L'Italia chiamò

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L'Italia chiamò, di L.Brogioni,A.Miotto,M. Scanni

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inchieste

verdenero

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Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo ScanniL’Italia chiamòUranio impoverito: i soldati denunciano

© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milanowww.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277

© 2009, Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni

Il libro e il dvd non sono vendibili separatamente

Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%

Finito di stampare nel mese di maggio 2009presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

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L eonardo Brog ion iangeLo M iot toMatteo Scann i

L ’ i ta L iacH iaMÒ

Uranio impoverito: i soldati denunciano

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indice

prefazione 7

unaguerraincifre 13

operazionevulcano 25

caporalmaggiorelucasepe 55

emergenzacrocerossa 65

gliaspettiscientifici 77

sopravviveredisurgelati 85

l’isoladeipoligoni 105

scienziaticontrolaguerra 125

causadiservizio 133

cronologia 145

fonti 153

ringraziamenti 157

notasugliautori 159

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prefazionedi Maurizio Torrealta

Interessarsi dell’uranio impoverito significa parlare di qualcosa che non si conosce, e forse anche di una menzogna.

Per integrare i dati scientifici ed empirici a sua disposizione, nel 2005 la Commissione parlamentare sull’uranio impoverito commissionò alcune misurazioni sul campo. Un esperimento organizzato a Nassirya, in Iraq, prevedeva di far esplodere 200 chilogrammi di bombe ad alto potenziale all’uranio impoverito e al tungsteno dopo averle sepolte in una profonda buca, il co-siddetto “fornello”. Lo scopo era quello di studiare gli elementi chimici presenti nell’ambiente dopo la deflagrazione. Come si può leggere nella relazione finale della Commissione, a sorpre-sa furono trovate polveri con una composizione chimica “nuo-va” rispetto al materiale presente originariamente nel fornello, ma “dipendente dal materiale esistente nel punto di esplosione”. La parafrasi – non particolarmente riuscita – indica che si trat-tava di elementi “nati” dal materiale seppellito in precedenza a seguito di una reazione nucleare. E tra questi elementi c’era an-che lo stronzio, un tipico prodotto dalla fissione, cioè della di-visione del nucleo dell’uranio.

Non era una scoperta da poco. Se nel luogo dove è stato fatto

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esplodere un ordigno all’uranio impoverito viene ritrovato un elemento di fissione dell’uranio, esistono due possibilità, non in-compatibili tra loro: o durante l’impatto del proiettile si è veri-ficata una micro fissione nucleare che per mancanza della mas-sa critica non ha innescato una reazione a catena (e in questo caso il termine “impoverito” non è appropriato, perché la fissio-ne presuppone la liberazione di un alto quantitativo di energia e radiazioni), oppure il materiale di cui il proiettile è composto non è uranio impoverito, ma lo scarto di un reattore nucleare, dove appunto vengono prodotte fissioni. In questo secondo caso il proiettile sarebbe stato all’uranio riprocessato.

Usare un termine al posto di un altro non è irrilevante. L’uranio impoverito dovrebbe essere il prodotto dell’uranio naturale pri-vato dei suoi isotopi più fissili (U 235), che servono ad arricchi-re ulteriormente l’uranio. Ogni volta che nei telegiornali di tut-to il mondo si parla del nucleare iraniano, l’immagine ricorrente mostra file di tubi metallici allineati verticalmente: sono centri-fughe per l’arricchimento dell’uranio, dove comunemente l’ura-nio allo stato gassoso viene centrifugato come in una lavatrice; gli isotopi più pesanti (U 238) vengono separati da quelli più legge-ri (U 235), e in seguito utilizzati per arricchire l’uranio. L’uranio impoverito dovrebbe essere lo scarto di questo processo di separa-zione, quello più povero di isotopi radioattivi, un prodotto meno radioattivo dello stesso uranio naturale. Un’altra considerazione: l’uranio impoverito non dovrebbe mai essere entrato in un reat-tore nucleare. Ma così non è.

L’aggettivo “impoverito” non deve ingannare. Se dopo l’esplo-sione di un proiettile depleted uranium nell’ambiente si trovano prodotti di fissione, significa che si è liberata radioattività a cau-

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9prefazione

sa dell’altissima temperatura raggiunta al momento dell’impatto, e quindi l’uranio impoverito è pericoloso e radioattivo. Oppure che nella testata del proiettile c’è uranio di scarto delle centrali nucleari debitamente riprocessato, cioè mescolato a diversi ge-neri di sostanze radioattive, ma anche in questo caso si tratta di una sostanza pericolosa, radioattiva e altamente inquinante.

È curioso che da questo interessante esperimento realizzato dalla Commissione parlamentare non siano state tratte le logi-che conclusioni. Ecco perché interessarsi all’uranio impoverito significa nella migliore delle ipotesi parlare di qualcosa che non si conosce e nella peggiore di una menzogna.

Nonostante le bugie e le omissioni, i militari che sono stati a contatto con le polveri dell’uranio impoverito hanno imparato a conoscerne gli effetti sulla propria pelle, rimettendoci la salute.

Viene da porsi una domanda: come si può scrivere dell’uranio impoverito se il termine stesso è una menzogna? Forse l’unica strada è quella individuata da Leonardo Brogioni, Angelo Miot-to e Matteo Scanni: ripercorrere a ritroso il penoso cammino attraverso cui i soldati italiani hanno scoperto gli effetti dell’in-quinamento bellico. E questa è esattamente la scelta degli au-tori di L’Italia chiamò. Un lavoro che non si limita a mettere in fila eventi e personaggi, ma si sofferma sui dettagli del vissuto quotidiano, come questi potessero portare più vicino alla veri-tà. Il risultato è un bel libro che racconta una brutta storia, in cui però i protagonisti hanno una forza d’animo fuori dal co-mune. Come Antonio, il padre di Luca Sepe, che ha assistito il figlio con una dedizione esemplare. Ogni episodio di questo li-bro fotografa un eroismo non retorico, ma solitario e dignitoso pur nella sofferenza. Sono eroi Emerico Laccetti, Angelo e Um-

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berto Ciaccio, Salvatore Donatiello e tutti gli altri. Ma sono i campioni di un mondo capovolto, dove i migliori, quelli pronti a sacrificarsi per gli altri, vengono ingannati e abbandonati pro-prio nel momento della loro battaglia più difficile.

Un altro eroe, solitario, testardo e generoso è il maresciallo Do-menico Leggiero, senza il cui certosino lavoro di raccolta di dati sulle malattie e sulle morti dei militari italiani non sarebbe stato possibile confutare l’informazione – erronea – fornita dal mini-stero della Difesa. Il maresciallo Leggiero ha costretto il ministe-ro della Difesa a correggere i dati ufficiali diffusi sull’uranio im-poverito e obbligato le redazioni dei più importanti telegiornali italiani a prendere coscienza delle proporzioni e della gravità del problema. Quante volte è successo che telefonasse a Rainews24 per annunciare che un militare dal nome a noi sconosciuto era deceduto per un linfoma di Hodgkin provocato dalle polveri di uranio impoverito presenti nel teatro di guerra dove aveva ope-rato. Alcune volte siamo riusciti a mandare in onda la notizia, altre volte è stato impossibile. Ma leggendo L’Italia chiamò sia-mo i primi a renderci conto della tragedia e della sofferenza che sta dietro a ognuno di quei nomi.

Qualcuno sapeva, qualcuno ha sempre saputo. Come è pos-sibile che fossero sconosciuti gli effetti delle armi utilizzate nelle missioni internazionali? Ho sempre sospettato che chi si occupa di armi sia poco attento agli effetti che queste possono provoca-re anche sulla vita di un amico. Ma se si ricercano le finalità per le quali queste armi sono state originariamente concepite, si in-contra sempre una strategia precisa che nulla lascia al caso.

In un memorandum segreto del Dipartimento della Guerra degli Stati Uniti datato 30 ottobre 1943 – e declassificato solo

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11prefazione

nel 1974 –, il colonnello D. Nichols invia al generale L.R. Gro-ves un progetto di ricerca intitolato “Use of radioactive mate-rials as a military weapon”. Si tratta del primo documento uffi-ciale comprovante la volontà di utilizzo di materiali radioattivi studiati appositamente per contaminare il nemico. Il progetto si basa sulle osservazioni di James B. Conant, scienziato di rilievo, per un ventennio rettore ad Harvard. Come presidente del Co-mitato di ricerca per la difesa nazionale, Conant fu tra i princi-pali sostenitori del celeberrimo progetto Manhattan, che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche. In una sua cor-rispondenza con alti comandi militari, Conant suggerisce l’uso di armi capaci di disperdere nell’ambiente gas e nanoparticelle radioattive, quali per esempio materiali e polveri di scarto pro-venienti dalla fabbricazione della bomba atomica. E spiega che l’efficacia di queste armi sta nel fatto che le nanoparticelle di materiale radioattivo sono in grado di penetrare vestiti protetti-vi, maschere a gas, filtri e la stessa pelle umana, contaminando sangue e polmoni. Tra le ipotesi di impiego di tali polveri radio-attive, nel documento si cita anche la possibilità di contaminare in modo permanente riserve idriche e terre coltivate. Nel 1966 viene registrato presso lo US Patent and Trademark Office il pri-mo brevetto in cui l’uranio (non impoverito) compare tra i ma-teriali indicati per la efficace costruzione di proiettili perforan-ti e incendiari. Ufficialmente il metallo viene scelto per la sua densità e per le sue proprietà piroforiche.

Forse è arrivato il momento di abbandonare l’ingenuità e la buonafede. La guerra va vista per quello che è in realtà: la distru-zione dei nemici e della loro discendenza, anche a prezzo di fare vittime tra le stesse nostre truppe e quelle dei nostri alleati.

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Ci sono progetti e finalità che non verranno mai rivendicati apertamente, che non saranno mai scritti se non in documenti vincolati dal segreto militare, che non ci verranno mai offerti su Wikipedia o tra i primi cento click delle ricerche di Google. Per vedere il lato oscuro della guerra non è necessario andare al fron-te, basta parlare con i sopravvissuti, con i malati, con gli sconfit-ti, con quelli che pensano di avere vinto e stanno morendo, con quelli che erano pronti a sacrificarsi per la patria e dalla patria sono stati abbandonati. Bisogna fare come Leonardo Brogioni, Angelo Miotto e Matteo Scanni: rimettersi in viaggio, andare a trovare i soldati “scaricati” dall’Esercito, ascoltare la loro storia. Forse solo così impareremo a riconoscere le menzogne e le falsi-tà che ci vengono raccontate ogni giorno sulla guerra giusta.

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L’ambulatorio è un cubo tinteggiato verde salvia e sembra l’an-ticamera di una sala operatoria. Seduto su una sedia di plastica, le mani giunte in mezzo alle ginocchia, Angelo Ciaccio aspetta il suo turno con la testa vuota. Veste jeans, berretto con la visie-ra e un piumino blu che lo isola dal freddo di dicembre. L’atte-sa prolungata gli ha assottigliato il respiro, come se i polmoni all’improvviso faticassero a succhiare aria. La mascherina antibat-teri gli copre bocca e naso, una membrana sottile che dal giorno dell’operazione lo divide dal mondo degli odori e dei sapori.

Quando l’infermiera lo invita ad accomodarsi è già rassegna-to a seguirla, si alza quasi di scatto, ma il corpo molle non gli va dietro, le gambe sono fiacche.

Nello studio lo aspettano il professore e il dottore. Li chiama così per distinguerli: uno è anziano, stempiato, l’altro più gio-vane, castano, con gli occhiali. Sono loro che l’hanno seguito dopo il trapianto di midollo e durante la degenza all’Ospedale Policlinico di Milano. La sua cartella dice: «Leucemia mieloide acuta. Trapianto eseguito. Radioterapia. Chemioterapia. Eritro-citi, leucociti e piastrine da ricontrollare».

unaguerraincifre

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Ricontrollare significa che il futuro è testa o croce, bian-co o nero, vivo o morto, una mano a sette e mezzo giocata per procura.

Angelo è un caporalmaggiore scelto dell’Esercito, viene da Na-poli. In Bosnia e Iraq ha marciato, perlustrato, sparato, bonifica-to, intercettato. E ha respirato polvere satura di metalli pesanti rilasciati dai missili all’uranio impoverito, ogni impatto col suo-lo un aerosol di microparticelle tossiche. La spiegazione tecnica è più complessa, ma lui l’ha capita così: si è ammalato, è questo che conta. Ammalato perché non aveva addosso protezioni: guanti, maschera, tuta schermata. Oggi è in ospedale per capire se il suo organismo si prepara al rigetto, se è giorno di testa o croce.

Sono otto mesi che non mette piede a casa e non vede l’ora di partire, ma prima deve tirare la monetina, affrontare le stati-stiche. Il professore gli ha spiegato che anche in caso di remis-sione completa della malattia la guarigione non è assicurata: «Pazienti che ottengono la remissione possono ammalarsi del-lo stesso male a distanza di tempo, pochi mesi o molti anni» ha detto. I progressi contano e non contano. Quindi ogni visita fa storia a sé.

Il consulto con il professore e il dottore è uno dei pochi mo-menti in cui Angelo si separa dal fratello. Umberto rimane fuo-ri dalla porta, seduto nella sala d’aspetto del reparto Ematologia del Policlinico. Stringe tra le mani una borsa marrone. Dentro c’è l’intera storia clinica di Angelo: cartelle, documenti, analisi, esami, moduli di richiesta. Se serve qualcosa, se c’è da control-lare al volo un valore fuori norma, lui è lì, col suo archivio por-tatile. Tuffa la mano nelle pieghe di pelle della borsa e pesca la risposta. Anche se la diagnosi non gli compete, conosce a me-

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moria tutti i dati e i numeri che stanno lì dentro, anche quelli all’apparenza più insignificanti, e ogni tanto interviene per cor-reggere i medici, per puntualizzare.

Dentro la stanza Angelo si sveste e si sdraia sul lettino. A quin-dici giorni dalla dimissione l’emocromo è tornato normale, ma le piastrine restano basse. Il professore è soddisfatto, il dottore meno, non si fida. La febbre è sparita, però ci sono tracce di sangue nel-le urine. L’appetito, invece, è buono. Tra cento giorni si torna a mangiare come si deve, cibi conditi. Nel frattempo, attenersi alla dieta. Poi c’è il freddo. Attenzione a girare coperto: senza difese immunitarie ci si può beccare un’infezione come niente.

Quando si riveste, Angelo è stanco. Anche se la monetina dice testa. Non ci sono cattive notizie, eppure è solo l’alba di un nuo-vo giorno. Per i prossimi cinque anni dovrà farsi visitare ogni tre mesi, sperando che la serie positiva non si interrompa.

Qualche settimana prima, il 4 ottobre 2007, durante la sua au-dizione in veste di consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, l’epidemiologo Valerio Gen-naro cita i dati ricevuti dal ministero della Difesa e dal Gruppo operativo interforze della Direzione generale della Sanità mili-tare: tra i soldati italiani che hanno svolto missioni all’estero «il tumore maligno è presente in 1.991 casi, 1.883 non deceduti e 158 deceduti». Cinque giorni dopo il ministro della Difesa Artu-ro Parisi, riferendo alla stessa Commissione, dichiara: «I militari che hanno contratto malattie tumorali e che risultano essere sta-ti impiegati all’estero nei Balcani, Afghanistan, Iraq e Libano nel periodo 1996-2006 sono 255. Di questi malati la Direzione di Sanità dichiara un esito letale della malattia per 37 soggetti».

Passano due mesi, e il 12 dicembre l’onorevole Parisi cam-

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bia versione. Annuncia che è stato redatto «un elenco, che ha richiesto diverse verifiche, riguardante tutto il personale che ri-sulta essersi ammalato di tumore maligno negli undici anni pre-si in considerazione e nei quattro teatri (Balcani, Iraq, Afghani-stan e Libano). Nell’elenco, che mettiamo a disposizione, sono indicati altresì gli esiti letali: si tratta di 312 casi, con esito mor-tale per 77 soggetti».

I conti non tornano: 40 morti di differenza in 60 giorni sono un’enormità. Se le cose stanno così, chi è Angelo Ciaccio: un fantasma, un impostore oppure uno dei tanti malati che do-vrà farsi avanti per ottenere la causa di servizio e il conseguen-te risarcimento?

L’ex maresciallo Domenico Leggiero, responsabile del Com-parto difesa dell’Osservatorio militare, ha rifatto le somme: «Per noi che assistiamo le vittime dell’uranio, i militari malati sono 2.540 e i morti 164» dice. «Siamo in grado di fare nomi e co-gnomi. Se queste cifre sono false, perché il Capo di Stato Mag-giore non ci smentisce? Perché il ministro della Difesa non ha mai chiesto un confronto?»

È possibile che l’uranio impoverito non sia la sola causa della morte dei soldati italiani che hanno preso parte alle missioni in-ternazionali. Tuttavia è stato accertato di fronte a due Commis-sioni parlamentari d’indagine che i vertici dell’Esercito, pur in-formati dagli Stati Uniti sugli effetti bellici di tale sostanza, non hanno ritenuto opportuno dotare il personale di protezioni. Per dieci anni nessun alto in grado ha parlato, e quando gli ufficiali delle Forze armate sono stati costretti a farlo, hanno minimizza-to o fatto appello a qualcosa di simile alla ragione di Stato.

L’origine del problema sta anche nei numeri: da dodici chi-

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logrammi di uranio naturale si ottengono un chilogrammo di uranio arricchito e undici di uranio impoverito. Il grosso è lo scarto della lavorazione. Quello che non serve come combusti-bile alle centrali nucleari viene riciclato dall’industria bellica, che ne fa testate per proiettili e missili. Test dell’esercito statu-nitense condotti nel 1977 nel deserto del Nevada hanno dimo-strato che quando un penetratore da 120 millimetri all’uranio impoverito colpisce un bersaglio corazzato, si liberano da uno a tre chilogrammi di polvere di uranio radioattiva altamente tos-sica. Bastano da tre a nove chilogrammi di particolato di uranio per contaminare un carro armato centrato da queste munizio-ni e l’area circostante.

Altri test esplosivi e studi sul campo hanno mostrato che la maggior parte della polvere prodotta nell’impatto finisce per de-positarsi entro un raggio di 50 metri dal bersaglio, tuttavia le particelle più fini vengono disperse in atmosfera sotto forma di aerosol su distanze di centinaia di chilometri.

I comandi militari della Nato hanno ammesso l’uso di 320 ton-nellate di uranio impoverito durante la prima guerra del Golfo, anche se l’organizzazione non governativa olandese Laka stima siano state 800. Quantità altrettanto rilevanti sono state impie-gate in Bosnia, nella guerra del Kosovo, in Iraq e durante l’ope-razione Enduring Freedom. Chiunque respiri aerosol di uranio si ammala. L’hanno scoperto per primi, a proprie spese, gli ameri-cani: oltre 200 mila militari ritornati dall’Iraq nel 1991 (uno su tre) soffrono di malattie invalidanti. Le associazioni britanniche dei Veterani del Golfo sostengono che 572 uomini e donne tra i 40 mila spediti in Iraq sono morti prematuramente dopo il ri-torno a casa e altri 5 mila si sono ammalati.

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I medici iracheni hanno stimato che le malformazioni neo-natali sono cresciute di due-sei volte, mentre i casi di cancro e leucemia di tre-dodici volte dopo il 1991. Un rapporto della ri-vista medica britannica Lancet nel 1998 sosteneva che 500 bam-bini morivano ogni giorno a causa delle conseguenze di guer-ra e sanzioni, e che il tasso di mortalità per i bambini iracheni sotto i cinque anni era cresciuto dal 2,3% del 1989 al 16,6% del 1993.

L’uranio impoverito è una delle cause del preoccupante au-mento di malformazioni tra i neonati dopo il 1991. Malforma-zioni che includono bimbi con arti cortissimi, con intestini fuori dal corpo, con tumori al posto degli occhi, senza gambe e occhi. Gli unici casi simili riportati dalla letteratura medica riguarda-no le isole del Pacifico vicine ai luoghi dove gli Stati Uniti han-no sperimentato la bomba atomica.

In Italia è successo qualcosa di simile a Escalaplano, picco-lo centro della Sardegna che sorge a poche centinaia di metri dal poligono interforze di Salto di Quirra, dove gli eserciti di mezzo mondo hanno sperimentato razzi, missili e munizioni di nuova generazione. In questo paese di 2.532 abitanti nel 1988 – tre anni prima della guerra del Golfo – il 23,8% delle nasci-te sono state anomale: i neonati presentavano malformazioni al capo, condizioni patologiche del sistema genitale, apparati di-gerenti e arti incompleti.

«Cosa succede nel 1991? In quell’anno la dottrina del nucleare cambia» spiega Maurizio Torrealta, giornalista di Rainews24 che all’uranio impoverito ha dedicato più di un’inchiesta. «L’Unio-ne Sovietica crolla e i rapporti con gli Stati Uniti si distendono. Mentre il nucleare tradizionale viene abbandonato, si fa strada

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una nuova classe di armi nucleari, molto più piccole: il mini nu-cleare all’uranio impoverito. Armi che creano una radioattività di sfondo, impercettibile e invisibile. Questa opzione ha evita-to agli Usa di ricorrere ai grandi ordigni che, dopo Hiroshima, l’umanità moralmente rifiutava. E violando la tacita promes-sa di non utilizzare il nucleare contro popolazioni civili, hanno usato le armi depleted uranium, sdoganando un nuovo modo di fare la guerra.»

Sul prezzo pagato dai civili ha scritto Maura Gualco dell’Uni-tà nel dicembre 2003: «Bombardare luoghi abitati era eviden-temente previsto. Così, chi è sopravvissuto alla pioggia di fuo-co, in alcune zone della Serbia sta morendo di cancro. Come ad Hadzici, quartiere serbo bosniaco nelle vicinanze di Saraje-vo, dove sono stati sparati, come indicano le mappe della Nato, 3.400 ordigni all’uranio impoverito soltanto tra il 5 e l’11 set-tembre del ’95. Ad Hadzici – una comunità di 5.000 anime – ogni anno muoiono 150 persone di tumore».

Il professor Nedan Luijc, dell’Ospedale civile Banjica di Bel-grado, si occupa dei pazienti serbi provenienti dalle zone bom-bardate. «Un uomo di 48 anni è venuto da me con tre tumori diversi» racconta, «non ho mai visto una cosa del genere. Non so se dipenda dall’uranio impoverito, ma vi chiedo se nei paesi occidentali esiste una comunità di 5.000 persone, come quella di Hadzici, dove ogni anno muoiono 150 persone di tumore».

«In cinque anni» aggiunge il professor Branko Sbutega, prima-rio del reparto di Ortopedia oncologica, «i casi di tumori sono aumentati del 70 per cento e i malati sono sempre più giovani di 20, 30 anni. Abbiamo lanciato l’allarme in un convegno interna-zionale più di due anni fa. Nessuno se n’è mai interessato».

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Secondo l’ingegnere nucleare Massimo Zucchetti, del Poli-tecnico di Torino, gli effetti dell’uranio impoverito nella guer-ra del Kosovo produrranno nei prossimi anni da 2.500 a 5.000 nuovi casi di tumore.

Nel ’96 e nel ’97 la Commissione Onu per i Diritti umani ha stabilito che l’uso dell’uranio impoverito nelle armi viola le Con-venzioni di Ginevra e che queste sono pertanto da considerarsi «armi di distruzione di massa, incompatibili con il diritto inter-nazionale umanitario e il diritto dei diritti umani». Non è stato sufficiente per ottenerne l’effettiva messa al bando.

Tra gli alti ufficiali italiani, pochissimi hanno ammesso l’esi-stenza del problema. Uno è il generale Fernando Termentini, che ha comandato il Genio dell’Esercito in Afghanistan, Ku-wait, Somalia, Mozambico e Bosnia. Secondo Termentini, che ha un’esperienza ventennale nel campo della bonifica degli or-digni esplosivi, prendere precauzioni è fondamentale: «Io dor-mirei con un proiettile all’uranio sul comodino, non dormirei con la stessa tranquillità in un punto dove è esploso, in quan-to potrei correre il rischio di ingerire sostanze tossiche» am-mette. «Il problema è il pulviscolo tossico e le nanoparticelle in esso contenute. È impossibile trovare traccia di uranio im-poverito dopo un’esplosione, perché nell’impatto si polveriz-za. Ma non svanisce. Il nemico invisibile è questo uranio che non c’è. Sappiamo che è lui ad avere un ruolo indiretto nel-le morti dei militari italiani, ma possiamo dirlo solo grazie a prove statistiche, basate sulle cifre, sui numeri. E se finora non è stato possibile dimostrare una correlazione scientifica tra la presenza di uranio impoverito e l’insorgere di queste malattie, è però vero che esiste una correlazione statistica: in presenza

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di uranio impoverito ci sono i linfomi al sistema emolinfati-co e al sangue.»

Sulla mancanza di una prova scientifica, su questi dati nume-rici che si prestano a strumentalizzazioni, ha insistito il ministe-ro della Difesa. Ma quando sono state le istituzioni a prende-re l’iniziativa per mettere un punto fermo, la verità sull’uranio impoverito non è mai sembrata così ambigua. È accaduto, ad esempio, all’indomani delle relazioni preparate dalla Commis-sione Mandelli, nominata con decreto del ministero della Difesa il 22 dicembre 2000 per studiare il caso dei militari italiani che hanno svolto attività operativa in Bosnia e Kosovo. Chiamata a esprimersi con un parere autorevole, ha rivisto tre volte le pro-prie conclusioni, lasciando più dubbi che certezze.

Senza contare che la Commissione è nata con un difetto di fondo: la nomina “di parte” del ministero della Difesa. In pratica, l’organo di controllo è stato scelto dalla struttura da controllare. Lasciare al Parlamento o al ministero della Sanità il compito di sceglierne i rappresentanti sarebbe stata una maggiore garanzia e avrebbe ridotto al minimo i condizionamenti esterni.

Non dovrebbe toccare ai militari ammalati dimostrare scien-tificamente che l’uranio impoverito fa male, ma a chi lo usa di-mostrare al di fuori di ogni dubbio che non ci sono effetti ne-gativi sull’ambiente e per la salute umana. È un punto che è stato sottolineato spesso dalle associazioni delle vittime: «Non si può determinare con certezza che la causa di queste malattie sia l’uranio impoverito, ma non si può stabilire con certezza ne-anche che non lo sia, e nel dubbio vale il principio di precau-zione». E le norme di precauzione ci sono. Gli Stati Uniti, dopo l’emergenza del Golfo, le hanno adottate nel 1993 e le usava-

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no già in Somalia, dove con 40 gradi all’ombra erano protetti da tute e maschere, marziani accanto ai militari italiani in cal-zoncini e canottiera.

«L’Italia non ha mai usato uranio impoverito, né nei teatri di operazione, né nei poligoni» ha dichiarato l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi, confermando la posizione dei suoi prede-cessori. Non c’è ragione per non credergli. Tuttavia i lavori del-le Commissioni parlamentari d’inchiesta sono stati mal soppor-tati dai vertici dell’Esercito. Il clima in cui hanno lavorato non è mai stato sereno né di piena collaborazione.

Lo ha ricordato di recente anche il senatore del Pd Felice Casson, membro della Commissione parlamentare d’inchie-sta sull’uranio impoverito 2006-2008: «Abbiamo avuto modo di lavorare un anno o poco più, visto il termine anticipato del-la legislatura e la fine del governo Prodi. Siamo riusciti a predi-sporre una relazione in cui abbiamo dato conto del lavoro svol-to e delle difficoltà incontrate sia da un punto di vista medico scientifico, sia da un punto di vista pratico. Nel testo finale, in particolare, ci sono alcune critiche pesanti che avevo formulato a proposito della scarsa collaborazione prestata dagli uffici mili-tari competenti, che avrebbero dovuto trasmetterci rapidamen-te tutti gli atti, i documenti, le diagnosi e le cartelle cliniche di tutte le persone che avevano avuto a che fare sia all’estero che in italia con ambienti e scenari in cui ci poteva essere stato uso di uranio impoverito.

Mi ricordo anche che avevo dovuto segnalare al ministro Pa-risi, durante una delle sue audizioni, che c’erano stati dei freni e dei filtri e al ministro stesso non erano stati forniti i dati com-pleti. Questo è un dato piuttosto preoccupante. Sull’uranio im-

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poverito, a causa soprattutto dell’uso militare che se ne faceva e che se ne fa ancora in qualche parte, c’è un segreto rigido, ci sono degli interventi anche sui parlamentari che ne vogliono ca-pire qualcosa, molto stretti, molto severi».

Dopo aver raccolto per mesi dati e interviste sull’uranio impo-verito, ci siamo resi conto che questo tipo di documentazione non ci parlava, non esauriva le nostre domande, non aggiungeva alcun tassello al dibattito, alla ricerca della verità. Così abbiamo deciso di privilegiare le storie, rispetto al taglio di approfondi-mento proprio dell’inchiesta. I protagonisti di questo libro/do-cumentario sono i militari, le loro famiglie, i fratelli e le fidanza-te che sono rimasti a casa e che li accompagnano in un difficile ritorno alla normalità, spesso alla vita. Banalmente, dietro i nu-meri abbiamo intravisto dei volti e delle sofferenze che ci anda-va di raccontare. Attraverso i loro gesti quotidiani passano forse più informazioni di quante non ne fornirebbe un lavoro di in-vestigazione tradizionale.

La narrazione incrocia tre differenti linguaggi: il video, la fo-tografia e l’audio. Ci è sembrato opportuno usare uno stile che desse conto della grande eterogeneità dei materiali e dei docu-menti incontrati. Fotocamere professionali e macchinette usa e getta, immagini singole e sequenze di immagini, foto personali, video amatoriali, suoni in presa diretta e registrazioni in studio, videocamere ad alta risoluzione e filmati realizzati col telefoni-no: abbiamo usato tutto quello che abbiamo avuto a disposizio-ne per seguire le storie.

Una nota a margine: nessuno dei protagonisti rinnega la pro-

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pria appartenenza alle Forze armate o l’impegno nelle missioni all’estero. Tutti confermano anzi un forte attaccamento alla di-visa. Ma le omissioni, le bugie e le reticenze che hanno accom-pagnato la malattia sono state vissute come un tradimento. «Se mi avessero parlato dei pericoli che correvo, dei rischi che si po-tevano incontrare su certi terreni, se mi avessero detto di in-dossare certi indumenti per proteggermi dalla contaminazione dell’uranio impoverito, io sarei partito comunque, perché quel-lo era il mio lavoro. Il punto è che nessuno me ne ha fatto cen-no», ricorda Angelo Ciaccio.

Il fantasma Angelo Ciaccio, l’impostore Angelo Ciaccio o il soldato Angelo Ciaccio?

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