettiva, cioè renderechiaro ciò di cui si parla, e di collegarlo ad argomenti simili conte-nuti nello spazio/tempo della rete.

Hashtag (#) non è propriamente un’icona, ma è l’evoluzione diun simbolo che ha acquisito nuove caratteristiche, ovvero la capaci-tà di abolire le barriere del tempo e i vincoli dello spazio. In rete, in-fatti, non valgono più i margini temporali, tutto converge, il passa-

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3 Ivi, p. 99.4 S. Žižek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Milano

2001, p. 154.5 J. Lacan, Il seminario su La lettera rubata, in op. cit., p. 27.

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“A cosa stai pensando?” non è l’invito al dialogo di un analista,ma la frase d’ingresso di uno dei social più utilizzati.

La morfogenesi del soggetto subisce un mutamento radicale, ilsingolo perde il proprio statuto e la propria centralità ed acquisi-sce un profilo digitale. L’inconscio si palesa in un continuo e in-cessante commento didascalico da pubblicare in rete nelle bache-che dei social, così si assiste ad una spoliazione volontaria dellaparte più fragile e recondita del soggetto, sicché non è errato affer-mare che “l’inconscio è fuori, e non è nascosto in una fantomaticaprofondità”13.

A poco più di un secolo dall’intuizione di Freud, secondo ilquale, “l’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, al-trettanto sconosciuto per la sua natura intima […] e presentato a noi,dai dati della coscienza, in modo altrettanto incompleto”14, la strut-tura del web sembra sovvertire completamente tale affermazione.

Eppure l’eccessiva produzione verbale, che avviene nei social,suggerisce l’idea che non sia l’inconscio ad essere asservito alle mo-dalità della rete, bensì che il web serva all’inconscio per diffondereil proprio discorso. I social sono la cassa di risonanza, mentre la“parola […] per l’inconscio […] non è che un elemento di messa inscena come gli altri”15.

Freud ci aveva avvertito che per l’inconscio “[l’] unico scopo è[…] di vincere la pressione cui è soggetto e riuscire a farsi largo nel-la coscienza o a scaricarsi nell’azione reale”16; la loquacità inconsciadimostra una straordinaria capacità nel propagare la propria voce,quel che prima si celava sotto la forma di elementi di psicopatologiaquotidiana, ora si manifesta liberamente nei contenuti dei post o ne-gli accenni dei tweet.

Nel vuoto di un account social, o di un blog, si assiste al ritor-no del rimosso, la rete è l’occasione che l’inconscio non perde direndere partecipi del proprio racconto chiunque sia connesso, e inetwork sociali ancor di più ampliano e amplificano la sua pro-pensione al monologo ininterrotto. Internet è la trama che il digi-

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13 S. Žižek, Il godimento come fattore politico, op. cit., p. 13.14 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Rizzolil, Milano 2010, p. 734.15 J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud, in

op. cit., p. 506.16 S. Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino

1977, p. 205.

fallimento, giacché si allestiva una replica, ma in una scenografia dif-ferente, delle convenzioni sociali da cui si tentava di liberarsi.

I cybernauti credevano che gli avatar fossero delle maschere,ovvero delle nuove illusioni dietro cui nascondersi, non avevano an-cora capito l’attualità del virtuale; pensare la virtualità come undoppio del nostro mondo “è in sé un’idea alquanto misera: [ovve-ro] imitare la realtà, [per] riprodurre l’esperienza in un medium ar-tificiale”9. Ai primi utenti sfuggiva il fecondo dispiegarsi del nuovospazio/tempo, perché “la realtà del Virtuale, [è una dimensione] cherappresenta i suoi effetti e conseguenze concreti”10.

Nell’infinito presente delle rete si assiste al dilatarsi continuodei propri margini, fino ad inglobare i sensi del soggetto, la realtàvirtuale aumenta, fino a sovrapporre elementi virtuali del computercon la percezione del singolo. Si costituisce una nuova forma diestensione, la realtà aumentata, cioè la capacità di aggiungere livel-li informativi diversi a ciò che i nostri sensi percepiscono. Quel cheavviene è un potenziamento percettivo, che coniuga assieme conte-nuti digitali e apparato percettivo, che procede oltre le semplici vi-sioni tridimensionali, e, se le tecnologia lo consente, può spingersi asensazioni olfattive, uditive e persino tattili11.

La virtualità aumenta la realtà in cui il soggetto si muove, oltre ildato biologico i nuovi soggetti acquisiscono una nuova natura, ovve-ro una natività digitale, che permette loro di coniugare senza conflit-to due ordini simbolici differenti, quello del reale e quello virtuale.

Di certo tale mutamento non avviene senza un trauma, ma“ogni soggettività si costruisce e si dispone attorno ad un trauma,attorno a qualcosa che rompe la nostra soggettività, la scardina e lacostringe a ricostruirsi secondo altri equilibri”12.

Il sintomo più evidente della mutazione del soggetto è l’appari-zione dei social network. Facebook, twitter o tumblr sono dellepiattaforme sociali in cui la singolarità sembra deflagrare e quel cheappare è l’inconscio nei suoi pensieri minimi e nelle sue fantasie se-grete, un’esibizione che produce un piacere di ritorno.

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9 S. Žižek, Far vacillare le parvenze, in Meno di niente, Salani Editore, Mi-lano 2013, p. 88.

10 Ibidem.11 Fonte «Innovare», rivista on line del 12/08/2014.12 S. Žižek, G. Daly, op. cit., pp. 29-30.

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chiarisce che “il soggetto è decentrato rispetto all’individuo”20, allostesso modo il web si regge sul “decentramento, sulla costruzioneattraverso il consenso e sull’ autonomia”21.

La singolarità iper-moderna diventa altro dal consueto canone diformazione soggettiva, le coordinate dell’identità cambiano e la co-struzione del sé avviene con modalità differenti e, talvolta, invertite.

L’avvenuto riconoscimento della natura verbale dell’inconsciodimostra la sottomissione del soggetto all’ordine del linguaggio,quel che ora è lecito indagare è quale registro linguistico sottendaalla formazione del singolo.

L’ipotesi è un azzardo, eppure si può pensare che la soggettiva-zione possa essere influenzata, almeno in parte, dai linguaggi di pro-grammazione alla base delle architetture virtuali.

L’intuizione proviene dall’interazione con un social denomina-to tumblr, ovvero una piattaforma di microblogging che permettedi creare pagine personalizzate e dei contenuti multimediali. La ca-ratteristica di tumblr è la gestione personale della grafica e del blogroll tramite l’intervento diretto dell’utente sul codice, ciò significache nessun supporto è fornito all’utente, se non l’accesso diretto allinguaggio sorgente mediante la dashboard. Dashboard è un’appli-cazione che all’occorrenza permette di attivare dei widget (ovverodelle mini applicazioni) che poi successivamente spariscono, unprotocollo che avviene grazie all’uso diretto dei linguaggi HTML,CSS e Javascript.

Uno dei principi linguistici del linguaggio informatico è che tut-to deve essere detto, ogni funzione descritta ed ogni variabile con-siderata. Le leggi informatiche non ammettono il non detto, il sot-tinteso o l’interpretazione: ogni enunciato deve essere esaustivo nel-la sua redazione.

La linguistica di programmazione non prevede alcun tipo di er-meneutica, quel che non è scritto nel codice sorgente, semplice-mente non esiste. La sintassi del digitale ha un valore ontologico, lametodologia è infallibile: ogni enunciato afferma l’esistenza di unoo più elementi, il caso contrario non esiste. Il concreto riproporsi diquesta logica binaria nell’interazione fra il web e il soggetto com-

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20 J. Lacan, L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Li-bro II, Einaudi, Torino 1999, p. 12.

21 M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2013, p. 41.

tale offre all’inconscio per mostrare la propria estimità: “estimità è[…] il termine lacaniano che fonde il prefisso ex di exterior (este-riore) con l’aggettivo intime (intimo) per creare l’ossimoro di un’e-sterna intimità”17.

Una paradossale attrazione spinge il soggetto verso la rete,mentre i social accolgono l’inconscio che liberamente si confida. Icanali comunicativi informatici non solo riescono a mostrare la na-tura verbale dell’inconscio, giacché “l’inconscio è strutturato comeun linguaggio”18, ma sono i soli a farsi carico del suo voler dire,ovvero l’unico medium che sostiene ed incentiva la sua volontà disignificazione.

La socialità digitale rappresenta l’occasione imperdibile per laproduzione di un discorso dell’inconscio che è alla base di una nuo-va definizione della nozione di soggettività. Il monologo dell’incon-scio sul web è l’indizio di un cambiamento della soggettivazione.

I processi classici di individuazione subiscono una frattura, unrovesciamento o, forse, sono oltrepassati. La presunzione di un’i-dentità originaria del soggetto si cancella, l’inconscio si disperde neimolteplici profili social, e le singolarità si de-localizzano nella rete,mentre nuove forme individuali si compongono.

I social network divengono il grembo di alterità soggettive, incui il singolo prima si frammenta e poi riconquista una nuova uni-tà, ma con un qualcosa di più che acuisce i sensi e potenzia le pro-prie capacità.

Il soggetto è teletrasportato nella galassia internet, un universoinformatico che muta la sua struttura e potenzia delle caratteristichedi cui prima mancava. Le singolarità assumono una nuova dimensio-ne, che non si regge più su un’ipotetica identità centrale, o sul mito diuna profondità inconscia inaccessibile. Si assiste ad “un mondo chepullula di individuazioni impersonali, o anche di singolarità preindi-viduali, […] la singolarità non è più racchiusa in un individuo”19.

Fra il web e il soggetto esiste una paradossale analogia che soloil flusso informatico ha potuto mostrare, l’immersione nella rete

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17 F. Palombi (a cura di), Lacan, Rizzoli, Milano 2014, p. 93.18 J. Lacan, Libro XI, I quattro principi fondamentali della psicoanalisi, Ei-

naudi, Torino 1979, p. 21.19 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia e altri saggi, Einaudi, Torino 2002,

p. 301.

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La soggettività si emancipa da un’identità rigida ed univoca, e frale maglie del web il singolo celebra la propria molteplicità. Se l’an-nuncio della morte dell’uomo ha destato apprensione, è perché non siè colto la fecondità dell’affermazione. Fra i codici informatici, il sog-getto scopre una ricchezza che l’unità dell’Io celava. Grazie alla simi-litudine con le tecnologie digitali, e ancor più con la nascita dei socialnetwork, la singolarità diviene multipla, e si esplica in tutte le sue po-tenzialità, “la bellezza, e talvolta la sfortuna, di internet è che offrel’opportunità per le persone di sperimentarsi con le proprie identità”25.

L’Io si moltiplica e diventa miriade, ogni singolarità mostra lapropria duttilità, come in uno specchio frantumato quel che non sivedeva e che “l’inconscio stesso era prima di tutto una folla”26.

La rete e il soggetto costruiscono il proprio statuto sull’assenzadi un centro, mentre la visione lineare è sostituita da tutte le pro-spettive possibili. Internet si regge sulla mancanza di un vertice, ep-pure un’infinità di immagini si irradiano e confluiscono nella dina-mica della sua trama.

In una scena del film Birdman, il protagonista attraversa semi-nudo una Time Square affollatissima, perché alcuni minuti prima uncolpo di vento lo aveva lasciato fuori dalle quinte del teatro, in cuistava effettuando la prova generale del proprio spettacolo.

Solo al suo rientro in camerino l’attore scoprirà quanto è acca-duto, grazie ai filmati che sono stati pubblicati in rete:

“Stai diventando un cult sul web” dice la figlia.“Sul serio?” risponde il padre.“Sì. 350.000 visualizzazioni in meno di un’ora. Che tu ci creda

o no, questo è il potere” conclude lei.L’affermazione denuncia una piena consapevolezza del ruolo

della rete, e sottolinea l’analogia fra internet e il potere, giacché an-che “[il potere] bisogna considerarlo come una rete produttiva chepassa attraverso tutto il corpo sociale”27.

Web e potere sono una struttura dinamica, che si irradia nell’at-tualità, in cui il soggetto diventa multiplo e tenta nuove forma di at-tività politica. Le singolarità, che cedono sovranità sulla propria in-

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25 J. Suler, The Psycology of Cyberspace, articolo apparso sul sito dell’Uni-versità di Milano Bicocca.

26 G. Deleuze, Guattari Félix, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Co-oper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 71.

27 M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1982, p. 13.

porta un adeguamento al nuovo ordine linguistico, “il nuovo para-digma della lingua è divenuto, infatti, quello tecnologico della mac-china ed esalta l’univoco contro l’equivoco”22.

Una pagina di HTML è un testo formato da tag e dai relativi at-tributi. Ogni tag ha una precisa collocazione all’interno del docu-mento e indica una precisa operazione e ha un valore. Il primo tag,che si incontra, chiarisce quale linguaggio si utilizza, qualora si in-serisse un tag in una posizione non corretta, si violerebbe il DTD,ovvero il document type definition, e si potrebbero ottenere dei ri-sultati non previsti.

Per molti tag, inoltre, è indispensabile indicare la fine dell’azio-ne descritta (< />), altrimenti non verrebbero letti, cioè non visua-lizzati all’interno del web.

In schemi informatici più complessi, quali “if…else”, la logicache sottende la sintassi è la stessa:

if (condizione){istruzione 1}else{istruzione 2}Nonostante una struttura simile possa contenere diverse varia-

bili, e quindi produrre precise funzioni, “virtualmente, il numero diblocchi alternativi può essere anche molto grande, anche se in unoscript non lo è”23, la possibilità, che l’ordine discorsivo concede, èchiusa e ontologicamente rilevante.

La rete imbriglia il soggetto in un linguaggio informatico, chedischiude un registro simbolico alternativo, in cui le singolarità pos-sono declinarsi in maniera differente, giacché “il vivente serba in séuna permanente attività di individuazione, non è solo un risultatodell’individuazione, […] ma il teatro dell’individuazione”24.

136

22 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoa-nalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 326.

23 S. Rubini, Javascript, Apogeo, Milano 2004, p. 85.24 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi,

Roma 2006, p. 32.

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mersione in un flusso informativo, in cui il medium tecnologico è laforma pura attraverso cui ricevere i dati dei sensi e costituire i nostrigiudizi sul reale. Il digitale modifica la sensibilità e la visione dellarealtà, giacché “le app […] costituiscono il filtro decisivo”30.

Dispersi nelle rotte di un viaggio salvifico, le singolarità mi-granti trovano un appiglio solo nel software dei propri cellulari, tal-volta è solo grazie al provider di un gestore telefonico che si riescea calcolare la posizione e l’esattezza del tragitto, mentre sono le co-munità virtuali a fornire le informazioni necessarie per evitare bloc-chi lungo la strada o controlli inaspettati tramite: “pagine Facebook,chat su Viber, gruppi su Whatsapp che aggiornano su opportunità eostacoli di chi fugge”31.

L’algoritmo di un motore di ricerca diviene il sentiero da segui-re, così per orientarsi non ci sono più le stelle, bensì le mappe dis-ponibili nelle applicazioni informatiche.

Le tecnologie digitali sono dei dispositivi capaci di “far vedere efar parlare”32, ovvero degli strumenti che donano la parola e per-mettono la visibilità. Un dispositivo concede la possibilità di enun-ciare precise affermazioni e di vedere o nascondere forme e figure.

Similmente Internet è un amplificatore di contenuti, cioè im-magini e testi che si intrecciano, si sovrappongono e si eludono. Ta-le dinamica dischiude una “dimensione di potere”33, le cui peculia-rità sono sempre più adoperate nelle proteste contro i regimi nondemocratici.

Le manifestazioni nel mondo arabo del 2010 hanno mostrato lapossibilità di un approccio digitale al diffondersi della rivolta: la re-te permette di eludere il controllo dei governi, mentre i social net-work sopperiscono alla censura mediatica. Eppure il ruolo della re-te è solamente propulsivo, giacché “i social media hanno trasmessol’impulso iniziale alle proteste, che poi sono andate ingrossandosigrazie a forme più tradizionali di attivismo e mobilitazione”34.

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30 H. Gardner, K. Davis, Generazione App, La testa dei giovani e il nuovomondo digitale, Feltrinelli, Milano 2014, p. 102.

31 A. Barina, Il tam-tam che salva i ragazzini, in «Il Venerdì de La Re-pubblica», n. 1436 del 25/9/2015.

32 G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007, p. 13.33 Ivi, p. 15.34 AA.VV., Il ruolo dei social network nelle rivolte arabe, in «Osservatorio

di Politica Internazionale», n. 40 del Settembre 2011, p. 18.

dividualità, non accettano i vincoli della sovranità statale, perdonola connotazione di popolo e ridivengono moltitudine, “i molti inquanto molti sono coloro che condividono il non “sentirsi a casapropria” e, anzi, pongono questa esperienza al centro della propriaprassi sociale e politica”28.

Comunità non è più lo Stato, ma diviene la rete. La virtualità èla nuova agorà dove incontrarsi, dove scambiare opinioni, propor-re documenti e informazioni e prendere delle decisioni politiche.

Il demos digitale non accetta più delle forme di rappresentanza,ma diviene concreta azione politica. Internet è il luogo dell’incon-tro e della decisione, mentre “la disobbedienza civile rappresenta,forse, la forma basilare di azione politica della moltitudine. […] ladisobbedienza radicale, che qui interessa, rimette in questione lastessa facoltà di comandare dello Stato”29.

Anonymous, Occupy Wall Street o Gezi Park sono fenomeniche rimettono in discussione il contratto sociale, giacché l’attività didisobbedienza non si limita a contestare le legge, ma le mette radi-calmente in questione. I movimenti nati in rete contestano l’effetti-va validità dell’impianto normativo ed economico. La tensione del-la moltitudine è un ritorno al pre-statale, per mettere in discussionei fondamenti e tentare nuove forme comunitarie.

2. Desiderio mainstream

Il braccio teso verso il cielo stringe nella mano un cellulare, lo sicapisce dal bagliore del display rivolto verso la luna. Il satellite è alsuo apogeo e con il suo chiarore illumina un gruppo di uomini in-tenti nello stesso gesto, ovvero verificare il segnale di ricezione peri loro cellulari, o forse fermare in una scatto la bellezza dell’astro ce-leste al plenilunio.

La descrizione si riferisce alla foto in cui alcuni migranti su unaspiaggia cercano di comunicare, eppure la loro è un’azione che li ac-comuna ai cittadini dei paesi occidentali che sperano di raggiungere.Un gesto semplice, involontario, comune, perché rappresenta l’im-

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28 P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme divita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2002, p. 23.

29 Ivi, p. 34.

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Le dinamiche digitali sono introiettate dai singoli, perché “l’in-conscio è [il] discorso dell’Altro”39, ovvero tende a pensare e adesprimersi con il linguaggio che l’Altro gli ha insegnato.

Così i nativi digitali assumono una sinptogenesi differente, dicerto conforme alle applicazioni informatiche e corrispondente allamaggior velocità di elaborazione richiesta dagli strumenti tecnolo-gici, ma con una struttura interna simile ai programmi che utilizza-no, con “lock-in [si indica] il limitato raggio d’azione e di esperien-za che ogni utente ha a disposizione quando interagisce con un soft-ware. Sono le decisioni di un programmatore a definire quali azio-ni siano possibili, o incoraggiate, e quali non siano nemmeno con-siderate fra le opzioni”40.

Se il codice informatico può influire sul processo di soggettiva-zione, forse una caratteristica nella progettazione del programmapuò divenire una peculiarità nella costituzione del singolo.

L’eccessivo flusso informativo, nonché la possibilità di scom-porre la realtà attraverso la miriade di app, e la capacità di ricom-porla mediante dei software, rivelano i loro effetti nella deficienzastrutturale della capacità attentiva delle nuove generazioni.

Un’indagine dell’Ocse dimostra che per la generazione digitaleun “utilizzo massiccio [del pc] tendenzialmente peggior[a][la]lettu-ra, [la] matematica e [le] scienze”41, ovvero tutte quelle applicazionidove è richiesta un’attenzione profonda.

Iperattività e disturbo dell’attenzione sono forse provocati dauna saturazione di stimoli e di informazioni a cui le soggettività so-no sottoposte, ma l’inadeguata gestione dell’attenzione è sintomo diuna nuova configurazione del desiderio. Il sintomo della distruzionedel desiderio è cognitivo, ma l’origine è la dissoluzione dell’“oggettodella libido […] che è l’oggetto dell’attenzione per eccellenza”42.

Se l’oggetto piccolo a manca, il desiderio svanisce, quindi l’at-tenzione perde il proprio riferimento e comincia a vagare senza lapossibilità di trovare alcun appiglio. L’attenzione priva del suo og-getto diviene uno zapping fra i diversi network, in cui il soggetto èdisperso.

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39 J. Lacan, Il seminario su La lettera rubata, in op. cit., p. 12.40 H. Gardner, K. Davis, op. cit., p. 137.41 C. Zunino, Uno studio Ocse: l’apprendimento peggiora nelle classi dove

si usa troppo la tecnologia, in «La Repubblica» del 15/09/2015.42 B. Stiegler, op. cit., p. 171.

La struttura di internet si limita a produrre un’opposizione e aconvogliare un consenso, ma non riesce ad approdare alla costru-zione di un’azione politica condivisa. Internet funziona come un’e-co in cui risuonano le voci degli insorti, ma arriva solo dove è pos-sibile una connessione.

La percezione di una twitter revolution non corrisponde al ve-ro, perché la rete è indispensabile per promuovere il dissenso ed in-crementare la partecipazione del pubblico, ma si rivela inappropria-ta nel proporre un’alternativa politica strutturata ed efficace, “nelmagma indistinto e tendenzialmente destrutturato della comunica-zione libera dei social network non si crea un’identità, non si con-solida una memoria d’appartenenza[…] chi ha deposto i regimi èsempre la piazza reale, non quella virtuale”35.

La natura disgregante delle nuove tecnologie mostra un’incapa-cità politica, perché il web non diffonde semplicemente dei messag-gi, ma comporta anche la trasformazione del soggetto, perché la reteè un dispositivo, ovvero un meccanismo in cui avvengono dei pro-cessi di soggettivazione “nella misura in cui il dispositivo lo lascia olo rende possibile […]. Il Sé non è né un saper né un potere. È unprocesso di individuazione che si esercita su gruppi o su persone e sisottrae ai rapporti di forza stabiliti come pure ai saperi costituiti”36.

Il singolo incontra nel web il grande Altro, e la soggettività di-viene wired, ovvero connessa, laddove per connessione non si in-tende il mero accesso ad internet, bensì l’accettazione e la condivi-sione di un universo culturale che modifica la nostra identità.

Il grande Altro “è un ordine virtuale che esiste solo attraverso isoggetti che “credono” in esso”37; il web è il reale che ci circonda e ciaffascina; il web è la capacità di riconoscere le immagini sullo scher-mo come realtà, o la socialità mediata dalle app dello smartphone.

Internet è uno dei termini del dialogo e dall’incontro con l’or-dine simbolico informatico nasce una nuova soggettività, perché“l’apparato psichico è riconfigurato senza sosta dagli apparati tec-nici e tecnologici”38.

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35 E. Boria, Primavera araba: i social network sono nemici della democra-zia, in «Limes», n. 3 del 2011.

36 G. Deleuze Gilles, Che cos’è un dispositivo?, cit., p. 17.37 S. Žižek, Dove non c’è nulla, leggi che ti amo, cit., p. 117.38 B. Stiegler, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, Orthotes,

Napoli/Salerno 2014, p. 54.

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ANGELA POLVERINO

Dentro ed oltre la metropoli

1. Labirinti metropolitani

Nel dare avvio ad un’indagine sulla forma contemporanea dellametropoli sono doverose alcune specificazioni preliminari: tra iprocessi economici e politici che più hanno inciso nella struttura-zione delle forme urbane contemporanee, l’industrializzazione rap-presenta indubbiamente uno spartiacque fondamentale. Quel pro-cesso storico ha prodotto una tendenza per cui la produzione di va-lore del capitale assume una centralità assoluta nell’organizzazionedello spazio urbano, tendenza che punta “alla completa integrazio-ne di tutto il sociale nel lògos del Capitale”1. I processi di indu-strializzazione hanno distrutto l’immaginario legato ai precedentimodelli urbani e polverizzato le strutture che operavano al loro in-terno, aggredendo gli antichi nuclei simbolici, azzerandone la pras-si e l’ideologia, conquistando le città e riorganizzandole in base alleesigenze produttive del capitale: “Le città e la realtà urbana dipen-dono dal valore d’uso. Il valore di scambio e la generalizzazionedella merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distrugge-re, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana, ricettacoli del va-lore d’uso, germogli di una virtuale predominanza e di una rivalu-tazione d’uso”2.

La rivoluzione industriale ha stravolto completamente il rap-porto tra la città ed i suoi abitanti3: lo spazio cittadino è stato sven-

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1 M. Assennato, Una traccia sulla metropoli, www.europassigna no2013.word press.com, Parigi, Luglio 2013 (visualizzato il 6.5.15), cit., p. 3.

2 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre corte, Verona 2014, cit., p. 22.3 Cfr. H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano 1976.

Il desiderio sganciato dal proprio oggetto è l’incapacità del sin-golo di mantenere la propria attenzione. Così il desiderio si dissol-ve in una mera pulsione, giacché se “l’oggetto non è perduto, [e]nonè indice della mancanza, [allora] si solidifica illusoriamente, restan-do contiguo al soggetto, a sua disposizione, a portata di mano e dibocca”43, in un godimento compulsivo.

Il dispositivo informatico non reprime, anzi sollecita, una frui-zione sempre maggiore dei beni ricercati dal desiderio. Un incita-mento oggettuale che affascina e stordisce il soggetto, fino a con-durlo ad un inevitabile disordine, in cui non l’oggetto ma il deside-rio si smarrisce ed è confuso con la pulsione. Eppure l’accattivantepluralità oggettuale sbalordisce il singolo e la sua libido, tanto da in-durlo a trovare piacere in “oggetti socialmente valorizzati, oggetti acui il gruppo può dare solo la sua approvazione nella misura in cuisono oggetti di pubblica utilità”44.

Il grande Altro digitale ci sprona a godere e sempre di più, unincitamento come un vortice che non riguarda solo la sessualità, mail lavoro, il consumo o la ricerca spirituale.

Il nostro dovere etico è il godimento sganciato dal fardello deldesiderio, “l’uomo ipermoderno vuole realizzare sino in fondo laspinta a godere al di là del desiderio”45.

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43 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, Mila-no 2010, p. 29.

44 J. Lacan, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, p. 111.

45 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramontodel padre, Feltrinelli, Milano 2013, p. 50.

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duzione paradigmatico, conserva un’autorevolezza tale per cui lospazio urbano innesta la propria organizzazione proprio a partiredalla messa a valore di quei luoghi che, acquisendo un grosso signi-ficato simbolico, diventano il nesso fondamentale attorno al qualeorganizzare razionalmente lo spazio urbano6. I dispositivi del capi-talismo globale, invece, oggi e dopo la fase della deindustrializza-zione, estraggono valore dalla produzione di tutte quelle attività dilavoro cognitivo ed immateriale, informatico, che rendono fruibilile funzioni estrattive al di là dei luoghi materiali7. La produzione,quindi, conserva il suo ruolo di principio guida e di comando ma sidissemina ovunque, rinunciando ad una sede materiale specifica.

Il primo elemento problematico davanti al quale ci si trova neltentativo di scandagliare lo spazio metropolitano è proprio lo spa-zio. Diversi autori contemporanei si sono misurati con la definizio-ne dell’enorme territorio che compone la cartografia delle città con-temporanee, l’urgenza pare essere quella di coniare un termine-con-tenitore in grado di raccontare la città che trascende i propri limiti,che va oltre se stessa8. Città-territorio o post-metropoli9, Megalo-poli, Exopolis10, Metropoli biopolitica11, tra le varie, sono defini-zioni che tentano di cogliere il carattere inafferrabile delle immensedistese territoriali metropolitane:

L’intelletto metropolitano, il suo Nervenleben, subisce unasorta di crisi spaziale che è perfettamente analoga a quella chesubisce lo Stato Leviatano, lo Stato moderno nella sua sovranitàterritorialmente determinata. I poteri che determinano la cresci-ta metropolitana faticano sempre più a territorializzarsi, ad in-

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6 Cfr. M. Cacciari, La città, Pazzini, Rimini 2012.7 Cfr. A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo

paradigma di accumulazione, Carocci, Roma 2007.8 Tra i vari autori: D. Harvey L’esperienza urbana: metropoli e trasforma-

zioni sociali, il Saggiatore, Milano 1998; M. Vegetti Filosofie della metropoli:spazio, potere, architettura nel Novecento, Carocci, Roma 2009; S. Sassen Lacittà nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2010; M. Davis, Città di quar-zo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri, Roma 2008; R. Khoo-laas Junkspace, Quodlibet, Macerata 2006.

9 Cfr. M. Cacciari, La città, cit.10 Cfr. E. W. Soja, Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urba-

na, cit.11 Cfr. M. Assennato, Metropoli biopolitica: lo spazio del conflitto tra flus-

si globali e luoghi urbani, www.accademia.eu (visualizzato il 6.5.15).

trato e ridefinito in base ai nuovi rapporti di proprietà, mentre l’u-so collettivo del territorio urbano viene ridotto al minimo. Il prin-cipio guida che ne determina le scelte architettoniche è la funziona-lità in relazione all’economia degli spazi, il cuore pulsante della cit-tà è la fabbrica, centro e periferie cominciano a prendere forme di-verse e polarizzate. Nella concezione greca della pòlis, intesa comedimora originaria, la struttura della città produceva lo spazio terri-toriale e simbolico idoneo nel garantire alla comunità le occasioni diincontro e relazione. La città industriale sorge sulle ceneri di questaantica concezione: si va strutturando intorno alle proprie arterieproduttive, scomponendo gli ambienti e costruendo muri materialied immaginari tra le diverse classi sociali, assumendo le caratteristi-che dello strumento funzionale alla produzione.

A partire dagli anni ’70, prima negli Stati Uniti e poco dopo inEuropa ed in Giappone, comincia a maturare una complessa feno-menologia economica e sociale di deindustrializzazione: crescita delsettore terziario, riduzione del peso delle produzioni industriali espostamento degli impianti, diffusione territoriale della piccola emedia impresa, avanzamento tecnologico, perfezionamento delleinfrastrutture di telecomunicazione. Dalla metà degli anni ’70 il ca-pitale globale prende a ristrutturare i suoi modelli: la nascita di nuo-vi poli industriali in tutti quei paesi che non avevano conosciutol’industrializzazione, insieme alla progressiva deindustrializzazionedelle regioni produttive classiche “vengono considerate come il se-gnale dell’avanzamento di un nuovo e diverso ordine economicomondiale, un’inedita economia dello spazio globale”4. Il processo dideindustrializzazione avvia la trasformazione della forma della pro-duzione che, però, in quanto tale resta il principio guida dell’orga-nizzazione urbana e delle forme di vita che l’attraversano.

Antonio Negri descrive la metropoli contemporanea come “illuogo di produzione per eccellenza”5; in essa la produzione conti-nua a rappresentare l’elemento cardine attorno al quale si struttura-no le forme organizzative dei territori metropolitani nella attuale ediversa fase del capitalismo globale. Massimo Cacciari sostiene chenel contesto della città industriale la fabbrica, come luogo di pro-

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4 E. W. Soja, Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urbana a cu-ra di E. Frixa, A. Di Blasi, F. Farinelli, Pàtron 2007, cit., p. 3.

5 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, Ombre Corte, Verona 2008,cit., p. 9.

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La metropoli contemporanea è il luogo in cui si declina questonuovo rapporto tra Capitale e lavoro, dove, quindi, si incontrano escontrano comando e resistenze. È necessario mettere a tema que-sta relazione dialettica e conflittuale ed inquadrare il ruolo che rico-pre all’interno dei complicati processi di produzione dei territorimetropolitani.

2. La metropoli a lavoro: comando e resistenze

Nel suo Dalla fabbrica alla metropoli Antonio Negri descrive ilpassaggio dalla produzione fordista a quella postfordista in questitermini:

Quando il sistema della fabbrica si affloscia, quando la pro-duzione diventa socialmente, reticolare e cognitiva, quando la vitastessa è messa in produzione, allora lo spazio metropolitano è per-corso da tutte quelle contraddizioni che la produzione di capitaledetermina, incentiva e mistifica. Una volta nella fabbrica, ora nellametropoli. La metropoli è divenuta un enorme crogiuolo di attivitàe di sfruttamento: è sulla base di una attività commisurata a questedimensioni che il proletariato moltitudinario si muove nellametropoli14.

La metropoli è da immaginare come il luogo in cui vivono unamolteplicità di alveari che costituiscono un intricato labirinto pro-duttivo fatto di giacenze di saperi, informazioni, desideri; sorgentidi valore frutto del lavoro della cooperazione sociale che il capitali-smo, continuamente, sussume. La metafora dell’alveare vuole rap-presentare una fitta rete pervasa dal capitale sociale, in cui i vecchiluoghi della produzione si ristrutturano e si combinano con i non-luoghi in cui vive la cooperazione sociale.

La morfologia dello spazio urbano contemporaneo non conce-pisce più un “dentro” ed un “oltre” da se stesso, la produzione escedalle mura dalla fabbrica e pervade la metropoli, in un processo percui vivere e produrre diventano le due facce di un’unica medaglia.La metropoli contemporanea si contraddistingue per il fatto che i

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14 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, cit., p. 27.

carnarsi in un ordine territoriale, a dar vita a forme di conviven-za leggibili-osservabili sul territorio spazialmente12.

La città va oltre se stessa, mette in discussione e rompe con tut-ti i criteri che compongono la sua morfologia, diviene cantiere di unprogetto in continuo divenire, in cui enormi distese territoriali sfug-gono ad una lettura complessiva che vorrebbe operare attraversocanoni classici. Edward W. Soja prova a descrivere la trasformazio-ne della metropoli utilizzando la definizione di “Exopolis”, inten-dendo un’enorme rete produttiva capace di inglobare tutto il terri-torio urbano e regionale, in una dinamica per cui la città rovescia sestessa con un andamento tutto proiettato all’esterno. Il paesaggiometropolitano è immaginato come un sistema nervoso in cui tutti inodi hanno una grossa dipendenza relazionale tra loro, dove nonesiste la dimensione del “dentro” e del “fuori”, in cui il confine èuna funzione simbolica strumentale al governo dei territori, ele-mento fittizio che può essere messo in discussione dalle esigenzeeconomico-politiche in qualsiasi momento. La suggestiva immagi-ne dell’Exopolis è in grado di raccontare il fenomeno per cui cate-gorie spaziali biunivoche non hanno più ragion d’essere in un con-testo in cui modelli differenti si sovrappongono, si ibridano, si dila-tano e scambiano le proprie funzioni continuamente. Questo sce-nario decostruisce il senso stesso di categorie come “centro” e “pe-riferia”, Exopolis si proietta in avanti, inglobando in se stessa tuttociò che veniva concepito come “altrove” dal nucleo urbano.

La fotografia che inquadra le caratteristiche generali della me-tropoli restituisce alcune tracce di ragionamento che vale la pena ap-profondire: mettendo in analisi la forma contemporanea dello spaziourbano emerge che l’orizzonte produttivo resta centrale nella confi-gurazione territoriale della metropoli, ma che le forme produttive sisono trasformate nel profondo. La forma del lavoro che oggi sembraessere egemonica nei processi di valorizzazione è il lavoro cognitivo,la produzione di valore non ha più bisogno di un luogo specifico, sidissemina in tutte le articolazioni del tessuto urbano, investendo inpieno territori e la vita stessa del soggetto metropolitano13.

146

12 M. Cacciari, Quando la città non ha più confini, «La Repubblica» del23.3. 2004 (visualizzato il 7.7.15).

13 Cfr. C. Vercellone, Capitalismo cognitivo: conoscenza e finanza nell’e-poca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006.

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potere che punta, innanzitutto, alla produzione del soggetto prota-gonista del lavoro immateriale.

Le attività di lavoro cognitivo conservano una natura autono-ma, attraverso la quale il soggetto punta al miglioramento di se stes-so e dei propri paradigmi culturali. Il capitalismo, dal suo punto divista e con l’obiettivo di estrarre valore intervenendo in questi pro-cessi, ha l’obbligo di rivolgere l’attenzione a strategie di disciplina-mento in grado di formare soggetti adeguati ai suoi obiettivi: “Perfare produzione è necessario produrre soggettività”20, le soggettivi-tà devono formarsi per essere asservite e disponibili allo sfrutta-mento. Negri paragona la metropoli contemporanea alla fabbricafordista, questa similitudine proietta la discussione su di un pianoulteriore: la fabbrica, infatti, era sì il luogo dello sfruttamento maanche l’ambito nel quale la classe operaia si riconosceva e ricompo-neva, dando vita a pratiche di lotta e resistenza a partire da rivendi-cazioni comuni. La fabbrica fordista si materializzava come l’ambi-to dello sfruttamento e del comando ma, da un altro punto di vista,anche come terreno ricompositivo e di resistenza. Seguendo la si-militudine: se la fabbrica rappresentava il luogo del comando maanche della resistenza, i territori metropolitani si configurano comelo spazio dello sfruttamento e della cattura della ricchezza ma, d’al-tro canto, sono il terreno del conflitto in cui le intelligenze metro-politane provano a tracciare vie di fuga e forme di lotta.

A questo proposito risulta particolarmente affascinante un’im-magine proposta da Saskia Sassen21, la quale descrive il modernograttacielo come l’unità architettonica pianificata in funzione delcomando, la metafora materiale del potere. Il grattacielo, però, èsuddiviso in un sotto ed un sopra che sono legati da una relazionedi comando e sfruttamento, quindi, potenzialmente, racchiude in séstesso la possibilità di un ribaltamento del rapporto. Ciò che la Sas-sen racconta attraverso l’immagine del grattacielo è la possibilitàdella rottura della pianificazione del comando capitalista, è la sfidache agita i terreni di mezzo della metropoli, un conflitto perenne,nel gioco della ridefinizione continua delle parti. Nel quadro teori-co formulato dall’economista le “città globali”22 sono i nuclei fon-

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20 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli, cit., p. 67.21 Cfr. S. Sassen, Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2003.22 Ibidem.

processi di sfruttamento riguardano la vita del soggetto metropoli-tano nella sua totalità, di conseguenza il valore che viene sussuntodal capitale è prettamente valore sociale; ed è proprio in questo sen-so che la metropoli diviene “Biopolitica”15:

Quando si dice metropoli si esprime un concetto biopolitico,fino in fondo, con esso si intendono insieme gli spazi, la temporal-ità, le consistenze tradizionali, le dimensioni storiche, le concretiz-zazioni culturali, eccetera.(…) Non c’è più un fuori dalla metropolicome non c’è più un fuori dal capitalismo. La metropoli come ele-mento connettivo dal punto di vista produttivo, come determinanteil surplus valorifico di accumulazione estrattiva, è l’elemento eco-nomico centrale.

(…) Il fatto che non ci sia più un fuori dalla metropoli capital-ista non nega che dentro il capitale ci sia sempre resistenza e che ilconcetto stesso di capitale (soprattutto, con più alta evidenza, quel-lo metropolitano) sia concetto di lotta di classe16.

Nella metropoli biopolitica l’oggetto della produzione non èpiù l’oggetto materiale in sé, bensì i saperi, i desideri, le attività re-lazionali e di cura diventano gli elementi centrali nella produzionedel lavoro immateriale frutto della cooperazione sociale, in un pro-cesso per cui creatività e conoscenza diventano le forze produttiveprincipali17. Se lo spazio urbano contemporaneo assume la nuovaforma della produzione del capitale globale, esso implica pure lecontraddizioni ed i conflitti figli dell’attuale rapporto capitale-lavo-ro18, si tratta di capire in che termini la relazione si declina concre-tamente. Nella metropoli dei biopotere19 gli schemi governamenta-li si vanno complessificando, costruendo un’intricata tecnologia del

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15 Cfr. P. Amato La biopolitica: il potere sulla vita e la costituzione dellasoggettività, Mimesis, Milano 2004.

16 Il polmone comune nella metropoli. Intervista ad Antonio Negri in gui-sa di appendice a La comune della cooperazione sociale, di Federico Tomasello:www.euronomade.info, Aprile 2014, (visualizzato il 3\09\15).

17 Cfr .A. Negri, Comune: oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano2010.

18 Cfr. C. Vercellone La legge del valore nel passaggio dal capitalismo in-dustriale al nuovo capitalismo, www.euronomade.info, 27.8.12, (visualizzato il13.5.15).

19 Cfr. M. Assennato, Metropoli biopolitica: lo spazio del conflitto tra flus-si globali e luoghi urbani, www.accademia.eu (visualizzato il 6.5.15).

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alternativa al modello neoliberista. Il compito delle soggettivitàconsiste nel riuscire a produrre forme di vita differenti che puntanoalla produzione di saperi da mettere in comune, capaci di riuscire asottrarsi dai meccanismi estrattivi del capitale. La possibilità di unametropoli libera e del comune si configura, innanzitutto, nella mes-sa in costruzione di una soggettività in grado di invertire i processidi formazione che producono soggetti disponibili allo sfruttamen-to. Premettendo il dato per cui il soggetto metropolitano non è pas-sivo ma, al contrario, ha un ruolo da attore protagonista nel pro-cesso di produzione del sé e della metropoli, è possibile interpreta-re le pieghe dell’alveare metropolitano come gli intermezzi all’in-terno dei quali si consuma la sfida più radicale, in cui le potenziali-tà dei soggetti si esprimono in pieno ed in cui è possibile aprire nuo-vi scenari di lotta e risalire le linee gerarchiche del controllo capita-lista. Si tratta, ora, di mettere in analisi i nuclei tematici intorno aiquali le mille pieghe della metropoli hanno la possibilità di tradursiin sacche di resistenza e conflitto. L’indagine dei territori metropo-litani deve saper articolare la sua ricerca anche dalla prospettiva del-le soggettività conflittuali per poter mettere in evidenza le forme at-traverso le quali le singolarità prendono a ricomporsi, nel tentativodi produrre punti di rottura, nell’ambizioso progetto di ricostruireuna metropoli del comune e non del capitale.

3. Commons urbani e pratiche di riappropriazione

L’economista Elinor Ostrom, nel corso dei suoi studi, ha defi-nito e classificato i beni comuni secondo due categorie: i beni co-muni naturali come l’acqua, l’aria e la terra, essenziali alla vita sulpianeta; i beni comuni frutto della creatività e dell’ingegno umano,come i beni comuni culturali, sociali e digitali. La differenza so-stanziale che intercorre tra le due categorie sta nel fatto che solo ibeni comuni naturali sono sistemi imprescindibili per l’esistenzaumana ed impossibili da riprodurre. La Ostrom mette a tema laquestione per cui, nella gestione capitalista delle risorse, i beni co-muni vengono esposti ad un progressivo processo di mercificazio-ne e recinzione che ne deturpa il principio sostanziale. Al contem-po l’economista è convinta che una gestione comunitaria dei benicomuni riuscirebbe a tutelarne il valore ed evitarne la mercificazio-ne. Per poter essere all’altezza della sfida le comunità hanno il do-

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damentali dell’economia globale, cellule strategiche di produzione ecomando; eppure quelle stesse città rappresentano un terreno stra-tegico anche dal punto di vista di chi quel comando lo subisce: “losvantaggiato e l’escluso possono guadagnare presenza in queste cit-tà, di fronte al potere, ed uno di fronte all’altro”23.

Si tratta di capire in che modo la resistenza allo sfruttamento hala possibilità di articolarsi tra le maglie della produzione nella me-tropoli. Si è accennato, a proposito delle forme del lavoro immate-riale, al fatto che il soggetto metropolitano attiva i processi di pro-duzione del sapere a partire da una tensione creativa che punta almiglioramento del sé. Il problema è che il capitale riesce ad usurpa-re immediatamente la ricchezza che il soggetto metropolitano è ingrado di produrre nella sua tensione autonoma. La sfida consiste,allora, nel tentativo di riuscire ad inventare forme di vita e di sape-re in grado di travolgere e spiazzare le pratiche predatorie che il ca-pitale mette in campo. È sul crinale di questa incessante dialetticache avviene la produzione del territorio metropolitano come unibrido, come uno scenario inedito capace di tenere in grembo tuttele contraddizioni che questa relazione conflittuale produce.

A partire da questi temi di ragionamento è possibile fotografa-re in maniera più definita l’immagine della Exopolis, l’enorme incu-batrice in cui vivono e confliggono tensioni differenti, in una dia-lettica che non si esaurisce in una sintesi comune ma che riesce afungere da motore attivo nella sua perenne trasformazione. Nelprocesso produttivo che pervade i paesaggi metropolitani vivono esi alimentano tensioni polarizzate che si declinano nel conflitto tracooperazione sociale e sfruttamento, controllo e vie di fuga. Per de-cifrare le simbologie che sottendono l’esperienza urbana contem-poranea è necessario, quindi, muoversi su un doppio livello: guar-dare ai territori dalla prospettiva della pianificazione capitalista e,contemporaneamente, rivolgersi alla capacità del soggetto metropo-litano di tracciare meccanismi di resistenza in grado di sovvertirequella stessa pianificazione.

Lo spazio metropolitano è da concepire come un terreno stria-to e conflittuale, in cui le singolarità provano a ricomporsi e sog-gettivarsi nelle pratiche di lotta, nella costruzione di una metropoli

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23 Intervista a Saskia Sassen, www.gabriellagiudici.it, agosto 2011, (visua-lizzato il 4.9.15)

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dei beni socialmente prodotti, in un processo che ne inverte il si-gnificato simbolico e lo riconfigura nella massimizzazione dei pro-fitti. Le dinamiche di esproprio dei commons si traducono sui terri-tori in processi di distruzione creatrice, nella devastazione ambien-tale e sociale, nella ristrutturazione di uno spazio urbano che neu-tralizza e marginalizza i soggetti non in grado di rispondere ai re-quisiti necessari per risultare compatibili alla nuova riconfigurazio-ne del tessuto urbano.

I processi di urbanizzazione, come sistemi che sovraintendonoe determinano l’organizzazione dello spazio urbano dal punto divista delle strutture come nei contesti culturali, rivestono un ruolocentrale in questi meccanismi. L’urbanizzazione, come pratica digovernance sui territori, determina dinamiche che non sono neutra-li ma che, al contrario, sono sempre mosse da logiche speculative edi profitto:

Progetti urbanistici faraonici e stupefacenti, e sotto molti as-petti di un’assurdità criminale, hanno trasfigurato luoghi comeDubai e Abu Dhabi, con l’intento specifico di assorbire il surplusdi capitale del settore petrolifero sperperandolo nel modo più ap-pariscente, classista ed antiecologico possibile27.

In quanto tali, questi processi, agiscono sventolando le bandie-re dello sviluppo e della riqualificazione, servendosi di strumenti fi-nanziari flessibili in grado di plasmarsi in base alle esigenze del ca-so, godendo del supporto statale, riconfigurando i territori per pre-disporli ai grossi interessi speculativi, espropriando, confinando edemarginando le fasce sociali che non possiedono i requisiti necessa-ri per entrare a far parte del gioco. L’etica neoliberista, fondata sulprincipio della proprietà privata, è riuscita a costruire un discorsoculturale egemone in grado di rivestire il ruolo di principio guidanella produzione di territori dominati dalle logiche brutali dellagentrificazione e della marginalizzazione. Il “diritto alla città” teo-rizzato da Henry Lefebvre28 e ripreso da tantissimi movimenti ur-bani, inteso come diritto collettivo e rivendicazione di classe, sistruttura a partire dalla possibilità di poter riconquistare e poter ge-

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27 D. Harvey, Le città ribelli, cit., p. 31.28 Cfr. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona 2014.

vere di rafforzare i legami tra i propri componenti, favorendo i rap-porti di fiducia, la condivisione, il rispetto e la comunicazione24.

David Harvey riprende il filo di questo ragionamento sulle co-munità e lo declina nell’ambito della sua ricerca sullo spazio urba-no, articolando una prospettiva più profonda per cui il common èconcepito come “relazione sociale instabile e dinamica tra un grup-po sociale determinato e autodefinito e quegli aspetti dell’ambientesociale e\o fisico ritenuti cruciali per la sua esistenza e il suo sosten-tamento.”25 Harvey, nella sua indagine sulla prassi produttiva dellametropoli contemporanea, sviluppa una definizione dei commonsche pone l’accento sui sistemi relazionali, sulle dinamiche che undeterminato gruppo sociale è in grado di mettere in gioco nella pro-duzione di un bene considerato esente dalle logiche del profitto ed,allo stesso tempo, essenziale per la collettività. I commons urbani,quindi, sono il frutto dal lavoro cooperativo della collettività nellaproduzione dei saperi autonomi, come di un territorio urbano chevorrebbe sfuggire alla sua stessa mercificazione. Negri, sul crinale diquesto particolare nucleo tematico, è ancora più radicale:

La metropoli è totalmente integrata e inserita nella produzionebiopolitica: l’accesso alle riserve comuni incorporate nellametropoli rappresenta la base della produzione, mentre i prodottiricavati dalla produzione sono a loro volta iscritti nella metropoliper ricostruirla e per trasformarla. La metropoli è la fabbrica in cuisi produce il comune. (…) Oggi sta affiorando la città biopolitica.Con il passaggio all’egemonia della produzione biopolitica, lospazio della produzione tende a confondersi con lo spazio urbano.I lavoratori producono in tutta la metropoli in tutti i suoi anfratti einterstizi. In altre parole, la produzione del comune non è niente al-tro che la vita della città stessa26.

I commons urbani sono il frutto del lavoro, dell’ingegno e dellacreatività collettiva, il problema sta nel fatto che il capitale è in gra-do di mettere in campo pratiche predatorie volte alla cooptazione

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24 Cfr. E. Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche ed ini-ziative della collettività, Marsilio, Venezia 2009.

25 D. Harvey, Le città ribelli: i movimenti urbani dalla Comune di ParigiOccupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013, p. 96.

26 A. Negri, Comune: oltre il privato e il pubblico, cit., pp. 252-253.

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rampe Brancaccio nei Quartieri Spagnoli. Gli ultimi due: il Cross aSalita Arenella al Vomero, stabile figlio di un’enorme speculazioneed attualmente in mano alla curatela fallimentare, ed infine l’ASL aMaterdei, palazzo di proprietà regionale.

C’è da specificare che la pratica delle occupazioni a scopo abi-tativo non è una novità in se stessa, il territorio partenopeo (in par-ticolare tra gli anni ’70-’80) ha una storia molto interessante fatta digrandi movimenti organizzati30, ma anche di forme di illegalità dif-fusa votate esclusivamente alla soddisfazione del bisogno abitativo.L’esperienza di M.O.P, per certi versi, sceglie di orientarsi secondouna prospettiva diversa: il movimento, articolando una complessamappatura dello spazio urbano, punta ad organizzare il bisogno,orientandolo nella riappropriazione di strutture simbolo della spe-culazione, della dismissione del patrimonio pubblico, dell’abbando-no e del degrado. Il diritto alla casa è inquadrato nel quadro più am-pio del diritto all’abitare i territori, per cui la conquista di un tettodignitoso rappresenta il primo passo di una battaglia più grande cherivendica welfare, servizi, accesso alle risorse. Un ulteriore elemen-to caratterizzante è dato dalla scelta del movimento di occuparestrutture che si trovano tutte in quartieri storici del centro cittadi-no; la scelta è figlia dell’aspirazione a voler contrastare material-mente la marginalizzazione e la gentrificazione per cui, anche a Na-poli, i gruppi sociali più sensibili vengono respinti al di fuori dellemura cittadine, in quartieri dormitorio, nel progetto di una città ve-trina a misura di consumo, in cui la povertà non ha dimora.

Inoltre, come si diceva, M.O.P nasce nell’ambito delle lotte an-ti-austerity: la riappropriazione diretta attraverso le occupazioni,come il lavoro territoriale che si innesca a partire dalle stesse, sonopratiche di lotta contro le politiche neoliberali che i territori cono-scono nel concreto come speculazione, attacco allo spazio urbanonella devastazione ambientale, nell’aggressione ai beni comuni enello smantellamento del welfare. La rivendicazione di una metro-poli del comune, si declina, in questo senso, nella riappropriazionedal basso del territorio, come nella messa a valore delle esperienzedi mutualismo che si innescano a partire dalle esperienze di occu-

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30 Cfr F. Festa, L’alchimia ribelle napoletana. Materiali per una storia del-la città antagonista, in Potere e società a Napoli a cavallo del secolo, omaggio aPercy Allum, a cura di O. Cappelli, ESI, Napoli 2003, pp. 381-423.

stire le risorse e quel comune prodotto dal lavoro sociale di cui lacollettività viene derubata dal capitale.

Dopo la crisi del 2008 la tecnologia delle pratiche predatorie aidanni dei commons urbani si è andata complessificando ed è stataspacciata come una delle precondizioni funzionali alla ripresa eco-nomica:

Dalla California alla Grecia, la crisi ha prodotto perdite di val-ore del patrimonio urbano, dei diritti e di accesso per gran partedella popolazione, insieme all’estensione del potere del capitalismopredatorio su chi ha redditi bassi ed è già marginalizzato. In sostan-za, si è trattato di un attacco su tutti i fronti ai beni comuni ripro-duttivi ed ambientali29.

D’altro canto, però, negli ultimi anni e su scala internazionale,si assiste ad una moltiplicazione delle esperienze di lotta che sfida-no i modelli di governance dei territori. Le sacche di resistenza sistrutturano a partire dalle esperienze dei grandi movimenti di piaz-za, capaci di produrre meccanismi di soggettivazione velocissimi,ma che vanno oltre le piazze stesse, sedimentandosi nelle forme piùdisparate. Nelle città italiane, nell’ambito dei movimenti socialicontro l’austerity, nel tentativo di dare risposte al progressivo im-poverimento ed alla precarizzazione della vita prodotte dall’esplo-sione della crisi, si è ripreso ad occupare a scopo abitativo. I movi-menti per il diritto all’abitare rappresentano, oggi, una delle voci piùautorevoli in opposizione alle pratiche predatorie dei commons ur-bani che devastano i territori.

A Napoli, l’esperienza di lotta per il diritto all’abitare Ma-gnammece o’ pesone nasce nel 2012 e prende corpo in un contestoper cui le pratiche predatorie e di marginalizzazione investono fa-sce sociali sempre più larghe, aggredendo i quartieri popolari dellacittà, materializzandosi nell’esplosione di sfratti e pignoramenti atappeto. Ad oggi M.O.P conta cinque occupazioni a scopo abitati-vo, distribuite in diversi quartieri storici della città. In ordine cro-nologico, i tre palazzi di proprietà comunale: l’ex scuola media Mi-chelangelo Schipa in Via Salvator Rosa, nel quartiere Avvocata, Vil-la de Luca a Capodimonte, gli ex uffici comunali dell’Annona a

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29 D. Harvey, Le città ribelli, cit., p. 109.

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dai processi di trasformazione urbana, implicando di conseguenzauna trasformazione demografica e sociale del territorio:

Tuttavia questo enorme processo di trasformazione ha subito,almeno negli ultimi decenni, un vero e proprio blocco, risultato del-la incapacità delle amministrazioni che si sono avvicendate al gover-no della città e del paese di impostare un’opera di pianificazione ur-bana effettiva, e allo stesso tempo della salvaguardia di equilibri trainteressi economici e blocchi di potere politico tradizionali. Ciò haprodotto una vera e propria desertificazione di alcune aree, un im-poverimento complessivo della capacità produttiva dei territori chesi sono tradotti in un sostanziale attacco alle condizioni di vita delleclassi lavoratrici e del proletariato urbano33.

In uno scenario di questo tipo, il 2 giugno 2012, nasceva a Ba-gnoli il collettivo Bancarotta con l’occupazione dei locali dell’exBanca Intesa, all’interno dell’enorme distesa dell’ex area Italsider. Ilcollettivo traccia due piani di intervento politico fondamentali: unprimo piano è caratterizzato dalla questione della dismissione delpatrimonio pubblico che, a Bagnoli come in altri territori, si sommaal problema della desertificazione di intere aree (ex Italsider, ex Ce-mentir, collina di San Laise, zona N.A.T.O, Zoo ed Edenlandia) unfenomeno che si materializza nell’abbandono e nel degrado diffuso.Un altro e complementare livello riguarda la questione della bonifi-ca del territorio. Bancarotta nasce all’interno dell’area dell’ex ac-ciaieria che, una volta dismessa, ha lasciato un’eredità fatta di velenie scorie tossiche, malattie e morte. La costituzione, cui aderisconotanti cittadini e diverse realtà organizzate, del “Comitato Bonifi-chiamo Bagnoli”, insieme alla rivendicazione di una spiaggia pub-blica e accessibile a tutti, con la pretesa di una legittimazione deglispazi sociali in grado di saper raccogliere i bisogni del territorio,rappresentano la presa di parola di un quartiere che vuole riprende-re a decidere per la propria comunità, al netto di decenni di deva-stazione sociale ed ambientale.

L’esperienza di Bancarotta viene interrotta l’11 aprile 2013 conl’intervento della Magistratura nell’ambito delle indagini a carico dialcuni ex dirigenti della Bagnoli Futura spa, a seguito del quale so-

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33 Briganti o emigranti, a cura di Orizzonti Meridiani, Ombre Corte, Ve-rona 2014.

pazione. Da questo punto di vista, l’aspirazione del movimentoconsiste nella messa a disposizione delle competenze e delle rela-zioni che gli occupanti hanno saputo costruire nella propria espe-rienza. L’organizzazione di un bisogno sociale è il primo tassello diun processo costituente che ha la velleità di costruire comunità ter-ritoriali in grado di imbastire momenti di socializzazione e condivi-sione, come percorsi condivisi in grado di mettere al centro bisognie desideri del tessuto vivo che anima i quartieri. L’obiettivo diM.O.P, come in generale dei movimenti per il diritto all’abitare a li-vello nazionale ed internazionale, consiste nella sedimentazione neiterritori di quelle pratiche e di quei saperi che favoriscono i proces-si di soggettivazione di una comunità territoriale che comincia adorganizzarsi autonomamente, nella pretesa della gestione di quelcomune di cui viene derubata, come nella voglia di autodeterminar-si e di favorire “una crescita delle reti della cooperazione e della co-municazione, in una crescente intensità del comune e degli incontritra le singolarità”31.

Ed ancora nel pretendere capacità gestionali e decisionali su disé e sui propri territori:

Si può fare dunque riferimento ad un più ampio – diritto al-l’abitare – come base fondamentale di una rinnovata democraziasostanziale e assoluta. Riconoscere questo diritto significa metteregli abitanti nella condizione di esercitare forme effettive di potere econtrollo sulla produzione dello spazio geografico, conferendoloro la capacità di incidere sui processi costitutivi della vita associ-ata, come la trasformazione dell’ambiente e la sua tutela, la qualitànell’offerta dei beni di consumo, la progettazione e la costruzionemateriale degli spazi da abitare32.

Le esperienze conflittuali che strutturano la propria prassi poli-tica a partire da una vocazione di autogoverno e cooperazione rac-contano, immediatamente, le contraddizioni che attraversano i ter-ritori. Per approfondire il ragionamento sul territorio napoletano ènecessario volgere lo sguardo alla zona occidentale della città che,indubbiamente, rappresenta una delle aree maggiormente investite

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31 A. Negri, Comune: oltre il privato e il pubblico, cit., p. 26132 U. Rossi, A. Vanolo, Geografia politica urbana, Manuali Laterza, Bari

2010, p.162.

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preliminare si dovrà cioè fare chiarezza sul significato che assume lacittadinanza nel contesto della metropoli contemporanea, sviluppan-do un ragionamento su ciò che rappresenta, oggi, lo spazio pubblico.

Si è già approfondito il tema per cui le metropoli contempora-nee si presentano come immense distese territoriali caratterizzatedall’esplosione di ogni griglia interpretativa dello spazio urbano, incui gli ambienti si moltiplicano, si sovrappongono, si ibridano. Inun contesto per cui ogni categoria classica viene messa in crisi, an-che la concezione di sfera pubblica esige una riformulazione. C’è dapremettere che, storicamente, la configurazione dello spazio pub-blico è un processo che non è espressione di uno sviluppo concet-tuale coerente e razionale, bensì, al contrario, è frutto delle praticheconflittuali di gruppi sociali che mettono in discussione le dinami-che di sbarramento che vorrebbero caratterizzarlo.

Oggi, nei territori metropolitani, si assiste ad un progressivo ve-nir meno dello spazio pubblico inteso come luogo in cui fare politi-ca come prassi partecipativa: le forme di controllo e disciplinamen-to, come le grandi privatizzazioni, sono inquadrate tra i primi re-sponsabili dell’annichilimento del carattere pubblico degli spazi. Mi-ke Davis, nella sua indagine su Los Angeles, ha saputo dare grosseindicazioni rispetto alle dinamiche di potere che si vanno ossifican-do all’interno degli ordinamenti territoriali delle grandi metropoli:

La ristrutturazione urbana ha convertito quelle che erano virtu-ali strade pedonali in scoli di traffico, ha trasformato i parchi pub-blici in temporanei contenitori per senzatetto ed altri diseredati (…)gli spazi pubblici sono in drastico declino, i parchi in rovina e le spi-agge sempre più segregate, vengono chiuse le biblioteche e i giardi-ni pubblici, le normali riunioni dei giovani sono sommariamente vi-etate, le strade diventano sempre più desolate e pericolose34.

Come spiega Davis, i primi a subire le conseguenze dell’azzera-mento del carattere pubblico degli spazi sono i gruppi sociali piùmarginali, quelle identità “altre” essenziali per la valorizzazionedella politica come prassi partecipativa nella sfera pubblica35. Inproposito, Ugo Rossi sviluppa un ragionamento sulle diverse iden-

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34 M. Davis, Città di quarzo: indagando sul futuro a Los Angeles, Manife-stolibri, Roma 1999, p. 123.

35 Cfr. M. Davis Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Roma 2006.

no stati posti sotto sequestro anche i locali dell’ex Banca Intesa.Nonostante lo sgombero il progetto politico del collettivo continuacon l’occupazione, il 17 maggio 2013, dell’ex Lido Pola a Coroglio,sempre nel quartiere di Bagnoli. Lo stabilimento, abbandonato da-gli anni ’80, fa parte dell’elenco dell’Agenzia del Demanio, tra i do-dicimila beni immobili in vendita. L’occupazione del Lido Pola sicostituisce come osservatorio permanente, luogo di aggregazione econdivisione della battaglia per la realizzazione di una spiaggia pub-blica e della bonifica del mare e dei terreni. Alla lotta per la riquali-ficazione ambientale, con la vocazione di sottrarre il territorio a lo-giche clientelari e predatorie, si sovrappone la rivendicazione di unadestinazione d’uso sociale per gli spazi pubblici, rivendicazione chevive materialmente nel progetto di una gestione partecipata di unospazio sottratto al degrado e all’incuria, di un laboratorio d’arte,musica e saperi, in grado di proporre una declinazione concreta dibene comune socialmente prodotto ed accessibile a tutti.

Le esperienze di Bancarotta\Lido Pola e del movimento per ildiritto all’abitare M.O.P, rappresentano solo alcuni tra i modelliparadigmatici di esperienze conflittuali che provano a strutturare lapropria prassi politica a partire dalle trasformazioni dello spazio ur-bano e delle sue comunità. Questi laboratori politici articolano ilproprio punto di vista sulla messa in discussione del modello di svi-luppo neoliberista nella ricerca e nell’appropriazione di spazi e ri-sorse in cui sedimentare pratiche e saperi, sperimentando forme divita differenti, puntando sui processi in grado di mettere a valore ilpotenziale di rottura e cambiamento che si esprime sul territorio na-poletano, interpretando lo spazio urbano come un terreno conflit-tuale, sfidando la pianificazione del territorio come luogo di disci-plinamento, dello sfruttamento del lavoro collettivo, della violentasottrazione dei beni comuni.

4. Lo spazio pubblico: pratiche di soggettivazione e partecipa zione

Nell’indagine sulla possibilità di una metropoli libera e del co-mune, come si è detto, comando e soggettività conflittuali, sono dueelementi da inquadrare nella loro continua dialettica, come elementosostanziale nella produzione dei territori. Mettere a tema questa re-lazione vuol dire necessariamente chiamare in causa la questione del-le pratiche di soggettivazione e partecipazione politica. Ad un livello

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no a strutturare la propria prassi politica e conflittuale nell’ambitodella trasformazione urbana. Come si diceva, i quartieri popolaridel tessuto urbano partenopeo fanno parte di quei territori che sof-frono particolarmente le dinamiche di espropriazione e marginaliz-zazione che investono la città nei suoi dispositivi di governance. Alcontempo Napoli è attraversata da un arcipelago di esperienze di re-sistenza, reti di solidarietà, laboratori politici, che immaginano eproducono un’esperienza urbana differente. È interessante tematiz-zare le forme e la prassi in cui si articolano quelle realtà che più siinterrogano attorno ai nodi della partecipazione e sulle identitàmarginalizzate, sommerse. Zero81 è uno spazio occupato nel cuoredel centro storico della città, precisamente a Largo Banchi nuovi nelquartiere S. Chiara, fa parte di quella costellazione di laboratori po-litici nati in città negli ultimi anni ed articola la propria esperienzain un contesto di complessa morfologia territoriale. Il paesaggio ur-bano del centro storico trasmette una molteplicità di tensioni irri-ducibili ad una codificazione specifica:

I suoi monumenti storici sono talmente incastrati nel tessutourbano da risultare spesso introvabili o indistinguibili, come pure gliedifici delle prestigiose università, Federico II e Orientale, che sonodislocate su tutto il territorio e ne sono un pezzo importante. Comeper altri centri storici delle città meridionali, i fenomeni di gentrifi-cation che hanno profondamente trasformato tante città europee,dove la modernità capitalista si è dispiegata come espulsione dellapopolazione autoctona per la messa a valore turistico-culturale delpatrimonio urbano e monumentale40.

Zero81 vive sul solco di diverse contraddizioni: in un contestourbano di quel tipo convivono disoccupazione, marginalità, sfrutta-mento ed, allo stesso tempo, studenti fuori sede, professori e ricer-catori universitari, oltre che una marea di attività commerciali lega-te alla movida ed al turismo. Il laboratorio politico si configura,quindi, come ponte tra due mondi (anche nella sua stessa materiali-tà dato che i locali occupati sono quelli della ex mensa storica del’Orientale), tra saperi e territorio, due realtà che si incontrano solo

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40 A. Perillo, Napoli globale: territorio e potere nella città plebea, in “Cit-tà mediterranee e deriva liberista”, a cura di S.Palidda, Mesogea, Messina 2011,pp. 45-70.

tità che compongono l’arcipelago del tessuto urbano, riprendendo,per certi versi, il discorso di Hannah Arendt36: “Hannah Arendt al-lude, infatti, ad una pratica della cittadinanza vista non solo comeideale globale ed universale, ma come intimamente legata all’esi-stenza di una sfera pubblica di partecipazione democratica che nontrascende l’importanza di comunità politiche particolari e, al tempostesso, plurali”37. Per Rossi, i ragionamenti della Arendt “offrono lapossibilità di immaginare lo spazio pubblico come un’entità costi-tuita da differenze e da identità fluide ed instabili”38. La rivendica-zione di una metropoli libera e del comune non può prescinderedalla messa a tema di questi elementi: la metropoli contemporaneatende a sommergere, nel suo magma omologante ed escludente, tut-te le soggettività che fanno parte delle identità non compatibili conla ristrutturazione delle sue forme.

La rivendicazione di un diritto alla città, sul piano delle lotte ur-bane, deve avere la capacità di tradursi anche nella lotta per il dirit-to alle differenze, nel senso di una rivendicazione per cui i diversigruppi sociali hanno l’opportunità di valorizzarsi nella prassi poli-tica che si concretizza come attività partecipativa che contraddistin-gue la sfera pubblica. Da questo punto di vista le lotte sull’uso de-gli spazi pubblici rappresentano esperienze di conflitto che investo-no il significato della cittadinanza nella partecipazione ad una de-terminata comunità politica:

I conflitti e le mobilitazioni che si sviluppano intorno al signifi-cato e alla pratica quotidiana della cittadinanza urbana gettano lucesull’importanza acquisita dalla politica della presenza nella cittàcontemporanea. Tale politica individua nel riconoscimento del dirit-to alla differenza un traguardo fondamentale nel percorso di affer-mazione di un ordine politico democratico e più egualitario allascala urbana39.

Il tema è denso di questioni da sviscerare, ed è doveroso rivol-gere lo sguardo dell’indagine a quelle realtà conflittuali che prova-

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36 H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2000.37 U. Rossi, La politica dello spazio pubblico nella città molteplice, «Rivista

geografica italiana», Firenze 2008, p. 433.38 Ibidem.39 U. Rossi, A. Vanolo, Geografia politica urbana, cit., p. 174.

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occupava il convento delle Teresiane in salita S. Raffaele. L’avveni-mento ha prodotto una reazione del quartiere e di tutta la città di ra-dicale rifiuto, e la comunità territoriale di Materdei si è resa prota-gonista di una battaglia capace di ottenere lo sgombero del conven-to e la cacciata dei neofascisti dal quartiere. Le mobilitazioni hannoinvestito quel territorio di una serie di pratiche, saperi e modalità re-lazionali capaci di concretizzarsi nella nascita di un comitato diquartiere; un percorso inedito votato alla sperimentazione dellapartecipazione come prassi politica, nella socializzazione dei biso-gni e desideri dei diversi attori del quartiere, nella prospettiva co-mune di un territorio abitabile e non solo vivibile.

Il primo ambito costruito collettivamente riguarda il luogo as-sembleare. In un primo momento le riunioni si sono tenute nellapiazzetta di Materdei, con un richiamo all’agorà come spazio pub-blico di socializzazione, relazione e partecipazione come prassi po-litica. I presupposti che regolano il funzionamento del comitato,come la capacità decisionale, sono processi immaginati collettiva-mente, tra tanti e diversi, in discussioni votate alla costruzione di unconsenso capace di tenere dentro i punti di vista di tutte le differen-ti soggettività in gioco. La stessa definizione del comitato, come“Comitato Abitanti Materdei”, racchiude un significato: la scelta dievitare la parola “cittadini” ma di inserire, invece, “abitanti” richia-ma l’aspirazione di essere ambito accessibile a chiunque abiti il ter-ritorio, superando in avanti i prerequisiti necessari per accedere altitolo di “cittadino”. Il Comitato, nel corso degli anni, è cresciutofino ad arrivare a maturare la scelta di riprendersi quello stesso con-vento che, poco tempo prima, veniva occupato dai neofascisti diCasapound. Il 5 febbraio 2012 un centinaio di persone “liberano” ilconvento, dando vita al Giardino Liberato, la scelta del lessico nonè casuale nemmeno in questa fase. Uno spazio per anni destinato al-l’abbandono ed al degrado, finito nella lista del patrimonio pubbli-co in dismissione, attraverso la pratica dell’azione diretta, viene “li-berato” e riconsegnato alla fruizione di un’intera comunità territo-riale. Una scelta del genere, per una composizione eterogenea comequella del Comitato, non è scontata. La decisione è figlia di nume-rose assemblee di piazza: i dibattiti, la partecipazione, la costruzio-ne di una rete di cooperazione attiva sul quartiere, le relazioni, han-no maturato ciò che il movimento antifascista aveva sedimentato inquei luoghi, la consapevolezza di una comunità territoriale di poterdecidere su di sé e sul proprio futuro.

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in una relazione di estraneità e conflitto. L’essere “ponte” si mate-rializza come prassi politica, in particolare, in una delle attività delcollettivo, l’esperienza del “Doposcuola oltre la scuola”. Il dopo-scuola è a disposizione dei bambini del quartiere a titolo gratuito eprevede diversi incontri settimanali dedicati allo studio, svariati la-boratori e momenti ludici in cui vengono coinvolte le famiglie diprovenienza, uscite esterne, attività seminariali e di autoformazione.

Il progetto è il frutto dell’incontro e della relazione tra studen-ti, insegnanti, abitanti del quartiere, che scelgono di misurare la pro-pria esperienza biografica ed i propri saperi con la complessità di unterritorio del genere. L’obiettivo del percorso consiste nell’interve-nire nello smantellamento dei saperi e di dequalifica complessiva deiservizi scolastici e del welfare sul territorio. La prassi si sviluppanella decostruzione dei modelli culturali che tendono alla struttura-zione di individui marginalizzati, razzializzati, rinchiusi in quartie-ri ghetto.

Come si diceva, la partecipazione come prassi politica non hasenso se non riesce ad essere agita dalle diverse soggettività che at-traversano i territori; l’esperienza del “Doposcuola oltre la scuola”ha come ambizione proprio la costruzione di reti sociali che tenga-no insieme i diversi attori che abitano il quartiere. La sfida prendecorpo laddove i dispositivi disciplinari puntano alla formazioneunidirezionale di soggetti compatibili, in cui le singolarità e le diffe-renze vengono azzerate nella funzione omologante dell’istruzione.L’aspirazione consiste, al contrario, nella messa in comune dei sape-ri, nel sostegno all’autonomia e al libero sviluppo delle attitudinipersonali dei bambini.

Spostando lo sguardo in un altro quartiere storico della città,Materdei, ci si imbatte in una diversa esperienza, che ha come co-mune denominatore la prassi politica a partire dalla messa a valoredelle differenti soggettività che attraversano il territorio. Nel corsodella ricerca sui territori metropolitani, più volte, si è affrontato iltema della soggettività come nodo centrale nella produzione dellelotte, per cui la possibilità di un processo che intende rovesciare lecondizioni materiali e il sostrato simbolico della metropoli si so-vrappone alla questione della formazione del soggetto. In proposi-to c’è da specificare che i processi di eccedenza e di movimento han-no la capacità di innescare i meccanismi di soggettivazione con unavelocità imparagonabile. A Materdei è successo qualcosa del gene-re: nel 2009 un gruppo di giovani neofascisti, aderenti a Casapound,

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grado di autogovernarsi secondo i principi della cooperazione, nel-la condivisione degli spazi e dei mezzi di produzione. Da questetensioni di fondo si struttura la pratica gestionale che lo contraddi-stingue, un modello analogo al sistema che regola gli usi civici. Ilprincipio di fondo è l’idea per cui la fruizione non è legata all’asse-gnazione ad un soggetto particolare, bensì alla partecipazione ad unprogetto comune, “si propone, dunque, un modello di uso civico ca-pace di trasformare il pubblico riarticolandone la sovranità e trasfe-rendo a nuove istituzioni popolari, radicalmente democratiche”43.

Un’esperienza del genere offre attività e spazi per la produzio-ne culturale ed artistica accessibile ed attraversabile, proprio lo spi-rito cooperativo che la contraddistingue evita il ripiegamento su dise, ponendola, al contrario, sul solco del territorio in cui nasce. So-no proprio gli elementi dell’accessibilità e della libera fruizione, chesi concretizza come prassi politica nella gestione e nella partecipa-zione, a qualificare un bene come comune ed a definire l’ esperien-za dell’ex Asilo Filangieri come pratica conflittuale e di commoning.

È chiaro che le esperienze di lotta sopra descritte strutturano lapropria prassi politica a partire dall’inchiesta dei territori che attra-versano, rivendicando una concezione della cittadinanza come pra-tica espansiva, capace di valorizzare l’eterogeneità dei soggetti, ingrado di far emergere le identità “altre”, che si determina nella pras-si della costruzione di istituzioni del comune:

Le città sono notoriamente luoghi che si definiscono sulla basedella loro densità abitativa e demografica. Si tratta ora di affermarel’idea per cui le città non sono solo luoghi densi di edifici e di spazicostruiti, ma anche di attori e di istituzioni formali e non-formali,di progetti e di modalità differenziate, multi-scalari, multi-cultur-ali, multi-identitarie, di costruzione della cittadinanza urbana44.

Territori e soggettività, dunque, rappresentano la relazione ed ildoppio binario attraverso cui si sviluppa la ricerca sulla forma con-temporanea dell’urbano e sulla possibilità di una metropoli del co-mune. La resistenza alla pianificazione capitalista dei territori si ar-ticola a partire dalla produzione di una soggetto capace di invertire

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43 Ibidem.44 U. Rossi, La politica dello spazio pubblico nella città molteplice, «Rivista

geografica italiana», cit., p. 453

Ed è proprio sui temi della partecipazione, della costruzione delconsenso e dell’autogoverno, che il collettivo La Balena struttura lapropria prassi politica, contribuendo in maniera sostanziale al labo-ratorio politico che attraversa la città negli ultimi anni, sperimentan-dosi ed interrogando la propria comunità, innanzitutto, nella gestio-ne degli spazi in cui vive. La Balena occupa i locali dell’ex Asilo Fi-langieri, ex sede del forum delle culture, in via Maffei nel quartiereSan Lorenzo, dal 2 marzo 2012. La comunità che anima l’Asilo ècomposta, per la maggior parte, da lavoratori dello spettacolo o del-l’immateriale, figli del grande movimento che, negli ultimi anni, hatravolto l’Italia ponendo il problema del degrado dell’industria cul-turale del Paese, dei sistemi clientelari che contraddistinguono le suelogiche e della sua gestione privatistica e scadente. Il grande meritodel movimento è la capacità di “elaborare alternative concrete chepotessero fungere da modelli alternativi, accostando alla riappropria-zione simbolica degli spazi, la sperimentazione di pratiche radicali diricomposizione dei lavoratori verso nuove forme di organizzazione,produzione e fruizione della cultura”41. Le vocazioni della comunitàdell’Asilo sono schematizzabili in due nuclei tematici: un primo pia-no riguarda la voglia di promuovere forme di sperimentazione cul-turale ed artistica che, “dal basso”, sapessero fungere da critica al mo-dello dell’industria culturale del Parse ma che, al contempo, potesse-ro rappresentare risposte concrete e modelli alternativi possibili. Daqueste aspirazioni nasce la necessità di provare a mettere in piedi uncentro di produzione indipendente, tenendo a mente che:

La Costituente propone di qualificare nel segno del comune iluoghi della produzione immateriale. Una dizione che raccoglie ilportato del cambiamento della produzione verso forme de materi-alizzate. Luoghi d’incontro e di produzione creativa rappresentanobisogni essenziali per la riproduzione della città come formazionesociale, organismo politico e dispositivo produttivo della contem-poraneità42.

Un secondo livello, ma immediatamente conseguente al primo,investe il piano della costruzione di una comunità aperta e fluida in

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41 www.lavoroculturale.org (a cura di) La Balena.42 C. Bernardi, F. Brancaccio, D. Festa, B. Mennini (a cura di), Fare spazio:

pratiche del comune e diritto alla città, Mimesis Kosmos, Milano 2013.

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LORENZO COCCOLI

Il comune contro la proprietà.Spunti per una critica democratica

del dispositivo proprietario

1. Che l’attuale crisi economica sia attraversata – cioè precedu-ta e accompagnata – da una crisi democratica altrettanto profonda eradicale, è un dato che non può sfuggire a una seria analisi critica delpresente, e che è stato infatti puntualmente registrato1. Crisi se-mantica, se è vero che il significante “democrazia” pare svuotarsi disignificato in misura direttamente proporzionale alla stupefacenteestensione della sua popolarità su scala globale. Ma anche, e soprat-tutto, crisi delle sue forme istituzionali e della sua natura politica.La sintomatologia è ampia e variegata: le procedure tradizionali del-la partecipazione popolare esautorate dalla crescente fusione tra ilpotere privato delle grandi aziende multinazionali e quello pubbli-co degli apparati statali; il processo elettorale ridotto a pura forma-lità e schiacciato sulle logiche commerciali del marketing; i fonda-

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1 La letteratura recente sulla crisi della democrazia è pressoché sconfinata.Limitandoci solo ad alcuni titoli più significativi, peraltro relativamente etero-genei dal punto di vista dell’analisi: C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Ro-ma-Bari 2003; J. Rancière, La haine de la démocratie, La fabrique, Paris 2005,trad. it. L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 20112; P. Rosanvallon, Lacontre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006, trad. it.Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012;S. S. Wolin, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter ofInverted Totalitarianism, Princeton University Press, Princeton 2008, trad. it.Democrazia S.p.A., Fazi, Roma 2011; AA.VV., Démocratie, dans quel état?, Lafabrique, Paris 2009, trad. it. In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma2010; A. Arienzo e G. Borrelli, Emergenze democratiche. Ragion di stato, go-vernance, gouvernementalité, Giannini, Napoli 2011; W. Brown, Undoing theDemos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, New York 2015.

le pratiche di formazione che lo vorrebbero asservito e disponibileallo sfruttamento. I meccanismi di soggettivazione devono presup-porre una concezione della cittadinanza come pratica espansiva, ca-pace di valorizzare l’eterogeneità delle identità che popolano i ter-ritori metropolitani. La possibilità di una metropoli del comune,come opera collettiva di soggetti diversi, non può prescindere dallariappropriazione delle diverse soggettività “sommerse” del proces-so materiale e simbolico che struttura la configurazione della sferapubblica e dell’esperienza urbana collettivamente.

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sulla figura di un individuo-impresa responsabile unicamente dellavalorizzazione del proprio “capitale umano”.

Comune ai due processi è l’orizzonte proprietario all’internodel quale entrambi sembrano muoversi. Tuttavia, se la teoria criticaha giustamente insistito sulle evoluzioni giuridiche della proprietàcome motore delle nuove dinamiche di accumulazione legate a un“secondo movimento di enclosures”5, minore attenzione è stata de-dicata all’altro corno del problema, quello del rapporto tra disposi-tivo proprietario e fabbricazione di soggettività funzionali al regimeneoliberale. In queste pagine vorrei allora procedere come segue:innanzitutto, si tratterà di definire a grandi linee il funzionamentodi tale dispositivo, mostrandone in particolare la centralità all’inter-no del paradigma hobbesiano dell’autorizzazione e dello scambio;cercherò poi di illustrare la sua tendenziale incompatibilità con laforma di vita democratica, richiamandomi stavolta all’opera del pri-mo grande diagnosta della democrazia moderna, Alexis de Tocque-ville; passerò dunque a considerare come e in che misura il proces-so di de-democratizzazione portato avanti dal neoliberismo sia inparte riconducibile alla radicalizzazione dei meccanismi di soggetti-vazione proprietaria implicita nelle sue tecniche di governo; infine,proporrò di guardare al “principio politico del comune”, che staemergendo dalle lotte globali contro il modello neoliberale6, comebase possibile per una produzione alternativa di soggetti democra-tici e per una reinvenzione complessiva della teoria e delle pratichedella democrazia.

2. Prima di proseguire oltre si rende però necessaria una preci-sazione. Quando, nel seguito, parlerò di “dispositivo proprietario”,mi riferirò alla proprietà non solo e non tanto sotto il suo profilogiuridico e normativo, ma soprattutto in quanto point de capiton diun plesso governamentale articolato7 finalizzato alla creazione e al-

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5 Cfr. J. Boyle, The Second Enclosure Movement and the Construction of thePublic Domain, «Law and Contemporary Problems», n. 66, 2003, pp. 33-74.

6 È la tesi, a mio avviso condivisibile, di P. Dardot e C. Laval, Commun.Essai sur la révolution au XXIe siècle, La Découverte, Paris 2014, trad. it. Delcomune o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015, su cuitorneremo più avanti.

7 Di qui l’utilizzo del concetto foucaultiano di dispositivo, inteso come“un insieme decisamente eterogeneo, che comporta discorsi, istituzioni, piani-

menti costituzionali della vecchia democrazia liberale rimossi o ri-declinati alla luce di criteri di efficienza ed efficacia; la progressivadilatazione del raggio d’azione dei tribunali nazionali e internazio-nali; l’erosione della sovranità statuale a opera delle dinamiche com-plesse della mondializzazione2.

Che poi tra crisi economica e crisi democratica non si dia sem-plice coincidenza ma stretta coimplicazione, è anch’esso un elemen-to facilmente desumibile dalla letteratura sull’argomento, che sem-bra per di più concorde nel ricondurre entrambi i fenomeni a unamedesima causa (o famiglia di cause): l’affermazione globale dellagovernamentalità neoliberale con la ridefinizione della costituzioneformale e materiale del mondo che essa ha direttamente o indiretta-mente determinato3. L’attacco neoliberista alle strutture istituziona-li e simboliche della democrazia – tanto più evidente quando siadotti, come propongo in prima battuta di fare, un concetto ricco didemocrazia, non circoscritto al solo momento della delega elettora-le ma ampio abbastanza da abbracciare l’idea di una partecipazionediretta all’(auto)governo degli affari comuni – si svolge contempo-raneamente su un duplice fronte, macro e micro-fisico: da un lato,la riorganizzazione dei dispositivi governamentali dello Stato e la ri-strutturazione del quadro nazionale e trans-nazionale dei poteri, colpassaggio di sempre maggiori competenze e prerogative dall’ambi-to pubblico a quello privato e, viceversa, con l’immissione nel set-tore pubblico di logiche manageriali direttamente improntate almodello gestionale delle aziende private; dall’altro, la definizione di“percorsi di soggettivazione politica inediti, che non sono struttu-rati a partire dal ruolo centrale del cittadino moderno quale fonte dilegittimazione dell’esercizio di un potere sovrano”4 ma calibrati

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2 Cfr. W. Brown, Oggi siamo tutti democratici…, in AA.VV., In che statoè la democrazia?, Nottetempo, Roma 2010, pp. 71-92. Ma una lista più o me-no analoga è fornita da quasi tutti gli autori sopra citati.

3 Di nuovo, la bibliografia sulla nascita e lo sviluppo della razionalità neoli-berale o neoliberista, in tutti i suoi multiformi aspetti, è estesissima. Basti per oraricordare – oltre all’imprescindibile riferimento alle lezioni foucaultiane – D.Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, New York2005, trad. it. Breve storia del neoliberismo, Il saggiatore, Milano 2007; A. Saad-Filho e D. Johnston (a cura di), Neoliberalism. A critical reader, Pluto Press, Lon-don 2005; P. Dardot e C. Laval, La nouvelle raison du monde, La Découverte, Pa-ris 2009, trad. it. La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013.

4 Arienzo e Borrelli, Emergenze democratiche, cit., p. 108.

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modalità differenti all’interno dei due grandi paradigmi che hannodato forma alla concettualità politica moderna: conservazione escambio, ragion di Stato e teoria della sovranità11. Lo scenario sto-rico-istituzionale è lo stesso – quello cioè della progressiva afferma-zione della civilizzazione statuale e, parallelamente, della gradualeriorganizzazione dei rapporti sociali attorno al peso crescente del-l’economia di mercato. Ma diverso è il ruolo che al dispositivo pro-prietario viene fatto giocare in risposta alla domanda di legittima-zione avanzata dai nuovi organismi del potere centrale. Nel discor-so della ragion di Stato, esso funziona come tecnica di neutralizza-zione del conflitto e di pacificazione dei rapporti sociali. In una li-nea di continuità diretta con la figura medievale del roi dépensier12,il principe è chiamato a garantire la sussistenza materiale e il benes-sere dei suoi sudditi, in particolare di coloro che, “non avendo cheperdere, si muovono facilmente nell’occasione di cose nuove”13. Ilpotere vincolante del dono sovrano è qui sfruttato per allineare l’in-teresse privato dei soggetti a quello pubblico della conservazionedell’ordine, creando le condizioni per una loro “volizione adesiva”al progetto statale: “La più grande Arte dei Principi è quella di sa-per far profittare i loro Popoli: niente apporta loro più di obbe-dienza, più di reverenza, più di benedizione. Noi amiamo princi-palmente chi ci fa del bene […] e giudichiamo che il principale be-ne ci viene dal guadagno che possiamo fare sotto la sua autorità”14.

È però nell’altro paradigma, quello hobbesiano, che le potenzia-lità assoggettanti dell’individualismo possessivo sono presentate

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11 Cfr. G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambioalle origini della modernità politica, Il Mulino, Bologna 1993.

12 Cfr. A. Guéry, Le roi dépensier. Le don, la contrainte et l’origine dusystème financier de la monarchie française d’Ancien Régime, «Annales», n. 6,1984, pp. 1241-1269.

13 È quanto Giovanni Botero scrive a proposito dei poveri, che il principedeve “interessar[e] nella quiete” dello Stato avendo cura di dar loro “da guada-gnare”. Cfr. G. Botero, La ragion di Stato, a c. di C. Continisio, Donzelli, Ro-ma 2009, pp. 83-84.

14 A. de Montchrétien, Traicté de l’oeconomie politique, [Osmont, Rouen1615], pp. 121-122. Il concetto di volizione adesiva è in corso di elaborazioneda parte di Francesco Di Donato, che ne ha annunciato una prossima illustra-zione nel saggio La civilizzazione statuale: storia delle pratiche di un concettoe frammenti di storia futura, in F. Di Donato (a cura di), La civilizzazione sta-tuale. Contributi a una politica d’innovazione europea, il Mulino, Bologna2016 (in corso di pubblicazione).

l’implementazione di un particolare stile di condotta, per cui il sog-getto è spinto ad autorappresentarsi come possessore di beni (mate-riali o simbolici) e a far coincidere senza resti il proprio desideriocon la ricerca incessante del loro accrescimento, impegnando tem-po, risorse e lavoro nella gara competitiva per la soddisfazione delproprio interesse personale. Sono, questi, i tratti basilari di una co-stellazione soggettiva che va dal moderno individuo possessivo alpiù tardo homo oeconomicus, e i cui elementi costitutivi affiorano evengono a sistema in epoche diverse e in momenti successivi8. Soloche – è questo il punto che mi preme sottolineare, almeno in ipote-si – tale costellazione lavora su entrambi i versanti dell’assujettisse-ment: il dispositivo proprietario non funge cioè solamente da “sup-porto” ai processi di soggettivazione9, ma diventa anche veicolo diassoggettamento. Il proprietario è sì colui che dispone di un poteresulle cose, ma è anche colui che, proprio per suo tramite, si esponealla presa di un potere sugli uomini10. E la proprietà non è, comenella tradizione liberale, solo limite all’azione del governo, ma an-che suo strumento.

Questa consapevolezza è del resto presente già a partire dallescritture teoriche cinque e secentesche, sia pur declinata secondo

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ficazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative,enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche” (M. Fou-cault, Il gioco di Michel Foucault, in Id., Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Cortina, Milano 2006, p. 156).

8 Sul tema dell’individualismo possessivo, il riferimento è notoriamente alclassico C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism.Hobbes to Locke, Oxford University Press, New York 1962, trad. it. Libertà eproprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo pos-sessivo da Hobbes a Locke, Mondadori, Milano 1982. Sulla definizione del qua-dro interpretativo dell’homo oeconomicus cfr. invece P. Demeulenaere, Homooeconomicus. Enquête sur la constitution d’un paradigme, PUF, Paris 2003.

9 È questo il lato più di frequente evidenziato in letteratura. Cfr. ad esem-pio R. Castel, La métamorphose de la question sociale. Une chronique du sala-riat, Fayard, Paris 1995, trad. it. La metamorfosi della questione sociale. Unacronaca del salariato, Sellino, Avellino 2007; e R. Castel e C. Haroche, Pro-priété privée, propriété sociale, propriété de soi. Entretien sur la construction del’individu moderne, Fayard, Paris 2001, trad. it. Proprietà privata, proprietà so-ciale, proprietà di sé. Conversazioni sulla costruzione dell’individuo moderno,Quodlibet, Macerata 2013.

10 Anche se, com’è ovvio, la natura di questo potere non resta sempre iden-tica a sé stessa: i suoi interpreti variano, i suoi obiettivi mutano, le sue strategiesi modificano.

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getto hobbesiano depone il suo diritto, non il suo interesse. Alcontrario, è proprio il meccanismo dell’autorizzazione, per cuiciascun attore di fatto delega all’author sovrano la responsabilitàdell’azione e della parola pubbliche, che consente ai privati di libe-rare energie da impiegare nel gioco economico, al quale la legge ci-vile fornisce un quadro di regole certe e indispensabili al suo dis-piegarsi. La proprietà non funge più quindi da connettivo tra inte-resse privato e interesse pubblico, com’era nelle scritture della ra-gion di Stato, ma inaugura viceversa la loro separazione funziona-le: “Il punto decisivo consiste nell’argomentazione teorica per cuiil positivo soddisfacimento degli interessi richiede il riconosci-mento dell’autorità politica: gli interessi individuali possono costi-tuirsi in una sfera privata a condizione che essi assumano identitàpubblica, politica, attraverso la rappresentazione sovrana”19. Cer-to, tutto ciò lascia aperta la questione della competizione e dellacomposizione degli interessi divergenti, che non a caso sarà cen-trale per gran parte della teoria politico-economica contempora-nea e successiva20. Quel che però il prisma hobbesiano rivela econsente di rivelare è, a monte del conflitto potenziale degli inte-ressi, la fondamentale adeguazione del soggetto proprietario ai cir-cuiti della legittimazione e della produzione di obbedienza. Nellasintesi schematica ma efficace di Sheldon Wolin:

Il presupposto fondamentale di Hobbes è che il potere assolu-to si fondi non solo sulla paura, ma sulla passività. L’indifferenzacivile viene così elevata a una forma di virtù razionale, una volta cheil sovrano stabilisce e preserva le condizioni di pace che consentonoall’individuo di ricercare i suoi interessi nella consapevolezza certache la legge del sovrano li difende e addirittura li incoraggia. Da unaparte un potere virtualmente illimitato e, dall’altra, una cittadinan-za apolitica garantita nella sua sicurezza in modo da potersi occu-pare unicamente dei suoi affari privati: una complementarità per-fetta tra l’assolutismo apolitico e l’interesse economico privato21.

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19 Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, cit., p. 244. Ma fondamentale ai fi-ni del ragionamento è tutta l’analisi di Borrelli sul tema dell’interesse in Hob-bes (ivi, pp. 240-255).

20 Cfr. i saggi raccolti in C. Lazzeri e D. Reynié (a cura di), Politiques del’intérêt, PUFC, Besançon 1998.

21 S.S. Wolin, Democrazia S.p.A. Stati Uniti: una vocazione totalitaria?,Fazi, Roma 2011, p. 108.

nella loro veste più pienamente moderna. Qui il dispositivo pro-prietario non serve più tanto a stringere un legame personale diret-to tra principe e popolo, quanto a costruire il piano inclinato chespinge inesorabilmente l’uomo di natura a riconoscere la necessità disacrificare il proprio diritto e la propria libertà in cambio della pro-tezione e della sicurezza garantite dall’istituzione della persona fictadel Leviatano. Così Hobbes, nella lettera dedicatoria del De Cive,fulmineamente riassume il senso della sua rivoluzione antropologi-ca: “Ho rinvenuto due postulati certissimi della natura umana, unodel desiderio naturale, per cui ciascuno esige l’uso esclusivo delle co-se comuni; e il secondo della ragione naturale, per cui ciascuno sisforza di sfuggire alla morte violenta come al sommo dei mali natu-rali”15. Ora, è precisamente questo implacabile appetito acquisitivoa fornire, per via diretta o indiretta, le condizioni di possibilità delcontratto che dà vita all’autorità sovrana. Da un lato, la carica con-flittuale in esso implicita è tra le cause prossime di quello stato diguerra permanente che, senza il freno della legge e della spada, ren-derebbe la vita umana “solitaria, povera, sofferta, brutale e breve”16.Dall’altro, proprio la pretesa a un “uso esclusivo delle cose comuni”porta razionalmente a ricercare i mezzi con cui assicurare la stabili-tà del possesso, impensabile in natura: “Dalla stessa condizione con-segue anche che non ci sono proprietà, né dominio, né mio e tuo di-stinti, ma soltanto che ogni uomo ha quello che può ottenere e pertutto il tempo che può tenerselo”17. Paradossalmente, l’autolimita-zione della naturale cupiditas è essenziale per la sua effettiva e con-creta soddisfazione: grazie al patto, il dominium sulle cose guadagnain solidità e durata ciò che perde in assolutezza ed estensione.

Con questa mossa teorica, il dispositivo proprietario è posto alcuore stesso dello scambio politico: il singolo individuo rinunciaad auto-governarsi e sceglie di assoggettarsi a un potere coercitivocomune per “rendere valida la proprietà, che gli uomini acquisi-scono con il reciproco contratto, come ricompensa del diritto uni-versale che abbandonano”18. Uscendo dallo stato di natura, il sog-

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15 T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a c. di T. Magri,Editori Riuniti, Roma 2005, p. 6, corsivo mio.

16 T. Hobbes, Leviatano, a c. di R. Santi, Bompiani, Milano 20042, p. 207.17 Ivi, p. 211.18 Ivi, p. 237, corsivo mio.

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peculiare costituzione materiale che il caso americano rappresentaun banco di prova ideale per valutare il grado di compatibilità tra ildispositivo proprietario e l’autogoverno democratico.

Quel che ne risulta è un rapporto altamente ambiguo. Da un la-to, la pressoché omogenea distribuzione del possesso e degli appe-titi acquisitivi a esso connessi pare poter fornire un importante cor-rettivo agli effetti deleteri dell’uguaglianza (individualismo dilagan-te, slegame sociale, conflittualità endemica). Una volta generalizza-to, il potenziale disciplinante dell’“interesse bene inteso” è infatticapace di rivolgere l’egoismo contro sé stesso, servendosi “per diri-gere le passioni dello stesso sprone con cui le eccita”26, e mostran-do così la coincidenza dell’utilità individuale e di quella collettiva:“Disciplinare la democrazia significa, in questo senso, iniziare ilsoggetto generico, che essa produce, alla morale proprietaria. Por-tarlo a riconoscere la ragione della propria individuazione nel pro-prio possesso, [...] educandolo a riconoscere il lato “pubblico” e so-ciale del proprio interesse privato”27. Dall’altro lato, però, propriol’amore per il benessere e l’istinto possessivo sono tra le principalicause di rischio per il futuro della democrazia, una porta semprevirtualmente aperta a nuove forme di servitù:

Vi è effettivamente nella vita dei popoli democratici un trapas-so molto pericoloso. Quando presso uno di questi popoli l’amoredei beni materiali si sviluppa più rapidamente della civiltà e delleabitudini dalla libertà, viene un momento in cui gli uomini sonotrascinati e quasi stravolti dalla vista dei nuovi beni che stanno perafferrare. Preoccupati solo dalla cura di fare fortuna, non vedonopiù lo stretto legame che unisce la fortuna particolare di ciascunoalla prosperità di tutti: allora non occorre strappare a tali cittadini idiritti che posseggono, poiché essi stessi se li lasciano volentieri sfug-gire. L’esercizio dei doveri politici sembra loro un noioso contrat-tempo che li distrae dal lavoro. Sia che si tratti di scegliere dei rap-presentanti o di prestare man forte all’autorità o di discutere in-

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26 Ivi, p. 538.27 S. Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Edito-

riale Scientifica, Napoli 2004, p. 446. Sul potere (auto)disciplinante dell’inte-resse cfr. invece il classico A.O. Hirschman, The Passions and the Interests. Po-litical Arguments for Capitalism before Its Triumph, Princeton UniversityPress, Princeton 1977, trad. it. Le passioni e gli interessi. Argomenti politici infavore del capitalism prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979.

3. Il funzionamento del modello hobbesiano è legato alla diffu-sione universale del dispositivo proprietario: affinché il suo meccani-smo possa essere innescato, tutti gli uomini, o per la conformazionecongenita del loro desiderio o perché costretti dalla pressione dellecondotte altrui, devono pensarsi ed essere pensati come individuipossessivi, interamente assorbiti nel perseguimento del proprio inte-resse privato. Tuttavia, è difficile credere che, all’epoca della pubbli-cazione del Leviathan, questa ipotesi antropologica rispondesse fe-delmente al vero. L’Europa di Hobbes è un’Europa attraversata esconvolta da ingovernabili passioni politiche e religiose, animata dagrandi mitologie collettive, e in cui il mercato ha sì un ruolo deter-minante ma non è ancora divenuto il centro di gravitazione unico de-gli affari umani. Soprattutto, è un’Europa in cui la stessa configura-zione giuridica dei rapporti sociali impedisce una generalizzazioneeffettiva del soggetto proprietario, ostacolata dalle barriere formalierette a conservazione delle gerarchie di ceto d’Ancien Régime.

Ora, sono precisamente queste barriere a essere travolte da quel“fiume vorticoso” dell’uguaglianza che, per Tocqueville, rappresen-ta il movimento essenziale della democrazia22. La rivoluzione so-ciale che sempre più avvicina la condizione del “nobile” a quella del“plebeo” pone le basi per una disseminazione capillare dell’antro-pologia proprietaria: “Presso le nazioni in cui l’aristocrazia dominala società e la tiene immobile, il popolo finisce per abituarsi alla po-vertà, come i ricchi all’opulenza. […] Quando invece le classi sonoconfuse e i privilegi distrutti, quando i patrimoni si dividono e la ci-viltà e la libertà si diffondono, il desiderio di raggiungere il benes-sere si presenta all’immaginazione del povero e la paura di perderloa quella del ricco”23. Lo spettacolo di cui Tocqueville si fa spettato-re negli Stati Uniti è quello di una società in cui l’“amore dei benimateriali”, il “desiderio del guadagno” e il “gusto per il benessere”delineano una geometria delle passioni trasversale agli individui ealle classi24, e in cui nessuno è escluso dal cerchio magico della pro-prietà: “in America non vi sono proletari”25. È grazie a questa sua

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22 A. de Tocqueville, La democrazia in America, a c. di G. Candeloro, Riz-zoli, Milano 2007, p. 22.

23 Ivi, p. 544.24 Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filoso-

fia e uso politico, Feltrinelli, Milano 20104, pp. 11-13.25 Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 245.

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L’universalizzazione della proprietà, che proprio la rivoluzione de-mocratica rende possibile, rischia di preparare l’avvento “post-de-mocratico” di un dispotismo “assoluto, particolareggiato, regolare,previdente e mite”33 che, pur presentandosi in forme del tutto ine-dite, sembra ancora avvalersi di vecchi processi di legittimazione.

Di nuovo, però, il caso americano offre all’analisi di Tocquevillenon solo i sintomi del male ma anche i suoi indispensabili rimedi.Come recita il titolo di un capitolo della Democrazia (lib. III, parteII, cap. 4), gli americani combattono l’individualismo (possessivo)con istituzioni libere. Più precisamente ancora, quel che emerge dal-le pagine tocquevilliane è l’idea di una produzione istituzionale disoggettività democratiche. Il desiderio di autogoverno non ha nulladi naturale, ma è invece l’effetto di pratiche di soggettivazione favo-rite da una sapiente opera di design istituzionale: “I legislatori del-l’America non hanno creduto che per guarire una malattia così fu-nesta, ma così naturale al corpo sociale nei tempi democratici, ba-stasse accordare alla nazione intera una rappresentanza, ma hannopensato che convenisse dare una vita politica a ogni parte del terri-torio, così da moltiplicare all’infinito per i cittadini le occasioni di agi-re insieme e per fare loro sentire ogni giorno che dipendono gli unidagli altri. Ciò è stato molto saggio”34. Il decentramento ammini-strativo e il diritto di associazione sono i principali motori di questamoltiplicazione, che consente di trasformare in istinto democraticociò che prima era calcolo interessato, e che, insegnando a tutti “l’ar-te di perseguire in comune gli oggetti dei desideri comuni”35, istitui-sce forme di vita indisponibili alla delega. L’autonomia del soggettodemocratico è insomma un prodotto interamente artificiale.

4. Una ricerca dei primi anni Duemila, condotta da due polito-logi dell’Università del Nebraska, può essere utile per fare il puntosullo stato attuale della “democrazia in America”. L’idea di parten-za era quella di un’indagine a campione volta a determinare qualefosse la forma di governo migliore per incrementare la partecipa-zione dei cittadini alla vita democratica. I risultati, a detta degli au-tori, furono sorprendenti. Contrariamente al senso comune di “opi-

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33 Ivi, p. 733.34 Ivi, p. 520, corsivo mio.35 Ivi, p. 524.

sieme le cose comuni, il tempo manca loro ed essi non possonoperderlo in lavori inutili28.

È la ricerca della stabilità necessaria al tranquillo svolgimentodei propri traffici privati, accompagnata da una comprensione“molto grossolana” dell’interesse personale, che porta gli individuia distogliersi da quel “tratta[re] in comune gli affari comuni”29 checostituisce il significato stesso della forma di vita democratica: “Unanazione che domanda al suo governo solo il mantenimento dell’or-dine è già schiava in fondo al cuore; schiava del suo benessere, men-tre da un momento all’altro può apparire l’uomo che la deve asser-vire”30. L’esistenza privata finisce così per richiudersi su se stessa,lasciando che il potere pubblico si costituisca in sfera separata: “So-lo con certo sforzo, dunque, questi uomini si distaccano dai loro af-fari privati per occuparsi degli affari comuni; la loro tendenza natu-rale li induce a lasciare la cura al solo rappresentante visibile e per-manente degli interessi collettivi: lo stato. […] Ciò dispone natural-mente i cittadini a dare o a lasciare prendere continuamente nuovidiritti al potere centrale, che sembra loro il solo che abbia l’interes-se e i mezzi per difenderli dall’anarchia difendendo se stesso”31.Obbedienza in cambio di sicurezza, cessione volontaria di diritti,separazione funzionale degli interessi. Non possono esserci dubbi:quando le tendenze assoggettanti del dispositivo proprietario pren-dono il sopravvento, il risultato è la riattivazione dello scambiohobbesiano al cuore stesso della democrazia, la quale pure parevanascere sotto il segno di una radicale discontinuità rispetto al para-digma sovrano32. Se si imbocca questa strada, l’esito è già scritto.

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28 Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 554, corsivo mio.29 Ivi, p. 519.30 Ivi, p. 554.31 Ivi, pp. 711-712.32 Così, ad esempio, Tocqueville esprime ivi, p. 96, la sua preferenza per il

decentramento amministrativo tipico della democrazia americana: “Cosa miimporta, dopotutto, che vi sia un’autorità sempre pronta, che veglia a che i mieipiaceri siano tranquilli, che vola avanti a me per allontanare i pericoli dal miocammino, senza che io abbia bisogno di pensare a tutto questo; se questa auto-rità, nel tempo stesso che allontana le più piccole spine sul mio passaggio, è pa-drona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimentoe l’esistenza al punto che quando essa languisce, languisce tutto intorno a lei,che tutto dorme quando essa dorme, che tutto perisce quando essa muore?”.

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enjeu di cui ritenersi ed essere ritenuti responsabili. Questo qualco-sa è il loro “capitale umano”, l’insieme di tutte quelle qualità fisichee psicologiche che, se adeguatamente investite, sono in grado di ge-nerare flussi di reddito. Per questa via, il rapporto proprietario pe-netra fin nei meandri della soggettivazione, offrendo però al con-tempo un appiglio sicuro alla tecniche di governo, una superficie diapplicazione ideale per l’esercizio del potere. Di nuovo, il dispositi-vo proprietario rivela il suo potenziale di assoggettamento: nelleanalisi neoliberali, l’uomo economico appare “come colui che èpossibile maneggiare, e che risponderà sistematicamente alle modi-ficazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nel-l’ambiente. L’homo oeconomicus è, insomma, colui che risulta emi-nentemente governabile”39.

Senonché, tutto ciò pone il problema dell’effettiva applicabilitàdi uno strumento analitico il cui potere di predizione (e direzione)dei comportamenti dipende essenzialmente dalla possibilità di por-tare gli individui reali a coincidere col modello ideale del soggettodi interesse. Come tradurre la teoria in pratiche di governo? La so-luzione, analoga a quella tocquevilliana ma con segno invertito, stanella produzione istituzionale di soggettività auto-imprenditoriali.La razionalità neoliberale “riconosce senza esitazione la tesi artifi-cialista secondo cui l’individuo interessato è una costruzione istitu-zionale che lo Stato ha precisamente per compito di realizzare”40.La nuova, paradossale domanda di Stato, che segna una rottura pro-fonda tra il liberalismo classico e il neoliberalismo, è appunto fun-zionale all’obiettivo di “creare situazioni di mercato e di formare in-dividui adattati alle logiche dell’economia”41. L’intervento statale èdunque invocato al fine di porre le condizioni giuridiche e istitu-zionali indispensabili al funzionamento della governamentalità neo-liberale, che non agisce più solo sul piano macroeconomico dei fe-nomeni aggregati ma anche su quello micro delle condotte indivi-

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39 Ivi, p. 220. Per brevità, faccio a meno qui di prendere in considerazionele pur significative differenze che sussistono fra le varie famiglie del neolibera-lismo, e in particolare tra l’ordoliberalismo tedesco e il neoliberismo america-no. Sul punto cfr. S. Audier, Néo-libéralisme(s). Une archéologie intellectuelle,Grasset, Paris 2012.

40 C. Ferraton, La propriété. Chacun pour soi?, Larousse, Paris 2009, p. 145.41 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razio-

nalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013, p. 289.

nionisti, politici e scienziati sociali”, secondo cui gli americani nonaspirerebbero ad altro che ad autogovernarsi, i dati raccolti andava-no in direzione opposta: “L’ultima cosa che la gente desidera è es-sere maggiormente coinvolta nei processi decisionali della politica:non vuole prendere decisioni politiche autonome […]. La maggiorparte delle persone si interessa solo a pochi (se non a nessuno) deiproblemi che i governi si trovano solitamente ad affrontare, e pre-ferisce di gran lunga trascorrere il proprio tempo in occupazioninon politiche”36. Il loro ideale sarebbe allora quello di una stealthdemocracy, una democrazia invisibile capace di garantire efficienzae sicurezza (siamo all’indomani dell’11 settembre) lasciando ciascu-no libero di dedicarsi alle proprie attività private. Di nuovo, l’om-bra dello scambio hobbesiano sembra allungarsi su quel che restadel modello democratico tocquevilliano. Ora, Hibbing e Theiss-Morse tendono a naturalizzare questo quadro, trattando le dinami-che di privatizzazione e spoliticizzazione delle esistenze alla streguadi un semplice fatto: “È la gente che desidera un sistema di questotipo; non vi è stata costretta da altri”37. La mia ipotesi è invece chela presunta naturalità di questo desiderio nasconda il lavorio delletecnologie di soggettivazione proprietaria, che la governamentalitàneoliberale ha portato a un nuovo livello di intensità. Il soggettopost-democratico è un effetto della nuova ragione del mondo.

Grazie alle analisi pionieristiche di Michel Foucault, sappiamoormai da tempo qual è il perno attorno a cui ruotano le strategieneoliberali di governo: l’homo oeconomicus, il soggetto di interesse,l’imprenditore di sé stesso, “che in quanto tale è il proprio capitale,il produttore di sé e la fonte dei propri redditi”38. Trasformare l’in-dividuo in un’impresa, risignificando su questa nuova linea seman-tica il vecchio concetto lockiano della proprietà di sé, è insieme con-dizione ed esito del programma neoliberale di regolazione econo-mica della società. Se il gioco della concorrenza deve assurgere aprincipio unico e universale della conduzione delle condotte, è ne-cessario che tutti abbiano qualcosa con cui e per cui concorrere, un

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36 J.R. Hibbing ed E. Theiss-Morse, Stealth Democracy. Americans’ Beliefsabout How Government Should Work, Cambridge University Press, Cam-bridge 2002, pp. 1-2.

37 Ivi, p. 227.38 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-

1979), Feltrinelli, Milano 2012, p. 186.

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ca della vita individuale: “Il cittadino neoliberale modello è quelloche elabora proprie strategie scegliendo tra varie opzioni sociali,politiche ed economiche, non quello che lotta assieme agli altri permodificare o organizzare tali opzioni. Una cittadinanza neoliberalepienamente realizzata sarebbe l’opposto di una cittadinanza inte-ressata agli affari pubblici, e anzi esisterebbe a stento come sferapubblica. Il corpo politico cessa di essere un corpo e diventa piut-tosto un gruppo di imprenditori e consumatori individuali”46. Unanuova “separazione funzionale” si profila dunque all’orizzonte, e lastealth democracy si mostra infine come l’esatto corrispettivo diquella stealth revolution che, per dirla ancora con Brown, sta lette-ralmente disfacendo il demos democratico.

5. È importante però non accordare piena fiducia all’autorappre-sentazione del sistema di governo neoliberale. Nella realtà, i suoimeccanismi sono molto meno efficaci di quanto non appaiano nellepagine dei suoi corifei o in quelle dei manuali di management. Sem-pre più di frequente i suoi automatismi si inceppano, la sua fabbricadel consenso si arresta, le sue prescrizioni ottengono un effetto op-posto a quello desiderato. La promessa di libertà e di felicità di cui sifaceva portatore si è rovesciata in una produzione globale di infelici-tà47, e lo stesso dispositivo soggettivo del capitale umano deve ormailasciare il posto a forme di controllo più scopertamente autoritarie48.Ovunque il blocco apparentemente monolitico del neoliberalismo èfessurato da incrinature, disfunzionalità, resistenze – anche se spes-so sconnesse e sporadiche. Talvolta, queste resistenze riescono a rag-giungere una massa critica e a concatenarsi in veri e propri cicli dilotte, dai movimenti altermondialisti degli anni Novanta e dei primianni Duemila fino alla nuova serie di mobilitazioni che ha attraver-sato il Nord e il Sud del mondo a partire dal 2008.

In un loro libro recente, Dardot e Laval hanno sostenuto chefosse possibile ricondurre (almeno idealmente) ciascuno di questi

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46 Ivi, p. 43.47 Cfr. F. Berardi, Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini&Castoldi,

Milano 2015.48 Cfr. M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condi-

tion néolibérale, Éditions Amsterdam, Paris 2011, trad. it. La fabbrica dell’uo-mo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma2012; e Id., Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2013.

duali. Privatizzazione del rischio e smantellamento progressivo delwelfare, erosione dei diritti sociali e flessibilizzazione del mercatodel lavoro, connessione sempre più stretta tra istruzione pubblica eaziende private: un combinato disposto il cui risultato è quello diplasmare il rapporto di sé con sé sul modello proprietario dell’im-presa. Né del resto lo Stato è l’unico attore di questa trasformazio-ne antropologica: la finanziarizzazione della vita quotidiana42 e lecapillari tecnologie manageriali di gestione delle risorse umane43 co-stituiscono altrettanti vettori del medesimo processo, tramite il qua-le “ogni soggetto è stato portato a considerarsi e a comportarsi intutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capita-le da valorizzare”44.

Questa radicalizzazione del dispositivo proprietario, esteso oraall’intera esperienza individuale, risulta perfettamente solidale conle generali dinamiche di “de-democratizzazione” iscritte nell’imple-mentazione delle ricette neoliberali45. Ogni istante, ogni energia,ogni facoltà psico-fisica devono essere consacrati alla valorizzazio-ne del proprio capitale umano, pena la retrocessione nella corsa del-la competizione universale eletta a principio di regolazione sociale.E sia che faccia effettivamente leva sul desiderio di autorealizzazio-ne, sia che si affidi invece alla pressione sistematica delle condizioniambientali (precarietà, disoccupazione, indebitamento), la forza delregime di governo neoliberale sta appunto nella sua capacità di co-involgere i governati nella concorrenza generalizzata di tutti controtutti. Da questo punto di vista, ogni allocazione delle risorse perso-nali non finalizzata alla massimizzazione del ritorno sul loro inve-stimento si rivela perdente. Sottrarre tempo all’auto-valorizzazioneper dedicarlo a “trattare in comune gli affari comuni” è una sceltaeconomicamente inefficiente, e dunque sconsigliabile. La delega(ri)diventa allora un necessario strumento di esonero da ogni attivi-tà superflua, cioè non diretta al perseguimento della propria affer-mazione sul mercato. Il passaggio dal cittadino all’imprenditore disé risulta così in un’amputazione della dimensione lato sensu politi-

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42 Cfr. R. Martin, The Financialization of Daily Life, Temple UniversityPress, Philadelphia 2002.

43 Cfr. M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015.44 Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo, cit., p. 299.45 Cfr. W. Brown, Edgework. Critical Essays on Knowledge and Politics,

Princeton University Press, Princeton 2005, pp. 37-59.

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emerge dalle lotte contro il neoliberismo rifiuta di porre la proprie-tà (privata, pubblica o collettiva) alla base del patto sociale demo-cratico. Tutt’al contrario, il comune si configura come istituzionedell’indisponibile, cioè come creazione di un rapporto giuridico congli uomini e con le cose fondato non sull’appropriazione ma sull’u-so, e che funge da chiave di volta del progetto emancipativo: “inquesta ottica, il comune, inteso come principio fondativo del vivereinsieme, è l’inappropriabile in quanto tale”53. La democrazia del co-mune si pone dunque in antitesi diretta con quella norma proprie-taria che, a dispetto di crisi e ripensamenti teorici, è ancora al cuoredelle dinamiche capitalistiche di accumulazione. Di qui, la dimen-sione ineludibilmente conflittuale e rivoluzionaria della pratica po-litica dei commons, irriducibile alla prospettiva irenica della ricercadi un bene comune universale54.

Tutto ciò ha evidenti ricadute sul piano dei processi di soggetti-vazione. Perché come quella neoliberale, anche la governamentalitàdel comune ha bisogno di un soggetto a essa adeguato. Ora, la tesidi Dardot e Laval è che questo soggetto alternativo non è “già qui”,fosse anche solo allo stato di una virtualità che deve essere fatta pas-sare dalla potenza all’atto. Non è possibile individuare un locus sog-gettivo (moltitudine, cognitariato, general intellect) che preceda epredetermini il movimento di produzione del comune55. Viceversa,è proprio la “prassi istituente” che dà vita al commons e alle normenecessarie alla sua (auto)gestione a fare da incunabolo per nuoveforme di soggettivazione. Il soggetto del comune esiste cioè solonella temporalità dell’après-coup, nell’orizzonte di una “auto-pro-duzione di un soggetto collettivo dentro e attraverso la coprodu-zione continuata di regole di diritto”56. Le esperienze di occupazio-

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53 Ivi, p. 185. Sul concetto di indisponibile, che i due autori riprendonodalla romanistica di Yan Thomas, cfr. anche P. Napoli, Indisponibilità, serviziopubblico, uso. Concetti orientativi su comune e beni comuni, «Politica & Socie-tà», n. 3, 2013, pp. 403-426.

54 Cfr. M.R. Marella, Bene comune. E beni comuni: le ragioni di una con-trapposizione, in F. Zappino, L. Coccoli e M. Tabacchini (a cura di), Genealo-gie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Mimesis, Milano-Udine2014, pp. 25-39.

55 Com’è evidente, l’obiettivo polemico dei due autori sono le posizioniteoriche di Negri e Hardt, con le quali essi instaurano un confronto critico ser-rato. Cfr. in particolare Dardot e Laval, Del Comune, cit., pp. 149-179.

56 Ivi, p. 350. Sul concetto di prassi istituente cfr. ivi, pp. 320-354.

episodi a un unico principio politico: “Le battaglie per la ‘democra-zia reale’, il ‘movimento delle piazze’, le nuove ‘primavere’ dei po-poli, le lotte studentesche contro l’università capitalista, le mobili-tazioni per il controllo popolare della distribuzione idrica non sonoaffatto eventi caotici e aleatori, esplosioni accidentali e passeggere,jacqueries disperse e prive di scopo. Queste lotte politiche rispon-dono alla razionalità politica del comune, sono ricerche collettive dinuove forme di democrazia”49. Questa razionalità, radicalmente al-ternativa a quella neoliberale, disegna i contorni possibili per l’in-venzione di un’autonoma “governamentalità di sinistra”, sulla cuinecessità i due autori insistevano già nel loro precedente lavoro50.La formula che dovrebbe riassumerla e ispirarla recita: “Non c’èobbligo, se non tra coloro che partecipano a una medesima attivitào a un medesimo compito”51. Il munus del comune è insomma ilvincolo reciproco che lega i soggetti impegnati in una stessa prassi,e che reagisce all’immunizzazione del legame sociale determinatadall’azione del dispositivo proprietario. Solo che questo vincolonon preesiste né trascende gli attori coinvolti, ma deriva dalla co-produzione delle norme che essi si danno nel momento stesso del-l’agire condiviso. La governamentalità del comune si declina cosìnella figura dell’autogoverno: “Il comune non è ‘anarchico’, nelsenso dell’invito a una semplice negazione del potere, che si tradur-rebbe, in modo alquanto contraddittorio, in un rifiuto di ogni au-torità. Il comune porta, piuttosto, a introdurre ovunque, nella ma-niera più profonda e più sistematica, la forma istituzionale dell’au-to-governo”52. Se restiamo fedeli all’idea tocquevilliana di democra-zia come “arte di perseguire in comune gli oggetti dei desideri co-muni”, risulta difficile non riconoscere nel “principio politico delcomune” una carica autenticamente democratica.

Almeno in un punto però il comune di Dardot e Laval si disco-sta in modo netto dalle forme tradizionali della democrazia libera-le. Ed è un punto decisivo, che rompe con la linea genealogica del-l’individualismo possessivo: perché la nuova governamentalità che

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49 P. Dardot e C. Laval, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo,DeriveApprodi, Roma 2015, p. 19.

50 Cfr. Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo, cit., pp. 479-485.51 Dardot e Laval, Del Comune, cit., p. 23.52 Ivi, p. 359.

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GIANFRANCO BORRELLI

Per una democrazia del comune. Processi di soggettivazione e trasformazioni

governamentali all’epoca della mondializzazione

Nell’epoca dell’ipermodernità la mondializzazione delle rela-zioni tra i gruppi umani pone in chiara evidenza le difficoltà dellecapacità trasformative del modo di produzione capitalistico. La for-ma della valorizzazione capitalistica ha ormai da tempo sussuntoogni angolo del pianeta, stravolgendo gli impianti delle civilizzazio-ni regionali in tutti i campi dell’esistenza umana: l’ambiente natura-le rischia un inquinamento irreversibile, mentre le diseguaglianzenella distribuzione delle risorse accrescono ovunque sofferenze epovertà in modo drammatico. Le oligarchie economico-finanziariedell’occidente europeo e americano sono soprattutto impegnate aconservare – nelle forme più rigide e pericolose – l’accumulo stori-co di ricchezze straordinarie, che peraltro vengono erose da aggres-sive potenze emergenti.

Le nuove modalità della dominazione utilizzano i caratteri deilinguaggi astratti e incomprensibili di impressionanti tecnologie: gliesseri umani sembrano costituire le parti supplementari e integratedi processi sistemici inarrestabili, frastornati dai media televisivi edai tempi insostenibili della comunicazione via rete. Terminata l’e-poca delle rivoluzioni, è scomparsa del tutto la particolare fenome-nologia storica dei conflitti che vedeva contrapposti attori collettivipotenti, le classi sociali; si moltiplica invece l’emergenza di rivolteinfinite che esaltano le voci di singolarità che pretendono di traccia-re poteri alternativi.

Bisogna allora impegnare lo sforzo di riflessione per compren-dere, innanzitutto, quali cambiamenti sono intervenuti per porre fi-ne, nei paesi occidentali, a quel modo particolare di civilizzazione

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ne e riqualificazione di edifici pubblici o privati (cinema, teatri, asi-li), di produzione cooperativa (le fabbriche “recuperate” del SudAmerica), di riappropriazione dei beni comuni (le lotte per l’acquada Cochabamba all’Italia), di invenzione di modalità diverse discambio e circolazione dei saperi – esperienze che paiono moltipli-carsi a vista d’occhio sull’onda della contestazione all’ordine neoli-berale – rappresentano non solo l’apertura di spazi di autogoverno,ma anche il luogo di un’auto-modificazione degli attori nel sensodella loro sottrazione al dispositivo proprietario di soggettivazione.Se infatti, come ho tentato di mostrare, la proprietà è il nodo chetiene insieme soggettività e assoggettamento, plasmando soggetti diinteresse che sono però anche soggetti deleganti, maneggiabili edetero-normabili, l’inappropriabile disegna invece una soglia di indi-stinzione in cui azione diretta e soggettivazione democratica si sal-dano in un circolo virtuoso di potenziamento reciproco: “L’accu-mulazione di pratiche alternative ha effetti formativi e soggettivan-ti che possono a loro volta agevolarne la traduzione politica e l’e-stensione”57. La razionalità del comune lega in un unico movimen-to l’ideazione di nuove istituzioni di autogoverno democratico e laproduzione istituzionale di soggettività non-proprietarie, il cuiethos riposa cioè non sull’“uso esclusivo delle cose comuni” ma, alcontrario, sulla loro condivisione e sulla partecipazione attiva allaloro amministrazione collettiva. Com’è evidente, un soggetto diquesto tipo risulta doppiamente indisponibile: indisponibile ai mec-canismi di legittimazione tecnocratica della governance neoliberale,ma indisponibile anche a un ritorno alle vecchie forme – peraltroormai sempre più vuote – della democrazia rappresentativa. E sequesto pone forse più questioni di quante non ne risolva58, è in-dubbio che la strada per un ripensamento teorico e pratico del pro-getto democratico passi anche di qui.

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57 Ivi, p. 397.58 Mi limito ad accennarne due: da un lato, la questione delle basi materia-

li della “prassi istituente”, senza le quali il concetto di comune non può evita-re di esporsi all’accusa di idealismo (cfr. A. Negri, La metafisica del comune, «ilmanifesto», 6 maggio 2014); dall’altro, quella della necessaria reinvenzione del-la relazione tra orizzontalità dei movimenti e verticalità dell’organizzazionepartitica, senza cui sembra difficile garantire alle istituzioni del comune una du-rata rilevante e una dimensione non solo locale o interstiziale (cfr. S. Chignola,Che cos’è un governo?, reperibile su www.euronomade.info/?p=4417).

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via incerte, sicuramente motivate dalla sofferenza ma anche matura-mente intenzionate a perseguire cura e benessere per sé e per gli al-tri, richiedano con urgenza di immaginare e realizzare dispositivigovernamentali idonei ad assegnare alle pratiche di conversione delsé la conveniente configurazione di autonome e libere politiche dinoi stessi: introdurre a forme inedite di democrazia del comune.

1. come tendono a cambiare i rapporti tra politica e economia

Conviene dapprima descrivere con accuratezza le ipotesi che ri-guardano le stravolgenti trasformazioni, in corso per ogni parte delpianeta, delle relazioni di economia e politica: cambiano i contestistorici di questi campi dell’agire umano e le relative rappresentazio-ni categoriali si trasformano. In tal senso si possono analizzare al-cune tendenze determinate che rendono conto dei cambiamenti sto-rici e teorici che sono intervenuti nella serie delle relazioni tra que-sti due ambiti: si può inoltre problematizzare ulteriormente al finedi arricchire orizzonti di prospettiva critica, con riferimenti più de-terminati alla teoria politica.

1.1 la politica arretra, l’economia aggredisce

Prima ipotesi: negli ultimi decenni la politica sembra aver per-duto il primato nei confronti specifici dell’economia. Certamente, sipuò considerare questa una tendenza indotta da circa due secoli daiprocessi di affermazione e di autoconservazione del modo di pro-duzione capitalistico: appare tuttavia all’opera una curvatura rivol-ta in modo deciso a realizzare una sorta di predominio di discor-si/pratiche dell’economia nei confronti delle istituzioni di governoe delle strategie di sistema (l’elemento politico) e sulle pratiche disingolarità che indirizzano il senso del vivere delle comunità e ri-spondono nella contingenza alle decisioni necessarie (l’elementopolitica).

In un recente saggio, Egidius Berns richiama la nostra attenzio-ne sul fatto che, fin dalle sue origini, la civilizzazione occidentale haproceduto in modo da contenere/guidare la complessità dei feno-meni economici; l’esperienza straordinaria della democrazia atenie-se del quinto secolo a.C. arriva al risultato di differenziare con net-

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moderna che operava grazie alla funzionale separazione tra sferapolitico-statuale e società civile, realizzando in questo modo per-corsi di garanzia giuridica delle libertà civili e sociali dei soggetti. Ildeclino della sovranità degli stati, l’obsolescenza del governo rap-presentativo, le modificazioni di prassi e valori della democrazia: lesegmentazioni indotte dall’epoca post-modern, dagli anni ottantadel secolo scorso, apre a scenari di ulteriori radicali novità; il risul-tato di maggiore evidenza sembra consistere nella diversa configu-razione storica che assumono le relazioni tra economia e politica:queste categorie appaiono ormai prive di requisiti scientifici poichérese inidonee a rappresentare in forma universale le sfere tradizio-nali delle attività umane, così come stabilite e descritte da almenoduemila anni di storia dell’Occidente.

Conviene allora approfondire lo studio dei processi di soggetti-vazione e delle pratiche di singolarità che hanno caratterizzato, dal-la fine del Settecento nei contesti europei e americani, un’epoca ditensioni permanenti rivolte alla liberazione spirituale e all’incre-mento del benessere degli esseri umani. Partendo da quel periodo,processi pure differenti di conversioni rivolte radicalmente a pro-durre forme particolari di cura di sé e degli altri hanno consentito –fino all’epoca contemporanea – di impegnare percorsi di sicura in-novazione nei comportamenti e nelle condotte dei singoli fino alpunto di segnare prospettive, pure drammaticamente confliggenti,di trasformazioni radicali dei modi del vivere. Oggi assistiamo a vi-cende di singolarità che attraversano il mondo in modo nomadicoed eccentrico: questi percorsi prendono origine da ininterrotti flus-si di migrazioni che scorrono in tutte le regioni del pianeta, rendo-no ormai vano lo sforzo di assegnare una misura al valore della vi-va forza-lavoro, esprimono tuttavia proiezioni desideranti in modocrescente e inarrestabile. Inoltre, in rapporto alle tecnologie siste-miche che reggono produzione e mercati, tali singolarità si trasfor-mano nei corpi e nelle pratiche di sé configurando contesti di vitache vengono nominati con il nuovo dizionario del postumano: aquesto punto l’indagine si complica ulteriormente, poiché si trattadi comprendere le tendenze specifiche di oltrepassamento delle pra-tiche dei poteri dei falsi umanesimi ideologicamente pronti ancora agiustificare l’agire inumano delle parti dominanti, mentre soggettiormai protesici e attrezzati dei nuovi dispositivi ICT sembranoprodurre contesti di vita radicalmente diversi.

Accade allora che singolarità eccedenti, espressioni di forme di-verse di sessualità, poste in essere da insorgenze coraggiose e tutta-

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lone di pensiero rende conto del tentativo storico, indotto da partedell’economia a partire dagli inizi del secolo scorso, di affermarel’autonomia dei processi di espansione dei mercati sotto le formedel commercio mondiale e delle logiche perverse degli imperialismi.Per converso, dopo la tragedia della concentrazione di un potere in-sieme politico/economico prodotto dal nazifascismo, nel secondodopoguerra un più equilibrato rapporto tra politica e economia èsembrato realizzarsi grazie all’impianto in un grande numero di na-zioni di un processo di democratizzazione: grazie a questo capitali-smo democratico, per circa trent’anni, i benefici degli interventi del-lo Stato sociale nei confronti delle classi lavoratrici hanno agito co-me risoluzione/regolamentazione dei conflitti grazie a politichekeynesiane di Welfare.

A metà degli anni settanta dello scorso secolo, in corrisponden-za con gli sviluppi delle due crisi petrolifere, il report della Com-missione trilaterale annuncia l’insostenibilità della democrazia rap-presentativa e parlamentare ritenuta ormai incapace di reggere ilconfronto rispetto all’accelerazione dell’economia mondiale3: e inquesto modo, il fenomeno inarrestabile della globalizzazione eco-nomica sancisce la crisi definitiva della politica moderna degli statisovrani ed apre al periodo della postdemocrazia. Coloro che deten-gono il comando politico nell’area occidentale intendono sottrarsirapidamente ai vincoli di politiche democratiche che inducono taglicrescenti alle dinamiche dell’accumulazione; per fare questo biso-gna intraprendere strategie nuove in cui il ruolo autonomo dell’e-conomia venga sostenuto contro i limiti imposti dalla politica e dal-l’ingerenza dello Stato. Prende via via corpo il progetto di riconver-tire a tale obiettivo pratiche e comportamenti d’interi strati sociali;Margaret Thatchter esprime per la società inglese con chiarezza ilsenso di questo nuovo indirizzo: “l’economia è il metodo; bisognacambiare i cuori e le anime”.

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poguerra del neoliberalismo in Germania e negli Stati Uniti nel corso di lezionitenute al Collège de France negli anni 1978-79 raccolte in Naissance de la bio-politique. Cours au Collège de France 1978-1979, Gallimard, Paris 2004 (trad. it.di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005).

3 Il famoso rapporto sulla stato della democrazia predisposto dalla Trilate-ral Commission, fu opera di M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The cri-sis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the TrilateralCommission, New York 1975, trad. it. La crisi della democrazia, Franco Ange-li, Milano 1977.

tezza la sfera delle azioni pubbliche (politiká) da quella propria de-gli interessi privati (ídia). Nel testo della Politica, Aristotele siste-matizza questo registro di procedure di comunità e argomenta lapiena autonomia di saperi politici giustificata dal bisogno specificodella filosofia di costituire un limite determinato al danno indottodai comportamenti umani rivolti all’accumulo infinito e insensato diricchezza privata. La ragione filosofica produce quello strumento diragione pratica, la filosofia politica, al fine di marcare la differenzaprofonda tra economia della casa (oikonomía), rivolta a rispondereai bisogni della vita dei gruppi umani, e crematistica (chrematistiké)in quanto esercizio insulso e pericoloso finalizzato a sottoporre ogniaspetto della vita umana al predominio della tecnica rivolta alla pro-duzione incontrollata di denaro, di valore di scambio1. Secondoquesto indirizzo determinato il complesso dei processi della vita na-turale (zoè), del fare (poièsis) e del complesso dei bisogni deve vive-re nello stretto collegamento con le pratiche della vita buona (euzèn), della prassi civile (praxis) e della libertà: se questa serie di lega-mi positivi viene meno, la corruzione inevitabile dei comportamen-ti conduce alla degenerazione del corpo comunitario, della koinonia.Da parte sua, Hegel conferma il ruolo essenziale della ragione rivol-ta a contenere la falsa e pericolosa universalizzazione tentata dall’e-conomia; tale limite viene strutturato grazie alla mediazione dialet-tica che intercorre tra Stato e società civile borghese (bürgerliche Ge-sellschaft): in questo modo la sfera del pubblico statuale dovrebberiuscire a contenere lo sviluppo degli interessi privati che operano ineccesso e che procurano condizioni di povertà e di miseria.

Una diversa linea di argomentazioni prende avvio nel diciasset-tesimo secolo con Montchrestien e, attraverso il contributo di Men-ger e dei suoi epigoni nella seconda metà dell’Ottocento, arriva fi-no agli estremismi del neoliberalismo contemporaneo: lasciare libe-ri i soggetti nella propria naturale e spontanea attività lavorativa, ri-ducendo al massimo l’intervento disciplinare e politico dell’autori-tà statuale ed esaltando invece la creatività individuale rivolta all’in-cremento incondizionato e autoregolativo del mercato2. Questo fi-

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1 E. Berns, La porosité. Un essay sur le rapport entre économie et politique,Vrin, Paris 2012, pp. 15 ss.

2 Vedi ancora E. Berns, La porosité, cit., pp. 59 ss. Michel Foucault ha of-ferto una straordinaria ricostruzione critica dell’affermazione nel secondo do-

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Si comprende allora come, al fine di garantire una situazione diblocco conservativo in Europa intesa a favorire gli interessi dei mer-cati finanziari, secondo Luciano Gallino, ci troveremmo dinanzi adun evento eccezionale: “si è trattato proprio di un colpo di Stato,concretatosi nell’espropriazione subitanea e categorica delle prero-gative dei cittadini e dei Parlamenti, effettuato solidarmente dallebanche e dai governi con la regia del Consiglio europeo e l’appog-gio della Troika di Bruxelles”5. Secondo Gallino, oggi in Europa, èin gioco lo svuotamento sostanziale della democrazia nell’UnioneEuropea: di qui l’apertura di una fase chiaramente autoritaria, lad-dove un governo nascosto privilegia l’economia annullando le po-tenzialità reattive delle politiche dei singoli stati, ritenuti ormai nonpiù sovrani.

L’espansione contemporanea dei mercati finanziari costituisceun pericolo gravissimo per la tenuta del capitalismo democratico; iprocessi in corso rinviano certamente alle preoccupazioni ed alladenuncia espresse da Karl Polanyi allorquando argomentava – nel-la sua opera principale, La grande trasformazione – che l’idea di po-ter contare sulla funzione positiva di un mercato autoregolato co-stituisse una grossa, irrealizzabile e distruttiva utopia; dagli annitrenta dell’Ottocento fino ai primi decenni del secolo successivoquesto tentativo di autoregolazione aveva operato in modo da de-costruire le energie produttive del capitale industriale e aveva por-tato all’esasperazione degli antagonismi tra le classi fino al punto difare implodere la società. Oltre agli eventi della prima guerra mon-diale e la successiva depressione economica, la soluzione fascista enazista aveva risolto l’impasse del capitalismo liberale, dando origi-ne ad “una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzodell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel cam-po dell’industria che in quello della politica. Il sistema economicoche era in pericolo di disfacimento veniva così rivitalizzato mentrei popoli stessi venivano sottoposti ad un rieducazione destinata asnaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare comeunità responsabile del corpo politico”6.

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5 L. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democra-zia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 201.

6 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politichedella nostra epoca, Einaudi, Torino 1974, pp. 6 e 297.

1.2 finanziarizzare l’economia e la società per “guadagnare tempo”

La seconda ipotesi del nostro percorso, impegnato a ricostruirela porosità delle nuove relazioni intercorrenti tra politica e econo-mia, può essere descritta in questo modo: negli ultimi anni è in at-to un tentativo di autonomizzazione da parte dei soggetti che ope-rano nel mercato dei prodotti finanziari; un vero e proprio processodi finanziarizzazione dell’economia. Intanto, si può condividere latesi di Wolfgang Streeck che legge la finanziarizzazione in atto co-me la risposta del modo di produzione capitalistico alla crisi del tar-do capitalismo; questa sarebbe composta dall’intreccio di tre diver-si tipi di crisi: quella delle banche, nella loro difficoltà di concederecredito e sotto denuncia per l’invenzione di prodotti di speculazio-ne perversa; una crisi delle finanze statali, come risultato del deficitaccumulato per decenni dal bilancio pubblico e del crescente inde-bitamento degli stati; la crisi dell’economia reale derivante dalla cre-scente svalorizzazione delle merci, drasticamente riduttive dei livel-li medi dei profitti, e dagli altissimi tassi di disoccupazione. In sin-tesi, l’accelerazione nelle dinamiche di autonomizzazione dei mer-cati finanziari dovrebbe consentire ai proprietari e agli amministra-tori di capitale di coprire il versante delle perdite, realizzando untempo guadagnato (Gekaufte Zeit) idoneo a ritardare l’ulteriore ag-gravamento della crisi4.

Nell’opera distruttiva, esercitata periodicamente in modo fun-zionale dal capitalismo nei confronti delle forme improduttive, co-munque obsolete, dell’economia e dei rapporti sociali – quella dia-lettica negativa e insieme rigeneratrice del capitale su piani antago-nistici via via crescenti, su cui insiste la riflessione di Karl Marx – in-terverrebbe oggi un elemento nuovo e dirompente: il rischio dellaseparatezza della finanziarizzazione consisterebbe proprio nellacondizione il modo di produzione capitalistico di non essere più ingrado di offrire una sintesi superiore rivolta ad un’accumulazionereale e comunque rispondente a concrete riconfigurazioni dei rap-porti sociali; piuttosto, questi elementi di effettiva perversione con-tribuirebbero ad esaltare fenomeni di incertezze diffuse e di squili-bri incontrollabili nel quadro di un aggravato disordine mondiale.

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4 W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo demo-cratico, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 26 ss.

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UE, BCE, OCSE, etc.), fino alle reti delle NGOs (Non Governa-mental Organizations) che avvolgono a rete il mondo; anche questiorganismi e le relative politiche possono essere analizzati come ri-sposta sul lungo periodo alle difficoltà effettive vissute dalle proce-dure di legittimazione del government, che opererebbero ormai inmodo inefficace tramite i mezzi rappresentativi e costituzionali tra-dizionali. Bisogna dunque riferire questo complesso di pratiche edispositivi al tentativo di rendere ancora più attiva la governamen-talità del neoliberalismo attraverso la reticolare diffusione di dispo-sitivi/pratiche di governance in ogni parte nel mondo.

Una letteratura critica enorme ha contribuito a ricostruire le ca-ratteristiche di questi organismi di governance e del loro funziona-mento7; essi si pongono al di fuori delle procedure della legittima-zione rappresentativa, infatti sono non-rappresentativi e non-eletti-vi, ed azzerano la separazione funzionale tra i poteri. Tali dispositi-vi di governance agiscono ampliando lo spettro delle autorità non-statuali, riducendo spazi/tempi del pubblico specificamente statua-le; intervengono, in breve, con finalità di rimedio nei confronti del-l’incapacità delle funzioni del government di offrire rappresenta-zione pubblico-politica alla diversità ed alla pluralità crescente del-le soggettività in campo: peraltro, essi sembrano operare esclusiva-mente attraverso la partecipazione di attori collettivi alle proceduredi negoziazione e di decisione, con sicura mortificazione di bisognied espressioni dei singoli.

L’obiettivo principale di questi dispositivi sarebbe quello dicontribuire su piani diversi (multilevel) alla produzione di un effi-cace rapporto di comando/obbedienza attraverso l’utilizzazione ditecnologie particolarmente efficaci a fare di ciascun soggetto l’indi-viduo per eccellenza consumatore. Nei contesti nazionali e sul pia-

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7 Come introduzione alla categoria di governance vedi i lavori di R.Mayntz, La teoria della governance, in «Rivista italiana di scienze politiche»,XXIX (1999), pp. 3-21; i saggi contenuti nella raccolta a cura di J.N. Rosenau-O. Czempiel, Governance without government: Order and Change in WorldPolitics, Cambridge 1992; D. Held-M. Koenig-Archibug, Global Governanceand public Accountability, Mal-den/London/Victoria 2005. B. Kohler-Koch-R. Eising, The Transformation of Governance in the European Union, NewYork 1999; S. Puntscher Riekmann, Die kommissarische Neuordnung Europas,Wien-New York 1998; G. Borrelli, La democrazia di governance tra crisi di le-gittimazione e dispositivi d’emergenza, in G. Fiaschi (ed.), Governance: oltre loStato?, Soveria Mannelli 2008; A. Arienzo, La governance, Roma 2013.

1.3 l’economia impone la propria politica

Come ultima considerazione sui cambiamenti in corso tra poli-tica e economia, si può formulare una terza ipotesi: l’economia vie-ne assumendo un ruolo sempre più centrale nei governi globali e lo-cali; esse dispone ormai di strumenti governamentali propri, partico-larmente idonei a sostenere una forma specifica di dominazione. Perillustrare questa tendenza conviene innanzitutto riprendere le piùaggiornate considerazioni – espresse sul numero speciale del «TheEconomist» (gennaio 2012) – rivolte a caratterizzare la forma del-l’intervento delle potenze mondiali emergenti (Cina, India, Russia,Brasile) come una sorta di State Capitalism: la fusione di politica eeconomia consentirebbe l’espansione del modello capitalistico ope-rando una diversa redistribuzione dei poteri sul piano globale, tra-dizionalmente rivolta alla conquista delle fonti energetiche conside-rate oggi indispensabili; le sue particolari caratteristiche accresce-rebbero in forma drammatica lo sfruttamento delle classi lavoratri-ci, assoggettate senza diritti politici e sociali: la gestione di questiprocessi avrebbe prodotto la formazione di oligarchie politico-eco-nomiche, con frequenti interscambi di ruoli per i medesimi indivi-dui dapprima funzionari statuali e in seguito impegnati come ma-nager d’impresa, e viceversa.

In effetti, lo strumento particolare che da alcuni decenni costi-tuisce la chiave della conversione economica del processo di globa-lizzazione è quel complesso di dispositivi e di procedure cui vieneassegnato il nome di multilevel governance. Al di fuori della prassidi legittimazione per via rappresentativa-elettiva e della modernadivisione dei poteri, questa serie di organismi indipendenti dannovita ad una specie di autogoverno collettivo degli interessi attraver-so procedure negoziali/concorrenziali che sottraggono spazio allasfera del pubblico statuale. Le caratteristiche del funzionamento diqueste politiche di governance sono giustificate teoricamente comeforma di un pluralismo limitato che interviene per porre rimedio –anche attraverso l’utilizzazione di dispositivi straordinari d’emer-genza – al disfunzionamento delle politiche pubbliche: una rete diautorità ed agenzie non statuali, indipendenti, vengono attivate daifuochi dei governi centrali al fine di offrire regolamentazione e pro-durre diffusi comportamenti di autodisciplina. Si tratta del com-plesso delle Autorità Amministrative Indipendenti, authorities eagencies poste in essere da organismi internazionali (FMI, ONU,

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pensare tenuti ben distinti fino ai nostri giorni. In particolare, eco-nomia viene a significare l’insieme delle pratiche governamentaliche si rendono necessarie nell’epoca della messa in discussione del-le relazioni di poteri tra le regioni che dominano il mondo; questosignifica non solo che l’economia sembra impegnare modelli e pro-cedure decisionali della politica tradizionale, assumendo tratti for-temente autoritari: soprattutto, gli sforzi della scienza economica –riconosciuti pure negli ultimi decenni dalle istituzioni scientificheprestigiose dell’Occidente – sono rivolti a delineare registri com-portamentali e strategie disciplinari finalizzati a incidere sui com-portamenti di soggetti considerati, nel lavoro così come in ogni for-ma del vivere, unicamente come individui produttori e consumato-ri di reddito, coinvolti direttamente nelle vicende della formazionedei debiti pubblici degli stati, responsabili diretti dell’effettivo svi-luppo della comunità. Psicologia relazionale, neuroscienze, scienzadel comportamento diventano riferimenti importanti per la ricercateorica in economia; i vincitori del Premio Nobel nei primi anni del2000 – Daniel McFadden, Daniel Kahneman e Vernon L. Smith8 –sono economisti preoccupati di offrire indicazioni decisive su comegovernare l’inatteso attraverso il migliore impiego delle menti uma-ne e della consapevolezza collettiva9. Come suggeriscono Thaler eSunstein, l’economia deve offrire suggerimenti decisivi su quali sia-no le migliori tecnologie capaci di convincere i soggetti ad autotra-sformarsi per conseguire migliori risultati di ricchezza e di benesse-re: ecco allora la teoria del nudge, della spinta gentile che scienza,media e governi devono argomentare e praticare con tecnologieperformative al fine di incoraggiare gli individui a prendere le stra-de più sagge per conseguire vantaggi e sicurezza10.

In misura crescente, anche la politica sembra perdere di auto-nomia: in particolare se con questo termine intendiamo significarela sostanza di quel governo misto (mikté politeia) che – dai tempidella Politica di Aristotele – viene considerato la forma normale del-la rappresentazione sul piano politico-pubblico dei conflitti parti-

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8 Matteo Motterlini – Massimo Piattelli Palmarini, Critica della ragion eco-nomica. Tre saggi: Kahneman, McFadden, Smith, Il Saggiatore, Milano 2012.

9 Karl E. Wieck.- Kathleen Sutcliffe, Governare l’inatteso, Raffaello Cor-tina, Milano 2010.

10 Richard H. Thaler- Cass R. Sunstein, La spinta gentile, Feltrinelli, Mila-no 2009.

no mondiale, i dispositivi di governance contribuirebbero ad incre-mentare il cosiddetto capitale umano, a rendere più funzionali cor-pi, energie e poteri dei singoli che si impegnano a fare di se stessi iveicoli di forme sempre più flessibili dell’impresa. Produrre dunquemaggiore integrazione tra pratiche economiche, modelli d’impresae regolamenti giuridico-amministrativi: attivazione di processi diamministrazione della vita rivolti a depotenziare i pesi onerosi del-la politica statuale, del government tradizionale.

Se prendiamo in considerazione i documenti ormai storici cheper primi hanno descritto queste forme efficaci del governo demo-cratico – prodotti dalla Commission on global governance dell’O-NU (1995), il White Paper on European Governance (2001) e l’e-norme letteratura prodotta dai politologi per conto dell’UE –, go-vernance sta a significare un complesso di nuove modalità di com-portamenti che gli individui assegnano a se stessi: governance “is acontinuing process through which conflicting or diverse interestsmay be accomodated and cooperative action may be taken. It in-cludes formal institutions and regimes empowered to enforce com-pliance, as well as informal arrangements that people and institu-tions either have agreed to or perceive to be in their interest” (Com-mission on global governance, 1995). To manage themselves, toequip themselves, arrangements: tutti questi termini vengono a si-gnificare, nominare, dispositivi che – a vari livelli – dovrebbero con-tribuire a rendere funzionali caratteristiche dei poteri prodotti daisingoli, rinforzati dai supporti delle nuove tecnologie; gli effetti diqueste dinamiche risultano evidenti: incorporare/integrare le capa-cità conoscitive individuali nei sistemi astratti dei grandi hardwaredei sistemi esperti: contemporaneamente, orientare pratiche di sod-disfacimento egoistico degli interessi individuali e di gruppo secon-do forme cooperative, creative ed efficaci, anche se non partecipati-ve; in breve, espropriazione emotivo-conoscitiva degli individui edisattivazione dei codici istituzionali pubblici della partecipazione.

1.4 la fine della scienza economica e la scomparsa della politica

Economia e politica vengono nei fatti trasformandosi radical-mente: sembrano anche perdere le caratteristiche di scienze autono-me; per un versante, questi ambiti del vissuto degli esseri umani di-ventano porosi, mescolano e confondono pratiche di vita e modi di

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ambiti dell’organizzazione delle forme della convivenza umana al-meno per gli ultimi decenni, con particolare riguardo all’area occi-dentale. Al fine di intendere a livelli di maggiore profondità i pro-cessi che tendono a modificare, secondo forme inedite e pure radi-cali, l’impianto politico e economico di istituzioni e pratiche delvivere civile sedimentatesi pure attraverso lunghi secoli, convienerivolgersi ai suggerimenti di Michel Foucault e mettere in campochiavi ermeneutiche prodotte da uno straordinario contributo teo-rico: si tratta di utilissimi strumenti d’indagine che analizzano ladinamica composizione di soggettivazioni specifiche che rendonopossibile l’analisi della produzione delle reti dei poteri che i sog-getti attivano, al fine di offrire a se stessi e agli altri, registri effica-ci di governo e criteri pratici di condotte; tecnologie specifiche digovernamentalità che spingono gli individui ad esprimere conspontaneità e naturalezza il massimo delle proprie capacità pro-duttive e che affermano la possibilità del singolo di costruire sestesso come soggetto di una particolare verità e di una attenta cu-ra di sé. Seguendo lo sforzo della riflessione foucaultiana fino agliultimi anni della sua vita, rivolta a scandagliare le modalità propriedella costituzione di un’ermeneutica del soggetto negli svolgimen-ti della storia occidentale, quei processi che descriviamo tramiteastrazioni universalizzanti come scorrimenti che danno origine al-le agglomerazioni economiche e ai principi dell’agire politico deb-bono essere costantemente riferiti alla produzione pragmatica chegli individui fanno di se stessi, secondo modalità etopoietiche, eser-citando su se stessi pratiche che contribuiscono a realizzare unconveniente governo di sé, teso pure a orientare e promuovere l’ef-ficace governo degli altri11.

Grazie a questo genere di sostegno critico, si potrà ora sostene-re che quelle trasformazioni di politica/economia sopra analizzatepossono essere riferite alle modificazioni ed al venire meno di duedistinti processi di soggettivazioni, che procedono in autonomia eche pure significativamente s’intrecciano e confliggono tra loro nelsecolo trascorso: da un lato, la crisi della soggettivazione neolibera-le che ha sostenuto l’affermazione del modo di produzione capitali-

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11 M. Foucault, L’herméneutique du sujet 1981-1982, éd. établie par F.Gros, Paris 2001 (trad.it. a cura di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto, Fel-trinelli, Milano 2003).

colari che prendono origine dalle relazioni di comunità. In fondo, lastessa configurazione del capitalismo democratico resta caratterizza-ta, nel trentennio della sua affermazione, da questa capacità di la-sciare libera la rappresentazione dei conflitti sociali sul piano poli-tico-pubblico. Negli ultimi decenni, nei paesi occidentali, è venutarealizzandosi la modificazione sostanziale del legame – stabilitosifin dalle origini della moderna forma di democrazia (e posto in evi-denza fino dall’epoca di Sieyès) – del mezzo rappresentativo con ladivisione capitalistica del lavoro come strumento finalizzato a resti-tuire il dovuto peso decisionale ai soggetti collettivi impegnati nel-le attività industriali; la scomparsa delle classi, in quanto aggrega-zioni caratterizzate da forti elementi d’omogeneità sociale e di ap-partenenza, contribuisce a configurare una storia certamente diver-sa della rappresentanza. L’affermazione del suffragio universale e ilnormale funzionamento del criterio rappresentativo-elettivo sonocertamente stati sostenuti dalle serie dei conflitti tra classi che tro-vavano nelle politiche democratiche la possibilità del confronto edella mediazione; ed ancora la struttura bipolare della situazionegeopolitica scomparsa alla fine degli anni Ottanta del secolo passa-to restituiva ulteriori significati alle politiche delle democrazie occi-dentali in permanente antagonismo con il complesso dei socialismireali. Da quell’epoca in poi, l’espansione inarrestabile del governoneoliberale ha posto addirittura in dubbio la funzione mediativadella democrazia politica, considerata quasi motivo di ritardo e ral-lentamento per i circuiti della produzione economica; in più, comeabbiamo visto sopra, si è cercato di sostituire le forme tradizionalidel government democratico con altri dispositivi governamentali –soprattutto nelle modalità della multilevel governance – utili allosviluppo delle imprese pubbliche/private, cercando di smorzare ilcarattere prevalentemente politico delle scelte ed aprendo a stru-menti di maggiore flessibilità decisionale. La politica democraticasembra scomparire per lasciare campo a forme inedite nei governi aidiversi livelli locali e globale.

2. soggettivazione neoliberale e trasformazioni governamentali

Le macrocategorie di politica e di economia sono state sopraanalizzate nel tentativo di descrivere i fenomeni che attestano tra-sformazioni storiche particolarmente significative tra questi due

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partire dalla suola di Chicago, si opera in modo di favorire l’espan-sione della razionalità di mercato a tutti gli ambiti della vita umana.I grandi fenomeni economici (produzione, disoccupazione, infla-zione, etc.) vengono considerati e vissuti come processi naturali,mentre si esortano i singoli individui all’autoregolamentazione del-la propria vita lavorativa. Ne scaturisce una soggettività aggressivache vive della permanente concorrenza nei confronti degli altri indi-vidui; la forma d’impresa viene demoltiplicata verso il basso: è im-portante che ciascuno faccia di se stesso un’impresa; il lavoro vienevissuto come libera creatività che rifiuta la passiva qualifica di forza-lavoro come merce; nell’attività lavorativa l’individuo resta impe-gnato come erogatore di un’energia vitale originaria e inarrestabile,che secondo Rüstow configura una vera e propria Vitalpolitik, l’ef-ficace produzione di sé come energia spontanea e creativa; il risulta-to dell’esercizio di tali pratiche di sé induce concretamente a viverequella soddisfazione profonda che restituisce senso all’esistenza ma-teriale e consente di vivere i piaceri di consumi variegati; le istitu-zioni, giuridiche e politiche, possono intervenire solo in un secondotempo al fine di segnare garanzie per i tratti di maggiore competi-zione tra i gruppi umani ed unicamente per favorire sviluppo e sta-bilizzazione di queste macchine/flussi individuali che costituisconoil capitale umano (secondo la teoria di Becker). Tale è la chiave perintendere la messa in opera delle qualità straordinarie dell’homo oe-conomicus che sostiene le sorti dell’accumulazione capitalistica nel-la cosiddetta fase del neoliberalismo.

I processi fondati sul modello costruttivo dell’individuo intesocome imprenditore di se stesso, attivo capitale umano, hanno biso-gno allora di forme istituzionali e organizzative del politico (inquanto sistema di governo, partiti, sindacati); tuttavia, le relativeprassi e procedure politiche debbono assumere caratteri deboli e li-mitati, anche quando assumono le vesti del capitalismo democrati-co: a partire dall’esercizio degli strumenti essenziali del modellorappresentativo-elettivo del parlamentarismo liberale, attraverso learticolazioni del modello schumpeteriano del mercato politico, finoai tentativi del neopluralismo contemporaneo rivolto a costruirepolitiche di governance. A fronte delle estreme sofferenze della le-gittimazione di tipo rappresentativo-elettivo (il cosiddetto deficitdemocratico), istituzioni pubbliche/private opererebbero in mododa favorire forme di partecipazione controllate e sponsorizzate dal-le autorità ufficiali, sul piano nazionale e internazionale (si tratta,

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stico almeno fino agli ultimi decenni del secolo passato; per lo stes-so periodo, bisogna sottoporre all’indagine la scomparsa di sogget-tivazioni che avevano orientato le condotte antagonistiche di massed’individui in lotta contro lo sfruttamento imposto dal capitale: co-me vedremo, si tratta di resistenze di lungo periodo, venutesi anchea coagulare nelle strutture organizzative, partitiche e sindacali, delmovimento operaio.

2.1 sviluppo e crisi della soggettivazione neoliberale

È stato lo stesso Foucault nel corso tenuto al Collège de Francedel 1978-1979 – dedicato al tema della nascita della biopolitica – asviluppare una straordinaria ricostruzione della soggettivazione ditipo neoliberale, riportando questo fenomeno alla specificità deiprocessi storici – costituiti dalla serie delle condotte e dei discorsi –successivi alla fine della seconda guerra mondiale in Germania e ne-gli Stati Uniti12. Secondo il filosofo francese, il liberalismo modernoprende corpo dagli inizi del diciottesimo secolo, allorquando si af-ferma con prepotenza un’arte particolare del governo che rifiuta glieccessi del governo; da quell’epoca si afferma la consapevolezza chesi governa sempre troppo, dal momento che l’esperienza pone in lu-ce l’incompatibilità tra svolgimento ottimale del processo economi-co e massimizzazione delle procedure di governo. Bisogna quindiporre un limite all’intrusione dei dispositivi politici, mentre convie-ne pure sottrarre le pratiche governamentali al pubblico giudizio dibene o male. Viene dunque esaltata, con quella ferma coerenza ideo-logica che perviene fino al secolo scorso negli anni del secondo do-poguerra, la libertà (economica) del soggetto: oltre il di sastro del na-zismo, in Germania l’ideologia dell’ordoliberalismo si prende in ca-rico di offrire un indirizzo determinato ed efficace alla ricostruzio-ne della nazione tedesca; da Eucken e Röpke, da Böhm a von Rü-stow, viene argomentata e praticata la centralità del mercato che re-gola spontaneamente la formazione dei prezzi e costituisce la rego-la della produzione dei comportamenti sociali; anche negli USA, a

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12 Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Pa-ris, Gallimard-Seuil, 2004 (trad. it. di M. Bertani-V. Zini, Nascita della biopoli-tica, Feltrinelli, Milano 2005).

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determinate di depoliticizzazione dell’azione dei singoli: in breve,quell’esaltazione dell’économie politique de la santé che, in un pun-to della sua ricerca, Foucault chiama somatocracié 13.

Questo significa che nelle situazioni in cui l’utilizzo delle tec-nologie viene applicato alla produzione economica e all’organizza-zione del lavoro in forma sistemica (nanotecnologie, biotecnologie,tecnologie della comunicazione), inevitabile appare l’impatto di-struttivo per generazioni intere di lavoratori. In tutte le aree mon-diali, dalle metropoli industriali dell’occidente fino ai grandi opificiasiatici, modificazioni di governamentalità ed esercizio distruttivodel biopouvoir riguardano, da un lato, lo sfruttamento della vita ma-teriale e spirituale di quei soggetti impegnati come pura energia psi-cofisica nella produzione materiale, dall’altro lato, la serie delle re-lazioni d’interazione tra soggetti consumatori e sistemi tecnologicimassmediali e di rete configurano individui sicuramente agevolatinei processi produttivi e comunicativi, tuttavia inibiti nella possibi-lità di offrire ai propri comportamenti indirizzi di autonomia e diautoregolazione.

In realtà, le diffuse sofferenze nelle forme sociali di vita e del-l’attività lavorativa sembrano produrre fenomeni diffusi di desog-gettivazione: la demotivazione esistenziale dei soggetti a rendersiespressione attiva di un efficace governo di se stessi rischia di di-ventare appunto l’elemento principale che induce alla depoliticiz-zazione dei cittadini e della vita civile. Peraltro, queste strategie dipassivizzazione degli individui smentiscono i fondamenti della go-vernamentalità neoliberale e, sul lungo periodo, potrebbero intro-durre ovunque, nei contesti contemporanei di ordinamenti comu-nitari incapaci di rinnovarsi, inediti elementi di rigidità, quindi ul-teriori divisioni e pericolosissime fratture. In questa situazione, isoggetti che detengono il comando mondiale cercano di interveni-re con maggiore incidenza nei confronti delle coscienze individua-li e degli stili di vita: di qui il ruolo specifico della manipolazionemassmediale e del controllo molecolare resi possibile dalle poten-zialità offerte dalle nanotecnologie. Gli strumenti del populismomediatico producono modalità di crescente desublimazione (comesi esprime Bermard Stiegler), di perversa distruzione di quell’atti-

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13 M. Foucault, Crise de la médecine ou crise de l’antimédecine?, 1976, inDits et écrits, II, Paris, Gallimard, 1994, p. 42.

come abbiamo visto, di Autorità Amministrative Indipendenti, au-thorities e agenzie di regolamentazione e terzietà, ONG, etc.).

2.2 trasformazione della governamentalità neoliberale

Nel contesto della mondializzazione contemporanea sembranoaumentare le difficoltà delle strategie neoliberali di attiva autorego-lazione delle condotte prodotte dai singoli individui lavoratori; daun lato, cambiano queste pratiche governamentali, mentre in corri-spondenza mutano in senso peggiorativo le politiche democratiche.In effetti, sembrano segnare il passo quelle modalità neoliberali cherestituivano ai soggetti la possibilità di scambiare l’incrementoenergetico dei propri poteri psico-fisici con pratiche di consapevo-le obbedienza nei confronti delle autorità istituzionali; incalzantediventa il tentativo, da parte dei soggetti che dominano i mercati(particolarmente quelli finanziari), di accrescere forme di comandoviolento sulle modalità di erogazione della pura energia vitale, psi-co-fisica: basti considerare le condizioni di assoluto assoggettamen-to per gli individui coinvolti nella precarizzazione strutturale dimassa nelle aree sviluppate del mondo occidentale (vedi pure le fi-gure nuove degli scoraggiati, dei NEET), oppure l’organizzazionedel lavoro straordinariamente dolorosa nei sistemi produttivi dellegrandi potenze emergenti (Cina, India, Brasile, Russia, etc).

Il discorso di Foucault sulla governamentalità neoliberale vadunque aggiornato; la tendenza predominante delle nuove forme didominazione tende ancora a favorire processi di securizzazione nel-la gestione degli ambienti di lavoro e nelle garanzie giuridiche asse-gnate all’attività produttiva; tuttavia, pressante diventa l’esigenza diindebolire volontà e condotte antagonistiche dei singoli. Infatti, sele strategie di flessibilità estrema, proprie delle tecnologie di gover-nance, contribuiscono ancora parzialmente a rinforzare corpi edenergie dei singoli, sembrano tuttavia venir meno le forme di attivoautodisciplinamento rese possibili nella fase più espansiva del mododi produzione capitalistico, idonee a favorire la rapida crescita di uncapitale umano creativo e capace di utilizzare positivamente le piùavanzate tecnologie. Si è forse pervenuti nell’ipermodernità alle for-me estreme di quegli scorrimenti che hanno promosso l’attivazionedi un governo dei comportamenti e dei corpi da realizzare attraver-so la produzione del benessere ergonomico dei soggetti con finalità

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dier – riprendendo alcune considerazioni fortemente pessimistichedi Ralph Dahrendorf – a fronte degli scenari di incertezza posti da-gli irruenti fenomeni della mondializzazione, preannunciano misu-re crescenti di autolimitazione ed automutilazione da parte dei go-verni occidentali rispetto ai risultati conseguiti in circa due secoli diritorno della democrazia15; per anticipare le incertezze di ogni pos-sibile scarto innovativo, in prospettiva si verrebbero a realizzare –con modalità diverse per i differenti contesti nazionali – pericoloseturbative nelle dinamiche dell’esercizio dei poteri costituzionali enell’equilibrio dei sistemi politici.

3. cosa significa conversione alla rivoluzione

In un passaggio del corso di lezioni dedicato all’Ermeneuticadel soggetto (1981-82), Foucault apre a un discorso sul tema dellaconversione alla rivoluzione: con questa espressione l’autore inten-de richiamare i percorsi di formazione di particolari modalità dipratiche del sé che avrebbero preso consistenza a partire dagli annitrenta/quaranta dell’Ottocento, allorquando sarebbe venuto via viaaffermandosi una soggettività rivoluzionaria, espressione di un pro-cesso di soggettivazione inedito, che si sarebbe diffuso ovunque inOccidente; questa nozione di conversione sarebbe stata “prima le-gittimata, e poi progressivamente assorbita, in seguito prosciugata,e infine annullata, proprio dall’esistenza di un partito rivoluziona-ri”16. Si tratta dell’abbozzo di un argomento che – come accadespesso nello svolgimento delle sue lezioni – viene lasciato quasi su-bito cadere, senza essere ripreso nel seguito dei contenuti del corsodi quell’anno accademico. Foucault riprenderà questa categoria del-la conversione alla rivoluzione nel 1984, l’anno della sua morte, du-rante le lezioni svolte sul tema del coraggio della verità; lo farà nelcontesto dell’analisi dei caratteri rivoluzionari dei discorsi e delletecnologie del sé messe in campo in epoca classica dal cinismo, ri-volte in forme radicali a rompere con le convenzioni e con le abitu-

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15 O. Dabéne-V. Geisser-G.Massardier (eds.), Autoritarismes démocrati-ques et démocraties autoritaires au XXIe siècle. Convergences Nord–Sud, Paris2008.

16 M. Foucault, L’herméneutique du sujet (1981-1982), trad.it. cit., p. 185.

vità libidica dei soggetti che aveva reso possibile (nella fase storicasuccessiva alla seconda guerra mondiale) importanti investimentienergetici produttivi da parte dei singoli; il blocco dell’attività de-siderante rafforza negli individui tendenze narcisistiche e contem-poraneamente apre al godimento di oggetti per un consumo inter-minabile e privo di senso14. Viene anche meno la possibilità stessadella tensione produttiva che i desideri impiantano di necessità conla Legge, vale a dire con i limiti posti dalla politica autentica: so-prattutto svanisce ogni proficua relazione con il desiderio dell’Al-tro, con l’apertura difficile ma indispensabile alla rete degli affettie dei godimenti dei singoli. In breve, nel piano delle strategie mas-smediali rese funzionali all’esercizio perverso del potere politico,le tecnologie intercettano le onde dei desideri, massificando e neu-tralizzando le tensioni pulsionali: rendono i soggetti sempre piùinsoddisfatti e irresponsabili.

In definitiva, nei processi di soggettivazione, il controllo disci-plinare tende ad aumentare su di un duplice piano: da un lato, l’at-tivazione di dispositivi somatocratici posti in essere direttamente daistituzioni pubbliche/private nell’ultima fase del capitalismo neoli-berale (attivati tanto dai governi quanto dalle imprese: vedi i tagliradicali ai lavoratori del pubblico-statuale e insieme i recenti inter-venti di ristrutturazione nel sistema industriale dell’automobile incrisi); dall’altro lato, la manipolazione diretta dei cittadini secondoil registro soft del populismo mediatico. In sintesi, governance inquanto governo dei cittadini ridotti all’omologazione di massa sul-la figura dell’homo oeconomicus che stringe insieme i ruoli di pro-duttore/consumatore/soggetto indebitato: contemporaneamente, ilritorno delle forme più grevi d’imposizione dall’alto di dispositividiretti di controllo degli individui, resi spettatori passivi e stupidisoggetti di entusiastico consenso per il leader carismatico.

Nell’epoca della mondializzazione spinta, sembra che alle mo-dificazioni dei processi di governamentalità corrisponda la trasfor-mazione in senso autoritario dei governi nelle democrazie occiden-tali: l’inarrestabile perverso connubio tra globalizzazione democra-tica e consolidamento autoritario caratterizzerebbe la fase di parten-za del ventunesimo secolo; le ricerche di Dabéne-Geisser-Massar-

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14 B. Stiegler, Prendre Soin: Tome 1, De la jeunesse et des générations, Pa-ris 2008, ed ancora Économie de l’hypermatériel et psychopouvoir, Paris 2008.

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cault, sono state queste filosofie a operare una sorta di generalizza-zione della cura di sé e di quelle pratiche aleturgiche che opereran-no in profondità nei processi costituivi delle soggettivazioni nellastoria occidentale. Fin dall’inizio dello svolgimento argomentativo,l’autore differenzia questa particolare modalità di leggere la filoso-fia classica come istanza di verità in permanenza legata al vivere deisingoli rispetto al genere filosofico moderno che assegnerà alla ri-flessione filosofica il carattere prevalente del primato cognitivo fi-nalizzato al dominio sul mondo; dal Seicento in poi, bisogna inda-gare con attenzione per intendere quali autori e quali scritture con-servino ancora la prospettiva dello stretto collegamento di filosofiae spiritualità: nelle ultime battute del corso sull’ Ermeneutica delsoggetto, Foucault lascia intendere un suo preminente interesse diconfronto con la hegeliana Fenomenologia dello spirito.

Nel quadro complesso della ricostruzione delle semantiche del-la conversione di sé risulta quindi a dir poco interessante il richiamoall’emergere – agli inizi del secolo decimonono, nelle condizionidella piena modernità politica e culturale della storia occidentale – diuna soggettività rivoluzionaria costituita dal complesso delle prati-che di sé, dai discorsi di verità di un soggetto rivolto in modo deter-minato a sovvertire gli assetti circostanti dei poteri. Processi sicura-menti inediti di soggettivazione sono in formazione alla fine del Set-tecento legati agli eventi rivoluzionari dell’America del Nord e del-la Francia: per questi contesti, bisogna anche tener presenti gli ir-ruenti cambiamenti indotti nelle relazioni del vivere civile dalle mo-dalità organizzative e tecniche del modo di produzione della grandeindustria. Una condizione di conversione alla rivoluzione, maturaormai nei primi decenni del secolo decimonono, vive sicuramentecome sedimentazione di comportamenti e di discorsi che percorre lastoria di quelle generazioni passate. Elemento centrale è sicuramen-te la composizione di una soggettività che persegue pratiche di sécome processo autopoietico di rinnovamento radicale del sé: dispo-sizione coltivata, meditata e vissuta, rivolta a favorire cambiamentiinteriori al fine di produrre trasformazioni decisive, fratture e scar-ti, nelle condotte di vita proprie e degli altri, di quanti costituisconola comunità che bisogna assolutamente modificare e migliorare.

Queste pratiche etopoietiche offrono di sé la rappresentazione disoggettività che assumono ad esempio le esperienze di libertà e di au-tonomia vissute nei contesti territoriali americani e francesi. Di que-ste novità antropiche certamente i saperi filosofici andavano propo-

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dini della società e proiettate a praticare la possibilità concreta diun’altra vita che è la vera vita17; riportando queste argomentazioniagli sviluppi della nozione di conversione alla rivoluzione nel corsodel secolo diciannovesimo, il filosofo pone in risalto tre punti: all’i-nizio dell’Ottocento sarebbe comparsa la vita rivoluzionaria nellaforma della socialità e del segreto; a fine secolo, organizzazioni pa-lesi e riconoscibili avrebbero perseguito programmi di lotta nelcampo sociale e politico; infine, la terza maniera di vivere la rivolu-zione sarebbe consistita nelle modalità della militanza come testi-monianza di vita, nella forma di uno stile di esistenza.

Volendo contestualizzare in sintesi il senso di questa provoca-zione critica, conviene ricordare che il progetto didattico degli ulti-mi anni di lezioni viene dedicato da Foucault ai temi della cura di sée della parresia nella nascita della soggettività in Occidente: vale adire ai processi di autotrasformazione che ciascun individuo opera,mettendo capo a quelle tecnologie del sé che configurano la costi-tuzione concreta del soggetto che agisce nel senso della costruzionedi se stesso come pratica e discorso di verità. Il pensatore francese,che assume e ridiscute le tesi dello storico della filosofia Pierre Ha-dot, analizza le tradizioni della cura di sé che provengono dalla fi-losofia greca, in particolare quelle pitagorica e platonica: di esse ana-lizza il senso profondo nella serie degli esercizi spirituali che sor-reggono la formazione di questo soggetto-verità, pervenendo alleparticolari modalità di radicale conversione che sono specifiche delcristianesimo primitivo18; sappiamo anche che il contributo origi-nale foucaultiano è dato dall’indagine minuziosa sulle pratiche di sée sugli esercizi spirituali che sono propri delle filosofie ellenistiche,quali stoicismo, epicureismo e cinismo19; a modo di vedere di Fou-

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17 M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des au-tres II, éd. établie par F. Gros, Seuil, Paris 2009, trad.it. a cura di M. Galzigna,F. Gros, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Il corso al Collè-ge de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011, p. 181.

18 Della rilevante ricerca di Pierre Hadot si vedano almeno i seguenti lavo-ri: Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 1981; Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995; Études de philosophie an-cienne, Les Belles Lettres, Paris 1998.

19 In un recente lavoro vengono ripresi insieme le importanti acquisizionidi Hadot e Foucault sul tema degli esercizi spirituali nell’antichità: X. Pavie,Exercices spirituels. Leçons de la philosophie antique, Les Belles Lettres, Paris2012.

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fayette negli eventi rivoluzionari parigini del 1830, riprende l’impe-gno politico della sua gioventù nell’appello repubblicano del marzo1848, anno della sua morte. Jullien incarna il soggetto che si è con-vertito alla rivoluzione e che nella vita agisce con coerenza un’espe-rienza permanente di pratiche rivolte a fare di se stesso un soggettoattivo di autotrasformazione. Formatosi sui princìpi dell’etica estre-ma di Robespierre, interviene in contesti diversi per affermare lastraordinaria portata innovativa della rivoluzione. Intanto, egli èconsapevole del senso moderno della vicenda rivoluzionaria che – neaveva argomentato in teoria Condorcet – prepara il terreno ad unatemporalizzazione diversa: scarti di singolarità aprono ad un perma-nente processo di autorinnovamento che trova al proprio centro lavolontà del soggetto che vuole migliorare se stesso e gli altri; l’indi-viduo fa di sé la rappresentazione viva delle modificazioni continuedi comportamenti e di contesti di vita. Jullien arriva a far valere le sueconvinzioni manifestando esplicitamente a Napoleone la sua contra-rietà all’involuzione cesaristica, denuncia alla magistratura repubbli-cana le decisioni errate e opportunistiche dei generali dell’armatafrancese che hanno trattato con i Borbone la resa di Napoli. È unpensatore che si rende conto di come il destino vittorioso della cul-tura della rivoluzione sia condizionata dalla trasformazione dellecondotte individuali: aderisce quindi con passione ai princìpi peda-gogici di Pestalozzi e fonda la rivista Revue Encyclopédique con l’in-tento determinato di diffondere argomenti e precetti di pratiche di-verse di vita. Jullien impersona un soggetto-verità che denunciaquelle soggettivazioni ancorate ai pregiudizi religiosi oppure moti-vate dagli incentivi esclusivi degli interessi. La Rivoluzione costitui-sce l’orizzonte simbolico del grande cambiamento cui l’intera uma-nità sembra destinato: non tanto è utile teorizzare in astratto le cate-gorie di libertà e di eguaglianza, quanto invece conviene praticareproiezioni concrete di maniere radicalmente differenti di vita liberae autonoma. Bisogna quindi coinvolgere gli individui in quelle espe-rienze di benessere, di verità e di gioia, che spingono ad amare la Ri-voluzione: “J’ai toujours suivi, dans ma mission le même systèmeque, pour rendre la révolution amaible, il fallait la faire aimer”22.Questo è il compito proprio della politica; anzi, non esiste altra po-litica che quella rivoluzionaria: tutto ciò cui assistiamo nelle tradi-

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22 Ivi, p. VII.

nendo descrizioni minute e differenti. Kant sistematizza il discorsodella ragion pura pratica che afferma i princìpi dell’imperativo cate-gorico propri della legge morale universale, conservando tuttavia econfermando le ragioni particolari dell’antropologia pragmatica,quindi delle novità indotte nei comportamenti del Weltmann nei di-versi stili europei della civil conversazione20. Constant, Hegel e Toc-queville ricostruiscono il senso di novità che caratterizza la modernasoggettività impegnata nei percorsi della società civile che si affermalibera nella formazione dell’opinione pubblica, nei traffici economi-ci e nei mezzi di comunicazione, nell’enunciazione della costituzio-ne di nuovi diritti umani di libertà e di eguaglianza. Sembra tuttaviache al discorso specificamente filosofico sfuggano – certamente per lesue prevalenti attitudini teoretiche – i caratteri particolari di questodeterminato processo di soggettivazione che mette capo alla figura diun individuo che vuole agire se stesso come soggetto che s’impegnaa realizzare nel proprio vivere una conversione alla rivoluzione. Sitratta in effetti di una soggettività che produce un ordine simbolicopiù che speculativo, rivolto a tracciare registri comportamentali,massime dell’azione, tecniche di condotte, finalizzate a produrre unoscarto d’innovazione nei modi interiori del sentire e nelle istituzionicivili; un soggetto che non vive di astratte enunciazioni, ma che fa disé il terreno della permanente testimonianza di una vita altra, dellasperimentazione di pratiche di vita radicalmente nuove.

3.1 le pratiche di sé del soggetto rivoluzionario

Possiamo assumere come esempio concreto di questa soggettivi-tà, prototipo del rivoluzionario, una figura storica di enorme inte-resse, Marc-Antoine Jullien21: nato a Parigi nel 1775, già impegnatoa quindici anni come pubblicista di successo, aderente al club dei gia-cobini, partecipa agli avvenimenti della rivoluzione in Francia rico-prendo numerosi incarichi politici; in seguito, prende parte attiva al-la costruzione della Repubblica Napoletana nel 1799, è vicino a La-

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20 Su questo punto ancora utile il lavoro di N. Pirillo, L’uomo di mondo tramorale e ceto, il Mulino, Bologna 1987.

21 Ricostruisce la biografia di questo straordinario personaggio Mario Bat-taglini, Marc-Antoine Jullien. Segretario generale della Repubblica Napoleta-na. Lettere e documenti, La scuola di Pitagora, Napoli 1997.

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menti idonei e principali per conseguire l’innovazione politica; laverità è per eccellenza rivoluzionaria: bisognerà quindi pretendereda sé e dagli altri lo sforzo della migliore comprensione della realtàfisica, storica, spirituale in cui è immersa la nostra vita; per potersottoporre a critica il presente, bisogna far tesoro dei saperi accu-mulati nel passato;

la vita del soggetto rivoluzionario è allora testimonianza di vita:è pratica del coraggio necessario a sopportare ogni genere di soffe-renza – la prigione, la morte – al fine della realizzazione del proprioprogetto di libertà; essa ha valore simbolico, è vivo esempio che de-ve guidare le fratture necessarie nei comportanti e nei costumi cheriguardano la propria esistenza nelle relazioni con gli altri; in talsenso, egli si renderà in permanenza pronto ad affrontare i rischi diqualsiasi genere;

la vita rivoluzionaria respinge paure, perdita, depressioni; essaresta costituita dalle pratiche di una vita modesta, sobria e priva dilusso; deve pure aprirsi alle novità quindi educarsi alla comunica-zione diretta con gli altri, alla pratica ricorrente dei viaggi e ancheall’esilio, al fine di costituire fitte reti organizzative;

il soggetto rivoluzionario farà della vita militare una scuola diformazione e di irrobustimento dei caratteri rivolti ad apprenderel’utilizzo dei mezzi violenti; eserciterà infatti normalmente la vio-lenza, se questa si rivelerà indispensabile per aprire varchi di novitàcontro i poteri di conservazione oppure risulterà necessaria per di-fendere la vita propria e quella dei compagni.

La conversione alla rivoluzione spinge i soggetti ad impegnarele proprie energie per realizzare il sogno di una cosa: è vita di rottu-ra trasgressiva, insieme scandalosa e pura, trasparente ma pronta adutilizzare ogni tecnica del segreto. Non è ideologica poiché vive delpresente, rifiuta di perseguire un mondo già prefigurato, respingequindi ogni rigido pregiudizio; senza presunzioni, fa di se stessa unesempio per gli altri: anche se marginalizzata e repressa, è una vitavera che opera per realizzare finalmente una vita altra.

3.2 scomparsa della ‘conversione alla rivoluzione’: la militanzadi partito

Della nascita e degli sviluppi di questi processi di conversionealla rivoluzione non troviamo una riflessione pronta e un riscontro

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zionali procedure dei governi di ancien régime è rivolto a spegnere ilfuoco vivo delle eccedenze che spingono naturalmente e inevitabil-mente ogni essere umano a dare espressione alle proprie energie dilibertà e di desiderio. In definitiva, la conversione alla rivoluzione ri-chiede a ciascuno di vivere quella particolare cura di sé che non sitrova descritta nei volumi dei grandi sistemi filosofici, che rifiuta ras-segnazione e rinuncia introiettate grazie alle condotte della devozio-ne religiosa, che respinge le tentazioni di una vita irresponsabile ocriminale: al cittadino rivoluzionario risulta ormai con evidenza cheil richiamo al passato vale solo attraverso la liberazione presente econtinua degli impulsi rivolti alla libertà, alla verità, al godimento.

Il personaggio di Jullien è antesignano di una lunga schiera disoggetti che – dagli inizi dell’Ottocento fino a metà Novecento – vi-vono pratiche e ideologie della conversione alla rivoluzione: in ogniregione dell’Europa e delle Americhe è possibile ricostruire leschiere dei rivoluzionari che assegnano a se stessi codici comporta-mentali rivolti a futurizzazioni spinte, a produrre scarti d’accelera-zione nelle proprie condotte e nelle vite degli altri. Da Jullien a Co-urbet, da Paine a Bolívar, da Lenin a Luxemburg, da Bordiga aGramsci, da Trotskj a Che Guevara: un profilo di essere umano sicostituisce come soggetto esemplare di sacrificio e di rinuncia cheagisce al fine del miglioramento delle condizioni di libertà e di be-nessere della comunità oppressa. Si può tentare di descrivere in det-tagli, articolando per punti, il registro delle tecnologie di sé che co-stituiscono gli elementi che caratterizzano questo tipo particolare disoggettivazioni, che vivono di quelle eccedenze dei comportamentiche configurano gli esiti ed anche l’oltrepassamento della cultura il-luministica; queste pratiche di sé hanno un percorso che prende viaappunto dai primi decenni del secolo diciannovesimo e che perdu-rano almeno fino alla metà del secolo successivo:

innanzitutto, si tratta di porre a lato, di assegnare un valore se-condario ai bisogni e ai desideri dell’esistenza privata al fine di dedi-carsi esclusivamente all’attività politica di lotta contro i poteri domi-nanti; operando una sorta di identificazione tra vita intima e viverepolitico, questo soggetto rinuncerà di fatto al pieno sviluppo delleproprie attitudini di spiritualità e di creatività; bisognerà piuttosto farprevalere sempre, al di là della sfera della propria singolarità, la di-mensione del pubblico, del terreno delle relazioni di comunità;

converrà quindi assegnare alla conoscenza ed al lavoro di teoria– sia per il campo etico che per quello scientifico – il rilievo di stru-

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do; sarà questo il punto di massima perversione della moderna con-versione alla rivoluzione: la volontà di realizzare forme radicalmen-te nuove del vivere comunitario assumerà drammaticamente le vestidi processi identificazione etnica, razziale, nazionalistica.

L’epoca successiva al secondo conflitto mondiale attesta una fa-se di esaurimento di quella figura inedita di conversione alla rivolu-zione. Conviene certamente ricordare come tentativi di riattivarequel fenomeno di trasformazione radicale di condotte prendonocorpo nel periodo postbellico di maggiore sviluppo della società in-dustriale e di più profondo malessere spirituale; negli anni sessanta– al centro il fatidico ’68 – a partire dalla rivolta di Berkeley, nel pie-no del percorso che segna il trionfo del neo-capitalismo, giovani ge-nerazioni di studenti e lavoratori mettono in campo strategie dicontestazione dei poteri tradizionali (economia, istruzione, fami-glia, religione) ed aprono a stili di vita inediti e dirompenti23. Espe-rienze di soggettività eccedenti e desideranti si oppongono al disci-plinamento indotto dall’economia sistemica di mercato e cercanocon strategie diverse di attivare pratiche alternative sul piano sim-bolico della trasformazione radicale, repentina e incruenta. La mes-sa in crisi delle forme tradizionali di esercizio dell’autorità non ri-sulterà sufficiente a sedimentare istituzioni altre del governo comu-nitario; movimenti di massa, attivi in tante nazioni del mondo, as-sumono pure modalità nuove ed efficaci di lotta, tuttavia l’impegnodella pratica politica non riesce a sfondare il quadro esistente dellacomposizione dei poteri. Anzi, soprattutto nei paesi europei, la rap-presentazione politica assegnata a questi movimenti nella veste del-la tradizione comunista internazionalistica contribuisce ulterior-mente a comprimere e a neutralizzare le potenzialità di espansionedei soggetti collettivi in lotta; la stessa rilettura operaistica del pro-getto marxiano che, soprattutto in Italia, sembra rilanciare le resi-stenze più intense al tardo capitalismo, riduce al piano del conflittosociale le enormi energie rivolte alla trasformazione radicale e gene-rale del vivere civile, comprimendo le necessarie istanze simboliche.Al termine di queste insorgenze diffusesi ovunque in tutto l’Occi-dente – intense e comunque di breve durata ad eccezione del caso

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23 Per l’avvio della contestazione studentesca negli Stati Uniti vedi di HalDraper, La rivolta di Berkeley. Il movimento studentesco negli Stati Uniti, Ei-naudi, Torino 1966; fondamentale lo scritto Note da Port Huron, tradotto inLe radici del ’68, Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp. 3-100.

critico adeguato. I saperi filosofici ed antropologici si dedicano alladescrizione delle fenomenologie del soggetto, tuttavia non s’intriga-no di questi singolari modi di vita; nella seconda metà dell’Ottocen-to, l’emergenza nei paesi occidentali di tendenze ben definite rivol-te a processi di autotrasformazione, individuale e collettiva, finaliz-zate a pratiche di libertà e di eguaglianza sociale, trova sostegno erappresentazione nei percorsi del liberalismo politico e nelle formeorganizzative del primo socialismo. In effetti, accade che già a par-tire dalla fine del secolo decimonono i fenomeni diffusi di ecceden-ze desideranti, che trovano espressione simbolica nelle pratiche e neidiscorsi della conversione alla rivoluzione e che agiscono nel sensodella radicale innovazione nei rapporti del vivere civile, venganocontenuti, ammorbiditi e snaturati secondo un duplice scorrimento.Da un lato, di questa inedita soggettivazione – che opera al fine diattivare una più autentica cura di sé – sono esaltati gli aspetti pura-mente ideologici; di conseguenza, la portata di frattura, di scarto,che questi nuovi comportamenti inducono, viene smussata e attuti-ta – nelle configurazioni istituzionali e partitiche, ed anche nellaproduzione letteraria ed artistica – dal registro separato e riduttivodella contesa tra le idee, tra opposti punti di vista. Per un altro ver-sante, sul piano delle pratiche innescate da questi soggetti nei movi-menti di lotta, le attive resistenze individuali vengono sezionate se-condo le prospettive di processi nettamente differenziati che riguar-dano il contenzioso economico-sociale – rivolto al miglioramentodelle condizioni di vita dei ceti in sofferenza – tenuto a parte, quin-di separato, rispetto al più impegnativo percorso simbolico della tra-sformazione generale dei rapporti di potere; sindacati e partiti lace-rano la viva carne delle singolarità rivoluzionarie.

Solamente nei decenni immediatamente successivi al primo con-flitto mondiale, la pressione delle moltitudini tenterà di far conver-gere quei tracciati separati secondo il progetto di nuovi dispositividel governo territoriale immaginato dal fervido apporto del pro-gramma comunista (soviet, consigli di fabbrica e dei territori, orga-nizzazione cooperativa della produzione e della gestione della ric-chezza sociale). Questa stagione durerà pochissimo in seguito allacontrapposizione esclusivamente ideologica che vedrà impegnati sufronti antagonistici i sostenitori della criminale utopia nazifascista ela tragica versione staliniana del socialismo in un solo paese. La spin-ta delle resistenze rivoluzionarie troverà sbocco nella costituzione didue fronti rivolti egoisticamente al dominio imperialistico nel mon-

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simbolica dei desideri, operando soprattutto per la sicurezza sullavita; la sfera di desideri/godimenti viene fortemente ridimensionata,mentre le tonalità del vivere respingono le ambizioni eccessive e as-sumono la misura dell’essenzialità e della frugalità; l’adesione almercato dei consumi di massa abbassa le soglie dell’inquietudineesistenziale e favorisce la pratiche dei piaceri;

la militanza politica viene vissuta come adesione disciplinata al-la struttura gerarchica dell’organizzazione partitica; essa viene pra-ticata come atto di scelta fideistica e comporta l’obbedienza indi-scutibile alla funzione propria della direzione partitica (comportan-do pure la separazione, non esplicitata ideologicamente ma di fattopraticata, tra leader con formazione intellettuale e base militante co-stituita in prevalenza da lavoratori);

viene esaltato il valore emancipativo della conoscenza seguendoancora il principio per cui la verità è sempre rivoluzionaria; vienetuttavia prodotto un ridimensionamento: non si può attribuire alpopolo una ragione autonoma e indiscutibile; la prassi e l’ideologiadel partito si affermano come mediazioni essenziali nei registri deicomportamenti ordinari ed in ogni campo dei saperi e dell’espres-sione artistica; in definitiva, il singolo militante non cura più un rap-porto particolare con la verità come pratica interiore della cura di sé;

l’affermazione dell’ideologia proletaria consente di motivarepositivamente l’utilizzo di ogni tecnica di nascondimento e d’in-ganno; questo soggetto militante, ormai completamente addomesti-cato nelle sue caratteristiche rivoluzionarie, conserva l’istanza di ac-cogliere e di praticare la violenza come mezzo principale di risolu-zione dei conflitti; ma la tensione malinconica per un’epoca ormaitrascorsa può anche diventare pratica autodistruttiva: si può anchepassare direttamente all’impresa terroristica, se la sofferenza indot-ta dalla depressione diventa incontenibile.

In sintesi, l’ideologia della pratica militante impedisce ormaiqualsiasi autonomia al soggetto; costui ormai è individuo eterodi-retto, che ha rinunciato a trasformare se stesso e ad arricchire la pro-pria spiritualità; si accontenta di vivere i valori tradizionali (cultura-li, religiosi, familiari) che incontra nell’ambiente di vita. Non c’èdunque da meravigliarsi se ci si vuole sbarazzare definitivamente diquesta arida tecnologia di identificazione ormai falsamente rivolu-zionaria; a queste condizioni non esiste possibilità alcuna di con-trapporre valide forme di resistenza ai processi predominanti dellasoggettivazione neoliberale. Anzi, l’incapacità di dare vita ad una

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italiano, dove le tensioni antagonistiche si prolungano per oltre undecennio –, rimangono i residui di una produzione artistica straor-dinaria, prodotta dai cambiamenti che si sono comunque affermatinei comportamenti delle generazioni attive negli anni sessanta e set-tanta. Da questa epoca prende pure avvio il percorso di autonomiz-zazione e di riscatto per la soggettività femminile, fino a quel pun-to storicamente sottoposta e depressa dal genere maschile: ancora inquesto caso una forza enorme di soggettività dirompenti attiva unpercorso di autotrasformazione di condotte e di mentalità che pra-tica per un periodo di tempo strategie politiche diverse e alternati-ve; quindi rimane interrotto.

In effetti, a metà del secolo scorso, l’ultimo periodo del feno-meno della conversione alla rivoluzione vive il ridimensionamentoe la mutazione di quelle soggettività radicali in forme adattive e di-sciplinate di comportamenti. Le organizzazioni partitiche e sinda-cali del movimento operaio sedimentano esperienze storiche di lot-te e mettono capo alla normalizzazione della soggettività rivoluzio-naria che per oltre un secolo aveva indotto conflitti e avanzamentisul piano sociale e politico. Nelle modalità organizzative della ge-stione dei movimenti di massa viene affermandosi un codice dicomportamenti che in tutti paesi occidentali assume i seguenti ca-ratteri:

la politica, considerata lo strumento principale per la gestionedei problemi sociali, viene praticata come risorsa per l’incrementodei poteri e diventa mezzo principale della governabilità ammini-strativa ordinaria; le condotte umane riservano alle attività di que-sto genere pieno riconoscimento e sviluppo organizzato secondo icriteri della rappresentanza elettiva e adeguandosi al sistema strut-turato dei partiti;

gli individui appartenenti ai ceti lavorativi rinunciano a produr-re poteri in proprio e a riflettere su di sé le dinamiche della conver-sione di condotte alternative: piuttosto, la produzione di potere vie-ne praticata e giustificata al fine di costruire la forza collettiva ne-cessaria alle iniziative del progresso civile e sociale; soprattutto, isingoli individui perdono l’attitudine a fare di se stessi i portatori diuna trasformazione dell’esistenza nei termini di una vita vera cheapra ad una vita altra;

una tipologia definita di militanza partitica s’impone di rifuggi-re dalle maniere di vita costose e dagli stili borghesi di vita; si svi-luppa in concreto un’etica del lavoro che rinuncia alla proiezione

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nati e praticati come soggetti convertiti alla rivoluzione si sostitui-scono i percorsi delle singolarità individuali che tentano di praticareforme di rivolta, rifiutando però di assumere come piano principalela produzione di potere politico. Ancora negli ultimi decenni, insor-genze e rivolte diventano fenomeno diffuso in ogni continente: siapre sul piano internazionale un processo di dis-occidentalizzazioneche assume le caratteristiche di radicale opposizione all’espansione intutto il mondo dei registri della cosiddetta democrazia occidentale25.

4.1 di quali categorie siamo costretti a sbarazzarci

La riflessione sopra sviluppata relativamente alla possibilità diattivare oggi resistenze efficaci contro il predominio dei mercati fi-nanziari e contro gli assetti oligopolistici del tardo capitalismo, èstata in partenza rivolta a delineare la serie di novità intercorse trapolitica e economia. In effetti, le forme della governance globale emultilevel restituiscono direttamente le tendenze poste in essere da-gli organismi decisionali, internazionali e locali, al fine di fare inte-ragire in stretta contiguità politiche impositive, tracciati di finanzia-rizzazione e drastiche riconversioni sul piano economico-tecnolo-gico delle culture tradizionali. In particolare, i processi di mondia-lizzazione operano nel senso di annullare la separazione funzionaleche la civilizzazione moderna occidentale aveva istituito tra la fun-zione specifica delle politiche pubbliche e la dimensione economicadegli interessi privati. Le caratteristiche di questi diversi processi,che aprono a condizioni inedite e di enorme incertezza, possono es-sere descritte sinteticamente nei seguenti plessi semantici e catego-riali della modernità che non possono essere più utilizzati in formapositiva e critica:

l’esaltazione dell’autonomia dei mercati – in particolare di quel-lo finanziario – contribuisce a indebolire la politica e tende ad af-fermare l’ideologia di consenso per la dimensione tecnocratica: taleè l’utopia distruttiva di una regolazione della vita comunitaria ches’intende imporre attraverso i dispositivi della governance econo-mica e sistemica;

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25 P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défian-ce, Seuil, Paris 2006, p. 32.

forma diversa di governamentalità – capace di coniugare le istanzedella liberazione e del godimento individuali alle pratiche organiz-zate delle resistenze di masse rivolte a realizzare una vita altra – vie-ne a costituire il terreno di coltura di eventi drammatici24: da un la-to, l’esperienza straordinaria del popolo cileno in rivolta viene az-zerata con la violenza senza che nessuna forza amica offra un soste-gno, un soccorso (1973): quella tragedia costituisce il taglio epocaledi un’epoca di speranze; dall’altro lato, tanti soggetti dapprima au-tenticamente impegnati nella militanza di partito rinunciano alla cu-ra di sé ed alle pratiche di un’etica di verità; narcisismo e piccoli pia-ceri/interessi danno ora vita a piccole oligarchie (partitiche, media-tiche) che assumono pure i comportamenti e le pratiche aggressivedelle ideologie e dello sfruttamento neoliberali.

4. eccedenze di singolarità e rivolte

Nella seconda metà del secolo scorso le straordinarie vicende delprocesso di conversione alla rivoluzione sono difatti concluse. Lascomparsa del soggetto rivoluzionario moderno è ormai compiuta.L’esaurimento dei processi della moderna conversione alla rivoluzio-ne nei paesi dell’Occidente non significa tuttavia la scomparsa delleeccedenze di singolarità: queste prendono piuttosto altre strade, allaricerca di tracciati e passaggi che oltrepassino l’impianto dialettico,modernistico-illuministico. Almeno fin dalla metà dello scorso seco-lo, singolarità in rivolta danno vita a percorsi individuali di autono-mia e di rifiuto delle pratiche di vita neoliberali: dai beatniks ai roc-kers, da Berkeley ai situazionisti, da Albert Camus a John Cage, daicyberpunks a Luther Blisset, da Occupy Wall Street agli indignados;espressioni di differenze nei comportamenti e nelle pratiche di sé te-stimoniano la volontà di volersi sottrarre alla parametrazione siste-mica delle condotte e all’imposizione mediatica/pubblicitaria deglistili di vita. Ai processi di trasformazione sociale e culturale immagi-

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24 Secondo Foucault il fallimento delle sperimentazioni socialiste e comuni-ste del secolo scorso resta legato all’incapacità d’individuare positive forme digouvernamentalité, vale a dire di dispositivi liberatori del governo del sé e deglialtri, da parte dei movimenti e delle organizzazioni partitiche: questo punto divista viene bene espresso nel lavoro di P. Dardot – Ch. Laval, La nouvelle raisondu monde. Essai sur la société neolibérale, La Découverte, Paris 2009.

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male delle tecnologie finalizzata a snaturare e a pervertire i corpiumani, l’innalzamento delle soglie d’insostenibilità delle angosce dimorte, l’accentuarsi degli interventi di eterodirezione dei compor-tamenti.

4.2 il cittadino introvabile delle democrazia occidentali e la finedalla società civile

Come abbiamo visto, la governamentalità neoliberale vive la suacrisi: segna ormai il passo la spinta concretamente simbolica che at-tivamente produceva soggettività impegnate a fare di se stesse mo-duli dell’impresa economica capitalistica; nell’epoca contemporaneamolte novità intervengono nella produzione delle tecnologie del sé.Etica pubblica del governo statuale, autodisciplinamento dei sog-getti, funzione positiva dell’impegno privato nell’economia: nonsono più a queste istanze e a questi dispositivi che i soggetti sento-no di poter affidare il proprio destino e la propria vita. Teorici e sto-rici del pensiero democratico annunciano la crisi irreversibile deldispositivo di delega pubblico-statuale che veniva posto alla basedel governo rappresentativo prodotto da cittadini consapevoli e re-sponsabili:

Robert Dahl, sostenitore del neopluralismo di matrice liberale,aveva già da tempo argomentato che non esiste più il cittadino me-dio come soggetto di centrale riferimento nei processi decisionalidemocratici; piuttosto, il funzionamento delle democrazie resta ca-ratterizzato dalle dinamiche poliarchiche, policentriche, che do-vrebbero garantire autonomia alle organizzazioni indipendenti(istituzionali, associative, pubbliche e private) impegnati in contestiinevitabilmente sistemici26. Affianco alla liquefazione della figuradel cittadino, soggetto politico della modernità, si rende sempre piùevanescente il personaggio dell’individuo economico, privato, ri-volto a perseguire i propri interessi e convinto d’impegnare conl’autorità pubblica positive relazioni di scambio di comando/obbe-dienza. Viene dunque riconosciuta la schizofrenica separazione in-

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26 R. Dahl, Dilemmas of Pluralist Democracy, Yale University Press, NewHaven-London 1982, trad. it. di L. Caracciolo di San Vito, Il Saggiatore, Mila-no 1988, p. 19.

la sfera del pubblico statuale non è più in grado di rendersi fun-zionale strumento per la difesa e per la promozione dei diritti poli-tici e civili; processi inarrestabili di privatizzazioni destrutturanol’autonomia dei servizi sociali e comprimono l’intervento di soste-gno per le fasce della comunità a rischio;

nelle democrazie occidentali viene meno la separazione funzio-nale di Stato e società; in particolare, quella sfera che veniva deno-minata società civile – i soggetti collettivi, le istituzioni sociali e glistili di vita particolari – implode, viene frantumata e perde comple-tamente di autonomia; questo processo di frammentazione della so-cietà civile induce crescente povertà e marginalizzazione di sogget-ti senza risorse e senza lavoro;

per una dinamica e attenta conservazione della situazione deipoteri in atto, piuttosto che alla politica ormai depotenziata e vani-ficata, l’amministrazione degli ambiti di vita viene affidata alle pro-cedure di una crescente giuridificazione, della regolamentazione perdi via di diritto dei comportamenti e degli stili di vita; dunque, l’am-ministrazione rigida ed eterodiretta dei comportamenti viene favo-rita dalle tecnologie sistemiche al fine di sottrarre ai singoli indivi-dui la possibilità di riflettere e praticare forme diverse di cura di sé.

Dal punto di vista macro, un’economia nella sostanza finanzia-rizzata opererebbe come espediente per sostenere la crescente sva-lorizzazione delle merci nel settore della produzione dei beni: l’u-nica possibilità di sopravvivenza del sistema economico risiedereb-be nella privatizzazione e nell’assoggettamento di ogni tempo dellavita individuale, quindi, di tutte le attività dei servizi sociali ad essaconnessi. A partire da tali considerazioni si delineano all’orizzontedei percorsi di mondializzazione i contorni di un antagonismo sen-za precedenti: l’organizzazione sistemica che la civilizzazione occi-dentale ha imposto – ed ancora cerca di promuovere ed espandere –alle forme di vita deve confrontarsi con le insorgenze che ovunquenel mondo intendono far valere l’apertura a tipi radicalmente diffe-renti di soggettivazioni. Queste eccedenze di singolarità, affermate-si dentro e fuori l’alveo della modernizzazione, mettono in campopratiche diffuse rivolte all’attivazione in nuove forme simbolichedei tracciati segnati da bisogni e desideri d‘intere moltitudini. Comerisposta alla produzione autoritativa di stili di vita imposti e regres-sivi, si profilano percorsi di nuove sensibilità che tentano di affron-tare in comune le vere emergenze dell’umanità: la distruzione degliambienti naturali e storici della vita di comunità, l’aggressione nor-

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è venuto realizzando anche un composto distruttivo e autodistrut-tivo formato dalla convergenza di una diffusa microfisica della cor-ruzione dei comportamenti con una forma di anomia che spinge lecondotte dei cittadini al piano egoistico degli interessi privati e apratiche di acuto narcisismo.

Nella società della mondializzazione viene anche profilandosiun fenomeno estremo, di difficile comprensione: da un lato, la pro-duzione di potere tende ad affermarsi privatizzando ogni aspettodelle esistenze individuali, sfruttando in particolare le risorse cogni-tive e emotive del lavoro umano come valore d’uso principale da cuiestrarre valore; dall’altro lato, i soggetti sembrano aderire consen-sualmente alla costituzione di una sorta di nuova servitù degli indi-vidui, sfruttati in maniera abnorme e privati di prospettive futuriz-zanti29. In effetti, la crisi dei processi di democratizzazione e gli svi-luppi delle modalità operative di governance producono diffusa de-politicizzazione e inducono processi di discrezionalità tali da am-pliare in modo smisurato l’area dei soggetti senza diritti e struttu-ralmente precari nelle attività lavorative. Il lavoro sembra aver per-duto ogni senso di fondamento etico nella costituzione delle auto-nomie emancipative dei soggetti: esso appare unicamente come ilmezzo ineliminabile per consentire autoconservazione e sopravvi-venza. Quasi ovunque nell’area del ricco Occidente, assistiamo alridimensionamento sul piano economico degli ambiti di vita e allarinuncia alle aspirazioni del desiderio. Questa recente tendenza allarepressione dei sentimenti si accompagna a forme acute di sofferen-za spirituale, alla scomparsa dell’inconscio: da qui deriva pure la se-rie di dispositivi di controllo e di attivazione dei comportamenti chemirano a neutralizzare ogni tipo di attività desiderante30.

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29 Sulle condizioni del lavoro frantumato e precarizzato vedi il libro di An-drea Fumagalli, Lavoro male comune, Bruno Mondadori, Milano 2013.

30 Sul fenomeno per cui nell’epoca dell’ipermoderno la macchina del godi-mento viene via via sostituita dalla macchina della rimozione, con le relative ri-cadute sul soggetto dell’inconscio, si sofferma il saggio di M. Recalcati, L’uomosenza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Mi-lano 2010.

terna al cittadino moderno tra il soggetto titolare di diritti politiciuniversali e l’individuo privato rivolto al perseguimento egoisticodei propri interessi: viene dunque denunciata come ideologica e co-munque ormai inefficace la separazione funzionale, propria dell’im-pianto di modernità, tra le condotte pubbliche rappresentative dibisogni/desideri dei soggetti e i comportamenti rivolti alla realizza-zione di un benessere privato;

dal canto suo, Ralph Dahrendorf ha descritto le forme dell’e-sclusione profonda che pone ai margini della comunità i gruppi deisoggetti adolescenti, anziani, dei senza-lavoro e senza-casa; costorovengono a costituire la cosiddetta underclass, un insieme composi-to e sofferente che sembra avere perduto ogni rapporto con la citta-dinanza; oggi, possiamo constatare come questo fenomeno di emar-ginazione si allarghi agli immigrati, e alla seconda e terza genera-zione di tali immigrazioni con conseguenti effetti di malessere e dirivolta nelle metropoli europee27;

ancora, secondo John Dunn esisterebbe ormai un enorme sur-plus di autorizzazione, prodotto secondo l’inarrestabile sviluppo dimodelli sistemici nei contesti delle democrazie occidentali, e di essosi avvantaggerebbero ormai normalmente i governanti contro i go-vernati. A fronte di questa condizione di un potere di autorizzazio-ne fortemente concentrato, la possibilità di de-autorizzazione (de-authorization) da parte dei singoli cittadini sarebbe praticamentedel tutto compromessa; in breve, il controllo da parte dei cittadinisarebbe nella sostanza vanificato, mentre discorsi di validificazionedi tipo normativo delle decisioni politiche costituirebbero l’ideolo-gia laterale (spurious suggestion) di pratiche incontrollabili di pote-re (Dunn richiama criticamente le teorie di Ronald Dworkin)28.

La dimensione del pubblico, statuale e civile, perde sempre piùsenso e autonomia: in corrispondenza, le esperienze crescenti diprivatizzazione degli stili di vita rendono possibile il rifiuto dram-matico e sconvolgente dei fondamenti pubblici delle istituzioni ci-vili e delle forme tradizionali del governo civile, rappresentativo eparlamentare. All’interno di questi scorrimenti di pratiche di vita si

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27 R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesionescoiale e libertà politica, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 1995.

28 J. Dunn, Disambiguating democracy, in M. Lenci-C. Calabrò (a cura di),Viaggio nella democrazia, ETS, Pisa, 2008.

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singolarità vale con la stessa misura (peer to peer) all’interno del dis-positivo di comunicazione;

risulta evidente il disimpegno dalle geometrie tradizionali del-l’azione collettiva: si assume che non esiste necessità di creare forzaconvergente ed energia d’insieme per imporre comunque resisten-ze; bisogna piuttosto arrivare al punto caldo delle decisioni attra-verso un processo di condivisione per tante singolarità, fortementeconvinte e intenzionate a trasformare qualcosa.

L’irruenza trasformativa della mondializzazione – favorita dal-l’accelerazione indotta dagli straordinari mezzi di ICT – ha purecontribuito e contribuisce a liberare dinamiche simboliche di liber-tà e di autonomia cui pretende oggi ogni singolo soggetto nel mon-do. Singolarità inedite, migranti, bisognose in quanto prive di risor-se, nomadi, istruite ma non coinvolte nei processi del vivere civile,quindi inevitabilmente antagonistiche: queste voci diverse traspor-tano sullo scenario globale un carico enorme di energia desideranteche spinge con urgenza verso l’espressione e la realizzazione sim-bolica di forme differenti di vita, di nuove pratiche di sé, di auto-poiesi individuale e di massa.

Le soggettivazioni prodotte ancora grazie al tradizionale eserci-zio dei poteri sui soggetti – e specificamente le modalità di conver-sione di sé fondate sui dogmi religiosi, sugli interessi di oligarchietecnocratiche/corporative e sulle aggregazioni criminali – debbonoreggere il confronto con l’emergenza delle eccedenze comporta-mentali indotte dai processi di mondializzazione, che vengono viavia producendo inediti antagonismi. Le forme di disciplinamentodelle anime e di tradizionale assorbimento delle angosce perdonoterreno e rischiano di diventare residuali: non a caso esse esprimo-no in questa fase terminale della loro esistenza il carico reattivoestremo della loro distruttività (vedi i conflitti indotti in modalitàesaltate dalle professioni religiose, i diversi tipi di terrorismo, la dif-fusione reticolare di mafie e di corruzione in ogni ambito di vita).

Bisogna dunque attivare un nuovo dizionario della politica, inconsiderazione del fatto che in vaste zone del mondo recentementescosse da radicali insorgenze – ed ancora in alcune aree delle demo-crazia occidentali – eccedenze di condotte mettono in campo resi-stenze diffuse motivate dal bisogno di attivare pratiche alternativedi cura di sé: si tratta di proiezioni desideranti rivolte ad aprire per-corsi di sfondamento degli accumuli di potere di ogni tipo (politico,etnico, economico, religioso, mediatico, giuridico). Il fenomeno si-

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4.3 rifiuto diffuso della politica e resistenze di controcondotte

I tracciati più recenti intrapresi da nuove forme di singolarità intante parti dell’epoca di mondializzazione divergono e si allontana-no velocemente da contenuti e procedure della politica della mo-dernità. Conviene allora delineare in breve alcune tendenze che la-sciano intravedere forme nuove di una possibile politica a venire:

non bisogna operare a favore dell’accentramento dei poteri neigoverni nazionali: ogni sostanza di sovranità statuale e ogni con-centrazione dei ruoli esecutivi/burocratici secondo linee ricorrentidi presidenzializzazione vengono denunciate e combattute; si pun-ta piuttosto alla dissipazione delle composizioni forti di potere po-litico grazia all’espressione di punti resistenze e di organizzazionireticolari di lotte;

prevale oggi la forma della piena sfiducia per ogni genere di isti-tuzione politico-amministrativa vigente: soprattutto le tradizionaliprocedure rappresentative ed elettive vengono considerate ormaiinsufficienti a esprimere volontà e differenze di singolarità; in par-ticolare, la funzione di compromesso (vedi Kelsen) esercitata neiparlamenti e grazie alla mediazione di corpi intermedi viene resaimpossibile poiché divenuta strumento di corpi separati di poteri eveicolo di corruzione;

non viene più offerto credito alla possibilità di un’attiva dialet-tica dei conflitti da utilizzare nelle pratiche politiche: la prassi anta-gonistica efficace viene individuata nell’espansione di superfice(surface) dei movimenti che acquisiscono aree crescenti d’influenza,che evitano di affrontare direttamente ostacoli e conflitti, puntandosoprattutto sulla centralità partecipativa di individui idioti31; questisoggetti puntano su se stessi per attivare una critica radicale dei con-testi di vita, rifiutandosi in forme radicali di utilizzare gli strumentitradizionali della lotta politica;

resta pure fermo il rifiuto del dialogo con strutture organizzate(in particolare partitiche e sindacali), mentre aumenta il fenomenodell’astensionismo elettorale: la principale via di comunicazione ed’incontro viene vissuta attraverso i contatti di rete dove ciascuna

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31 Philippe Mengue ricostruisce la tematica deleuziana dell’idiota in Fairel’idiot. La politique di Deleuze, Germina, Paris 2013.

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l’attività umana produttiva di risorse con l’autorappresentazionecivile e politica.

A fronte di queste assolute urgenze, l’abnorme e distruttivaespansione dell’economia di mercato nei vissuti umani – con il cari-co tremendo di forme di governamentalità segnate dagli egoismi edalla repressione dei desideri – pone oggi in piena luce il fallimentodella macchina del pubblico statuale della modernità: le istituzioniresiduali del capitalismo democratico vivono enormi difficoltà nelsegnare i dovuti limiti ai comportamenti perversi di ristretti gruppiumani che impongono dominazione e comando all’intera umanità.Negli stati nazionali dell’Occidente, all’evidente crescente disgiun-zione del governo rappresentativo-elettivo dalle prassi democrati-che risponde un dispositivo combinato: da un lato, la concentrazio-ne dei poteri del comando politico (presidenzializzazione, governipersonali, forme diverse di dittature), dall’altro lato, procede la fun-zionale regolamentazione delle policies grazie agli organismi nonpartecipativi/non elettivi della multilevel governance. Sul piano in-ternazionale, un potere incontrollabile resta nelle mani di oligarchiepolitiche/economiche/mediatiche che operano in sintonia: allor-quando la mediazione di governance non riesce a garantire stabilitànelle macroaree regionali, interviene inevitabilmente l’esercizio del-la forza militare.

5.1 pratiche dei ‘beni comuni’ e produzione simbolica del ‘comune’

In realtà, il governo rappresentativo – che dalla fine del diciotte-simo secolo in Europa e negli Stati Uniti aveva contribuito al ritor-no della democrazia – non riesce più a dare espressione pubblica abisogni/desideri di vaste moltitudini ovunque nel mondo33; in queltornante storico, un modo di produzione inedito e circolazione dimerci e forza-lavoro aveva contribuito a sostenere, per quanto informa alienata, l’autonomizzazione dei campi sociali della fabbrica,del mercato e del consumo: di qui anche una diretta incidenza suiprocessi di formazione della politica statuale. Successivamente, gli

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33 Sulle specificità categoriali della forma moderna del governo rappresen-tativo vedi il lavoro fondamentale di Bernard Manin, Le forme del governo rap-presentativo, il Mulino, Bologna 2012.

curamente nuovo è quello per cui questi tentativi di cura di sé ven-gono fatti agire da ciascun individuo nella presenza, vale a dire sul-la possibilità di condotte libere e soddisfatte che non dipendono dairegistri di tradizioni passate o da futurizzazioni irrealizzabili. Dun-que, non più conversioni di sé praticate seguendo ideologie e prin-cìpi di una spiritualità arida o utopica; si cerca decisamente di con-trastare la neutralizzazione delle condotte imposta dalla globalizza-zione sistemica, omologante dei comportamenti nel senso dei valo-ri imposti dalla governamentalità neoliberale. In questo modo risal-ta con piena evidenza il genere d’antagonismo che caratterizza oggiconflitti e movimenti in cui restano coinvolte intere moltitudini:singolarità ricche di desideri, avide di libertà e di autonomia, da ogniparte del globo pongono all’ordine del giorno la questione dell’ol-trepassamento della disciplina istituzionale regolamentata con lemodalità eteronome della governance economica.

5. ‘democrazia del comune’ e ‘politica di noi stessi’

In definitiva, nella nostra immaginazione si profilano chiara-mente i processi che decideranno della vita futura dell’umanità:

la prosecuzione della civiltà umana resta innanzitutto legata al-la condizione di rinforzare e riprodurre l’ambiente di prima naturaoltrepassando le forme artificiali fin qui perseguite in prevalenza co-me modi di perverso accaparramento di risorse rivolte ai fini del-l’accumulo della ricchezza privata: nella prospettiva dell’ipermo-dernità, post-human vuole significare lo sforzo di sottrarre agliegoismi dei soggetti di un’umanità primitiva e corrotta la gestionedei beni comuni32;

le pratiche di un’etica rinnovata del lavoro dovranno esercitar-si nel senso di trasformare nel meglio la prima natura della storiaumana: quindi riappropriazione della praxis libera del lavoro at-traverso le condotte delle singolarità che potranno ricongiungere

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32 L’elaborazione filosofica della categoria di postumano – che riprendesuggerimenti e suggestioni delle avanguardie artistiche dei decenni di fine No-vecento – è fenomeno recente; in questo mio lavoro faccio riferimento soprat-tutto all’importante contributo offerto da Rosi Braidotti in Postumano. La vi-ta oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014.

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Peraltro, bisogna anche riconoscere che agli eventi delle continueinsorgenze, attive in ogni area del mondo, non risponde una funzio-ne aggregativa: tanto vale a dire che la condivisione degli obiettividelle lotte non produce automaticamente risposte organizzative ade-guate. Sorge a questo punto una serie determinata d’interrogativi sulproblema di come garantire libera espressione alle resistenze dellecomunità rese via via più povere e deprivate dei diritti:

bisognerà sostenere e rafforzare i percorsi della modernità poli-tica, combattendo per la più rigorosa applicazione delle proceduredi rappresentanza?

converrà piuttosto considerare irreversibile la crisi dello stru-mento rappresentativo-elettivo e cercare di praticare dispositivi diintegrazione degli strumenti di rappresentanza rivolti ad una piùampia partecipazione politica?

oppure risulterà necessario puntare decisamente su modalitàinedite di partecipazione, nettamente differenti dai mezzi esercitatinella modernità politica?

A fronte di queste ineludibili domande, sembra che i movi-menti di resistenze oggi in campo vogliano fare perno soprattuttosu modalità nuove di coniugare i tempi strategici di lungo periodocon i flussi temporali delle singolarità che vanno configurandoprocessi di soggettivazioni radicalmente diversi. Al centro di que-sti processi assumono particolare importanza tecnologie di sé ra-dicalmente alternative, in grado di costruire su tempi discreti e pu-re lunghi significativi rapporti con una serie di obiettivi che pos-sono definirsi beni comuni. Di qui un modo decisamente altro dicostruire pratiche di cittadinanza e diffuse condotte di vita; di quiancora il bisogno di realizzare una definizione articolata e ragio-nata dei beni comuni intesi come cose/desideri/categorie indisgiun-gibili dalla cura di sé, inalienabili poiché di fatto posti dalle prati-che di vita degli esseri umani al di fuori dell’economia dei mercati:beni da praticare non in forma privatistica ma con criteri rivolti agarantire le procedure giuste e misurate del governo del sé e delgoverno degli altri. Aumenta quindi e si rende sempre più attival’attenzione al carattere naturale e storico di alcuni beni principa-li: acqua, territori, ambiente, conoscenza e patrimonio storico-cul-turale, accumulo di esperienze e tecnologie prodotte dal lavoroumano; si tratta di valori d’uso che non possono essere considera-ti elementi sottoposti alle dinamiche dello scambio economico-privato. L’utilizzo di questi beni è effettivamente universale nel

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sviluppi delle pratiche governamentali dello scambio politico aveva-no consentito la messa a punto del dispositivo del suffragio univer-sale come registro indiretto della partecipazione dei ceti sociali me-no abbienti; in seguito, il capitalismo democratico è arrivato fino acongetturare e a praticare quella figura del mercato politico secondocui l’assegnazione ai governanti da parte dei cittadini dell’autorizza-zione a decidere – secondo il criterio esclusivo degli interessi – è ve-nuta a riguardare ogni aspetto della vita civile delle comunità. Par-tendo da questo periodo, la funzione della rappresentanza politicaviene perdendo la forza delle origini: sul piano della comunicazionepubblica e collettiva resta sempre più interdetta ai singoli la rappre-sentazione di bisogni/desideri. Al posto della dialettica sociale-poli-tica che contrapponeva attori individuali e collettivi, rendendo tutta-via possibile il confronto sul piano specificamente politico, le sog-gettività atomistiche e segmentate dell’ipermoderno vivono quellacondizione per cui i soggetti sono costretti all’avidità dei consumi ealla rinuncia all’esercizio di proiezioni desideranti. Le forme dellapolitica sembrano non potere più vivere come dispositivi di attivamediazione tra i soggetti, mentre il diritto di proprietà viene utiliz-zato per giustificare l’innesco senza limiti di processi di privatizza-zione di ogni genere di beni: terra, acqua, prodotti della conoscenzae della civilizzazione umana, servizi di formazione e sistemi sanitari.Da questa sistemica espansione della volontà espropriativa organiz-zata da un numero sempre più ridotto di soggetti deriva ormai il cre-scente impoverimento per gli esseri umani: tanto spinge anche allospostamento delle più acute sofferenze dal piano materiale dei biso-gni fondamentali al livello spirituale dei processi d’interdizione e direpressione delle attività desideranti. Sembra che le esperienze deidurissimi conflitti sociali vissuti nei paesi occidentali durante gli ul-timi due secoli abbiano prodotto unicamente la garanzia di rispon-dere in modo diffuso ai livelli minimi della sopravvivenza. Le nuovegenerazioni sembrano contentarsi di questi risultati materiali: con-temporaneamente, crescono in modo esponenziale le aspettative deidesideri per una vita altra, libera e autonoma. Da questo versantenon esistono progetti accreditati e pratiche sperimentate di forme di-verse di governamentalità; oltre le macerie dei socialismi reali e del-le pratiche nevrotizzanti del neoliberalismo, oltre le forme esauste diconversione alla rivoluzione o d’ideologica esaltazione del capitaleumano, si apre l’epoca degli incontri tra percorsi diversi di soggetti-vazioni nomadi, eccentriche, finalmente postumane.

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zioni alla libertà delle condotte ed all’eguaglianza dei riconosci-menti per ciascuna singolarità36.

Democrazia del comune può aprire alla possibilità dell’autogo-verno diffuso da parte di individui/comunità se il vivere comuneviene via via costituendosi come l’insieme delle pratiche di sé chesingolarità finalmente libere e autonome possono utilizzare al finedi trasformare se stesse, seguendo orientamenti principali di produ-zione concretamente simbolica. Tanto vuol significare che le proie-zioni desideranti delle singolarità possono realizzarsi solo a condi-zione di praticare lo spazio simbolico del vuoto; tale vuoto impedi-sce processi di rigida conservazione e d’ideologiche identificazioni:apre piuttosto al libero movimento dei vincoli e dei legami che pro-ducono comunità attraverso le pratiche di sé che fanno riferimentoai beni comuni. Le proiezioni delle attività desideranti fanno dellademocrazia del comune il complesso delle istituzioni che vengonopraticate come vuoto contenitore che non fissa valori predetermi-nati e non costringe a perseguire verità predefinite. La situazionedel vuoto democratico offre al singolo la possibilità di segnare inpermanenza nuovi inizi alla propria attività desiderante, di offrirepossibilità interminabili di esperienze altre: in questo modo ci sipuò sottrarre alla coazione a ripetere indotta dal consumismo che siconverte sempre in dolorose angosce di morte.

Non esistono allora, nella realtà così come nella produzione im-maginaria, attori collettivi che possano costituire il punto sostan-ziale di sostegno per i percorsi plurali e multiformi di singolarità.Non esiste un popolo che possa legittimare la funzione decisionaledi capi isolati o di oligarchie strutturate secondo il criterio delibera-tivo-elettivo della rappresentazione politica moderna: le singolaritàpossono vivere ed esprimere se stesse solo attraverso tracciati di au-torappresentazione, pronte a contribuire in maniera condivisa aidispositivi della presa di decisione indispensabile per le comunità.Questi dispositivi della democrazia del comune sono strutture go-vernamentali flessibili e soggette a continuo cambiamento: vengonocostituiti dai processi autopoietici impegnati dalle singolarità che

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36 Per la teoria della democrazia come vuoto resta inevitabile il richiamo alcontributo fondamentale di Claude Lefort, Essai sur le politique. XIXe-XXe

siècles, Seuil, Paris 1986, trad. it. di B. Magni, Saggi sul politico. XIX-XX seco-lo, Il Ponte, Bologna 2007.

duplice senso di risorse inalienabili dell’intera umanità e, contem-poraneamente, di mezzo dell’appagamento dei bisogni di ciascunasingolarità; si tratta di salvaguardare questi valori affermando la lo-ro condizione di assoluta autonomia a fronte dell’inefficacia dellagestione pubblico-statuale, sottraendoli comunque alla voracitàinesauribile degli interessi privati34.

In tale contesto, il termine comune assume semantiche radical-mente nuove: non più il richiamo generico a bisogni/desideri disoggetti collettivi (del popolo, delle classi lavoratrici); tantomeno ilcomune viene richiamato a designare i criteri dell’eguaglianza indi-viduati in teoria e imposti alle moltitudini sotto la veste delle forza-ture ideologiche. Comune viene piuttosto a significare il complessosimbolico spazio-temporale di percorsi di differenze di comporta-menti rivolte a qualificare la politica di noi stessi35; in questo sensosingolarità autonome vengono a praticare una fase più matura dellacivilizzazione umana: per estensione critica, democrazia del comu-ne implica l’impianto di soggettivazioni diverse che riescano ad at-tivare dispositivi di governamentalità finalmente proiettate ad offri-re sostegno autentico a bisogni/desideri degli esseri umani.

5.2 eccedenze di singolarità e ‘democrazia del comune’

Le singolarità che esprimono le eccedenze dei comportamentirivolti a praticare libertà e autonomia sono vettori di una particola-re forma di democrazia: la democrazia del comune, per definizionela democrazia che vive del vuoto in cui si proiettano in modo sim-bolico le pratiche di sé, i bisogni/desideri di singolarità, le aspira-

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34 Sul problema di una definizione giuridica dei beni comuni risultano uti-li gli studi prodotti nei seguenti lavori collettanei: Maria Rosaria Marella (a cu-ra di), Oltre il privato e il pubblico. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Cor-te, Verona 2012; Sandro Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi dellasovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Ombre Corte, Verona 2012.

35 Questa espressione secondo cui “uno dei principali problemi politici deinostri giorni sarebbe, alla lettera, la politica di noi stessi” è di Michel Foucault:essa conclude una delle conferenze tenute all’Università della California e alDartmouth College nel 1980, Cristianesimo e confessione, pubblicata in italia-no in Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, Napoli 2012 (la citazioneè a p. 92).

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rici che hanno condotto all’affermazione e, in seguito, all’esauri-mento della moderna conversione alla rivoluzione apre a nuovepossibilità negli scorrimenti della mondializzazione: la democraziadel comune, dei beni comuni, rende possibile lo sviluppo di singola-rità intente a costituire uno scenario ben diverso dalla sfera del pub-blico statuale e dalla dimensione separata dell’economico-privato.La democrazia del comune viene via via costituendosi attraverso ladenuncia e la decostruzione di sistemi di poteri reificati grazie allesedimentazioni lente ma sicure di inedite pratiche di liberazione delsé e attraverso le concrete rappresentazioni simboliche di estetichedi vita radicalmente altre.

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tendono ad assumere forme organizzate di prossimità e di parteci-pazione diffusa. Non si tratta tanto di dispositivi di democrazia di-retta (referendum, manifestazioni di massa, occupazioni di spazipubblici, etc.), che sono peraltro ancora garantiti dai criteri del go-verno rappresentativo-elettivo: piuttosto, gli organismi della demo-crazia del comune aprono a modalità di legittimazione più vicini abisogni/desideri delle singolarità, a pratiche di prossimità che pos-sano dare vita a forme inedite di democrazia partecipativa37. Le co-struzioni di un diverso sistema di diritto della democrazia del co-mune sosterranno la riconversione degli spazi-tempi della vita co-munitaria38.

Nei processi di mondializzazione viene dunque messa in dis-cussione la vocazione di soggetti/gruppi che vogliono agire in pro-prio la produzione dell’elemento simbolico grazie a registri preco-stituiti ed eterodiretti di felicità: questo sentimento rischia di confi-gurarsi come irrealizzabile poiché resta in permanenza sfigurato daitagli prodotti da piaceri segmentati, indotti dall’alto, rivolti all’ap-pagamento immediato degli impulsi e dei bisogni. La logica delladominazione si applica in permanenza a impedire la libera proie-zione della spiritualità dei desideri: invece, le singolarità interven-gono come eccedenze desideranti, consapevoli della dimensionetragica del desiderio che prende avvio pure dai recessi più recondi-ti di traumi dolorosi, che impegna tuttavia faticosi percorsi di libe-razione.

Le istituzioni della democrazia del comune non favorisconodialettiche di riaggancio al passato attraverso gli esercizi spiritualidell’identificazione passiva (religiosa, etnica, ideologica, etc.), népromuovono unicamente pratiche di futurizzazioni improvvise, direpentine distruzioni, da realizzare attraverso accelerazioni trauma-tiche delle condotte. Piuttosto, i dispositivi istituzionali prendonoorigine e vigore da trasformazioni autentiche nei comportamenti disingolarità capaci d’immaginare e di praticare effettive discontinui-tà con tempi discreti. In definitiva, lo svolgimento dei processi sto-

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37 Su questo punto vedi di Pierre Rosanvallon, La légitimité démocratique,Seuil, Paris 2008, (La legittimità democratica, Rosenberg & Sellier, Torino2015).

38 Per la costruzione di un diverso sistema di diritto della democrazia delcomune vedi di Alberto Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Ro-ma-Bari 2013.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2015presso La buona stampa s.r.l. – Napoli