Lo spazio del cinema. Su Rancière e Deleuze

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393 ANDREA INZERILLO LO SPAZIO DEL CINEMA. NOTE SU DELEUZE E RANCIÈRE L’espace semble être ou plus apprivoisé, ou plus inoffensif, que le temps: on rencontre partout des gens qui ont des montres, et très rarement des gens qui ont des boussoles. L’espace est un doute: il me faut sans cesse le marquer, le désigner; il n’est jamais à moi, il ne m’est jamais donné, il faut que j’en fasse la conquête. Georges Perec Nel corso di questo intervento parlerò di cinema come arte del tempo e di cinema come arte dello spazio in maniera costitutivamente imprecisa. Trat- tandosi di pensare una complessità, mi troverò a indicare aspetti parziali, predilezioni teoriche, idee di cinema che si costituiscono, nei fatti, in un tutto inestricabile fatto al contempo e di spazio, e di tem- po. Parlare di cinema come arte dello spazio non significherà pertanto dimenticare l’importanza della dimensione temporale dell’immagine; viceversa, porre l’attenzione sul tempo nel cinema vorrà dire rivelare l’impossibilità di una sua considerazione al di fuori di una certa configurazione dello spazio, al

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On time and space in cinema, in Deleuze and Rancière. An article by Andrea Inzerillo published in Roberto De Gaetano (ed.), "Politica delle immagini. Su Jacques Rancière", Pellegrini, Cosenza 2011, pp. 393-409

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LO SPAZIO DEL CINEMA.NOTE SU DELEUZE E RANCIÈRE

L’espace semble être ou plus apprivoisé, ou plus inoffensif, que le temps: on rencontre partout des

gens qui ont des montres, et très rarement des gens qui ont des boussoles.

L’espace est un doute: il me faut sans cesse le marquer, le désigner; il n’est jamais à moi, il

ne m’est jamais donné, il faut que j’en fasse la conquête.

Georges Perec

Nel corso di questo intervento parlerò di cinema come arte del tempo e di cinema come arte dello spazio in maniera costitutivamente imprecisa. Trat-tandosi di pensare una complessità, mi troverò a indicare aspetti parziali, predilezioni teoriche, idee di cinema che si costituiscono, nei fatti, in un tutto inestricabile fatto al contempo e di spazio, e di tem-po. Parlare di cinema come arte dello spazio non significherà pertanto dimenticare l’importanza della dimensione temporale dell’immagine; viceversa, porre l’attenzione sul tempo nel cinema vorrà dire rivelare l’impossibilità di una sua considerazione al di fuori di una certa configurazione dello spazio, al

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di là di un costante confronto con esso. Si tratterà dunque di comprendere l’articolarsi del rapporto tra spazio e tempo, e quali siano (al di là di ogni prefe-renza1) le implicazioni del considerare, di volta in volta, più l’uno che l’altro.

Capita che in filosofia si diano degli assiomi. Uno di questi, tanto ovvio quanto discutibile, è l’assenza della dimensione spaziale nei libri sul cinema di Deleuze. Si sa: per Deleuze, bergsoniano, il cinema è arte del tempo; esemplari a questo proposito sono le analisi della profondità di campo in Welles, che Deleuze legge come costituzione di un’immagine cristallo che permetterebbe il comparire di una temporalità pura all’interno dell’immagine. Si sa altresì che le ovvietà in filosofia sono lì proprio per essere criticate. Se cercassimo nel primo volume sul cinema una smentita a questa ovvietà, rimarremmo probabilmente delusi. Alla ricerca di una dimensione

1 Mi riferisco a una sorta di polemica storica che sembrerebbe opporre due “parti”; non si tratterà qui di prendere parte né per un “cinema del tempo” né per un “cinema dello spazio”, visto che una simile diatriba pare se non altro datata. È come se i partigiani del “cinema del tempo” avessero cercato una specificità che il cinema in quanto cinema avrebbe potuto opporre a tutte le altre arti visive; questa battaglia, per quanto utile, appartiene ormai al passato. Valutando l’importanza degli aspetti spaziali dell’imma-gine cinematografica potremo riprendere in considerazione con serenità un aspetto importante del cinema che sembrava essere diventato tabù per un certo discorso teorico (cfr. ad esempio l’agguerrita quarta di copertina del libro di A. Ménil, L’Ecran du Temps, PUL, Lyon 1991: «Contrairement à l’idée naïve qui verrait dans le cinéma un art de l’espace, et de l’espace seul, l’essentiel du cinéma se joue en terme de temps»).

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spaziale del cinema all’interno dei testi deleuzia-ni, la troveremmo in maniera paradossale ben più nell’Immagine-tempo che nell’Immagine-movimento. Ed è vero, in effetti, che se un’analisi dello spazio è presente nei libri di Deleuze essa si troverà in stretta relazione con l’analisi della questione temporale. Lo spazio è infatti la via tramite cui Deleuze arriva a scoprire la possibilità di un tempo non sottomesso al movimento all’interno dell’immagine cinematogra-fica. L’analisi dello spazio è per Deleuze funzionale all’intreccio del film; gli spazi del neorealismo sono “spazi qualunque” (o spazi vuoti, spazi desertici, ad esempio con Antonioni) perché sottratti a una qua-lunque utilità narrativa, ed è proprio tramite questa inutilità “pratica” che possono divenire significanti e aprire a una nuova dimensione dell’immagine: non più luogo in cui si svolgono gli eventi ma spazi atopici, asignificanti, che schiudono la temporalità dell’immagine. C’è una chiara teleologia nell’opera di Deleuze: l’analisi filmica è votata fin dall’inizio alla scoperta di questa immagine-tempo che è il vero fine di un cinema che si voglia pensiero e non mera industria. Il motivo è, semplificando molto, che se l’immagine-movimento corrisponde a quegli automatismi che poco hanno a che fare con il pen-siero, perché lungi dall’esaurire tutte le dimensioni dell’immagine ne considerano soltanto il valore pratico, l’aspetto che consente di reagire ad essa, un’immagine sottratta a ogni concatenamento moto-rio dispiega invece tutte le potenzialità di cui è capa-ce, e dà mostra di tutte le forze che la compongono, senza privilegiarne solo alcune in vista di un deter-minato fine. Non si faticherà a riconoscere in questa

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spiegazione un motivo strettamente bergsoniano, del Bergson di Materia e Memoria di cui L’immagine-movimento e L’immagine-tempo costituiscono un lungo commentario. Non si faticherà nemmeno a ri-conoscere in essa un movimento che è proprio di tutta la filosofia deleuziana, quella lotta contro la banalità e l’uso ordinario delle facoltà che contraddistingue secondo Deleuze (e con modalità diverse) non solo la filosofia, ma anche le altre Caoidi, le altre forze del pensiero. Al cinema, «un cliché è un’immagine senso-motoria della cosa»2. Se il cinema si fermasse all’immagine-movimento non sarebbe pensiero, e semplicemente non avrebbe alcun interesse per il filosofo Deleuze. Da cui la questione che chiudeva L’immagine-movimento: come strappare ai cliché una vera immagine?3 L’immagine-tempo sarà dunque la vera immagine che realizza l’immagine-pensiero, per Deleuze. Dall’azione alla veggenza, il cinema si sarebbe andato allontanando dal suo essere un’arte del visibile per conquistare la propria natura, quella di arte del tempo. Il raggiungimento della dimensione temporale corrisponde dunque a una realizzazione della propria essenza; quella di Deleuze è pertanto una vera e propria ontologia del cinema. A questo punto si potrebbero fare diverse considerazioni che porterebbero a sottolineare l’importanza della con-cezione dello spazio per la costruzione di un cinema come arte del tempo: dal fatto che il cinema di veg-

2 G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 32.3 Ibidem.

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genza è contraddistinto proprio da un’esplorazione dello spazio (la forma bal(l)ade, l’andare a zonzo, ecc.), al fatto che per Deleuze la nascita delle situa-zioni ottico-sonore pure nel neorealismo è parago-nabile come importanza alla conquista di uno spazio puramente ottico in pittura, con l’impressionismo4. Ci basti per il momento il fatto che l’analisi dello spazio sembra essere presente in Deleuze, e sotto diverse forme, e in particolare proprio laddove di-venta funzione del tempo. Si potrebbero dare diversi ordini di ragioni di questa teoria, alcune delle quali sono di carattere storico-filosofico (e cioè l’influenza di Bergson ma anche quella di Epstein, secondo cui il cinema sarebbe «le premier appareil qui tente de nous faire voir des différences de temps, non plus transposées en terme d’espace, mais représentées en valeur de ce temps même»5), altre di carattere più propriamente ontologico, che riguardano la capacità propria dell’immagine cinematografica di presentare il tempo in se stesso piuttosto che di rappresentarlo (ovvero sottometterlo a una narrazione), distinguen-dosi in questo modo dalle altre arti e in particolare dalla fotografia6.

4 Cfr. ivi, p. 13. 5 J. Epstein, Ecrits sur le cinéma, 2, Seghers, Paris 1974, p. 93.6 «Inventer des images qui soient à la hauteur des exigences de la pensée, inventer des images-pensées, faire du cinéma non pas simplement l’opération de reproduction et de restitution mécanique du réel, mais un appareil d’investigation qui porte au jour un nouvel aspect, une nouvelle dimension du réel jusque-là impensés; un instrument d’analyse qui offre à la pensée le

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Mi fermo qui, perché a questa concezione del ci-nema vorrei opporre quella di Jacques Rancière, che per molti aspetti si colloca ai suoi antipodi. Non mi riferisco alle considerazioni teoriche che Rancière fa nei suoi scritti su Deleuze – in particolare, nel saggio contenuto in La favola cinematografica7, le impor-tanti critiche sulla diversità tra immagine-movimento e immagine-tempo, sul ruolo della storia nella crisi interna all’immagine e così via –, ma vorrei provare a ritrovare un’opposizione con Deleuze nella pratica dell’analisi del film, e mostrare come la differenza analitica dei due sia frutto di una diversa concezione del cinema. A differenza di Deleuze e della sua idea di cinema come arte del tempo, per Rancière il cine-ma sarebbe dunque un’arte dello spazio. Che cosa significa? Che conseguenze ha quest’affermazione e da cosa deriva?

Andiamo subito al punto fondamentale: per Rancière non esiste alcuna essenza dell’immagine cinematografica da realizzare, né tanto meno un’on-tologia del cinema – “cinema” essendo il nome di un’indistinzione caratteristica e anzi riassuntiva di tutte le arti all’interno del cosiddetto regime estetico. È sulla base di questa idea che Rancière può prendere le distanze da Benjamin e affermare che non sono tanto

matériau sensible pour de nouvelles opérations intellectuelles», scrive A. Ménil in Deleuze et le «bergsonisme du cinéma», in “Philosophie”, n. 47 (1995), p. 32.7 J. Rancière, Da un’immagine a un’altra? Deleuze e le epoche del cinema, in Id., La favola cinematografica, tr. it., ETS/Cine-forum, Pisa/Bergamo 2006, pp. 153-172.

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le caratteristiche dell’immagine tecnicamente riprodu-cibile a determinare la perdita dell’aura e la capacità emancipatrice dell’opera d’arte, bensì forse l’esatto inverso8. Si potrebbe pensare allora che dall’assenza di un’ontologia specificamente cinematografica derivino conseguenze note e persino abusate nel discorso filo-sofico sul cinema, che consisterebbero nel parlare di cinema limitandosi a un’analisi dell’intreccio narrato, tanto più che per Rancière non esistono caratteristiche peculiari che dovrebbero distinguere la “modernità” di un film rispetto a quella di un romanzo (altro punto di distanza dal pensiero di Deleuze, quello della nozione di “modernità”9). E tuttavia, e in ciò sta l’interesse dell’operazione analitica di Rancière, i testi che egli dedica al cinema portano in tutt’altra direzione: Ran-cière è più attento alla dimensione visuale dell’im-magine di quanto non sia Deleuze, che pure si fa por-tatore di un’ontologia propria al cinema. Mi sembra che questo fatto sia da porre in stretta correlazione con un concetto centrale nella produzione recente di Rancière, rivolta ai rapporti tra estetica e politica, e cioè quello di partage du sensible. In che senso tale concetto possa influire sulla modalità di analisi di un film è presto detto: se è vero che l’estetica ha una dimensione politica – o meglio, se è vero che estetica e politica hanno una relazione intrinseca – in quanto agisce sulle partizioni del sensibile, modificandone gli

8 Cfr. Id., Le partage du sensible, La fabrique, Paris 2001, pp. 46-53; e Id., Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 27-36.9 Cfr. Id., La favola cinematografica, cit., pp. 153-172.

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assetti e alterando i rapporti consolidati all’interno del mondo comune, essa lo fa agendo esattamente su quei rapporti che regolano ad esempio la visibilità o l’invi-sibilità all’interno di una comunità (piccola o grande che sia). Prendere in considerazione l’estetica dell’arte significa concepire la sua relazione con il sensibile, e cioè (tra le altre cose) ragionare sui meccanismi di apparizione all’interno del mondo comune. L’opera d’arte ripartisce diversamente i posti assegnati nella società: e fa questo proprio tramite un’operazione sul sensibile, creando forme di apparizione che rime-scolano le carte del dato. È evidente che le cose non sono così semplici, e che il dato non è qualcosa che derivi semplicemente da un posizionamento, bensì dipende da un nodo che lega intrinsecamente con-dizioni di possibilità ad apparizione (è la questione dell’a priori storico foucaultiano). Ciononostante è sull’apparizione che l’opera d’arte lavora, è tramite un lavoro su di essa che si può affermare una politica dell’arte (che non ha niente a che vedere con le tesi di un’arte impegnata). Non è forse un caso allora se i termini che Rancière usa per rendere conto del lavoro dell’arte si rifacciano spesso più all’area dello spazio che a quella del tempo10.

Prendiamo un esempio di come questa teoria si applichi all’analisi di un film concreto; mi riferisco al saggio che Rancière dedica al primo lungometraggio di Nicholas Ray, La donna del bandito (1949), conte-nuto all’interno della Favola cinematografica11. Il mio

10 Cfr. Id., Le partage du sensible, cit., passim. 11 Id., L’inquadratura assente: poetica di Nicholas Ray, in Id.,

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intento è qui quello di fare un discorso sul metodo: mi sembra che il nesso tra estetica e politica e tra cinema e costruzione dello spazio possa apparire in maniera più evidente in un saggio in cui non si parla speci-ficamente di politica, ma nel quale si possa vedere all’opera un modello di analisi che Rancière utilizzerà anche per altri film più evidentemente politici – cui mi riferirò brevemente alla fine. Tutta la lettura del film di Ray (che Rancière intende distinguere dal romanzo da cui è tratto) è volta a considerare l’opposizione tra spazi all’interno dell’inquadratura in una o più scene; l’analisi di Rancière si propone di costruire uno spazio cinematografico all’interno dello spazio del racconto, per sottolineare come l’intreccio di mythos e opsis sia fatto di continue tensioni che fanno coabitare più spazi in uno. La modalità di analisi di Rancière è dunque un racconto del film che fa attenzione ai minimi dettagli (ad esempio, l’opposizione tra i campi lunghi della fuga dei banditi e i piani ravvicinati dell’incontro tra i due protagonisti) per creare una storia nella storia, fatta di piccole componenti cinematografiche che non sono necessariamente al servizio dell’intreccio, o che all’interno dell’intreccio ne scavano un altro12.

La favola cinematografica, cit., pp. 135-149.12 Riprendo in questo modo un’idea presente in un articolo di Dork Zabunyan e provo a spingerla con più forza in direzione di un’ipotesi interpretativa che, mi pare, risulta in maniera evi-dente dall’approccio di Rancière nei confronti di più di un film: quello di una continua valorizzazione della dimensione spaziale dell’immagine, per l’appunto, che deriva da una concezione del cinema come arte dello spazio. Cfr. D. Zabunyan, Une maison de pêcheur à Stromboli, in Jacques Rancière. Politique de

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Trattando della Donna del bandito, Rancière sottoli-nea come «la struttura del film non sarà altro che lo sviluppo di questa coesistenza di termini incompati-bili, costruita rovesciando il senso del libro […] in sei inquadrature la cui durata complessiva non supera i trenta secondi»13. Non riassumerò il saggio, che ognu-no può leggere da sé e che prende altre vie rispetto a quanto dirò qui; voglio solo mostrare alcune delle inquadrature cui Rancière fa riferimento, per dare un’idea di come alcuni piccoli movimenti di macchina siano responsabili di una lettura che ritaglia uno spazio del cinema nello spazio del racconto; e di come questo spazio sia ritagliato proprio a partire dalla costruzione dell’inquadratura. Il mio tentativo è in sostanza quello di scavare al di là delle argomentazioni del saggio per mostrarne le condizioni di possibilità.

1)

l’esthétique, a cura di J. Game e A. Wald Lasowski, Éditions des Archives Contemporaines, Paris 2009, pp. 149-156. 13 J. Rancière, L’inquadratura assente: poetica di Nicholas Ray, cit., p. 141. Il corsivo è mio.

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2) Ecco innanzitutto (1, 2) le due inquadrature ana-

lizzate da Rancière, da due angolature diverse; ma lo schema si ripete nelle due successive (3, 4) che sfruttano una stessa angolatura:

3)

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Nella prima e nella terza inquadratura vediamo Keechie, la donna del bandito, inginocchiata davanti a una stufa di fronte ai tre banditi. Nella seconda e nella quarta la macchina da presa avrà fatto un mo-vimento in avanti, che durerà solo pochi secondi, per ritagliare uno spazio diverso, in cui ritroviamo solamente Bowie e Keechie. Da due inquadrature apparentemente irrilevanti comincia la loro storia. Scrive Rancière:

Nell’inquadratura successiva [2, ma anche 4] non troviamo né Chicamaw né T. Dubb. Ancor di più, è come se non ci fossero mai stati, come se in questo spazio non vi fosse mai stato un posto che essi po-tessero occupare. […] La regia ha dunque operato una rottura nel continuum narrativo e linguistico del racconto realista. Nello spazio ristretto di questa stanza colma di cose e persone, ha installato due spazi e due relazioni incompatibili14.

Più avanti, nel corso del film, l’opposizione di Keechie ai metodi e alle mentalità dei banditi e di suo padre troverà ancora una volta un riscontro nella costruzione dello spazio all’interno di una sequenza, evidenziata in questo caso da una barriera anche fisi-ca rappresentata dalla finestra. Ecco tre inquadrature successive (5, 6, 7), in campo-controcampo:

14 Ivi, pp. 140-141.

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5)

6)

7)

O ancora, ed è l’ultimo esempio cui farò riferi-mento, sarà la prima e unica separazione spaziale tra Bowie e Keechie a sancire l’allontanamento definiti-

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vo dei due protagonisti, nella sequenza finale del film che prelude alla morte del bandito (8, 9, 10):

8)

9)

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L’attenzione alla dimensione dello spazio si traduce, nei termini di analisi del film, in racconto e descrizione di ciò che accade sullo schermo. È in questo modo che Rancière manifesta la sua attenzio-ne allo spazio dell’immagine, e traduce a suo modo, applicandola al cinema, quella che era una modalità propria del romanzo ottocentesco. Può essere sensato sostenere infatti che il primato delle descrizioni sulle narrazioni che in esso faceva la sua comparsa trovi il suo analogo al cinema non tanto nei dialoghi (che hanno funzione equivalente a quella del romanzo), e nemmeno nella voce off (idem, il narratore), bensì nell’esplorazione dello spazio da parte della mac-china da presa. La rottura operata dalla descrizione romanzesca in rapporto alla tradizione letteraria trova il suo equivalente, al cinema, nella dimensio-ne “visuale” dell’immagine, in quel che il cinema fa di nuovo e diverso rispetto a quanto cinema non è (e in questa valorizzazione della mise en scène si risente molto l’influenza della formazione cinefila di Rancière, l’atmosfera della Nouvelle Vague francese e della politique des auteurs da essa propugnata). È per questo che, anche nel caso di adattamenti lette-rari, lungi dall’illustrare semplicemente il testo di partenza le grandi opere cinematografiche lavorano realmente a partire da esso sfruttando le possibilità della macchina da presa in un modo che è al contem-po usuale (da un punto di vista ontologico) e raro (da un punto di vista cronologico) nella storia del cine-ma. Si può dire insomma che l’appropriazione della descrizione letteraria da parte del cinema consiste proprio nell’esplorazione dello spazio. L’analisi di Rancière allora descrive una descrizione, nello stesso

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senso in cui si dice, dei pianeti, che descrivono orbite ellittiche intorno al Sole: lo spazio dell’immagine è analizzato e scomposto in funzione della sua impor-tanza, narrativa e non, di modo che la costruzione dell’inquadratura e lo spazio che essa descrive ren-dano giustizia tanto della dimensione ottica (opsis) quanto di quella mitica (mythos) del film.

Ciò non avviene, come si potrebbe pensare, solo nel caso in cui si vogliano confrontare un romanzo e la sua versione cinematografica; l’attenzione allo spazio che si esplica in questa modalità di descri-zione dell’immagine è una caratteristica del metodo di Rancière, come si vede anche dall’analisi di altri film più direttamente politici. Con “esplorazione dello spazio” non intendo poi necessariamente la mobilità della macchina da presa in funzione di un movimento nello spazio (come accade ad esempio nel cinema di Godard, elogiato da Rancière per il modo in cui, contro il cinema di studio, scende in strada); è possibile esplorare lo spazio anche staticamente, come fanno gli Straub ridefinendo il senso e la di-gnità di una figura del popolo tramite l’inquadratura fissa di una donna che parla e dei gesti che compie (Sicilia!, 1998), per creare uno spazio che funzioni a vantaggio della parola (Rancière ha parlato a questo proposito di corpi che fanno un blocco unico con le parole che dicono: un blocco socialista sensibile). Ancora, e sempre in relazione alla costruzione di una possibile figura del popolo (che per definizione non è mai data, ed è anzi frutto di uno strappo a uno scenario predefinito), ma diversa dalla precedente, è sempre lo spazio ad avere un ruolo fondamentale in Europa ’51 (1952) di Rossellini. L’ambiente stretto

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e saturo della stanzetta cui Ingrid Bergman va a fare visita, all’interno di una casa operaia, si oppone allo spazio erratico, da terrain vague, di una seconda figura di popolo, sottratto al mondo del lavoro. Sarà a partire da questa opposizione che Rancière leggerà la costituzione del popolo: «il popolo è innanzitutto una maniera di inquadrare», scriverà nei suoi Courts voyages au pays du peuple15.

È dunque sull’importanza dell’organizzazione spaziale delle immagini che si fonda in gran parte la forza politica dei film. La politica propria del cinema non risiederà allora tanto nelle storie che racconta, quanto nel dispositivo di apparizione che mette in campo. È anche in questo senso che il cinema può avere un effetto reale, tanto quanto la politica pro-priamente detta, sulla vita di tutti.

15 Id., Courts voyages au pays du peuple, Seuil, Paris 1990, p. 146.