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Nicola Abbagnano Storia della filosofia La filosofia contemporanea III di Giovanni Fornero, Franco Restaino e Dario Antiseri TEA 1996 Capitolo XIII. ROSENZWEIG: DISTRUZIONE E RICOSTRUZIONE DELLA TOTALITÀ di Giovanni Fornero Vita e opere. L’incontro ebraismo-filosofia trova in Rosenzweig la sua prima e creativa espressione novecentesca. Franz Rosenzweig nasce a Kassel il 25 dicembre 1886 da una famiglia borghese di ebrei assimilati. Dopo aver frequentato medicina a Gottinga, Monaco e Friburgo, abbandona gli studi scientifici per dedicarsi alla storia e alla filosofia, che approfondisce sotto la guida di Rickert e, soprattutto, di Meinecke. A partire dall’estate del 1910 lavora allo studio dei manoscritti hegeliani, a Friburgo e a Berlino. Nel 1912 presenta alla Philophische Fakultat di Friburgo la sua tesi di dottorato, che, successivamente rielaborata, verrà pubblicata nel 1920, con il titolo Hegel e lo Stato. Anche dopo la dissertazione continua a lavorare sul filosofo tedesco e progetta di dedicarsi alla carriera accademica, con l’appoggio di Meinecke. Ma proprio in quel periodo va incontro ad una profonda crisi spirituale, che lo conduce ad abbandonare il taglio storico delle sue ricerche e i propositi di carriera universitaria. Ebreo di tiepidi sentimenti religiosi, anche per l’influenza esercitata dal cugino Hans Ehrenberg e dall’amico Eugen Rosenstock, nel corso del 1913 manifesta l’intenzione di convertirsi al cristianesimo. Tuttavia, in seguito ad un’altra crisi - maturata nell’ottobre del 1913 in una piccola sinagoga di Berlino, in concomitanza di una festa di Jom Kippur - decide di rimanere ebreo e di dedicarsi completamente alla fede dei suoi padri. Di questa teshuvab o riconversione all’ebraismo, che rappresenta l’avvenimento decisivo della vita di Rosenzweig, sappiamo abbastanza poco. L’unico documento in proposito è la concisa ed enigmatica precisazione contenuta in una lettera del 31 ottobre 1913 a un altro cugino, Rudolf Ehrenberg, nella quale il nostro autore, dopo aver dichiarato che il passaggio dall’ebraismo al cristianesimo gli si configurava «non più necessario» (nicht mehr

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Nicola Abbagnano

Storia della filosofia

La filosofia contemporanea

III

di Giovanni Fornero, Franco Restaino e Dario Antiseri

TEA 1996

Capitolo XIII.

ROSENZWEIG: DISTRUZIONE E RICOSTRUZIONE DELLA TOTALITÀ

di Giovanni Fornero

Vita e opere.

L’incontro ebraismo-filosofia trova in Rosenzweig la sua prima e creativa espressione novecentesca.

Franz Rosenzweig nasce a Kassel il 25 dicembre 1886 da una famiglia borghese di ebrei assimilati. Dopo aver frequentato medicina a Gottinga, Monaco e Friburgo, abbandona gli studi scientifici per dedicarsi alla storia e alla filosofia, che approfondisce sotto la guida di Rickert e, soprattutto, di Meinecke. A partire dall’estate del 1910 lavora allo studio dei manoscritti hegeliani, a Friburgo e a Berlino. Nel 1912 presenta alla Philophische Fakultat di Friburgo la sua tesi di dottorato, che, successivamente rielaborata, verrà pubblicata nel 1920, con il titolo Hegel e lo Stato. Anche dopo la dissertazione continua a lavorare sul filosofo tedesco e progetta di dedicarsi alla carriera accademica, con l’appoggio di Meinecke. Ma proprio in quel periodo va incontro ad una profonda crisi spirituale, che lo conduce ad abbandonare il taglio storico delle sue ricerche e i propositi di carriera universitaria. Ebreo di tiepidi sentimenti religiosi, anche per l’influenza esercitata dal cugino Hans Ehrenberg e dall’amico Eugen Rosenstock, nel corso del 1913 manifesta l’intenzione di convertirsi al cristianesimo. Tuttavia, in seguito ad un’altra crisi - maturata nell’ottobre del 1913 in una piccola sinagoga di Berlino, in concomitanza di una festa di Jom Kippur - decide di rimanere ebreo e di dedicarsi completamente alla fede dei suoi padri.

Di questa teshuvab o riconversione all’ebraismo, che rappresenta l’avvenimento decisivo della vita di Rosenzweig, sappiamo abbastanza poco. L’unico documento in proposito è la concisa ed enigmatica precisazione contenuta in una lettera del 31 ottobre 1913 a un altro cugino, Rudolf Ehrenberg, nella quale il nostro autore, dopo aver dichiarato che il passaggio dall’ebraismo al cristianesimo gli si configurava «non più necessario» (nicht mehr

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notwendig), anzi «non più possibile» (nicht mehr möglich), conclude: «io rimango dunque ebreo» (ich bleibe also Jude) (Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, I: Briefe und Tagebucher, tomo 2, Nijhoff, Den Haag 1979, pp. 132-33). Nell’anno successivo alla conversione diviene assiduo ascoltatore del neokantiano Hermann Cohen, che ai suoi occhi assume ben presto il valore di una figura carismatica: «Ero andato a sentire un filosofo - dirà in seguito - invece ho incontrato un uomo».

Allo scoppio della guerra, Rosenzweig opera dapprima come volontario presso la Croce Rossa e viene mandato in Belgio. Richiamato nel corpo degli artiglieri, entra successivamente a far parte di un’unità anti-aerea sul fronte dei Balcani. Intanto comincia a scrivere La Stella della redenzione che, ideata tra il fuoco delle trincee, viene terminata nel giro di pochi mesi e spedita a casa tramite lettere e cartoline della posta militare. Alla fine del 1918 è congedato dall’esercito e ritorna a Kassel. L’anno seguente termina il suo capolavoro. Nel 1920 si trasferisce a Francoforte, dove entra in contatto con alcuni fra gli esponenti più significativi dell’epoca (da G. Scholem a M. Buber) e assume la direzione del Freies Judisches Lehrhaus. Nel 1921 nota i primi sintomi di un disturbo motorio. La diagnosi non si fa attendere: sclerosi amiotrofica laterale con crescente paralisi del bulbo. Perduta anche la capacità di dettare, da allora in poi potrà esprimersi solo grazie alle cure della moglie e ad un particolare congegno approntatogli dalla AEG (Allgemeine Elektrische Gesellschaft). Esistenzialmente martoriato, ma intellettualmente lucido, Rosenzweig continua a studiare e a portare avanti, fra l’altro, la traduzione tedesca della Bibbia ebraica, in collaborazione con M. Buber. Muore nel 1929 a soli 43 anni, mentre in Germania si stava irrimediabilmente frantumando quella simbiosi ebraico-tedesca che fa da sfondo alla sua opera. Sulla sua tomba volle che fossero incise le parole del Salmo 73: «Poiché sono colpito tutto il giorno, / e la mia pena si rinnova ogni mattina. / Se avessi detto: “Parlerò come loro”, / avrei tradito la generazione dei tuoi figli. / Riflettevo per comprendere: / ma fu arduo agli occhi miei, / finché non entrai nel Santuario di Dio / e compresi qual è la loro fine» (w. 14-17).

I suoi scritti filosoficamente più rilevanti sono la lettera del 18 novembre 1917 a R. Ehrenberg e da lui stesso battezzata «Urzelle» des «Stern der Erlösung» («Cellula originaria» della «Stella della redenzione»), Hegel und der Staat (Hegel e lo Stato, 1920), Der Stern der Erlösung (La Stella della redenzione, 1921), Das neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum Stern der Erlösung (Il nuovo pensiero. Alcune note supplementari a «La Stella della redenzione», 1925). Apparso postumo, perché ripudiato dall’autore, è Das Buchlein vom gesunden und kranken Menscbenverstand. Terminato nel 1921 tale opuscolo, che per «onorare l’autocritica» di Rosenzweig non figura nei Gesammelte Schriften, è comparso in edizione tedesca nel 1964 e in edizione italiana nel 1987, con il titolo Dell'intelletto comune sano e malato.

1064. Dagli studi su Hegel alla «Stella».

Sebbene Rosenzweig si presenti, a tutta prima, come «un outsider difficilmente catalogabile» (P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, Franz Rosenzweig [1886-1929], Studium, Roma 1989, p. 10) il suo pensiero più propriamente speculativo si svolge all’insegna di un ripensamento filosofico dell’identità ebraica, o meglio, della specificità concreta e irriducibile dello essere-ebrei (Judesein). Ripensamento che, nelle intenzioni del nostro autore, non si

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identifica affatto con una riduttiva o confessionale «ottica giudaica», bensì, con una riflessione universalmente valida sulla condizione umana in generale - di cui l’ebraismo e il cristianesimo sarebbero, a suo avviso, emblematiche manifestazioni.

Prima di approdare all’enunciazione di un pensiero teorico personale, Rosenzweig si è cimentato con Hegel, e precisamente con la sua dottrina dello Stato. Abbozzato prima della grande guerra, ma pubblicato soltanto nel 1920, Hegel und der Staat - che rappresenta il suo «canone d’affitto pagato allo spirito tedesco» - si configura come una minuziosa ricostruzione dell’itinerario intellettuale dello Hegel politico. Muovendosi, sia pure in modo critico e problematico, nel solco della lettura di Meinecke, la quale insisteva sulla continuità fra Hegel e Bismarck (secondo lo schema «Von Hegel zu Bismarck») Rosenzweig, con la sua opera, si propone di contrastare il nazionalismo e l’enfatizzazione tedesca del ruolo dello Stato. Prima del 1914, scrive il nostro autore nella Prefazione al testo, «si sperava vivamente che la soffocante angustia interna ed esterna dello Stato bismarckiano venisse ampliandosi in un Impero di universale respiro. Questo libro, nella misura in cui può farlo un libro, doveva preparare gli animi ad una nuova realtà» (Hegel e lo Stato, trad, ital., Il Mulino, Bologna 1976, p. 10). Infatti, continua Rosenzweig, la «rigida e limitata» idea hegeliana di Stato, che nel 1871 aveva provocato, come «fulmine dalle nubi», una grande azione storico-politica, ora «doveva frantumarsi sotto gli occhi del lettore, per far posto alla nuova prospettiva di un avvenire della Germania, più esteso verso l’interno e verso l’esterno» (Ib.). Tuttavia, a causa della guerra, le cose erano andate ben altrimenti, poiché dove prima si ergeva l’impero «non è rimasto che un campo di macerie» (Ib.). Tant’ è vero, avverte Rosenzweig a proposito del suo libro, che «Oggi non lo comincerei più», in quanto, «Al momento attuale non so come si possa trovare il coraggio di scrivere di storia tedesca» Ib.). Ma pur non servendo più alla vita politica della Germania, conclude Rosenzweig, il libro «sarà almeno utile alla scienza» (Ib.). E in effetti, Hegel e lo Stato ha finito per affermarsi come un testo fondamentale della storiografia hegeliana e come un classico della storia delle idee (cfr. R. Bodei, Introduzione all’ediz. ital., cit., pp. IX-XXXIX).

Il capolavoro di Rosenzweig, l’opera in cui egli si riconobbe completamente è la Stella («l’autore di Die Stem der Erlösung» dichiara a Meinecke in una lettera del 30.8.1920 «è di calibro assai diverso da quello di Hegel und der Staat»). Nella Stella egli vide infatti il libro della sua vita: «Ho la sensazione perentoria di avere tratto qui le somme della mia esistenza intellettuale e che tutto quanto verrà ancora in seguito saranno soltanto appendici» (lettera a M. Buber di fine agosto 1919, in Ges. Schr. I, cit., Briefe und Tagebücher, tomo 2, p. 645, trad. ital. di G. Bonola). Ciò non toglie che in Rosenzweig vi sia stata una certa esitazione sui modi e i tempi della sua pubblicazione. Anzi, egli era stato inizialmente convinto che il suo capolavoro avrebbe dovuto vedere la luce esclusivamente come «opus posthumum». Soltanto a stesura terminata aveva deciso di darlo alle stampe, soprattutto per mettersi in mostra nell’ambito di quella cultura ebraica in cui, sino ad allora, non era pubblicamente noto: «mi sono reso conto che non ho sufficiente rilievo, che non sono nessuno. E allora mi sono detto: meglio famigerato che nessuno» (lettera ad H. Ehrenberg del 24.6.1919, in Ges. Schr., I, cit., Br. T., t. 2, p. 635). Ai consigli degli amici di far uscire il libro presso un editore cristiano, che gli avrebbe garantito una migliore circolazione, Rosenzweig risponde che «Un libro ebraico

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sotto bandiera cristiana non è più un libro ebraico e per il giudaismo non significa nulla» (lettera ad H. Ehrenberg del 6.7.1919, in Ges. Schr., I, cit., Br. T., t. 2, p. 636).

Apparsa presso l’editore J. Kauffmann di Francoforte, la Stella si rivelò tuttavia un semi-fallimento: «L’accoglienza fu [...] piuttosto fredda [...] le sue convinzioni teologiche circa la distinta ma anche complementare presenza del cristianesimo e dell’ebraismo, visti come due modalità, due traduzioni, con uguale dignità, di approccio alla verità disorientarono i suoi interlocutori [...]. Ci fu chi addirittura considerò la Stella un libro troppo cristiano per essere ebraico ed altri un libro troppo ebraico per essere cristiano. Non molti comprarono la Stella, pochi la lessero per intero, scoraggiati dall’impianto filosofico penetrato quasi a forza nel contenuto ebraico, convinti che si trattasse di un’opera troppo difficile, a tratti incomprensibile, cosicché la Stella venne presto relegata e dimenticata negli scaffali delle biblioteche, come lamentava, deluso, Rosenzweig» (P. Ricci Sindoni, op. cit., p. 51). E in effetti, ignorata o incompresa durante la vita del suo autore, la Stella fini di fatto per essere un’opera postuma, in quanto venne scoperta ed approfondita soltanto in seguito, lungo un percorso di rivalutazione che va sino ai giorni nostri (cfr. G. Bonola, Nota introduttiva a E. Rosenzweig, La Stella della redenzione, trad, ital., Marietti, Genova 1985, pp. VII-XXVII).

1065. La paura della morte e il fallimento della filosofia «dalla Jonia a Jena».

La paura della morte genera la filosofia, ma la filosofia nega la realtà della morte. E' con questa tesi ad effetto che si apre la Stella: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. Ma la filosofia nega queste paure della terra. Essa strappa oltre la fossa che spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (La Stella della redenzione, trad, ital., cit., p. 3; N.B. Nella rist. della 2“ ediz., questo brano, per uno sbaglio tipografico, compare a p. 99). E poiché la paura della morte non sa nulla di questa pretesa divisione in anima e corpo e rifiuta la retorica del decesso come «nobile» occasione per sottrarsi alle angustie della vita, la filosofia tenta di circuire l’uomo intessendo attorno a ciò che è terreno il vapore ceruleo della sua idea del Tutto: «Poiché, certo, un Tutto non morrebbe e nel Tutto nulla morirebbe. Soltanto ciò eh e singolo può morire, e tutto ciò ch’è mortale è solo» (Ib., p. 4).

Il fatto che la filosofia possa costituirsi soltanto come Abschaffung, cioè tramite un atto di esclusione-distruzione del singolo, è anche il motivo che la costringe ad essere idealistica. Infatti, l’idealismo, con la sua panteistica immersione del singolo nel Tutto, è proprio «lo strumento artigianale con cui la filosofia rielabora la materia indocile fino a che essa non oppone più resistenza alcuna alla confusione nebulosa entro il concetto di Uno-Tutto» (Ib., p. 4). Al culmine della sapienza idealistica sta dunque la tesi secondo cui la morte è nulla. Ma, ancora una volta, la realtà insuperabile della morte, che non si può bandire dal mondo e che si annuncia nel grido delle sue vittime, trasforma in palese inganno il pensiero fondamentale

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della filosofia: «la morte davvero [...] non è nulla, bensì un inesorabile, ineliminabile qualcosa. Anche attraverso la nebbia di cui la filosofia la circonda risuona in tutta la sua forza il suo aspro appello; la filosofia [...] non ha saputo spezzare il suo aculeo velenoso e la paura dell’uomo che trema davanti alla trafittura di quell’aculeo sconfessa ogni volta senza remissione la compassionevole menzogna della filosofia» (Ib., p. 5).

Ad una filosofia che si dichiara mistificatoriamente priva di presupposti e che, sin dagli inizi, fonda la totalità dell’universo sull’unità del logos, dando dogmaticamente per scontata la pensabilità del reale e l’identità fra pensiero ed essere («In quella prima asserzione della filosofia, nel “tutto è acqua” è già contenuto il presupposto della pensabilità del mondo» (Ib., p. 12), ovvero ad una filosofia che misconosce il molteplice e ignora il negativo, l’alogico e l’individuale, Rosenzweig - sulle orme dell’ultimo Schelling, di Kierkegaard, di Schopenhauer e Nietzsche - contrappone invece la concretezza irriducibile dello «esser-cosi» e la realtà «indigesta» dell’uomo: «l’uomo d’improvviso scopre che egli, pur filosoficamente digerito da molto tempo, è ancora qui. E non certo l’uomo con il suo bel ramo di palma (quello se l’è da tempo ingoiato la balena ed ora può soltanto ingannare il tempo cantando i salmi nel ventre della balena) bensì l’uomo come “io, io che sono polvere e cenere”. Io comunissimo privato individuo, io nome e cognome» (Urzelle, trad. ital. in II nuovo pensiero. Arsenale, Venezia 1983, p. 21).

Questa serrata polemica contro l’idealismo e le pretese totalizzanti della filosofia si nutre di motivi e ragionamenti esistenzialistici simili a quelli che ispireranno Heidegger. Infatti, come ha osservato Karl Lowith: «Se Heidegger ha avuto un contemporaneo che possa meritarsi tale definizione non soltanto nel senso cronologico della parola, si tratta proprio dell’ebreo tedesco il cui capolavoro apparve sei anni prima di Essere e tempo. Il nesso storico-temporale fra il “nuovo pensiero” di Heidegger e quello di Rosenzweig generalmente non è stato riconosciuto, sebbene lo stesso Rosenzweig se ne fosse certamente accorto. Questa comunanza era caratterizzata, da un punto di vista critico, dal fatto che il pensiero dell’uno come quello dell’altro voltava le spalle alla metafisica della coscienza dell’idealismo tedesco, senza però ricadere nel positivismo, e da un punto di vista positivo, dal fatto che entrambi hanno come punto d’avvio l’“effettività” (Faktizität) dell’Esserci umano» (M. Heidegger e F. Rosenzweig. Poscritto a «Essere e tempo», 1958, trad. ital. in «aut-aut», n. 22, nov.-dic. 1987, pp. 76-102, p. 76).

Tuttavia, pur muovendosi nella medesima atmosfera esistenzialistica del primo Heidegger, a cominciare dal tema della morte che ognuno muore irriducibilmente per suo conto, Rosenzweig non perviene alla delineazione di un’analitica esistenziale presupponente il concetto dello «esser-gettati» senza Dio (gottlos), ma alla elaborazione di una prospettiva filosofico-teologica che, partendo dalla nozione di «creaturalità» (Geschöpflichkeit), risolve il singolo in un insieme di rapporti al cui vertice stanno la comunità, il mondo e Dio: «Alcuni critici attuali attribuiscono a Rosenzweig una collocazione nell’ambito dell’esistenzialismo. Questa collocazione è corretta solo in parte; solo il punto di partenza del suo pensiero coincide con quello esistenzialista: l’individuo solo, sofferente, che è cosciente della sua mortalità, la creatura la cui esistenza travalica il semplice pensiero. Ma Rosenzweig libera il singolo da questo suo isolamento. Egli insegna a questo singolo, unico, non riducibile a

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null’altro, a prendere parte al dialogo con gli altri elementi che costituiscono la realtà [...] con gli altri uomini suoi simili, con il mondo che lo circonda e con Dio» (N.N. Glatzer, Introduzione a F. Rosenzweig, Dell'intelletto comune sano e malato, trad, ital., Reverdito, Trento 1987, p. 18). Infatti - tale è l’ipotesi interpretativa che sorregge la nostra esposizione - la polemica di Rosenzweig contro la filosofia occidentale, ovvero il suo «guanto di sfida» alla venerabile comunità dei filosofi «dalla Jonia fino a Jena», non mira alla distruzione di ogni totalità, ma, come avremo modo di constatare, alla edificazione di una nuova totalità. In altri termini, alla filosofia tradizionale Rosenzweig contrappone un «nuovo pensiero», come egli lo chiamerà esplicitamente nel libro del ’25, capace di farci accedere ad una nuova dimensione globale dell’essere.

I caratteri basilari di questo nuovo pensiero (neues Denken) sono: 1) la fedeltà all’esperienza; 2) l’unione tra filosofia e teologia. Designando la nuova concezione come «filosofia esperiente» (erfahrende Philosophie) o «assoluto empirismo» (absoluter Empirismus), Rosenzweig non si riferisce soltanto al bisogno di un più stretto legame con il concreto, ma anche alla necessità di procedere oltre le angustie del concetto empiristico-criticistico-positivistico di esperienza, ai fini di cogliere il reale nella molteplicità dei suoi orizzonti, compresi quelli che, nel mondo moderno, non sono più stati ritenuti di competenza della filosofia (come Dio o il mondo nel suo complesso). Questo progetto di «fedeltà all'esperienza» può essere realizzato - e in ciò risiede uno degli aspetti più originali della proposta speculativa di Rosenzweig - solo in virtù di un pensiero capace di accogliere in se stesso filosofia e teologia: «La teologia non può umiliare la filosofia ad un ruolo ancillare, ma altrettanto degradante è il ruolo di donna a mensile (Monatsfrau) che la filosofia in tempi recenti e recentissimi si era abituata a pretendere dalla teologia. Il vero rapporto delle due scienze rinnovate [...] è fraterno, anzi deve condurre, nei rispettivi esponenti, ad una sorta di unione personale. I problemi teologici vogliono essere tradotti in umano e quelli umani vogliono essere estesi fino al teologico» (Il nuovo pensiero, cit., pp. 59-60). Infatti, rifacendosi alle tesi della «rivelazione come orientamento» (Offenbarung als Orientierung), professate dall’amico Rosenstock, e alle dottrine dell’ultimo Schelling, Rosenzweig vagheggia un tipo di filosofia teologica o di teologia filosofica che non è né filosofia né teologia - nel senso ristretto e tradizionale di tali vocaboli - bensì una sorta di tertium genus scientiae capace di includere, su di un piano più alto, le due discipline. Tant’è vero che nella parte finale della Urzelle il nostro autore parla, sia pure in modo problematico, di una possibile fusione terminologica, oltreché concettuale, fra teo-logia e filo-sofia, ipotizzando di chiudere il triangolo delle scienze con una teo-sofia. Ma il nuovo termine, come osserva Bonola, «non verrà coniato; la parola “teosofia” è già carica di ben altra storia e quindi inutilizzabile perché pericolosa e fuorviarne. Nascerà invece la designazione orgogliosa ma opaca di “nuovo pensiero”» (Pietre di confine. Al limitare della «Stella della redenzione», introduz. alla trad. ital. di II nuovo pensiero, cit., p. 10). E in effetti, nella Stella, piano filosofico e piano teologico sono cosi strettamente intrecciati che ogni tentativo di separarli risulta destinato al fallimento.

Per sottolineare la sua contrapposizione al «vecchio» pensiero astratto, logico, intemporale e solitario, Rosenzweig parla anche di «pensiero grammaticale» (grammatisches Denken),

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ovvero di una filosofia che, intendendo il filosofo come «pensatore della parola» (Sprachdenker), sa nutrirsi del colloquio reale con l'altro e prendere sul serio il tempo, il quale, come vedremo (§ 1066), si configura come l’interna struttura della realtà: «In luogo del metodo del pensare, come è stato costituito da tutta la filosofia precedente, entra in campo il metodo del parlare. Il pensiero è senza tempo, vuole esserlo, vuole porre mille collegamenti in un sol colpo [...] Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli lo spunto. Vive soprattutto della vita degli altri [...] mentre il pensare è sempre solitario anche se avviene in comune tra più persone che “stanno filosofando insieme” [...]. Di qui nasce il senso di noia che generano per lo più i dialoghi filosofici, anche la maggior parte dei dialoghi platonici. Nel dialogo vero qualcosa accade sul serio, io non so prima che cosa l'altro mi dirà perché in realtà non so neppure che cosa dirò io» Ib., p. 57).

Chiarito il metodo seguito da Rosenzweig, vediamo ora come si articoli, nei suoi tratti essenziali, la contorta linea argomentativa della Stella, che Gershom Scholem ha definito come uno dei libri «più ardui di tutta la letteratura filosofica» (Franz Rosenzweig e il suo libro «La Stella della redenzione», 1930, trad. ital. in II nuovo pensiero, cit., pp. 75-98, p. 79).

1066. La trama dell'essere e la verità come compito.

La rottura della totalità e il fallimento dell’idealismo fanno si che il pensiero si trovi di fronte ai tre «elementi» di base che, da sempre, costituiscono il nucleo della sua esperienza dell’essere: Dio, il mondo e l’uomo. Questi tre elementi, ai quali è dedicata la prima parte della Stella, costituiscono ciò che Rosenzweig chiama «il premondo perenne» (die immerwährende Vorwelt). Essi hanno una natura pre-riflessiva che li pone oltre il pensare concettualmente determinato, come evidenzia il prefìsso meta, con cui Rosenzweig li qualifica. Infatti, non appena vengono liberati dalla fortezza panlogistica entro cui la filosofia li ha racchiusi, Dio, il mondo e l’uomo assumono la fisionomia di un Dio meta-fisico, di un mondo meta-logico e di un uomo meta-etico. Per il nostro pensiero questi tre «oggetti “irrazionali”» sono nulla. Ora, da tale nulla - cioè dal nostro non sapere di Dio, del mondo e dell’uomo - Rosenzweig, servendosi del linguaggio della matematica, fa emergere tre essenze astratte che corrispondono all’universo dei pagani, ossia al Dio vivente della mitologia, al mondo plastico dell’arte e all’uomo chiuso in se stesso della tragedia (La Stella, cit., pp. 25-87).

Queste «fattualità (Tatsächlichkeiten) ultime» sono logicamente irriducibili, sebbene la filosofia, nel corso del tempo, abbia cercato di riportarle l’una all’altra, come mostrano le tre epoche del pensiero europeo: l’antichità cosmologica, il medioevo teologico e la modernità antropologica. Infatti, per quanto cerchi di penetrare in profondità, l’esperienza, in Dio, è destinata a scoprire sempre e solo il divino; nel mondo, sempre e solo il mondano; nell’uomo, sempre e solo l’umano (Il nuovo pensiero, cit., p. 47). Tant’è vero che Rosenzweig, sforzandosi di sintetizzare il contenuto della prima parte della Stella, afferma che essa «non vuole insegnare null’altro se non che nessuno di questi tre grandi concetti fondamentali del

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pensiero filosofico può essere ricondotto ad uno degli altri [...] bensì all’inverso che ciascuno è da ricondurre solo a se stesso» Ib., p. 48).

Tuttavia, sebbene questo isolamento degli elementi rifletta un momento o uno stadio (quello «astratto» o «pagano») della percezione delle cose, esso non rispecchia ancora la concretezza e la globalità della nostra esperienza dell’essere. Infatti, nell’esperienza vivente dell’umanità Dio, il mondo e l’uomo non sono separati, ma connessi. E ciò accade non in virtù della teoria, ma grazie all’esistenza stessa: «L’entrata in relazione si compie non per l’azione dello sguardo sinottico del filosofo, ma per la vita stessa degli elementi che straripa al di là della loro essenza, dando luogo al tempo. La vita, miracolo dei miracoli, fatto originale della religione! Dio entra in rapporto con il mondo e con l’uomo, l’uomo con il mondo. La religione non è qui una “confessione”, ma la trama o il dramma dell’essere, prima ancora della totalizzazione della filosofia» (E. Lévinas, Fuori dal soggetto, trad, ital., Marietti, Genova 1992, p. 59). L’osservazione di Lévinas coglie indubbiamente un aspetto centrale del pensiero di Rosenzweig, poiché sebbene egli affermi in maniera esplicita che «Dio non ha creato la religione, ma il mondo» (Gott hat nicht die Religion, sondem die Welt geschaffen) (Il nuovo pensiero, cit., p. 60) e nessuno più di lui sia ostile all’accezione «“untuosa”, mistica, pia, omiletica, clericale della religione», è certo che nel suo “sistema” la religione non rappresenta una realtà a parte, ma il modo stesso in cui l'essere è. In altri termini, prima di assumere un aspetto confessionale, la religione (da religare, unire) coincide, in Rosenzweig, con la pulsazione stessa della vita, ovvero con quella struttura cosmico-relazionale che connette Dio, il mondo e l’uomo.

Il legame che unisce Dio e il mondo è la creazione; il legame che unisce Dio e l’uomo è la rivelazione-, il legame che unisce l’uomo e il mondo è la redenzione. I concetti teologici di base (creazione-rivelazione-redenzione) divengono quindi, in Rosenzweig, vere e proprie «categorie ontologiche» (Lévinas) esprimenti la trama profonda del reale. Questa trama, che il nostro autore analizza nella seconda parte della Stella, la quale studia «il percorso» (die Babn) o «il mondo incessantemente rinnovato» (die allzeiterneuerte Welt), ha una valenza costitutivamente temporale. Procedendo ad una deformalizzazione del tempo, Rosenzweig dichiara che quest’ultimo non si dà originariamente come una forma pura ed omogenea dell’intuizione, ma come un’entità determinata dagli eventi stessi che la costituiscono. Infatti, è in virtù della creazione che il tempo assume il carattere del passato, cosi come è in virtù della rivelazione e della redenzione che esso assume il carattere del presente e del futuro (La Stella, cit., p. 252; Il nuovo pensiero, cit., p. 56).

La creazione si concretizza in un «dire» che permea le cose - «Egli disse e la cosa fu» (Sal. 33,9) - facendo si che la sequenza universale si risolva nella trama linguistica che la vivifica, secondo quanto penserà anche quell’affezionato lettore della Stella che è Benjamin (cfr. G. Scholem, Benjamin e il suo angelo, trad, ital., Adelphi, Milano 1978). Infatti, per Rosenzweig, il linguaggio non è solo un veicolo concreto del dialogo tra Dio e l’uomo o un indispensabile strumento di comunicazione fra gli individui, ma, più in generale, la forma stessa delle relazioni fra Dio, il mondo e l’uomo. Per cui, esso «non serve solo ad enunciare queste relazioni, ma è al tempo stesso, e soprattutto, il modo in cui esse si compiono» (A.

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Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990, p. 114).

La rivelazione si concretizza invece in un legame d’amore che va da Dio all’uomo. Anzi, la rivelazione è, in sostanza, questo amore stesso. Ma l’amore di Dio per l’uomo implica simultaneamente il comando dell’amore verso il prossimo (La Stella, cit., p. 230). L’amore verso il prossimo coincide a sua volta con la redenzione, ossia con l’allestimento del regno di Dio. Nella rivelazione è già dunque implicita la redenzione, la quale, ebraicamente, trova nell’uomo il suo mediatore. Dio, per Rosenzweig, non è soltanto colui che redime, ma anche colui che è redento: «Nella redenzione del mondo tramite l’uomo, dell’uomo nel mondo, Dio redime se stesso» (Ib., p. 256). In altri termini, è soltanto nella redenzione che Dio diviene ciò che il pensiero umano ha da sempre cercato e tuttavia non ha mai trovato, in quanto ancora non era, ossia il Tutto e l’Uno: «Il Tutto dei filosofi, che noi consapevolmente avevamo fatto a pezzi, qui, nel sole accecante della mezzanotte della redenzione giunta a perfetto compimento, si è infine, si, veramente infìne, unito per divenire l’Uno» (Ib.). Ciò significa che «l’unità è soltanto un divenire unità» (Ib., p. 277) e che per entrare nel giorno «in cui Dio sarà Uno e il suo Nome sarà Uno» (Zc. 14,9), l’Assoluto necessita del tempo, cioè di un orizzonte mobile in cui fare le sue esperienze come creatore, come rivelatore e come redentore-redento.

Alla totalità idealistica Rosenzweig contrappone quindi una nuova totalità filosofico-teologica incentrata sulla triade creazione-rivelazione-redenzione. Riproducendo in modo matematico l’ossatura del reale, Rosenzweig dispone gli elementi o le essenze statiche della prima parte tramite un triangolo equilatero avente al suo vertice superiore Dio e dispone le tre connessioni dinamiche della seconda parte con un triangolo equilatero rovesciato, avente al suo vertice inferiore la redenzione:

Dio Creazione Rivelazione

Mondo Uomo Redenzione

Intrecciando questi triangoli in modo che le due figure, anziché sovrapporsi, si intersechino l’una sull’altra, Rosenzweig ottiene invece la stella giudaica a sei punte, il magen David. Figura che, nelle intenzioni del nostro autore, esprime sinteticamente e visivamente la trama metafisica dell’essere e la cifra del corretto filosofare (Ib., p. 274 sgg.):

Dio

Creazione Rivelazione

Mondo Uomo

Redenzione

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Questo gusto per il «sistema» e per i simboli onnicomprensivi mostra come Rosenzweig, pur contrapponendosi ad Hegel, abbia finito per ereditare taluni aspetti della sua forma mentis, a cominciare dalla spinta verso la totalità. Questo nesso con l’hegelismo è anche evidenziato, tra le altre cose, dalla architettura formale della Stella, la quale risulta vistosamente costruita in modo triadico. Tre sono infatti le parti, tre i concetti-metafora che le indicano («gli elementi», «il percorso», «la figura»), tre le modalità del linguaggio (racconto, dialogo e coro), tre le essenze statiche (Dio, il mondo e l’uomo), tre le connessioni dinamiche (creazione, rivelazione e redenzione), tre i tempi cosmici ecc. Lo stesso tema della morte, cosi antihegelianamente imperioso all’inizio e ancora presente nel convincimento, tratto dal Cantico dei Cantici, che «Forte come la morte è l’amore» (6,4), finisce per essere riassorbito nella totalità escatologica del sistema: «Nell’eterno si celebra il trionfo sulla morte, che in esso è inghiottita. Nel corteo trionfale vengono portate e mostrate le armi infrante della morte. La morte aveva voluto falciare ogni vita [...] Qui al falciatore si spezza la falce. La morte era venuta cavalcando per tutte le strade [...] Qui al cavaliere si spezzano i garretti del ronzino. La morte aveva rinfacciato a ogni verità che essa era comunque legata ad un misero frammento di realtà e che già con questo negava la verità; e che quindi tutto doveva cadere davanti a lei. E ora qui di fronte a lei sventola il vessillo di una verità che viene conosciuta come eterna [...] Qui sul volto dello scheletro si raggela il ghigno certo della vittoria ed esso si inchina al decreto eterno» (Ib., p. 421).

Fermarsi alle prime pagine della Stella per fissare lo scontro fra la prospettiva totalizzante di Hegel e le rivendicazioni «esistenzialistiche» di Rosenzweig «può dunque apparire semplicistico o, se non altro, parziale e incapace di dar ragione al suo intero percorso speculativo. La sua traduzione in termini esistenzialistici è perciò riduttiva, anche se furono proprio gli elementi filosofici legati al pieno recupero dell’esistenza che più colpirono inizialmente gli studiosi del pensiero rosenzweighiano» (P.R. Sindoni, op. cit., p. 288; per i rapporti con l’idealismo e con Schelling cfr. pure i rilievi critici di M. Cacciari, Franz Rosenzweig in Aa. Vv., Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano 1991, vol. V, pp. 187-196).

Secondo la Stella, affinché la redenzione si compia e si attui la saldatura fra il tempo e l’eternità, risulta indispensabile che l’individuo si collochi in una collettività religiosa. Infatti, è proprio all’interno della «comunità dei fedeli», ossia nell’ambito di una struttura sovrapersonale, che la verità si fa strada nella storia. Le due comunità per eccellenza, quelle che incarnano nei secoli la verità e la volontà divina, sono l’ebraismo e il cristianesimo. Di questi due grandi quadranti della nostra esistenza spirituale, come li chiama Rosenzweig, e del loro rapporto con la verità, si occupa diffusamente la terza parte della Stella, intitolata «la figura e l’eterno sovramondo» (Die Gestalt oder die ewige Ueberwelt).

Rosenzweig descrive l’ebraismo tramite la categoria di «vita eterna», la quale è simboleggiata dal fuoco che arde dentro la stella e che si alimenta eternamente di se stesso (La Stella, cit., p. 319). E descrive il cristianesimo tramite la categoria di «via eterna», la quale è simboleggiata dai raggi luminosi che si sprigionano dal nucleo infuocato della stella (Ib., p. 360). In altri termini, secondo il nostro autore, l’ebraismo è la religione di un «popolo

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eterno» che si nutre della propria permanenza al di là del tempo e che incarna la vita e la vicinanza della comunità a Dio, mentre il cristianesimo è la religione di un popolo che incarna la via o la missione eterna attraverso il tempo. Per cui, mentre nell’ebraismo è il tempo che si fa eternità, nel cristianesimo è l’eternità che si fa tempo. Dal punto di vista dell’ebraismo irenico ed antifanatico di Rosenzweig ebraismo e cristianesimo rappresentano quindi due differenti modalità di accesso al Sacro, cioè due modi parziali di rapportarsi alla verità divina, o, se si vuole, due maniere complementari attraverso cui la verità divina si manifesta agli uomini. Da ciò la loro portata ontologico-universale. In altre parole ancora, se la religione, nel senso sopra precisato, è l’essenza dell’essere, ebraismo e cristianesimo si configurano come le due modalità di base attraverso cui «accade» storicamente l’unica verità di Dio (come si vede, si tratta di una posizione originale, che, al di là della inequivocabile scelta di fede dell’autore, si sforza di riconoscere la necessaria complementarità delle due religioni della Bibbia ai fini della salvezza).

Nell’ultima parte della Stella Rosenzweig si occupa del tema della verità e della sua testimonianza, pervenendo all’elaborazione di una «gnoseologia messianica» (messianische Erkenntnistheorie). Dopo aver chiarito che non «la verità è Dio» ma che «Dio è la verità», ossia che Dio, in quanto origine e luce del vero è «più» che la verità - proprio come ogni soggetto è più del suo predicato (Ib., pp. 413-15) - e dopo aver puntualizzato, contro la secolare «bestemmia filosofica» di matrice agostiniana, che noi non troviamo la verità in noi, bensì noi stessi nella verità Ib., p. 420), Rosenzweig teorizza una sorta di «prammatismo testimoniale» (G. Bonola), che affida ai singoli e ai popoli il compito di inverare, cioè di rendere autenticamente ed esistenzialmente tale, la verità. Infatti, ammonisce il nostro autore, il «camminare nella luce del volto di Dio», cioè il muoversi all’interno dello spazio aperto dalla stella della redenzione, la quale è la verità divina divenuta figura («volto che mi guarda e da cui io guardo»), è dato unicamente a colui che segue le parole della bocca di Dio - come traspare dai versi di Michea (6,8) riportati dalla Stella-, «egli ti ha detto, o uomo, ciò che è bene e ciò che esige da te l’Eterno tuo Dio, cioè praticare la giustizia, essere buono nel cuore e camminare in semplicità con il tuo Dio» Ib., p. 453).

A questo punto, avendo definitivamente precisato che il vero non è possesso logico, ma conquista etica, il libro è ormai concluso, poiché ciò che viene dopo è destinato a condurci «dal libro al non-più-libro», ovvero «nel centro quotidiano della vita» di nuovo pensiero, cit., p. 69). L’ultima parola del pensiero di Rosenzweig è quindi la vita, proprio come la morte ne era stato l’inizio: «Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l’esterno. Ma su che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita» (La Stella, cit., p. 454). Dalla morte all’amore e dall’amore alla vita. Ecco, in sintesi, la traiettoria della Stella.

Capitolo XIV.

WALTER BENJAMIN TRA EBRAISMO E MARXISMO

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di Franco Restaino

1067. Un itinerario filosofico complesso.

Walter Benjamin (1892-1940) ha dato molti problemi agli studiosi e agli interpreti del suo pensiero. Non è possibile classificarlo in una corrente filosofica precisa, e la mancanza di una sua opera organica ha contribuito a rendere difficile il tentativo di fornire una immagine unitaria del suo pensiero. Anche le vicende biografiche rendono alquanto complicato l’approccio alla sua produzione, buona parte della quale è apparsa in riviste più o meno note, di diversa collocazione politico-filosofica. Soltanto negli anni Settanta si è iniziata una edizione completa dei suoi scritti. A quegli anni risale anche la preziosa Storia di un’amicizia, pubblicata nel 1975 da Gershom Scholem, il grande storico ebraico della cabala e delle correnti mistiche dell’ebraismo, stretto amico di Benjamin dal 1916 in poi. L’edizione postuma degli scritti ha infine consentito alcuni pregevoli lavori d’insieme sul complesso della sua produzione teorica.

La fortuna di Benjamin è sostanzialmente tutta postuma. Ha avuto inizio negli anni Sessanta e nel decennio successivo ha raggiunto il suo apice. Nell’immediato dopoguerra il suo nome era pochissimo noto. Anche in Italia la sua fortuna è stata grande, forse più grande che in qualsiasi altro paese, e i suoi scritti principali sono stati pubblicati a cominciare dal 1962 presso Einaudi: di quell’anno è infatti l’importante raccolta dal titolo Angelus Novus che comprende buona parte dei suoi scritti più significativi, rappresentativi delle diverse fasi del suo pensiero maturo; nel 1966 usciva un’altra raccolta, L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, comprendente, oltre al saggio molto famoso che dà il titolo al libro, altri importanti saggi degli anni Trenta, quelli della sua grande vicinanza, personale, politica e teorica, nei confronti di Brecht; nel 1971 appariva II dramma barocco tedesco, l’opera che, conclusa nel 1925 e pubblicata nel 1928 senza alcun successo, rappresenta il culmine della fase premarxista della produzione di Benjamin. Altri scritti, tra i quali nel 1973 l’inedita e autobiografica Infanzia berlinese del 1932, apparivano, sempre presso Einaudi, negli anni successivi, consentendo l’accesso a tanti testi prima di allora non pubblicati. La fortuna del pensiero di Benjamin è stata molto grande soprattutto, ma non solo, nel campo delle riflessioni estetiche.

Benjamin, nato a Berlino in una famiglia benestante di ebrei integrati, si avvicina da giovane, già prima dell’ingresso all’Università nel 1912, al movimento della gioventù tedesca, molto organizzato e differenziato nella Berlino di quegli anni. Le sue simpatie vanno al settore individualista, antiautoritario e antiaccademico, vicino alla cerchia del poeta Stefan George. Si allontana dal movimento, nel quale aveva assunto posizioni direttive, allo scoppio della prima guerra mondiale, in quanto il movimento aderisce alla guerra mentre Benjamin è fortemente contrario. Frequenta l’Università in Germania in diverse sedi (Friburgo, Berlino, Monaco), e poi in Svizzera a Berna, dove si laurea nel 1919 con una tesi sul concetto di critica nel Romanticismo tedesco negli autori Novalis e F. Schlegel. Continua a vivere, anche dopo il matrimonio, con il contributo del padre, il quale lo fa tornare a Berlino perché si trovi un lavoro.

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Benjamin aveva pubblicato, fino ad allora, diversi articoli, su Hölderlin, su questioni legate ai dibattiti nel movimento studentesco, ma senza un interesse continuo e ben definito sul piano teorico. Del resto, non aveva scelto ancora una sua collocazione intellettuale o professionale, e la sua formazione universitaria era stata integrata dagli stimoli dell’amicizia con Gershom Scholem, che lo aveva condotto ad un’attenzione teorica molto forte ai temi della cultura e della tradizione cabbalistica ebraiche.

Questi primi anni di Berlino (1919-1924) sono caratterizzati da tentativi di iniziative editoriali non coronati da successo (fra questi, una rivista dalla testata «Angelus Novus», ispirata al titolo di un quadro di Klee acquistato da Benjamin in quegli anni), ma anche da pubblicazioni di saggi che ricevono una buona accoglienza: saggi su scrittori (su Hofmannsthal, sulle Affinità elettive di Goethe nel 1922), saggi teorici (Destino e carattere del 1919, Per la critica della violenza del 1921, e soprattutto Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo del 1923). Si occupa anche di traduzioni (Baudelaire, che costituirà un oggetto di interesse costante nelle sue riflessioni, come si vedrà, e Proust, sul quale si impegnerà a fondo), e questi interessi lo spingono a riflettere sul significato più profondo dell’attività di traduttore (del 1921 è lo scritto su II compito del traduttore).

Alcuni amici lo sollecitano a tentare la carriera accademica. Senza molta convinzione, Benjamin ci prova. Stende tra il 1923 e il 1925 l’unico suo testo che abbia la consistenza di un libro, quello sulla origine del dramma barocco tedesco. Lo presenta per la libera docenza all’Università di Francoforte, ma sia il professore di letteratura tedesca sia quello di estetica gli suggeriscono di ritirare la domanda, non avendo trovato nel saggio ragioni sufficienti per la concessione della docenza (una delle battute di uno dei professori diceva che non era prevista la libera docenza per la sola intelligenza). Benjamin pubblicherà il volume nel 1928, ma pressoché nessuno ne parlerà.

Benjamin, comunque, apprezzato per i saggi apparsi su alcune riviste nei primi anni Venti, continua a pubblicare su diversi periodici e a mantenersi con tale attività. L’amico Scholem, trasferitosi in Palestina nel 1923, tenta ripetutamente (anche con appositi invii di denaro) di convincere Benjamin a trasferirsi anch’egli, e la cosa sembra davvero fatta, tra il 1928 e il 1929. Ma all’ultimo momento Benjamin decide di non compiere il gran passo.

Grande influsso, dal 1924 e in misura crescente negli anni successivi, avrà su Benjamin il marxismo. In vacanza a Capri nel 1924, con Ernst Bloch che conosce dal 1919 e dal quale ha avuto notizia degli scritti di Lukàcs (in particolare quelli raccolti in Storia e coscienza di classe nel 1923), e con la regista sovietica Asja Lacis con la quale si legherà per alcuni anni, Benjamin rivolge la sua attenzione, politica e teorica, al marxismo e al comuniSmo. Va a Mosca nel 1926, ed è tentato di rimanervi, ma resiste alla tentazione. Un volumetto di aforismi pubblicato nel 1928, Strada a senso unico, documenta il suo avvicinamento al marxismo. Ritorna a Mosca nel 1929, anno in cui, a Berlino, conosce tramite Asja Lacis il già affermato Bertolt Brecht. Nasce tra i due un’amicizia dalla quale Benjamin ricava, come più volte dichiarerà, una spinta decisiva sia sul piano politico sia sul piano filosofico.

I primi anni Trenta vedono un Benjamin fortemente impegnato tra gli intellettuali comunisti, anche se non si iscriverà mai al partito. Sono questi gli anni che lo vedono pure in rapporto

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con Horkheimer e Adorno, i quali hanno portato fuori della Germania i fondi dell'Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte. Con l’avvento del nazismo, costretto all’esilio, sceglie Parigi, dove già era stato in altre occasioni. Vive fra notevoli difficoltà economiche, anche se gli arrivano dagli Stati Uniti, dai francofortesi, i compensi per le sue collaborazioni alla loro rivista. Compone alcuni dei suoi saggi più noti, tra i quali quello del 1936 sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, e altri su Fuchs, su Brecht, su Kafka, su Baudelaire. Dà inizio ad un progetto ambizioso sui Passages parigini, e ne invia nel 1935 ad Adorno un abbozzo nello scritto Parigi. La capitale del XIX secolo. Tra il 1939 e il 1940 compone un breve scritto, Tesi di filosofia della storia, molto discusso e variamente interpretato dagli studiosi. É un distacco dal marxismo? É un ritorno all’ebraismo? Come si vedrà, il testo composto da aforismi e brani staccati si presta a interpretazioni contrastanti. In fuga dai nazisti che occupano la Francia, dopo aver ricevuto il tanto atteso visto per gli Stati Uniti, un’imprevista difficoltà alla frontiera franco-spagnola lo spinge a suicidarsi ingerendo compresse di morfina.

Possiamo distinguere tre fasi nella produzione del Benjamin maturo, che comincia con il 1919. La prima è quella degli interessi che si accentrano sulle tematiche speculativo-linguistiche, con riferimenti indiretti a tematiche cabalistiche, e si conclude con il volume II dramma barocco tedesco del 1928 (è la fase in cui contano molto le amicizie di Bloch e di Scholem). La seconda è quella di forte vicinanza al marxismo, dei grandi saggi su tematiche prevalentemente estetiche (spicca il saggio del 1936 L’opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica), e conta molto, in questa fase, l’amicizia con Brecht. La terza, degli ultimi mesi fra il 1939 e il 1940, è quella del tormentato ripensamento teorico documentato dalle Tesi di filosofia della storia.

1068. Fra cabbala e Bibbia: lingua, nomi, cose, Dio.

Nell’interesse di Benjamin per il problema della lingua, della parola, del nome, possiamo individuare un percorso che lo porta da un’accentuazione di tipo cabalistico (probabile influenza dell’amico Scholem, studioso della cabala) nei primi anni Venti ad un’accentuazione di tipo platonico nel successivo libro sul dramma barocco tedesco.

Già qualche accenno importante al tema della lingua è riscontrabile nel saggio del 1921 Per la critica della violenza. Qui, dopo aver mostrato come ogni potere sia violenza, ed essersi soffermato sulla presenza della violenza sia negli scioperi sia nel militarismo, Benjamin afferma che l’unico mezzo di regolamento non violento di conflitti, personali, di classe, di stati, è quello rappresentato dai «mezzi puri di intesa». Questi mezzi, in ultima istanza, vengono fatti risalire alla lingua, giacché, afferma Benjamin, «c’è una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell’ “intendersi”, la lingua» (in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 18).

Ma che cos’è la lingua? Che cosa opera, nella lingua e nel suo rapporto con gli esseri umani, con le cose, con Dio? Benjamin affronta questa serie di problemi nel fondamentale saggio del 1923 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. Non è il saggio di un linguista, semmai sembra il saggio di un teologo o di un esegeta biblico della tradizione cabalistica (la

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lettura del libro del 1960 di G. Scholem, La kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, può facilitare la comprensione di questi scritti di Benjamin).

La lingua appare, in questo saggio, non come il frutto dell’operare umano ma come creazione divina. La lingua non è considerata come uno strumento di comunicazione di cose ma come una realtà che comunica se stessa. Nominare le cose, per Benjamin, non significa comunicarle, ma comunicare l’essenza spirituale della lingua e di chi la usa: «L’uomo comunica la sua propria essenza spirituale nella sua lingua. Ma la lingua dell’uomo parla in parole. L’uomo comunica quindi la sua propria essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) nominando tutte le cose. [...] L’essenza linguistica dell’uomo è quindi di nominare le cose» (Ib., p. 56).

Ma perché l’uomo nomina le cose? A chi si comunica l’uomo? Benjamin dà una risposta complessa, che porta, attraverso la comunicazione di se stesso dell’uomo all’altro uomo, alla comunicazione di se stesso a Dio: «Nel nome l’essere spirituale dell’uomo si comunica a Dio» (Ib., p. 57). Il nome, quindi, è per Benjamin «l’essenza più intima della lingua stessa», e «dove l’essenza spirituale nella sua comunicazione è la lingua stessa nella sua assoluta interezza, là soltanto vi è il nome, e là vi è il nome soltanto. Il nome come patrimonio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa è l’essenza spirituale dell’uomo; e solo perciò l’essenza spirituale dell’uomo, solo fra tutti gli esseri spirituali, è interamente comunicabile» Ib.). L’uomo è colui che nomina, scrive Benjamin riferendosi implicitamente alla Genesi. «Egli è il signore della natura e può nominare le cose. Solo attraverso l’essenza linguistica delle cose egli perviene da se stesso alla loro conoscenza - nel nome. La creazione di Dio si completa quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo, da cui nel nome parla solo la lingua. Si può definire il nome come la lingua della lingua» Ib.).

Dio, l’uomo, le cose. Il connettivo, tra queste realtà gerarchicamente intese, è la lingua, è il nome. Benjamin parla anche di «rivelazione» a proposito della funzione da lui assegnata alla lingua e al nome. È la rivelazione tramite la quale le cose, che di per sé sono mute e comunicano fra di loro soltanto tramite rapporti materiali, rapporti in qualche misura «magici», entrano nella lingua in una sorta di comunità immateriale, anch’essa magica, di cui è signore l’uomo: «L’incomparabile del linguaggio umano è che la sua comunità magica con le cose è immateriale e puramente spirituale, e di ciò il suono è il simbolo. Questo fatto simbolico è espresso dalla Bibbia col dire che Dio ha ispirato all’uomo il fiato: che è insieme vita e spirito e lingua» (Ib., p. 60).

Benjamin argomenta questa tesi attraverso il commento di alcuni passi cruciali del libro della Genesi, dal quale risulta che «il ritmo secondo il quale si compie la creazione della natura (secondo Genesi, I) è: sia (fiat) - fece (creò) - nominò»; per cui appare «la profonda e chiara relazione dell’atto della creazione alla lingua. Esso ha inizio con l’onnipotenza creatrice della lingua, e alla fine la lingua s’incorpora, per cosi dire, l’oggetto creato, lo nomina. Essa è quindi ciò che crea e ciò che compie, è il verbo e il nome. In Dio il nome è creatore perché è verbo, e il verbo di Dio è conoscente perché è nome» (Ib., p. 61).

Negli stessi passi biblici Benjamin scopre anche il particolare e privilegiato rapporto dell’uomo con Dio, rapporto che lo differenzia dalle cose, giacché «di tutti gli esseri l’uomo è

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il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come è il solo che Dio non ha nominato» (Ib., p. 62). Dio nomina le cose o direttamente, nell’atto della creazione, o attraverso l’uomo, il quale nel nominare le cose assume una sorta di qualità divina: «Il nome proprio [cioè l’atto del dare nomi propri] è la comunità dell’uomo con la parola creatrice di Dio» (Ib., p. 63). Nel nominare le cose, e se stesso, l’uomo si accomuna a Dio.

Benjamin vede nel paradiso terrestre il momento di maggior pienezza dell’esercizio del nominare, e quindi del conoscere, da parte dell’uomo. Il peccato originale rompe questa situazione, giacché spinge l’uomo non a nominare ma a giudicare (del bene e del male, che non sono compiti suoi): «D sapere del bene e del male abbandona il nome, è una conoscenza estrinseca, l’imitazione improduttiva del verbo creatore. Il nome esce da se stesso in questa conoscenza: il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana, in cui il nome non vive più intatto. [...] Questa parola giudicante scaccia i primi uomini dal paradiso; essi stessi l’hanno provocata, secondo un’eterna legge per cui questa parola giudicante punisce - e attende - la provocazione di sé come la sola e più profonda colpa» (Ib., p. 66). E' la colpa del passaggio dal nominare al giudicare, del fare della lingua un mezzo e non un fine, la colpa che porta all’astrazione, alla confusione delle lingue, alla «iperdenominazione» derivante dalla babelica moltiplicazione delle lingue. In realtà, scrive Benjamin, «le cose non hanno nomi propri fuori che in Dio. Poiché Dio le ha bensì evocate nel verbo creatore coi loro nomi propri. Ma nella lingua degli uomini esse sono iperdenominate» (Ib., p. 68).

Benjamin non conclude auspicando un ritorno alla situazione pre-babelica del paradiso terrestre, ma ribadendo il concetto chiave da cui è partito, che la lingua di un essere non è uno strumento ma «il medio in cui si comunica il suo essere spirituale. Il fiume ininterrotto di questa comunicazione scorre attraverso tutta la natura, dall’infimo esistente fino all’uomo e dall’uomo a Dio. L’uomo si comunica a Dio mediante il nome che dà alla natura e ai suoi simili (nel nome proprio), e alla natura dà il nome secondo la comunicazione che ne riceve, poiché anche l’intera natura è traversata da una lingua muta e senza nome, residuo del verbo creatore di Dio» (Ib., p. 70). La lingua, dunque, è come la grande catena dell’essere, che lega insieme Dio, le cose, l’uomo, in una comunità linguistica che trova nel nome, alla maniera dei cabalisti, il punto più alto d’incontro.

1069. Dalla cabala al platonismo: lingua, idee, verità.

La fine del percorso della prima fase dell’itinerario filosofico di Benjamin è rappresentata dal platonismo che, nel libro del 1928 II dramma barocco tedesco, integra e in qualche misura laicizza il precedente atteggiamento cabalistico. In quest’opera di lettura molto difficile Benjamin riprende, nella premessa gnoseologica, la tematica generale del rapporto tra lingua, cose e uomo, inserendola in un discorso che intende affrontare il tema dell’essenza e del compito della filosofia.

Benjamin distingue in maniera radicale la filosofia e le scienze. Queste ultime tendono ad avere, possedere, conoscenza, e realizzano tale tendenza tramite l’uso del metodo e del concetto, «che procede dalla spontaneità dell’intelletto»; adottano metodi e procedimenti di tipo induttivo o deduttivo, sono sostanzialmente soggettivistiche.

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La filosofia è invece una ricerca che ha come oggetto non la conoscenza ma la verità, le idee. Queste ultime vengono presentate e intese in senso platonico, ma anche come monadi leibniziane o come nomi del tipo di quelli formati da Adamo. Benjamin distingue nettamente tra concetti (oggetti delle scienze) e idee-monadi-nomi (oggetti della filosofia): «Mentre il concetto procede dalla spontaneità dell’intelletto, le idee si offrono all’osservazione. Le idee sono un che di già dato. Cosi, il fatto di distinguere la verità dalla connessione del conoscere definisce l’idea in quanto essere. E' questa la portata della teoria delle idee per il concetto di verità. In quanto essere, verità e idee assumono quell’altissimo significato metafisico che il sistema platonico loro conferisce» (Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pp. 6-7).

Un esempio viene tratto dal Simposio platonico, nell’accentuazione dell’Eros come desiderio di verità che si traduce in desiderio di contemplazione delle idee. Un atteggiamento filosofico, nettamente distinto da quello scientifico. Le grandi filosofie, al pari di quella di Platone, secondo Benjamin «rappresentano il mondo nell’ordine delle idee» (Ib., p. 8). Ma il mondo, le cose, sono qualcosa di subordinato, di gerarchicamente inferiore, rispetto alle idee. Le idee «non sono né i concetti né le leggi delle cose. Non servono alla conoscenza dei fenomeni e questi ultimi non possono in alcun modo fungere da criteri per il consistere delle idee. [...] Le idee sono costellazioni eterne, e in quanto gli elementi vengono concepiti come punti dentro simili costellazioni, i fenomeni vengono suddivisi e insieme salvati» (Ib., p. 11).

Le idee, scriverà più avanti, sono come le goethiane «madri faustiane» e si rivelano non nei processi scientifico-concettuali ma nella «visione». Una visione che costituisce la verità, che non ha nulla di soggettivistico, di empirico, che è potenza sovrastante l’empiria, e che riporta l’idea alla sua connessione intrinseca con il nome: connessione che si realizza come «simbolo»: «L’essere sottratto ad ogni fenomenicità, l’unico essere a cui spetti questa potenza, è quello del nome. Esso determina il darsi delle idee. Ma esse si danno non tanto in una lingua originaria, quanto a un’interrogazione originaria. [...] L’idea è un che di linguistico, più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide col momento in cui questa è simbolo» (Ib., p. 13).

Benjamin ritornerà in maniera ricorrente, nella trattazione specifica del dramma barocco tedesco, sul concetto di simbolo, distinguendo tra questa sua definizione e quella di origine romantica, deformante e fuorviarne. Qui egli insiste sul compito specifico della filosofia, che è quello di liberare il simbolo dai suoi legami empirici: «Nell’interrogazione empirica, in cui le parole si sono scomposte, alle parole inerisce, accanto al loro più o meno nascosto aspetto simbolico, un esplicito significato profano. È compito del filosofo ripristinare nel suo primato, mediante la rappresentazione, il carattere simbolico della parola, col quale l’idea perviene all’autotrasparenza, accordo che è l’esatto contrario di ogni comunicazione rivolta verso l’esterno» (Ib., pp. 13-14). Dove ritornano gli echi della comunicazione a Dio che abbiamo visto nel saggio sulla lingua del 1923.

Questo compito specifico ed elevatissimo della filosofia Benjamin lo riscontra realizzato in Platone, in Leibniz, ma soprattutto in Adamo, «padre dell’uomo in quanto padre della filosofia» (Ib., p. 14). La filosofia, nella sua storia, non è altro, per Benjamin, che «una lotta per la rappresentazione di poche singole parole, che sono sempre di nuovo le stesse - le

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idee» (Ib.). Anche qui riecheggia la tesi della origine divina, biblica, delle parole-nomi-idee, moltiplicate dalla confusione babelica successiva al peccato originale, e che la filosofia tenta di recuperare e ripristinare nella loro originarietà e autenticità. Ritorna pure il motivo della distinzione filosofia-scienze, giacché si insiste sul fatto che la filosofia interpreta, «vede» le idee, la verità. Il regno della filosofia «non si dipana secondo la linea ininterrotta delle deduzioni concettuali [e anche delle induzioni, aveva scritto precedentemente], bensì attraverso la descrizione del mondo delle idee. Il suo realizzarsi ricomincia da capo con ogni idea in quanto idea originaria» (Ib., p. 219).

Qui Benjamin inserisce l’analogia tra le idee e le monadi leibniziane: «L’idea è monade - in essa, come nell’interpretazione obiettiva dei fenomeni, riposa, prestabilita, la loro rappresentazione. Quanto più in alto sono ordinate le idee, tanto più perfetta è la rappresentazione che in esse si pone. [...] L’idea è monade - ciò significa in breve: ogni idea contiene l’immagine del mondo» (Ib., pp. 26-27).

Anche l’idea del dramma barocco è una sorta di monade, nella quale sussiste una rappresentazione, prestabilita, del mondo (in questo caso del mondo storico dell’epoca). Benjamin insiste sulla tesi che l’idea del dramma barocco tedesco non deve essere vista come il frutto di una ricerca storica empirica ma deve precedere la ricerca storica che riguarda soltanto i modi in cui quell’idea si è resa fenomeno. Questa tesi, ovviamente, non vale soltanto per il dramma barocco ma per qualsiasi tipo di opera o di forma artistica (il tragico, il comico, e tante altre).

Sul dramma barocco tedesco, secondo Benjamin, pesa un destino interpretativo risalente al Romanticismo e alla sua concezione del simbolo, visto come «relazione tra apparizione e essenza» (Ib., p. 163). Si tratta di un concetto «deforme» di simbolo, che ha prodotto una emarginazione, nella critica e nella storia, di quella forma d’arte, a vantaggio di quelle rinascimentali, che meglio si conformavano al concetto romantico di simbolo. Al simbolo inteso positivamente i romantici contrapponevano l’allegoria intesa negativamente: il primo, per loro, era l’equivalente della spontaneità creativa, la seconda dell’artificiosità sterile. Il primo porta ad una identificazione ottimistica tra uomo e natura, la seconda ad una considerazione pessimistica della storia: «Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo» (Ib., p. 170).

L’allegoria, in realtà, è stata intesa in maniera errata dai romantici e da chi si è ispirato a loro. Essa svolge un ruolo essenziale, dialettico, scrive Benjamin, nel dramma barocco, in quanto mette in luce le profonde antinomie della storia, riferita ad un supremo giudizio divino: «Ogni personaggio, qualsivoglia cosa, qualsiasi situazione possono significarne un’altra qualunque. Questa possibilità implica per il mondo profano un giudizio di annientamento, benché equo: esso viene contrassegnato come un mondo in cui in fondo il particolare non è poi tanto determinante» (Ib., p. 180). Nel dramma barocco tedesco l’allegoria serve a mettere in luce le antinomie, la precarietà, la insignificanza, a volte, delle cose umane, rapportate a un mondo divino di radicale diversità. Tramite l’allegoria, nel dramma barocco «la storia si è tangibilmente ridotta a palcoscenico. Più precisamente: cosi conformata, la storia si

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costituisce non come il dispiegarsi di un’eterna vita bensì come il processo di un inarrestabile decadimento. Con ciò l’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose. Da ciò il culto barocco della rovina» (Ib., p. 184).

Benjamin non si limita, nel saggio, a teorizzare, ma porta numerosi ed efficaci esempi di allegorie barocche. Queste vengono contrapposte, per il loro rifarsi alla storia, sia all’ottimismo rinascimentale, che predilige la natura, sia alla tragedia classica greca, che al posto della storia, o della natura, predilige secondo Benjamin il mito.

1070. La fase marxista: arte, tecnica, masse, politica.

Abbiamo già accennato al fatto che l’anno 1928 vede uscire, di Benjamin, sia il volume sul dramma barocco tedesco sia un volume di aforismi, Strada a senso unico. I due volumi segnano, il primo, la fine di una fase, il secondo, l’inizio di una seconda fase dell’itinerario filosofico del Benjamin maturo. Questa seconda fase è caratterizzata soprattutto da un estendersi notevolissimo dei suoi interessi per la letteratura e il teatro (si è già detto del rapporto con Brecht). Numerosi sono i saggi pubblicati in oltre dieci anni (la maggior parte si trovano nel volume Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, che comprende anche saggi degli anni Venti, e ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).

Tra i saggi degli anni Trenta spicca, per importanza e notorietà, quello del 1936 che dà il titolo al volume appena citato. Un saggio che ha esercitato grande influenza, negli anni Sessanta, nel dibattito estetico europeo, e soprattutto italiano. Benjamin individua, all’inizio del saggio, alcune caratteristiche dell’età contemporanea, assenti nel passato, per quanto riguarda la possibilità di riproduzione (ma anche di produzione, in certi casi) delle opere d’arte figurative. Queste caratteristiche sono ravvisabili nella funzione svolta dalla tecnica, dalla macchina, che sostituiscono la mano nella riproduzione. Il caso tipico è quello della fotografia, per la quale dobbiamo a Benjamin una delle prime ricostruzioni storiche in un saggio dei primi anni Trenta. Come l’artigiano, che fa pressoché tutto con le mani, viene sostituito nella società capitalistica dall’operaio che viene espropriato dalla macchina, cosi il vecchio operatore manuale, che disegnava con la mano le riproduzioni di quadri, monumenti, scene di vita, viene sostituito dal fotografo che si limita a premere il pulsante della macchina dopo aver scelto l’oggetto da fotografare. Il cinema aumenta le capacità di riproduzione, alle quali aggiunge anche quelle di produzione, con caratteristiche radicalmente differenti dalla produzione tradizionale, per esempio teatrale (un film si guarda come un’opera teatrale, ma viene prodotto in maniera totalmente diversa: si può girare l’ultima scena come prima, e solo il montaggio mette insieme e ordina il materiale filmato).

Benjamin sottolinea il valore di modernità e di maggiore accessibilità alle opere connesso alle nuove tecniche di riproduzione e di produzione artistica. Sottolinea però anche la perdita di qualcosa di prezioso con l’uso delle nuove tecniche: quella che chiama l’«aura», e cioè «l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova» (L'opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 22). L’aura corrisponde all’autenticità dell’opera, al suo legame insostituibile con il contesto

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in cui è stata prodotta. Ora, secondo Benjamin, proprio «l’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica» (Ib.).

Ai concetti di aura, di autenticità, viene associato quello di «valore cultuale» dell’opera d’arte, che si riferisce al fatto che nella plurimillenaria tradizione dell’arte le opere sono state prodotte pressoché tutte nell’ambito delle necessità del culto. Solo raramente, nel passato, il «valore espositivo», cioè quello per cui l’opera viene prodotta al di fuori dei bisogni del culto, per essere soltanto esposta all’ammirazione, ha prevalso sul «valore cultuale». Ora, l’età contemporanea secondo Benjamin ha liberato pressoché totalmente l’arte dalla subordinazione al valore cultuale e l’ha collegata quasi esclusivamente al valore espositivo: le opere trovano la loro sede naturale nei musei, nelle gallerie, nel mercato dell’arte.

Quali problemi, estetici e di altro genere, vengono a presentarsi in queste nuove situazioni? Secondo Benjamin, che in proposito non condivide le diagnosi pessimistiche dell’amico francofortese Adorno, l’emergere in primo piano sia della riproducibilità (o anche producibilità) tecnica sia del valore espositivo delle opere d’arte non costituisce un fatto negativo. Si perfeziona e raffina la sensibilità non solo di pochi ma delle masse (al cinema ci si distrae, ma nella distrazione opera anche il giudizio - e qui riecheggiano alcune posizioni dell’amico Brecht): «La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione» (Ib., p. 44).

Questo riferimento positivo alle masse nella loro fruizione dell’opera d’arte (in particolare, si diceva, del cinema) viene accompagnato in Benjamin da un riferimento positivo relativo alla sfera della politica. L’esperienza che viveva Benjamin era quella della «estetizzazione della politica» da parte dei regimi fascista e nazista (le grandi parate militari, le adunate di massa per i discorsi dei dittatori, l’ossessione delle uniformi), che avevano asservito anche 1’arte di massa ai fini del mantenimento del consenso. Benjamin - e con lui Brecht - pensa che sia possibile, nella nuova sensibilità estetica raggiunta dalle masse tramite le nuove tecniche, contrastare quella estetizzazione della politica con la «politicizzazione dell’arte»: cioè con la utilizzazione dell’arte per fini politici progressivi.

Riflessioni estetico-politiche dirette alle stesse conclusioni vengono proposte negli stessi anni da Benjamin in altri saggi, tra i quali sono da citare qui quelli su Brecht, quelli su Baudelaire e quelli sui «passages» parigini e su Parigi capitale del xix secolo.

1071. Le «Tesi di filosofia della storia»: tra ebraismo e marxismo.

Benjamin scrive le Tesi di filosofia della storia negli ultimi mesi della sua vita, tra la fine del 1939 e la primavera del 1940. È un periodo di sconvolgimento radicale della situazione europea, con lo scatenamento della guerra da parte di Hitler. Un periodo in cui lo stesso Benjamin si pone il problema della salvezza della propria vita oltre che del destino dell’umanità in generale e delle classi oppresse in particolare. L’orizzonte, ai suoi occhi, è ulteriormente oscurato dallo sciagurato patto fra Hitler e Stalin nell’agosto 1939, che pone problemi drammatici nelle coscienze e nelle intelligenze più interessate alle sorti del movimento operaio organizzato.

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In questo quadro sono da considerare le Tesi, la cui ispirazione redentrice è rivolta più al passato che aJ futuro, con una originale concezione del tempo, della memoria, della storia, del nesso continuità-discontinuità. Benjamin si professa aderente al materialismo storico; ne presenta però una versione non solo antisocialdemocratica e antistoricistica ma connessa alla teologia. Il materialismo storico deve vincere, scrive nella prima tesi, e «può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, come noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno» (Angelus Novus, cit., p. 75).

L’incontro tra materialismo storico, notoriamente nemico di ogni teologia, e la teologia, viene proposto da Benjamin nell’ambito di una concezione della storia nella quale svolge un ruolo decisivo il rapporto col passato più che col futuro e un riferimento di grande profondità alla tematica della redenzione e del messianismo. E' nel passato, nella storia dei vinti, che dobbiamo e possiamo trovare la luce, quell’idea di redenzione che deve e può spingerci alla rottura rivoluzionaria e insieme messianica con il presente.

Queste tesi di Benjamin sono espresse in un linguaggio tormentato, comprensibile se si tiene conto del filone ebraico che ora emerge con forza nelle sue riflessioni, congiunto ad una riaffermazione del carattere rivoluzionario, «discontinuista», del materialismo storico. «Il passato - scrive Benjamin - reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. Ce un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa» (Ib., p. 76).

Il materialista storico, il Messia, traggono ispirazione dagli insegnamenti del passato, respingendone i valori e i caratteri ad esso impressi (il conformismo) dai vincitori di ieri e di oggi (l’Anticristo), facendo proprie le istanze di redenzione dei vinti di ieri e di oggi: «In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo» (Ib., p. 78).

Il materialista storico, il Messia, non deve immedesimarsi con il patrimonio culturale, come fa lo storicista, che in tal modo si immedesima con il vincitore, giacché «i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento» (Ib.). Il materialista storico deve avere un atteggiamento di distacco nei confronti del patrimonio culturale. Con toni ed espressioni che riecheggiano Brecht (si ricordi la poesia sulle Piramidi, i Faraoni e gli schiavi che le hanno costruite), Benjamin cosi motiva l’atteggiamento di distacco del materialista storico: «Poiché tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie. E come, in sé, non è immune dalla barbarie, non lo è nemmeno il processo della tradizione per cui è passato dall’uno all’altro» (Ib., p. 79).

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Benjamin dedica diverse tesi alla critica aspra dell’atteggiamento contrario, quello continuista, storicista, socialdemocratico, che crede in maniera acritica nel progresso e guarda al futuro come a qualcosa di inevitabilmente migliore del passato; un atteggiamento che toglie alle masse oppresse quell’odio verso il nemico che viene invece conservato se si guarda al passato: «Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente» (Ib., p. 81).

Benjamin contrappone a questo atteggiamento continuista, evoluzionista, storicista, già presente nel programma di Gotha del 1875 cosi giustamente criticato da Marx, l’atteggiamento del marxismo autentico, discontinuista, rivoluzionario, che rompe con il presente perché è carico della oppressione del passato: «D soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx essa appare come l’ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti» (Ib., p. 82). Presente per breve tempo nel periodo della Lega di Spartaco (Germania 1918-1919), questo tipo di marxismo volontarista, vendicatore, carico di odio, è stato messo da parte dalla socialdemocrazia storicista e continuista, la quale «si compiaceva di assegnare alla classe operaia la patte di redentrice delle generazioni future. E cosi le spezzava il nerbo migliore della sua forza. La classe disapprese, a questa scuola, sia l’odio sia la volontà di sacrificio. Poiché entrambi si alimentano all’immagine degli avi asserviti, e non all’ideale dei liberi nipoti» (Ib.).

E' un passo molto significativo, questo, che chiarisce in maniera molto semplice la radicaUtà del contrasto tra la concezione marxista di Benjamin (volontarista, carica dell’odio derivante dalla coscienza della oppressione passata e presente) e quella dominante nella tradizione socialdemocratica e, in sostanza, in quella comunista di quel periodo.

Benjamin associa a questa concezione del marxismo una concezione della storia e del tempo che mette in primo piano non la continuità ma la discontinuità: «Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materiaUsta storico non può rinunciare. [...] Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materiaUsta storico un’esperienza unica con esso. [...] Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum deUa storia» Ib., pp. 84-85). La rivoluzione è il frutto di questa rottura nel presente, che può trarre, e in genere trae, ispirazione nel passato. Cosi è stato nella Rivoluzione francese, che con Robespierre e altri veniva intesa come una Roma repubblicana ritornata. La rottura rivoluzionaria, quindi, con questo ritorno del passato che per qualche aspetto la assimila aUa moda, «è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo, sotto il cielo Ubero deUa storia, è quello dialettico, come Marx ha inteso la rivoluzione» (Ib., p. 84).

Concludiamo l’analisi deUe Tesi di filosofia della storia citando un brano molto efficace, che le collega con l’ispirazione ebraica che nei primi anni Venti (quello dell’acquisto del quadro Angelus Novus e del tentativo di una rivista con tale testata) aveva caratterizzato le riflessioni di Benjamin: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gU occhi spalancati, la bocca aperta, le aU distese. L’angelo deUa storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula

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senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta» (Ib., p. 80).

É' un brano enigmatico, dove ebraismo e marxismo si fondono o giustappongono, a seconda di come lo si interpreti. L’angelo nuovo, per Benjamin, è l’angelo vendicatore, la classe oppressa del presente che vendica l’oppressione del passato, un angelo biblico e marxista insieme.

Capitolo XV.

BUBER: LA FILOSOFIA RELAZIONALE E DIALOGICA

di Giovanni Fornero

1072. Vita e opere.

La filosofia della relazione e del dialogo trova nel pensatore ebreo Martin Buber uno dei suoi più raffinati teorici novecenteschi.

Martin Buber nasce a Vienna l’8 febbraio 1878. A tre anni, in seguito alla separazione dei genitori, viene portato a casa dei nonni patemi, in Galizia, dove acquisisce una notevole cultura di base, soprattutto linguistica. Tomato con il padre all’età di 14 anni, studia successivamente nelle Università di Vienna, Lipsia, Berlino, Basilea e Zurigo. Fra i suoi maestri berlinesi vi sono Georg Simmel e Wilhelm Dilthey. Dopo un periodo di dispersione ritorna nel seno dell’ebraismo, aderendo al movimento sionista, nel quale rimarrà sempre attivo, ma con atteggiamenti critici nei confronti delle tesi che attribuivano ad esso una portata prevalentemente politico-nazionalista. Nel 1923 pubblica la sua opera fondamentale Io e Tu. Nello stesso anno, inizia ad insegnare a Francoforte, dapprima scienza della religione ed etica ebraica, e in seguito religioni comparate. Nel 1925 incontra Franz Rosenzweig (§ 1063), con il quale intraprende la traduzione tedesca della Bibbia ebraica, che terminerà soltanto nel 1962. Dopo l’avvento del nazismo perde la cattedra, pur riuscendo, per alcuni anni, a dirigere scuole di cultura per ebrei adulti. Soltanto nel 1938, quando non gli è più possibile sopravvivere in Germania, si trasferisce a Gerusalemme, dove ricoprirà la cattedra di Filosofia sociale e di primo presidente dell’Accademia israeliana delle Scienze e delle Lettere. In Palestina Buber si mantiene su posizioni indipendenti, sia in campo religioso che politico, battendosi, fra l’altro, per una pacifica coesistenza fra arabi ed ebrei e difendendo, a livello intemazionale, gli ideali della pace e dell’incontro fra i popoli. Buber è mono a Gerusalemme il 12 giugno 1965. Sulla lapide della sua tomba sono incise le parole del suo salmo preferito: «Tuttavia, io sono sempre con Te» (Sai. 73, 23).

L’opera completa {Werke) di Buber è stata raccolta dalla Kòsel & Lambert Schneider Verlag di Mùnchen-Heidelberg e comprende gli Schriften zur Philosophic (Bd. I, 1962), gli Schriften zur Bihel (Bd. 11^1964) e gli Schriften zum Chassidismus (Bd. Ili, 1963), con il supplemento

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di altri tomi (1963 sgg.) contenenti scritti vari (considerazioni sugli ebrei, frammenti autobiografici, l’epistolario ecc.). Fra le opere di carattere filosofico comprese nelle Werke, alcune delle quali sono state pubblicate originariamente in ebraico o inglese, ricordiamo: Ich und Du (Io e Tu, 1923), Das Problem des Menschen (Il problema dell’uomo, 1943 in ebraico, 1947 in tedesco), Dialogisches Leben (Vita dialogica, 1947, raccoglie una serie di scritti, fra cui Ich und Du), Pfade in Utopia (Sentieri in Utopia, 1947 in ebraico, 1950 in tedesco), Gottesfinstemis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophic (Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofìa, 1952 in inglese, 1953 in tedesco). Fra i lavori di carattere storico-religioso ci limitiamo a ricordare: Die Geschichten des Rabbi Nachman (Le storie di Rabbi Nachman, 1906), Die Legende des Baal Schem (La leggenda del Baal Schem, 1908), Ekstatische Konfessionen (Confessioni estatiche, 1909), Der Glauben der Propheten (La fede dei profeti, 1940), Moses (Mosè, 1945 in ebraico, 1952 in tedesco), Die Erzah-lungen der Chassidim (I racconti dei Hassidim, 1949). Di altri scritti o raccolte di scritti diremo nel corso dell’esposizione.

1073. Ebraismo, hassidismo e filosofia.

Gli ambiti principali in cui si è mossa la multiforme attività di Buber - il quale, per suo conto, si definì semplicemente uno Schriftsteller, uno scrittore - sono la riflessione sull’ebraismo, lo studio della Bibbia, la rievocazione dello hassidismo e la filosofia.

Per quanto riguarda l’ebraismo, la rilevanza di Buber è stata quella di aver posto con forza la Judenfrage, la domanda fondamentale intorno all’identità ebraica: «Perché ci chiamiamo Ebrei? Solo perché cosi si chiamarono i nostri padri, per una consuetudine ereditaria? O il nostro nome ha radice in una realtà?», «Esiste una reale religiosità ebraica? Non dogma o norma, culto o regola, ma relazione particolare e vissuta dell’uomo con l’Assoluto che si dovrebbe, per la sua sostanza, dichiarare ebraica?» (Sette discorsi sull'ebraismo, trad. ital. Israel, Firenze 1923, pp. 3 e 4). Infatti, consapevole che a nessun altro popolo come all’ebreo è stato contestato il diritto all’esistenza e che agli occhi dei più l’ebraismo tende a configurarsi come un morto residuo del passato, Buber ha cercato di «mostrare al mondo occidentale che l’ebraismo esiste come attualità di vita e di pensiero» (E. Lévinas, Fuori dal Soggetto, trad. ital. Marietti, Genova 1992, p. 12) e che esso «ha prima di tutto non un passato, ma un avvenire» (Sette discorsi sull'ebraismo, cit., p. 15). Secondo Buber una prima specificità dell’ebraismo è la coscienza della scissione e l’anelito all’unità: «Dalla discordia dell’Io tendendo all’unità, egli creò l’idea del Dio-Unità. Anelando dal dissidio della collettività umana all’unità, creò l’idea della universale giustizia. Dalla disunione degli esseri viventi aspirando all’unità, creò l’idea del sommo amore» (Ib., p. 25).

Un’altra specificità dell’ebraismo è la ricerca di uno stretto legame fra etica e religione, ovvero l’ideale della religiosità come azione e spinta messianica verso il futuro: «il nocciolo dell’Ebraismo è là dove l’assoluto è una faccia velata di Dio che vuole essere scoperta nell’azione umana» (Ib., p. 104), «La vera religiosità non ha [...] nulla di comune né coi sogni dei cuori esaltati, né coll’auto-godimento delle anime estetizzanti, né coi giuochi profondi di una intellettualità esercitata. La vera religiosità è azione» (Ib., p. 109). Secondo Buber, questi principi direttivi dell’ebraismo (unità, azione e futuro) sono anche i principi direttivi dell’umanità, per cui un autentico ritorno all’ebraismo coincide, a suo giudizio, con un

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ritorno alla vera umanità: «Il tendere dell’Ebreo all’unità fa dell’ebraismo un fenomeno dell’umanità, della questione ebraica una questione umana» (Ib., p. 21). In altri termini, attraverso la cultura ebraica Buber ha inteso parlare non solo dei problemi dell’ebraismo, ma anche dei problemi universali dell'uomo: «Buber parla sempre da ebreo. Ma egli non parla solo agli ebrei» (R. Weltsch, Nachwort a H. Kohn, Martin Buber - Sein Werk und seine Zeit. Ein Beitrage zur Geistesgeschicbte Mitteleuropas 1800-1930, Melzer, Colonia 19612, p. 414).

La convinzione che l’ebraismo abbia ancora qualcosa di molto importante da dire al mondo sta anche alla base della traduzione buberiana della Bibbia (prospettata come la «parola viva» che Dio ha rivolto al suo popolo) e del suo epico sforzo di «raccontare» lo hassidismo «da postero» (La leggenda del Baal-Scem, trad, ital.. Carnicci, Assisi 1978, p. 8). Lo hassidismo è una corrente dell’ebraismo europeo orientale sorta nel xvm secolo, ovvero un «movimento religioso popolare che dà origine ad un modello di vita e di guida comunitaria e ad una particolare concezione sociale [...] Estasi, entusiasmo di massa, coesione di gruppo strettissima, e guida carismatica di qualsiasi forma [ne] sono le caratteristiche socioreligiose distintive» (Encyclopaedia ]udaica, Gerusalemme 1972, voce «Hasidism»; cfr. A. Poma, La filosofia dialogica di Martin Buber, Rosenberg & Sellier, Torino 1974, p. 12).

Alla rievocazione di tale movimento - che Buber ha avuto il merito di portare all’attenzione degli studiosi, sia pure nell’ambito di un’interpretazione storicamente ed ermeneuticamente controversa - il nostro autore ha dedicato notevoli energie. Tante vero che un intero volume delle sue opere, come si è accennato, è intitolato Scritti hassidici. Della multiforme Weltanschauung hassidica Buber, con propositi dichiaratamente «selettivi» ha evidenziato soprattutto: 1) la concezione di Dio come luogo del mondo (der Ort der Welt); 2) l’idea del mondo come orizzonte in cui abita (einwohnt) o aleggia «l’esiliata gloria» (Schekina) di Dio. Gloria che spetta all’uomo di portare alla luce, in base al principio secondo cui se Israele ha «bisogno» di Dio, cosi Dio ha «bisogno» di Israele; 3) l’atteggiamento antiascetico e l’importanza attribuita all’azione, ovvero il senso divino di ogni, sia pur umile, impresa umana: «Il chassidismo [...] è un rinnovamento dell’idea di azione. Nell’azione si rivela per esso il vero senso della vita. Qui, in un modo ancora più chiaro e profondo che nel Cristianesimo primitivo, non vale ciò che si fa, ma ogni atto che avviene nella santificazione, cioè nell’intenzione del divino, è la via al cuore del mondo. Nulla esiste che sia male in sé; ogni passione può diventare virtù, ogni istinto “una carrozza per Dio”. Non la materia dell’atto è decisiva, ma la sua santificazione. Ogni atto è sacro se è diretto alla salvezza. Solo l’anima dell’attore determina il carattere dell’atto. Cosi l’azione è fatta davvero centro vitale della religiosità. E la sorte del mondo vien posta nella mano dell’attore. Per mezzo dell’atto santificato nella sua intenzione vengono liberate le cadute scintille divine sparse nelle cose e negli esseri - le anime erranti -, e cosi facendo l’attore contribuisce alla redenzione del mondo. Anzi, egli coopera alla redenzione di Dio medesimo, poiché grazie al supremo accumularsi e tendersi dell’azione, egli può avvicinare alla sua fonte, per un istante incommensurabile nell’ora della grazia, l’esiliata gloria di Dio e penetrare in essa» (Sette scritti sull’ebraismo, cit., p. 48).

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Per quanto concerne la filosofia, che è la sezione della sua opera che qui ci interessa specificamente, Buber ha elaborato una prospettiva di pensiero incentrata sul tema della relazione. Infatti, partendo dall’idea secondo cui l’uomo non è una sostanza, ma una trama di rapporti, Buber è pervenuto a quella che si potrebbe definire una forma di relazionismo personalista o di personalismo relazionista. Tale prospettiva, pur muovendo dalla «rivoluzione copernicana» avviata da Feuerbach «con la scoperta dell’Io e del tu», intende tuttavia salvaguardare, sulla scorta di Kierkegaard, il singolo e il suo rapporto con l’Assoluto. In altri termini, se in Feuerbach Buber ha visto un filosofo sensibile al rapporto io-tu, ma chiuso al rapporto io-Dio, in Kierkegaard ha scorto un filosofo sensibile al rapporto con l’Assoluto, ma chiuso al rapporto con gli altri. Da ciò il suo programma di una nuova antropologia (cfr. A. Poma, op. cit., p. XII e 33) capace di dar ragione dell’«uomo totale» e quindi non solo dei rapporti personali dell'uomo con le cose e con gli altri uomini, ma anche dei rapporti personali dell’uomo con Dio. E ciò all’interno di una valorizzazione religiosa del tema della «comunità».

1074. L’Io e il Tu.

«Il mondo ha due volti per l’uomo, in conformità al suo duplice modo di essere.

Duplice è il modo di essere dell’uomo, in conformità al dualismo delle parole-base, che egli può pronunciare.

Le parole-base non sono singole parole, ma coppie di parole.

Una parola-base è la coppia Io-Tu.

Un’altra parola-base è la coppia Io-Esso; senza mutare questa parola-base, si può sostituire a Esso anche Lui o Lei.

Con ciò anche l’Io dell’uomo ha due volti.

Poiché l’Io della parola-base Io-Tu non è lo stesso Io della parola-base Io-Esso» (Ich und Du, trad. ital. in II principio dialogico, Comunità, Milano 1958, p. 9; cfr. Werke, I, Schriften zur Philosophic, Kòsel-Lambert Schneider, Munchen-Heidelberg 1962, p. 79).

Questo testo, con cui inizia il capolavoro di Buber, rappresenta un autentico concentrato dei temi di fondo del suo pensiero. Cerchiamo di chiarirne la trama. Secondo Buber il mondo è duplice, perché l’uomo si può porre dinanzi ad esso in due maniere distinte e irriducibili, richiamate dalle due parole-base (Grundworte) che può pronunciare di fronte ad esso: Io-Tu (Ich-Du) e Io-Esso (lch-Es). A prima vista, si potrebbe pensare che la parola-base Io-Tu alluda ai rapporti dell’uomo con gli altri uomini e la parola-base Io-Esso indichi i rapporti degli uomini con le cose. In realtà, la questione non è cosi semplice, poiché Buber ci avverte sin dall’inizio che alla parola Esso si può sostituire anche Lui o Lei. Il principio discriminante risiede piuttosto nel fatto che la parola-base Io-Esso coincide con il mondo dell’esperienza (Erfahrung), mentre la parola-base Io-Tu coincide con il mondo della relazione (Beziehung) (Ib., p. 11; Werke, I, p. 81).

Fare «esperienza» di una cosa o di una persona, cioè entrare nello spazio del rapporto Io-Esso, significa porsi come un soggetto di fronte all’oggetto, ai fini di conoscerlo o di utilizzarlo. In altri termini, l’esperienza implica un rapporto impersonale e strumentale - e

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quindi di superficie - con l’alterità, in quanto l’Io, in essa, non partecipa veramente della vita di ciò con cui risulta in rapporto, ma si limita a fagocitare il mondo, o meglio la facciata del mondo, in se medesimo: «Chi fa esperienza non partecipa del mondo. Poiché l’esperienza è “in lui” e non tra lui e il mondo» (Ib., p. 11). Viceversa, la «relazione», ovvero il rapporto Io-Tu, allude ad un tipo di rapporto esclusivo tramite il quale l’Io si «apre» veramente all’altro e alle sue profondità, in modo immediato e totale. In altri termini, mentre l’Esso dell’esperienza si riduce ad una sorta di muta appendice del soggetto, il Tu della relazione è qualcosa che sta realmente fuori dell’Io e con cui quest’ultimo ha un rapporto vivo e personale, cioè basato su di un «incontro» (Begegnung) autentico, che lo coinvolge in pieno.

Lo spazio dell’Io-Tu, precisa Buber, non si limita soltanto all’incontro con le persone (secondo ambito di rapporti), poiché comprende anche la natura (primo ambito di rapporti) e le cosiddette entità spirituali (geistige Wesenheiten), ossia il mondo dei valori o delle forme (terzo ambito di rapporti). In ogni caso, l’Io della parola-base Io-Tu risulta profondamente diverso dall’Io della parola-base Io-Esso. Infatti, se il primo Io appare come un’individualità (Eingewesen), il secondo si configura come una persona (Person). La presenza di questo schema dualistico, corrispondente a quello di Marcel fra ètre e avoir, pur implicando la superiorità di uno dei due atteggiamenti (quello del-l’Io-Tu) non comporta che l’uomo possa vivere solo nella dimensione del Tu. Infatti, Buber riconosce esplicitamente che senza l’Esso, e quindi senza un rapporto strumentale con il mondo circostante, «l’uomo non può vivere», anche se egli si affretta ad aggiungere che colui che vive solo nella dimensione dell’Esso non è pienamente uomo. Del resto, nella realtà concreta «Nessun uomo è pura persona, nessuno è pura individualità [...] Ognuno vive nell’Io dal duplice volto; ma vi sono uomini cosi delineati nella loro persona da poter essere considerati persone, e uomini dotati di cosi chiare caratteristiche individuali, che si possono chiamare individualità. La vera storia si svolge nella zona intermedia» (Ib., pp. 59-60).

Inoltre, non si deve pensare che l’Io preceda il Tu. Infatti, il dato primordiale non è l’Io, che non esiste mai da solo, bensì il rapporto Io-Tu. In altri termini, gli uomini non sono originariamente degli enti autosufficienti, destinati ad entrare in contatto con l’alterità soltanto in seguito, poiché essi risultano inseriti, sin dall’inizio, nel mistero-evento della relazione. «All’inizio è la relazione», sentenzia Buber (Ib., p. 21), il quale scorge nello zwischen, nel «tra», la categoria originaria della realtà umana. In altri termini ancora, l’Io non è un prius, bensì un posterius poiché l’individuo, come ripete continua-mente il nostro autore, «si fa Io solo nel Tu» (Ib., p. 30, cfr. p. 16). La relazione sottintende quindi una reciprocità di base, grazie alla quale il mio Tu influisce su di me, come io su di lui. Infatti, il Tu pone o costituisce l’Io allo stesso modo di come l’Io pone o costituisce il Tu. Ma dire che la realtà o l’essere è una relazione vivente fra (zwischen) i due termini di fondo (Io-Tu) che la qualificano strutturalmente, significa presupporre, secondo Buber, che la coppia Io-Tu preceda la coppia Io-Esso. Del resto, come mostra l’esperienza dei primitivi e dei bambini, noi ci rapportiamo originariamente al mondo secondo la struttura Io-Tu e soltanto in seguito perveniamo alla nozione ipostatizzata dell’Io e alla struttura soggetto-oggetto.

Posto che la realtà vera sia relazione, ne segue, per Buber, che dove c’è egoismo e assenza di partecipazione non v’è nemmeno realtà: «È la partecipazione alla realtà che fa l’Io reale; ed

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esso è tanto più reale quanto più completa è la partecipazione» (Ib., p. 58). In quanto relazione e partecipazione la realtà è per sua natura dialogo, cioè rapporto o incontro vivo fra persone, nell'ambito del quale lo spirito, che è parola (Wort), si fa risposta (Antwort). Tale «incontro» non implica necessariamente l’intervento delle parole: «Il linguaggio rimane sempre tale anche se non è legato a manifestazioni percepibili [...] dove vi fu comunicazione immediata, pur anche muta, fra gli uomini, ebbe luogo la realizzazione sacramentale del dialogo» (Ib., pp. 109-110). La filosofia relazionale di Buber approda quindi a quella filosofia dialogica che rappresenta una delle proposte più innovative della sua opera e la dottrina in virtù della quale essa è entrata nella storia della filosofia.

Dopo aver trattato delle nozioni di libertà (Freiheit) e destino (Schicksa) e dopo aver puntualizzato che l’uomo libero è colui che non è deterministica-mente rinchiuso nel mondo dell’Esso, ma colui che partecipa della libera relazione con un Tu, nell’ambito di una sintesi finale tra libertà e destino, Buber, nella terza ed ultima parte di Ich und Du, tratta della relazione fra l’Io e Dio, che rappresenta il vertice della relazione Io-Tu e l’orizzonte cui rimanda ogni altro rapporto personale: «Ogni singolo Tu è un canale di osservazione verso il Tu eterno. Attraverso ogni singolo Tu la parola-base si indirizza all’eterno» (Ib., p. 67). La relazione con Dio, rappresentando l’estrema forma di dialogo, se da un lato presuppone che l’uomo possa rivolgere la parola a Dio, dall’altro presuppone che Dio possa rivolgere la parola all’uomo. In altri termini, ogni vero rapporto con l’Assoluto - e quindi ogni genuina forma di fede religiosa - implica la possibilità di una rivelazione. Tuttavia, poiché l’Assoluto è un Tu che non può mai divenire un Esso («Guai a colui che è invasato a tal punto da credere di possedere Dio») la divinità non si rivela mai cosi com’è in se stessa, poiché in tal caso si ridurrebbe ad un «oggetto» della conoscenza umana. Essa si manifesta soltanto come una vivificante presenza che, al di là di ogni contenuto o forma determinata, assiste l’uomo. Buber trova una conferma di tutto ciò nella Bibbia.

Quando Mosè, nel celebre passo dell’Esodo (3,13-14) chiede a Dio di dirgli il suo nome, ottiene in risposta: «'ehjeh 'asher 'ehjeh». Questa criptica formula viene solitamente tradotta con «io sono colui che sono» e viene tradizionalmente interpretata come una sorta di autodefinizione metafisica che Dio darebbe di se stesso in quanto Essere eterno. Ma ciò è inesatto, spiega Buber, che traducendo la Bibbia insieme a Rosenzweig era giunto alla conclusione che il verbo 'ehjeh non ha il significato statico ed astratto, di «essere», bensì il significato dinamico e concreto di «accadere», «divenire», «esserci», «esser presente» ecc. Per cui, la formula biblica viene meglio tradotta con «Io sarò presente come sarò presente» o «Io sarò qua cosi come sono qua» (ich werde da sein als der ich da sein werde) oppure, poiché in ebraico il tempo imperfetto comprende tanto il presente quanto il futuro, «Io sono presente come sono presente» o «Io sono qua cosi come Io sono qua» (Ich bin da sein als der ich da sein bin). (Cfr. Mosè, trad. ital. Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 34-50, in particolare p. 47 sgg.).

La presenza di Dio nel mondo non implica tuttavia, secondo Buber, che Dio sia il mondo. Il mondo è piuttosto il segno o il sacramento di Dio. Questa sacramentalità dell’essere si rivela, ai suoi massimi livelli, nel rapporto con gli altri: «La relazione con l’uomo è l’immagine propria della relazione con Dio» (Il principio dialogico, cit., p. 90). Anzi la comunità diviene,

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in Buber, una sorta di «categoria messianica» (H. Kohn, op. cit., p. 209), ovvero di centro focale della redenzione: «Attendiamo una teofania di cui non conosciamo che il luogo, e il luogo si chiama comunità» (Ib., p. 114). Di conseguenza, a differenza di quanto avviene in Kierkegaard, il rapporto religioso con Dio non esclude affatto il rapporto con il mondo e con gli altri: «Secondo il pensiero di Buber, il rapporto, diremo verticale, dell’uomo con Dio non deve togliere validità ai rapporti orizzontali mediante i quali egli è legato al suo mondo e attraverso i quali soltanto può trovare il valore positivo del proprio essere» (C. Levi Coen, Martin Buber, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1991, p. 7). In altri termini, solo impegnandosi nel mondo e solo assumendo la responsabilità (Verantwortung) di fronte agli altri, l’uomo perviene ad autentificare il rapporto teandrico, facendosi veramente compagno di Dio nella creazione: «Quando io ero bambino, lessi una vecchia leggenda ebraica che allora non potevo capire. Raccontava niente altro che questo: “Dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso ed aspetta. E il Messia”. Mi recai allora da un vecchio gli domandai: “Che cosa aspetta?” Ed il vecchio mi dette la risposta ch’io allora non capii e che ho imparato a capire molto più tardi. Egli mi disse: “Te”» (Sette discorsi, cit., p. 16).

In Das Problem des Menschen (1943) Buber offre una presentazione del proprio relazionismo alla luce del problema antropologico. La domanda intorno all’uomo, osserva Buber, emerge soprattutto nei momenti di crisi e di alienazione, cioè nei periodi in cui l’individuo, non sentendosi «a casa propria», avverte maggiormente la necessità di un auto-esame o di un’auto-riflessione (Selbstbesinnung) filosofica capace di illuminare le profondità del proprio essere: «Io distinguo nella storia del pensiero umano le epoche in cui l’uomo possiede una sua dimora (Epochen der Behaustbeit) dalle epoche in cui egli ne è senza (Hauslosigkeit). Nelle prime, l’uomo abita nel mondo come se abitasse in una casa, nelle altre, egli è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per innalzare una tenda. Nelle prime, il pensiero antropologico esiste solo in quanto è una parte del pensiero cosmologico; nelle seconde, il pensiero antropologico conquista la sua profondità e, con questa, la sua indipendenza» (Il problema dell’uomo, trad, ital., Ldc, Torino 1990, p. 35).

Le tre grandi «case» costruite dal pensiero occidentale sono quella «cosmologica» di Aristotele, quella «teologica» di Tommaso e quella «logologica» di Hegel. A queste filosofie si contrappongono invece quelle di Agostino, di Pascal o di Kierkegaard, ossia le antropologie nelle quali si è maggiormente espresso il dramma dell’uomo. Tuttavia, secondo Buber, l’antropologia filosofica del passato, compresa quella di Kant, di Feuerbach, di Marx e di Nietzsche, non ha saputo offrire una valida risposta al problema «che cos’è l’uomo» e non ha saputo prospettare la persona «nella integralità di tutti i suoi rapporti essenziali». Infatti, essa, o si è lasciata alle spalle il rapporto con il mondo o ha misconosciuto il rapporto con l’Assoluto e con il Mistero. Analogamente, per quanto riguarda il Novecento, sia Heidegger che Scheler non sono riusciti a cogliere adeguatamente la struttura relazionale dell’esistenza. Infatti, l’autore di Essere e tempo, pur riconoscendo la realtà dei legami sociali, finisce per considerarli come un ostacolo per il raggiungimento dell’autenticità. Inoltre, «secolarizzando» il singolo di Kierkegaard, egli spezza quel rapporto dell’uomo con l’Assoluto, grazie al quale soltanto l’uomo diviene tale (Ib., pp. 79-98). A sua volta, Scheler,

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separando istinto e spirito, finisce per declassare il primo all’animalità e il secondo all’impotenza e al solipsismo Ib., pp. 99-113).

In Buber il rifiuto dell’individualismo non implica tuttavia l’accettazione del collettivismo. Infatti, se l’individualismo considera solo «una parte» dell’uomo, il collettivismo considera l’uomo solo come «parte», con l’inevitabile esito di smarrire, in entrambi i casi, la realtà concreta del nostro essere: «Né l’uno né l’altro procede verso l’integralità dell’uomo, verso l’uomo come totalità [•••] Nell’uno il volto dell’uomo è deformato, nell’altro è mascherato» Ib., p. 119). Alla «falsa alternativa» fra individualismo e collettivismo Buber contrappone invece quel «terzo autentico» che è il proprio relazionismo personalista, il quale, insistendo sul principio dell’«uomo-con-l’uomo», ovvero sulla teoria dello Zwischen, riesce a salvaguardare sia la persona che il rapporto sociale (Ib., p. 122).

Sul piano politico (cfr. Pfade in Utopia, 1950, ediz. ebraica 1947) il comunitarismo di Buber si è concretizzato in una forma di socialismo utopistico avverso al materialismo e al centralismo marxista. Fortemente critico verso il comunismo sovietico e indirizzato a proporre come esempio di «non naufragio» i villaggi collettivi di Israele, Buber è giunto a prospettare Gerusalemme come una sorta di «altro polo» del socialismo, cui guardare in alternativa a Mosca: «Finché la Russia non subisce una sostanziale trasformazione interna (e oggi non possiamo ancora prevedere quando e come ciò avverrà), dobbiamo indicare uno dei poli del socialismo, fra cui va effettuata la scelta, col maestoso nome di Mosca. Malgrado tutto, oso chiamare l’altro polo “Gerusalemme”» (Sentieri in Utopia, trad. ital. Comunità, Milano 1967, p. 162).

1075. L’«eclissi» di Dio come risposta alla «morte» di Dio.

Un altro documento importante della filosofia di Buber è L'eclissi di Dio. In quest’opera, che raccoglie una serie di testi scritti intorno agli anni Cinquanta, il pensatore ebraico si misura con l’ateismo moderno, contrapponendo all’idea nietzschiana della «morte» di Dio l’originale concetto della «eclissi» di Dio (Gottesfinstemis).

Buber constata che attraverso i tempi si è eccessivamente abusato della parola “Dio”, sino ad ottenebrarne il significato, ma ritiene che essa non vada rifiutata, poiché tutte le volte che qualcuno la adopera per riferirsi al Tu assoluto, allora essa acquista un insostituibile valore esistenziale: «“Si”, risposi, è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessun’altra è stata tanto insudiciata e lacerata. Proprio per questo non devo rinunciare ad essa. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue. Dove potrei trovare una parola che gli assomigliasse per indicare l’Altissimo? Se prendessi il concetto più puro e più splendido dalla tesoreria più riposta dei filosofi, vi potrei trovare soltanto una pallida idea ma non la presenza di colui che intendo, di colui che generazioni di uomini con le loro innumerevoli vite e morti hanno onorato e denigrato. Intendo parlare di quell’Essere a cui si rivolge l’umanità straziata ed esultante. Certamente essi disegnano caricature e scrivono sotto “Dio”; si uccidono a vicenda e lo fanno “in nome

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di Dio”. Ma quando scompare ogni illusione e ogni inganno, quando gli stanno di fronte nell’oscurità più profonda e non dicono più “Egli, Egli”, ma sospirano “Tu, Tu” e implorano “Tu”, intendono lo stesso essere; e quando vi aggiungono “Dio”, non invocano forse il vero Dio, l’unico vivente, il Dio delle creature umane?» (L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, trad, ital., Mondadori, Milano 1990, p. 22).

Ciò non toglie che proprio il Dio vivente appaia, oggigiorno, irrimediabilmente perduto. Infatti, nell’ambito della nostra civiltà, il Tu divino è stato ridotto ad un impersonale Esso, ovvero ad un oggetto che la mente dell’uomo pretende di osservare, di comprendere e, in definitiva, di possedere. In tal modo, gli uomini hanno smesso di considerare Dio come un Altro che realmente e sovra-umanamente esiste, sino a ridurlo ad una proiezione di loro stessi: «In certi tempi gli uomini “credono” in una realtà indipendente, dotata di esistenza propria, con la quale hanno un rapporto effettivo e della quale, come ben sanno, possono farsi soltanto una rappresentazione assai inadeguata. In altre epoche, invece, al posto della realtà vi è una rappresentazione di essa, che si “ha” e che si può maneggiare conformemente; oppure rimane il residuo della rappresentazione, il concetto, che mostra soltanto le tracce sbiadite dell’antica immagine. Gli uomini, che sono ancora “religiosi” in tempi simili, per lo più non si rendono conto che il rapporto, creduto religioso, non è più tra loro e una realtà indipendente, bensì si stabilisce entro il loro stesso spirito, uno spirito che comprende immagini, “idee” divenute indipendenti» (Ib., p. 25). Questo processo di fagocitazione di Dio si è accompagnato allo sviluppo soggettivistico della filosofia moderna, che, da Cartesio in poi, è andata progressivamente dissolvendo l’oggetto nel soggetto: «il soggetto, che sempre apparve annesso all’essere per prestargli il servigio della contemplazione, dichiara di aver generato e di generare esso stesso l’essere. Finché tutto ciò che ci sta di fronte e si impadronisce di noi viene sciolto nella fluttuante soggettività. Già il prossimo passo conduce allo stadio a noi noto che si considera l’ultimo e se ne compiace: lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l’assolutezza e l’assoluto» (Ib., p. 122).

Niente da stupirsi, poste queste premesse, che l’ateismo abbia finito per configurarsi come il tipico parto della cultura moderna. Confrontandosi soprattutto con Heidegger, Sartre e Jung, Buber si sforza di dimostrare che Dio non è affatto «morto», ma che si è solo temporaneamente «eclissato», in quanto fra Lui e noi si è frapposto qualcosa che impedisce alla sua luce di giungere sino ai nostri occhi: «Che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di un’eclissi di Dio [...]? Usando questa metafora partiamo dall’ardito presupposto che ci sia possibile, mediante il nostro “occhio spirituale”, meglio: mediante l’occhio dell’essere, scorgere Dio come vediamo il sole e che quindi qualcosa può frapporsi tra la nostra esistenza e la sua, come tra terra e sole» (Ib., p. 125). Questo «qualcosa» è la massa opaca dell’Esso, ovvero il nostro «Ego (Ichbeit) ormai onnipotente» (Ib., p. 127). Tuttavia, al di là del nostro contingente accecamento, Dio continua a brillare, come sempre. E sebbene la relazione Io-Tu sia «andata nelle catacombe», trascinando seco l’Assoluto vivente, non è detto che essa non se ne esca presto, ancor più rinvigorita di prima. Infatti, Buber conclude il suo libro con una dichiarazione di ottimismo, singolarmente lontana dai tormenti di tanta

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parte della cultura ebraica del dopo-Auschwitz: «L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritirarsi» (Ib.).

Capitolo XVI.

SIMONE WEIL: IMPEGNO E ASCESI

di Franco Restaino

1076. L’imperativo categorico in gonnella.

Con questa espressione sembra venisse designata, in,maniera un po’ ironica e un po’ sprezzante, la giovanissima Simone Weil dal Preside dell’Istituto superiore parigino frequentato prima dell’ingresso alla Ecole Normale.

Nata nel 1909 in una famiglia benestante ebraica non osservante e molto laica, Simone Weil mostrò fin da ragazza alcuni segni caratteriali e di comportamento che le resero sempre difficili i rapporti sociali. Intransigente in maniera radicale sul piano etico, scostante sul piano personale, allergica in maniera quasi maniacale a qualsiasi tipo di contatto fisico, era fornita di una intelligenza lucidissima che metteva spesso in difficoltà i suoi interlocutori. Anche le sue certezze venivano manifestate e difese con una intransigenza assoluta: la coetanea Simone de Beauvoir ricorda nelle sue Memorie di una ragazza per bene un solo episodio - erano nello stesso Istituto, e negli esami finali la Weil superò la Beauvoir - in cui ha luogo una discussione fra le due compagne: la Beauvoir rimane sconcertata dall’atteggiamento dogmaticamente rivoluzionario della Weil, che accusava l’amica di non aver mai provato la fame.

Neanche la Weil, a dire la verità, era in condizione di provare la fame. Ma nel futuro avrebbe cercato più volte di trovarsi in quella condizione, per provare di persona i sentimenti degli oppressi nella società capitalistica.

Negli studi Simone Weil ebbe una carriera molto brillante e trovò un punto di riferimento filosofico in Alain, suo professore prima della École Normale. L’insegnamento di Alain è stato per decenni, per molte generazioni di intellettuali francesi, una esperienza molto significativa, in quanto con il suo atteggiamento socratico, scettico e apertissimo, metteva i suoi allievi a contatto diretto con i grandi filosofi del passato, attraverso letture di testi che avrebbero lasciato forti tracce in chi lo seguiva. Simone Weil era fra questi. Anche frequentando la École Normale mantenne i contatti con Alain, su ispirazione del quale scrisse tra il 1929 e il 1930 la dissertazione su Scienza e percezione in Descartes.

Questo testo, pubblicato soltanto negli anni Sessanta insieme ad altri suoi scritti sulla scienza, viene oggi da molti studiosi considerato fondamentale per la comprensione di alcuni motivi conduttori della sua riflessione teorica. In esso infatti Simone Weil

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muove da una lettura del pensiero di Descartes che la porta a respingere quella che considera una unilateralità del cartesianesimo nella definizione del rapporto uomo-natura. Per Simone Weil tale rapporto, dal quale nasce la conoscenza scientifica, non è riducibile al solo livello del pensiero. Il livello della percezione è altrettanto importante. Il rapporto con la natura è un misto di passività e di attività. Percezione-passività e immaginazione da una parte, intelletto-attività e scienza dall’altra, sono fondate in ultima istanza su quella esperienza fondamentale dell’essere umano che è il lavoro. «E' con il lavoro che la ragione afferra il mondo stesso e s’impadronisce della folle immaginazione. E' ciò che non potrebbe essere se io conoscessi il mondo col puro intelletto» (in A. Accornero, G. Bianchi, A. Marchetti, Simone Weil e la condizione operaia. Con una antologia degli scritti. Editori Riuniti, Roma 1985, p. 20).

Il concetto - e l’esperienza effettiva, come vedremo - del lavoro costituirà il motivo conduttore della vita e della riflessione di Simone Weil, che in quegli anni è già impegnata nei movimenti legati al sindacalismo di sinistra. D lavoro è inteso dalla Weil come una sorta di incarnazione dell’essenza umana, la quale dovrebbe, tramite esso, realizzarsi nelle sue forme più elevate. Questo rigorismo nella concezione del lavoro non è soltanto teorizzato ma anche, come vedremo subito, praticato in maniera ascetica dalla Weil negli anni immediatamente successivi.

Uscita con il titolo per l’insegnamento dalla École Normale, Simone Weil insegna dal 1932 al 1934 in alcuni licei femminili, dedicando molto del suo impegno, oltre che ai compiti didattici, alla difesa dei ceti sociali più oppressi, in particolare dei disoccupati. Partecipa in prima persona e in prima fila alle iniziative e alle manifestazioni sindacali a difesa dei disoccupati; scrive su riviste sindacali di sinistra, polemiche nei confronti della sinistra ufficiale; provoca scandalo presso i genitori di alcune sue allieve per un comportamento giudicato non conforme a quanto ci si aspetta da una professoressa (veste in maniera trasandata, fa riunioni con disoccupati in osterie di infimo rango, mangia quanto può mangiare un povero disoccupato, mette a disposizione di questi ultimi gran parte del suo stipendio, vive in maniera ascetica e rigorosa il suo impegno a fianco degli oppressi). Le autorità intervengono diverse volte. Simone Weil continua però in queste esperienze, che tuttavia non soddisfano interamente la sua sete di vivere fino in fondo le condizioni di oppressione di quelli che considera gli schiavi della società capitalistica. Una suggestiva presentazione della Weil di questi anni è riscontrabile nella figura di Lazare nel libro di G. Bataille L'azzurro del cielo, scritto nel 1935 ma pubblicato soltanto nel 1957. Il libro si riferisce alla primavera e autunno del 1934. Bataille aiutava finanziariamente la Weil per una rivista dissidente di sinistra. Rievocando un loro incontro, la descrive come «brutta e visibilmente sporca», goffa nel comportamento, ma anche come una che «esercitava un fascino, e per la sua lucidità e per le sue idee da allucinata. [...] Quel che mi interessava di più in lei, era l’avidità morbosa che la spingeva a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei

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diseredati. Riflettevo: dev’essere un sangue povero di vergine sporca» (Einaudi, Torino 1990, pp. 25-26).

Il tentativo più conseguente e più traumatico di vivere fino in fondo quelle condizioni viene effettuato da Simone Weil dal dicembre del 1934 all’agosto del 1935. Chiede al Ministero un congedo per poter studiare la condizione operaia, da lei affrontata fino ad allora con l’impegno sindacale, con la collaborazione alle riviste del sindacalismo di sinistra e la partecipazione a importanti convegni operai e sindacali, con la stesura, infine, nel 1934, del saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, molto apprezzato dal suo maestro Alain, ma pubblicato solo dopo la morte della Weil.

Simone Weil vive per otto mesi l’esperienza diretta della vita operaia, nelle condizioni durissime dell’industria pesante (prima alle presse di una fabbrica elettrica, poi alle fonderie di una fabbrica metallurgica, infine, negli ultimi tre mesi, come fresatrice nella industria automobilistica della Renault). E' una vita d’inferno, che la Weil condivide con gli operai e soprattutto con le operaie (per queste ultime la condizione è ancora più dura, perché al lavoro in fabbrica si aggiunge quello in casa). La Weil ha lasciato documenti angosciosi di questa esperienza, le cui conseguenze saranno indelebili nella sua vita successiva.

Sono anni di estremo pessimismo nelle analisi e valutazioni della Weil sulla situazione di oppressione e in alcuni casi di schiavitù degli operai e delle operaie francesi di quegli anni. Una cupa sofferenza accompagna la vita della Weil dopo quella traumatica esperienza. Si aggiunga che in quegli anni non vede molte ragioni di speranza in giro: la Germania hitleriana, l’Urss stalinista, e la stessa America in cui regna incontrastato il capitalismo, costituiscono per la Weil ulteriori ragioni di pessimismo sulla condizione dell’individuo che lavora, soffocato da regimi e poteri che lo opprimono e schiavizzano.

Qualche speranza viene alla Weil dall’avvento delle sinistre del Fronte Popolare al governo della Francia nel 1936, al quale seguono nel giugno possenti ondate di scioperi che danno inizio ad un cambiamento considerevole e in qualche misura «storico» delle condizioni della classe operaia in quel paese. Subito dopo, però, ha inizio la guerra civile in Spagna. Simone Weil, anche in questo caso, non trova soddisfazione alla sua sete di giustizia nella partecipazione alle manifestazioni a favore dei repubblicani, ma si sente in obbligo morale di andare a combattere contro i franchisti. Riesce a passare il confine, ad arruolarsi in una brigata internazionale, ad andare al fronte col suo fucile, pronta, dopo profondi dissidi interiori, ad uccidere. Un incidente puramente casuale (mette inavvertitamente una gamba in una pentola d’acqua bollente tenuta per ragioni prudenziali in una buca del pavimento) la costringe, gravemente ustionata, ad abbandonare la brigata e a tornare in Francia. Qui,

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tra l’altro, perde l’entusiasmo iniziale per i repubblicani spagnoli, che ora vede come strumenti dell’Urss che lottano contro i franchisti, strumenti di Hitler e di Mussolini.

Lo sconforto della Weil è sempre molto forte. Si rifugia ogni tanto presso i genitori, molto comprensivi, che la conducono diverse volte all’estero per tentare di farle superare i ricorrenti stati di depressione. Alcuni episodi, fra il 1935 e il 1938, provocano in Simone Weil una sorta di ripetuta «illuminazione» di carattere mistico, legata ad esperienze che hanno a che fare con le pratiche rituali e con i luoghi del cristianesimo: una prima volta l’illuminazione ha luogo nell’estate del 1935 (appena finita l’esperienza della fabbrica, in un piccolo villaggio di pescatori in Portogallo) in occasione di una processione notturna di donne con ceri su barche (la Weil vede allora nel cattolicesimo una religione nella quale possono trovare rifugio gli schiavi, gli oppressi); una seconda volta, nella primavera del 1937, ad Assisi, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli nella quale spesso pregava San Francesco, «qualcosa più forte di me - racconterà in seguito - mi ha obbligata, per la prima volta nella mia vita, ad inginocchiarmi» (AA.VV., Simone Weil e la condizione operaia, cit., p. 39); una terza volta l’illuminazione ha luogo nella suggestiva abbazia benedettina di Solesmes, nel novembre del 1938, quando legge una poesia inglese (Love, di G. Herbert, indicatale in quella stessa abbazia qualche mese prima da un giovane inglese) «in quel momento in cui, per la prima volta, il Cristo è venuto e mi ha presa. Credevo semplicemente di ripetere a me stessa una bella poesia e non sapevo che era una preghiera» (Ib., p. 41).

Simone Weil ha ormai abbandonato l’insegnamento, vive spesso con i genitori, estende le sue riflessioni e meditazioni a campi sempre più lontani da quelli originariamente legati alle tematiche operaie. Affronta filosoficamente il problema della violenza, partendo dalla esperienza hitleriana, e lo approfondisce in alcuni saggi, tra i quali spicca quello su L’Iliade, o il poema della forza.

Quando scoppia la guerra pensa ad andar via dalla Francia: si trasferisce a Marsiglia, dove vive gli anni 1941 e 1942, e dove compone dodici quaderni che costituiscono il suo più complesso testamento filosofico. Dopo un breve soggiorno in America, riesce a trasferirsi a Londra, in contatto con il governo francese in esilio. Vorrebbe mettere in piedi un corpo di infermiere, fa delle consulenze per il governo gollista, scrive ancora, progetti politici ed economici, riflessioni su temi filosofici e religiosi, e muore, prematuramente, nel 1943.

Gli ultimi suoi anni, dal 1938 in poi, sono segnati, si diceva, da un continuo arricchimento di interessi teorici, che si soffermano sulla filosofia e la civiltà greche, sul cristianesimo e sul suo rapporto con la Grecia e con la modernità (meno trattato il rapporto con l’ebraismo, di cui Simone Weil parla raramente, con toni negativi), sulle filosofie e religioni dell’India (studia anche il sanscrito per realizzare un contatto diretto con i testi di quella cultura) e della Cina, sui problemi della necessità, della

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forza, della sofferenza, della libertà, del tempo, delle scienze, dello zodiaco e su un grande numero di altri temi.

La quasi totalità degli scritti di Simone Weil è stata pubblicata nel dopoguerra, dal 1947 in poi. Anche la vicenda editoriale delle pubblicazioni weiliane è tormentata. Una parte dei suoi scritti è stata pubblicata inizialmente da due cattolici, ai quali la stessa Weil aveva dato questo incarico morale (il domenicano padre Perrin e l’amico comune G. Thibon): Thibon pubblica nel 1947 La pesanteur et la grace, negli anni 1951-56 i Cahiers (in edizioni molto criticate dagli studosi); Perrin pubblica nel 1949 Attente de Dieu e nel 1951 Intuitions pré-chrétiennes. Viene messa in circolazione in tal modo una immagine «cattolica» di Simone Weil. Un’altra parte dei suoi scritti viene pubblicata, a cominciare dal 1949, in ambienti laici, a cura della famiglia (la madre e il fratello, che è stato un grande matematico) e di Albert Camus: nel 1949 L'enradnement, nel 1950 La connaissance surnaturelle. Nel 1951 e nel 1955 escono rispettivamente gli scritti raccolti sotto i titoli di La condition ouvrière e Oppression et liberté, che consentono di far conoscere le riflessioni della Weil sulla condizione operaia. Escono successivamente altre raccolte di scritti weiliani, e tra il 1970 e il 1974 la nuova edizione, in tre volumi, dei Cahiers, curati in maniera accettabile e definitiva dal fratello André e dall’amica più stretta di Simone Weil, Simone Pétrement, alla quale si deve la fondamentale biografia in due volumi, La vie de Simone Weil, apparsa a Parigi nel 1973. Pressoché tutti gli scritti di Simone Weil sono stati tradotti in italiano. In particolare, l’edizione dei Quaderni, in quattro volumi, curata da G. Gaeta per Adelphi, Milano 1982-1992, è considerata filologicamente più ricca e accurata della stessa edizione francese.La fortuna italiana di Simone Weil è stata parallela a quella francese. Ha avuto inizio nell’area cattolica, negli anni Cinquanta, presso i settori che si richiamavano al cristianesimo di sinistra di E. Mounier. Una fortuna di tipo diverso è stata quella di cui ha goduto, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, presso gli ambienti culturali legati alla sinistra riformista non comunista (in particolare, quelli «olivettiani» vicini alla casa editrice Comunità). Una fortuna religiosa, quindi, e politica (terzaforzista), all’inizio, e scarsamente filosofica. Un preciso ed estendentesi interesse filosofico per l’opera di Simone Weil è cominciato verso la fine degli anni Settanta. E' meno legato a rivendicazioni di tipo religioso (la Weil appartiene o no al cattolicesimo?) o di tipo politico (alternativa democratica o anarchica allo stalinismo?), e più attento alle riflessioni teoriche relative sia alla analisi della condizione umana sia ai temi legati alle diverse esperienze che tale condizione vive nel nostro tempo.

1077. Il primato del lavoro manuale e dell’individuo libero.

Si è accennato, nel paragrafo precedente, al fatto che Simone Weil già nella dissertazione del 1930 su Descartes indicava nel concetto di lavoro la base, il fondamento, dell’attività sia conoscitiva sia pratica dell’essere umano nei confronti

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del mondo in cui vive. Un approfondimento di tale tematica, reso possibile dalle esperienze di discussione e di azione nei primi anni Trenta tra i sindacalisti di sinistra, viene realizzato dalla Weil nel saggio del 1934 Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, da lei stessa considerato il più organico dei suoi scritti degli anni Trenta.

Qui Simone Weil non parla del lavoro in termini astratti ma del lavoro quale elemento chiave della vita di fabbrica nella società dei nostri giorni. Si è parlato e si parla di progresso materiale, osserva la Weil, e questo discorso può valere per la più abbondante disponibilità di beni, di cose, o per la meno stringente costrizione della fame rispetto alle epoche primitive. Ma un aspetto essenziale del lavoro è venuto a cadere nella maggior parte del lavoro organizzato nelle fabbriche: la libertà del lavoratore di organizzare, inventare, intervenire, nel lavoro stesso: «L’uomo primitivo poteva, se non altro, tentare di riflettere, di combinare e di innovare a suo rischio e pericolo, mentre un lavoratore moderno è assolutamente privato di questa libertà» (in AA.VV., Simone Weil e la condizione operaia, cit., p. 177).

Questo è il punto chiave che preme alla Weil: l’assenza, nel lavoro moderno organizzato dai poteri dello Stato, della burocrazia, dell’economia, di quella libertà che sola lo renderebbe umano. E' l’assenza di tale libertà, nel senso di un intervento libero del pensiero del lavoratore, che non permette di utilizzare la categoria di progresso riferendola allo specifico modo di lavorare dell’operaio moderno. Su questo punto Simone Weil prende le distanze da Marx, scrivendo: «Si profila cosi un nuovo metodo d’analisi sociale che non è affatto quello di Marx, benché parta, come Marx voleva, dai rapporti di produzione; infatti, là dove Marx, la cui concezione è d’altronde poco precisa su questo punto, sembra aver voluto classificare i modi di produzione in funzione del rendimento, essi verrebbero analizzati in funzione dei rapporti tra il pensiero e l’azione» (Ib.., p. 183).

Certo, dal punto di vista del rendimento il lavoro di fabbrica costituisce un progresso rispetto al lavoro del libero artigiano, ma dal punto di vista del rapporto tra il pensiero e l’azione, no: «Bisogna allora sostituire [alla categoria di progresso] la nozione di una scala di valori concepita al di fuori del tempo. [...] E' sufficientemente chiaro che i lavori differiscono realmente tra loro per qualcosa che non si riferisce né al benessere né al piacere, né alla sicurezza, e che tuttavia sta a cuore ad ogni uomo: un pescatore che lotta contro le onde e il vento sulla sua piccola imbarcazione, benché soffra per il freddo, la fatica, la mancanza di agi e ancora per il sonno, per i pericoli e per un livello di vita cosi primitivo, ha un destino più invidiabile dell’operaio, che lavora alla catena, anche se meglio soddisfatto in quasi tutte le sue esigenze. E ciò perché il suo lavoro è molto più vicino al lavoro di un uomo libero» (Ib.., p. 184).

Non la produzione, il rendimento, le cose, ma il produttore, l’essere umano, con tutte le sue potenzialità liberamente utilizzabili da lui stesso, deve essere al centro del

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lavoro. Solo in questo caso il lavoro non sarebbe la sede e lo strumento dell’oppressione, ma sarebbe la sede e lo strumento della esplicazione della personalità libera. Una esplicazione, aggiunge la Weil, che sarebbe sentita non come un obbligo costrittivamente imposto dalla collettività, ma come un dovere spontaneamente emergente nell’individuo libero: «La civiltà più completamente umana dovrebbe esser quella che ha per centro il lavoro manuale, quella in cui il lavoro manuale costituisce il valore supremo. Il che non ha nulla da spartire con la religione deUa produzione che regnava in America durante il periodo della prosperità e che regna in Russia dal tempo del piano quinquennale; giacché questa religione ha per suo vero scopo i prodotti del lavoro e non il lavoratore, le cose e non l’uomo. Non è per il suo rapporto con quello che produce che il lavoro manuale deve divenire il valore più alto, ma per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue; esso non deve essere l’oggetto di onori o di ricompense, ma costituire per ogni essere umano ciò di cui egli ha il bisogno più essenziale, affinché la sua vita riceva da se stessa un senso e un valore ai suoi occhi» (Ib.., p. 186).

Simone Weil collega questa centralità del lavoro alla grande svolta culturale, filosofica e morale, realizzata nella modernità e ben rappresentata filosoficamente dalla linea Bacone, che per tale ragione la Weil predilige rispetto a quella rappresentata da Descartes. Mentre quest’ultimo poneva il fondamento nel pensiero, e dava inizio a una concezione del sapere e della scienza di orientamento intellettualistico, Bacone indicava il carattere rivoluzionario della svolta: rivoluzionario sia rispetto alla tradizione greca sia rispetto alla tradizione ebraico-cristiana: «La nozione del lavoro, considerato come un valore umano, è senza dubbio l’unica conquista spirituale che abbia fatto il pensiero umano dopo il miracolo greco. [...] Bacone è stato il primo a far apparire questa nozione. All’antica e disperante maledizione della Genesi, che mostrava il mondo come un bagno penale e il lavoro come il marchio della schiavitù e dell’abiezione degli uomini, egli sostituì, con un lampo di genio, la vera carta dei rapporti dell’uomo col mondo: “L’uomo comanda alla natura obbedendole”. Questa formula cosi semplice dovrebbe costituire da sola la Bibbia della nostra epoca. Essa basta a definire il vero lavoro, quello che fa gli uomini liberi» (Ib., p. 189).

L’uomo libero, quindi, è colui che sente il dovere di lavorare e di mettere nel suo lavoro tutta la sua intelligenza, inventiva, creatività. L’uomo schiavo è colui che viene costretto a lavorare da poteri a lui estranei e che non può intervenire creativamente e liberamente nel suo lavoro.

Questa tesi teorica, confermata dalla esperienza indiretta (sindacale) della vita di fabbrica della Francia di quei primi anni Trenta, viene rafforzata dalla esperienza diretta, traumatica, degli otto mesi d’inferno nelle fabbriche nelle quali la Weil intese provare sulla sua persona la schiavitù e l’oppressione moderne. I testi, soprattutto quelli diaristici, relativi a quella esperienza mettono in luce, con scrupolosa

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accuratezza, i diversi aspetti del carattere infernale della vita di fabbrica (l’attesa prima dell’apertura della fabbrica, la lunghezza infinita dei tempi e dei ritmi, la costrizione su tutti gli aspetti del lavoro, la paga misera, la fame, la paura del licenziamento, e altri ancora).

Una visione meno cupa delle condizioni della vita operaia traspare negli scritti successivi alla grande ondata di scioperi e occupazioni di fabbriche del giugno 1936, in un quadro di governo radicalmente nuovo, per la prima volta senza la minacciosa presenza delle forze di polizia. La solitudine e l’assenza di diritti che prima caratterizzavano l’esistenza operaia, osserva ora la Weil, sono superabili con l’affermazione di massa del sindacato. In una lettera aperta ad un operaio, del 1937, la Weil esalta il sindacato e la militanza sindacale. Nelle condizioni precedenti alle lotte di giugno, scrive la Weil all’operaio, «tu stesso arrivavi a dimenticarti di essere un uomo. Tutto questo, dopo giugno, è mutato. Non è stata soppressa la miseria né l’ingiustizia. Ma non sei più solo. [...] Se cominci ad essere trattato come un uomo, lo devi al sindacato» (Ib., p. 204).

Ma qualche anno dopo, in seguito all’oscurarsi delle prospettive politiche sia in Francia (crisi dei governi del fronte popolare) sia in Europa (scoppio della seconda guerra mondiale), la valutazione della vita operaia da parte della Weil è di nuovo cupa. In un testo della primavera del 1941, Esperienze della vita in fabbrica, riprende le analisi che abbiamo trovato nel saggio del 1934. Sugli esseri umani, ancora, prevalgono le cose. Nella vita di fabbrica «il pensiero si rattrappisce», per l’operaio: «D corpo è talvolta sfinito, la sera, quando esce dalla fabbrica; ma il pensiero lo è sempre e lo è di più» (Ib., p. 210). Nella vita di fabbrica «le cose fanno la parte degli uomini, e gli uomini quella delle cose; questa è la radice del male» (Ib., p. 211). Dopo una giornata di fabbrica, l’operaio ha trovato lungo il tempo: «Il tempo gli è stato lungo ed è vissuto in esilio. Ha trascorso la sua giornata in un luogo nel quale era un estraneo» (Ib., p. 213). L’esperienza del giugno 1936 è stata rivelativa di questa situazione: «Le rivendicazioni, nell’occupazione delle fabbriche, hanno avuto meno importanza del bisogno di sentirsi almeno una volta a casa propria nell’officina. Bisogna che la vita sociale sia proprio corrotta fino al midollo se gli operai si sentono in casa propria nella fabbrica quando vi scioperano, ed estranei quando vi lavorano. Dovrebbe essere vero il contrario» (Ib., p. 214).

Ma perché il contrario si verifichi, radicali trasformazioni dovrebbero essere realizzate nella vita interna ed esterna alla fabbrica. Simone Weil, negli ultimi due anni di vita, ne indica alcune, intese a superare sia il capitalismo sia il socialismo: eliminazione delle grandi fabbriche, unione di fabbriche e università operaie, centralità dell’uomo e non dei prodotti del suo lavoro, rapporti di fraternità e solidarietà sia tra gli operai sia tra questi e i dirigenti. Si tratta di indicazioni alquanto astratte e caratterizzate da una evidente ingenuità. Al di là di tali difetti evidentissimi, tuttavia, quello che conta è il

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ribadire l’esigenza, dalla Weil sempre affermata, di porre al centro e alla base del lavoro la dignità e la libertà dell’essere umano, non la quantità dei prodotti o dei guadagni che da quel lavoro derivano. Negli ultimi anni della sua vita, d’altra parte, altri sono stati gli interessi prevalenti delle riflessioni della Weil, come documentano i suoi Quaderni.

1078. I «Quaderni» (1941-1942): filosofia, religione, esistenza.

Si è accennato, nel primo paragrafo, al fatto che il contenuto dei Quaderni di Simone Weil non segue un filo conduttore ben definito, e si articola in una molteplicità di temi non riconducibili ad unità. Certo, il punto di partenza delle sue riflessioni, meditazioni, citazioni e traduzioni, è sempre l’esistenza umana terrena con i suoi problemi, le sue sofferenze, le sue speranze. Certo, ancora, alle spalle della composizione ci sono le diverse «illuminazioni» che tra il 1935 e il 1938 hanno avvicinato la Weil ad una considerazione filosofico-religiosa del cattolicesimo che ha segnato gli ultimi anni della sua vita. Ma questa conversione di interessi verso tematiche largamente filosofico-religiose non è assolutamente riconducibile ad una presunta «conversione» al cattolicesimo: nessun atto concreto, d’altronde, è stato effettuato dalla Weil per entrare nella comunità dei cattolici (né battesimo né altro). Il fatto che i suoi amici più stretti, negli ultimi anni, siano stati due cattolici (padre Perrin e G. Thibon), non costituisce un elemento di prova di una sua «conversione».

Quel che ci rimane, e cioè l’insieme delle sue riflessioni consegnate ai Quaderni, testimonia la centralità dell’interesse per le tematiche filosofico-religiose, ma un interesse che non sfocia nell’adesione chiara ad una religione determinata. Quel che si può enucleare, dall’insieme delle sue meditazioni, è semmai la delineazione di un complesso percorso che la conduce ad una sorta di religione-filosofia aperta, nella quale stanno insieme il Timeo di Platone, l'Etica di Spinoza, il cattolicesimo, l’induismo, il taoismo e il buddismo zen; stanno invece fuori, in maniera esplicitamente motivata, l’ebraismo e l’islamismo, perché troppo «monoteistici».

La ricchezza di temi affrontati è tale, e i passi sono spesso talmente densi nella scrittura e nel pensiero, che tentarne una presentazione articolata richiederebbe non pagine ma volumi. Ci limitiamo pertanto a offrire qualche saggio della sua scrittura, sui temi relativi all’esistenza umana, alla filosofia-religione alla quale accennavamo poc’anzi.

Un passo molto denso di uno degli ultimi Quaderni, il nono, sta a indicare la permanenza del tema del primato dell’individuo in un mondo però desolatamente poco propizio alla libertà dell’individuo, costretto quindi a cercare una via d’uscita che sarà, in questi Quaderni, quella di una filosofia-religione insieme stoica e ascetica: «L’uomo è un animale sociale, e il sociale è il male. Non possiamo farci niente, e ci è proibito accettarlo, se non vogliamo perdere la nostra anima. Pertanto la vita non può essere che lacerazione. Questo mondo è inabitabile. Per questo bisogna fuggire

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nell’altro. Ma la porta è chiusa. Quanto bisogna bussare prima che si apra! Per entrare veramente, per non restare sulla soglia, bisogna smettere di essere un essere sociale» (Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, voi. Ili, pp. 157-58).

E' un passo che indica con efficacia la contraddizione in cui si trova l’individuo nel mondo: non può non accettare, ma deve rifiutare, il mondo, inabitabile, e questo rifiuto lo spinge a cercare un altro mondo, la cui porta però è chiusa. Stoicismo nell’accettazione del mondo (amor fati, dirà in qualche altro passo), ascetismo nella ricerca di un altro mondo.

Simone Weil affronta in maniera tormentata la questione dell’altro mondo, la questione della religione e della fede, dell’intelligenza e dell’amore quali vie diverse e contrastanti rispetto al rapporto con l’altro mondo, con la «felicità». Amor fati e ricerca dell’altro mondo pongono l’individuo in una condizione difficile, per la quale la Weil respinge le soluzioni «consolatorie».

Nel quaderno sesto Simone Weil scrive in proposito pagine di grande densità e finezza, che precisano anche il suo modo di interpretare il cattolicesimo. Il mondo, ha detto più volte, è inabitabile, ha in sé il male, che non possiamo rifiutare ma dobbiamo riconoscere e accettare: «Questo implica che non si deve mai cercare una consolazione al dolore. Perché la felicità è al di là dell’ambito del dolore e della consolazione, al di fuori. Essa è percepita con un altro senso, come la percezione degli oggetti sulla punta di un bastone o di uno strumento è diversa dal tatto propriamente detto. Quest’altro senso si forma per uno spostamento dell’attenzione per mezzo di un apprendistato a cui prendono parte l’anima nella sua interezza e il corpo» (Quaderni, Adelphi, Milano 1985, voi. II, p. 165).

In quest’ottica anticonsolatoria si deve distinguere in maniera netta e radicale tra religione e fede, tra intelligenza (ateismo) e amore. Afferma più avanti la Weil: «La religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione. Io debbo essere ateo con la parte di me che non è fatta per Dio. Tra gli uomini la cui parte soprannaturale non si è destata, hanno ragione gli atei e torto i credenti. I misteri della fede cattolica - e delle altre tradizioni religiose e metafisiche - non sono fatti per essere creduti da tutte le parti dell’anima. La presenza del Cristo nell’ostia non è un fatto, allo stesso modo che la presenza del mio amico Paolo nel corpo di Paolo è un fatto; altrimenti non sarebbe soprannaturale. [...] L’Eucarestia non deve essere dunque un oggetto di credenza per la parte di me che apprende i fatti. In questo consiste la parte di verità del protestantesimo (o, rispetto all’incamazione, del deismo). Ma la presenza del Cristo nell’ostia non è neppure un simbolo, perché un simbolo è la combinazione di un’astrazione e di un’immagine; è qualcosa che l’intelligenza umana può rappresentarsi; non è soprannaturale. In questo hanno ragione i cattolici, non i protestanti. Solo la parte di me fatta per il

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soprannaturale deve aderire a questi misteri. Ma tale adesione è piuttosto amore che credenza» (Ib., pp. 165-66).

Vi è una differenza radicale, quindi, tra la religione e l’intelligenza da una parte, la fede e l’amore dall’altra, tra la sfera del naturale e quella del soprannaturale; non bisogna mescolare le cose, e se lo si fa, l’ateismo costituisce una cura salutare: «La funzione dell’intelligenza - della pane di noi che afferma e nega, che formula opinioni - è solamente la sottomissione. Tutto ciò che io concepisco come vero è meno vero di quelle cose di cui non posso concepire la verità, ma che amo. Per questo san Giovanni della Croce definisce la fede una notte. In coloro che hanno avuto un’educazione cristiana, le pani inferiori dell’anima si attaccano a questi misteri, mentre non ne hanno alcun diritto. Perciò essi hanno bisogno di una purificazione e san Giovanni della Croce ce ne descrive le tappe. L’ateismo, l’incredulità costituiscono un equivalente di tale purificazione. Non cogliere i misteri come verità, perché questo è impossibile, ma riconoscere la subordinazione di tutto ciò che cogliamo come verità a quei misteri che amiamo. L’intelligenza può riconoscere tale subordinazione provando che l’amore di questi misteri è la fonte di pensieri che essa può cogliere come verità. Tale sarebbe il rapporto della fede e della carità» (Ib., p. 166).

In forma lapidaria la Weil riassume in poche parole questa fondamentale gerarchia: «L’organo in noi col quale vediamo la verità è l’intelligenza; l’organo in noi col quale vediamo Dio è l’amore» (Ib., p. 168).

Non c’è quindi spazio, nelle meditazioni e nell’esperienza della Weil, per religioni codificate, che presentino o impongano una serie di verità, e che si presentino come «vere». Su questo punto la sua posizione è molto ferma: «Dicendo che la religione cattolica è vera e le altre false, si offendono non solo le altre tradizioni religiose, ma la stessa fede cattolica, ponendola al livello delle cose che possono essere affermate o negate. L’intelligenza ha bisogno di una libertà completa, compresa quella di negare Dio, e di conseguenza la religione [qui in senso di «fede»], si riferisce all’amore e non all’affermazione o alla negazione» (Ib., p. 171).

Simone Weil non limita le sue riflessioni e meditazioni alle tematiche relative al cristianesimo e al cattolicesimo, ma le estende ad alcune filosofie-religioni orientali, soprattutto indiane e cinesi (induismo, taoismo, buddismo zen), privilegiandone l’affinità col cristianesimo, su punti chiave, rispetto invece all’ebraismo e all’islamismo, considerate negativamente. Ciò avviene, per esempio, per la questione della unità o trinità di Dio. Per la Weil «Dio uno, puramente uno, è cosa. Antico Testamento - Corano. Dio uno e tre è pensiero. Unità che non è il correlativo del molteplice. Trinità indù. Dio conservatore, brahma. La Parola sacra. Ordine del mondo. È il Verbo, Dio creatore. Visnu. E' il Padre. Dio distruttore. Dio della decreazione. Siva. È lo Spirito» (Ib., p. 202).

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Bisogna aggiungere, infine, che le riflessioni della Weil tendono continuamente a collegare questi temi generali del rapporto religione-fede, verità-amore, a quelli relativi all’esistenza concreta umana. Le numerose pagine dedicate ai temi della sofferenza, del male, del dolore, dell’amore, dell’arte, costituiscono documenti di analisi finissime, che danno concretezza a quella dicotomia tra accettazione stoico-spinoziana (amor fati) e rifiuto del mondo (ascesi metafisico-religiosa) che ricorre continuamente nel succedersi dei Quaderni.

Capitolo XVII.

HANNAH ARENDT: «VITA ACTIVA» E «VITA CONTEMPLATIVA»

di Franco Restaino

1079. Formazione, interessi, opere.

Hannah Arendt (1906-1975) ha avuto una vita e un destino abbastanza singolari. Nata da famiglia ebrea benestante con lunga tradizione mercantile a Königsberg, formatasi filosoficamente tra Berlino, Marburgo, Friburgo e Heidelberg negli anni Venti (tra i suoi maestri Heidegger, col quale ha anche una relazione sentimentale, Husserl e Jaspers), è costretta alla fuga dalla Germania per motivi politici nel 1933. Rifugiatasi in Francia, è apolide dal 1933; nel 1941 si trasferisce in maniera definitiva negli Stati Uniti, e dal 1951 diventa cittadina americana a tutti gli effetti. Negli Stati Uniti scrive su riviste ebraiche, tiene conferenze, insegna in diverse Università, riceve riconoscimenti sempre più importanti, fino alla morte che la coglie mentre sta per scrivere l’ultima parte della Vita della mente, l’opera con cui conclude il suo complesso itinerario filosofico.

Hannah Arendt, ebrea emancipata e libera fin da ragazza, filosoficamente ha i suoi debiti maggiori nei confronti di Heidegger, che frequenta dal 1925, e col quale concorda poi una tesi di dottorato, svolta tenendosi in contatto con Jaspers, sul concetto di amore in Sant’Agostino. La tesi viene pubblicata nel 1929, ma in ambito puramente accademico, quindi senza alcuna risonanza esterna.

Alcuni motivi presenti nella tesi di dottorato ricompariranno in maniera ricorrente nelle successive riflessioni della Arendt, fino all’opera conclusiva. In particolare il motivo della temporalità, tema fortemente incisivo sia in Agostino sia in Heidegger, viene sviluppato in relazione al concetto chiave della tesi, quello dell’amore. L’autrice distingue due tipi di amore in Agostino, ì'appetitus o cupiditas, e la caritas. Il primo, che nasce dal desiderio per gli oggetti e per la nostra sopravvivenza, si costituisce come amore di una vita senza paura, e ha come orizzonte finale la morte, che ne segna i limiti ferrei. Il secondo tipo di amore è anch’esso fondato su un desiderio, questa

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volta della vita eterna, ed è quel tipo di amore che ci mette in contatto con Dio. D primo tipo di amore, la cupiditas, ha a che fare con il tempo (nascita, vita, morte), il secondo, la caritas, ha a che fare con l’eternità. Altri temi presenti nella tesi sono quelli della libertà e della volontà umana, temi che ricorreranno nella successiva riflessione della Arendt.

Dopo la tesi di dottorato vi è una prima svolta negli interessi di ricerca della Arendt. Dal mondo cristiano, studiato in uno dei suoi massimi protagonisti, passa al mondo ebraico, studiato in una delle sue più sconosciute rappresentanti. Si tratta dello studio su una intellettuale ebrea vissuta a Berlino tra fine Settecento e primo Ottocento, Rahel Vamhagen: una donna che cerca di evitare sia la ghettizzazione nel mondo ebraico separato dal mondo tedesco cristiano circostante sia la integrazione, con perdita della propria identità ebraica, in questo mondo cristiano-borghese. Nella sua mansarda berlinese si riunivano fra gli altri Schlegel, Tieck, Schleiermacher e Novalis, cioè la prima intellettualità romantica tedesca. Attraverso l’esame delle lettere e della documentazione diretta e indiretta su questa figura di intellettuale da lei sentita cosi vicina, la Arendt trae ispirazione non solo per la composizione di un libro, terminato nel 1933 (e molto apprezzato da Benjamin) e pubblicato molti anni dopo (nel 1957, con il parere non molto favorevole di Jaspers), ma per la conferma di una scelta di vita abbastanza simile a quella di questa figura.

È la scelta in seguito alla quale Hannah Arendt non si sentirà mai a suo agio né tra gli ebrei sionisti, con i quali rimarrà in contatto per decenni ma in un rapporto molto tormentato, né tra quelli integrati compiutamente nel mondo borghese o comunista di quei decenni. Una autonomia assoluta rispetto a queste posizioni caratterizzerà sia la biografia sia la produzione politica e filosofica della Arendt.

Da queste prime opere intorno al 1930 all’opera che la lancerà presso il pubblico non solo statunitense ma mondiale passano vent’anni. I primi dieci, trascorsi soprattutto a Parigi, vedono la Arendt in contatto con gli antinazisti, ebrei e comunisti (nel 1936 conosce Heinrich Blücher, comunista tedesco che sposerà prima di partire per l’America, col quale vivrà in un rapporto di collaborazione e affinità intellettuali molto strette), impegnata nella produzione pubblicistica semiclandestina, fino all’internamento dal quale uscirà fortunatamente per raggiungere gli Stati Uniti. Nella nuova patria (dove consegna ad Adorno la valigia di manoscritti lasciati a lei da Benjamin prima di morire) collabora frequentemente alla pubblicistica ebraica, ma non condivide molte delle posizioni degli ebrei americani, in particolare quella che porta alla decisione di costituire lo Stato di Israele nel 1948.

Nel 1951 pubblica l’opera che la rende famosa in tutto il mondo, Le origini del totalitarismo, frutto di diversi anni di lavoro e di collaborazione con il marito. La Arendt non si considera una filosofa ma una teorica della politica. La filosofia in senso largo però, dopo la pubblicazione di quest’opera, la sollecita a riprendere le

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tematiche, legate all’insegnamento di Heidegger e di Jaspers, abbandonate dopo il 1930. Frutto di questo rinnovato interesse per temi filosofici connessi ai dibattiti esistenzialistici sono alcuni scritti (in particolare quello del 1954 su L'interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo nel quale prende posizione sugli esistenzialisti francesi e tedeschi) e soprattutto l’opera del 1958 su La condizione umana, titolo dato dall’editore; mentre la Arendt preferiva il titolo Vita activa.

E' questa l’opera filosofica più nota della Arendt; un’opera che non suscitò grande interesse quando apparve, ma che negli anni Settanta e Ottanta avrebbe avuto una nuova vita, in quanto vicina agli interessi teorici allora affermatisi in Europa e in America per la filosofia della pratica, anticipati di oltre un decennio dalla Arendt.

Dopo la pubblicazione de La condizione umana c’è nella vita della Arendt l’episodio più noto e più discusso nel mondo ebraico: quello della partecipazione come osservatrice, a Gerusalemme, al processo contro Adolf Eichmann, il «burocrate» nazista che aveva mandato al forno crematorio centinaia di migliaia di ebrei. Le corrispondenze della Arendt, e poi il volume del 1963 La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, scatenano un putiferio tra gli ebrei, che vedono negli scritti della Arendt quasi un’assoluzione per Eichmann e quasi un’accusa agli ebrei per la loro complicità, in qualche modo, nel massacro nazista del loro popolo. La Arendt non intendeva affatto assolvere Eichmann, ma voleva sottolineare il fatto, tremendo, che per fare il male (mandare propri simili al forno crematorio) non è necessario essere malvagi. Un buon padre di famiglia, un burocrate ordinato e meticoloso, una persona normale, «banale» può fare il male, fa il male, se sta dentro un meccanismo politico-sociale, o fa parte di un apparato amministrativo e poliziesco, che lo spingono ad agire «senza pensare».

È questo agire con assenza di pensiero il fatto tragico dei nostri tempi, quello che spinge la Arendt ad affrontare, nell’ultimo decennio della sua vita, la tematica di che cosa significa pensare. È un tema che la riporta in contatto con l’insegnamento dei suoi maestri (Heidegger, Jaspers), con le tesi di Agostino, e più in là di Platone e Aristotele, oltre che con le tesi di alcuni grandi scolastici (da Tommaso a Scoto) e soprattutto con quelle di Kant. A Kant, infatti, si ispira l’ultima riflessione della Arendt. A Kant e alla sua tripartizione delle funzioni della ragione nel pensare, volere e giudicare (oggetti rispettivi delle tre Critiche).

L’opera nella quale la Arendt consegna le ultime sue riflessioni è in sostanza il contraltare, come vedremo, della Vita activa del 1958. Ora è la Vita contemplativa, o, come dice il titolo dell’opera, La vita della mente l’oggetto delle riflessioni dell’autrice. La grande opera conclusiva della sua vita comprende le prime due parti, sul pensare e sul volere; la terza parte, sul giudicare, era appena cominciata quando la morte sorprese l’autrice nel dicembre del 1975.

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La Arendt gode da qualche anno di grandissima fortuna in Italia. Lanciata nel 1964 con la pubblicazione presso Feltrinelli del libro su Eichmann e presso Bompiani dell’opera del 1958 col titolo italiano Vita activa (ma quest’opera cadde allora pressoché nel silenzio), la Arendt ricompare con la traduzione presso Comunità, nel 1967, de Le origini del totalitarismo, l’opera allora più nota. La sua fortuna reale, però, è successiva, e può datarsi alla seconda metà degli anni Settanta, quando le sue tematiche sul problema dell’agire politico, e quelle delle sue ultime riflessioni, circolano ampiamente, vengono studiate, commentate e discusse, in un crescendo di interesse che ha raggiunto i momenti più alti alla fine degli anni Ottanta, con la pubblicazione della sua ultima opera e di molti altri scritti precedentemente poco noti.

1080. Il totalitarismo e i suoi caratteri.

Come molte altre opere di grandi autori, anche Le origini del totalitarismo della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951, data centrale della guerra fredda) che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali la lettura e l’interpretazione. L’assimilazione di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell’opera da parte della intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l’esponente di un pensiero politico liberale e neoconservatore. In realtà le preferenze politiche della Arendt andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo.

L’opera, grande anche nel senso della voluminosità (circa settecento pagine), individua i caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell’antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia, con l’affare Dreyfus) e neU’imperialismo, temi ai quali sono dedicati due terzi dell’opera. Dal confluire delle conseguenze dell’antisemitismo (pratico e teorico) e dell’imperialismo in un preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia nella Unione Sovietica stalinista (del tutto marginale è l’attenzione rivolta al fascismo italiano).

Il totalitarismo è un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali. Esso nasce dal tramonto della società classista, nel senso che l’organizzazione delle singole classi lascia il posto ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie. Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri nell’apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si rinchiudono, e si annientano, gli oppositori trasformati in nemici. Attraverso l’imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo,

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comuniSmo) e il terrore il totalitarismo identifica se stesso con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi all’esterno con la guerra. Nulla di simile era apparso prima.

Il totalitarismo, scrive la Arendt, è un fenomeno «essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo» (ediz. Comunità, Milano 1989, p. 630).

La Arendt accentua, nelle pagine di considerazione teorica che concludono l’opera, il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari. Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme. In un regime totalitario l’ideologia «è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’“idea” è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì' lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”. Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico - i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua “idea”» (Ib., p. 642).

La Arendt si pone, alla fine, una domanda: «Quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico?» Ib., p. 649). La risposta viene data individuando tale esperienza di base nell’isolamento dei singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraneazione nella sfera dei rapporti sociali. Quest’ultima, in sostanza, sta alla base dell’isolamento sul piano politico, e quindi costituisce la condizione generale della origine del totalitarismo: «L’estraneazione, che è il terreno comune del terrore, l’essenza del regime totalitario e, per l’ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che, dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall’inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere del- l’imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo» (Ib., p. 653). E ancora: «Quel che prepara cosi bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l’estraneazione che da esperienza limite, usualmente subita in

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certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un’esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo. L’inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un’evasione suicida da questa realtà» (Ib., pp. 654-55).

Risuonano in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni Trenta e Quaranta trovava manifestazione filosofica, con tematiche non molto dissimili, in Benjamin, in Horkheimer e in Adorno. Le tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi.

1081.«Vita activa»: animal laborans, homo faber, zoon politikòn.

Si è detto all’inizio che dopo la pubblicazione de Le origini del totalitarismo Hannah Arendt si senti sollecitata, anche in seguito alla conoscenza del dibattito filosofico europeo degli anni Quaranta e Cinquanta (in particolare in ambito esistenzialistico), ad affrontare tematiche filosofiche più generali, rispetto a quelle direttamente politiche fino ad allora privilegiate nella sua produzione. Del resto, proprio le conclusioni teoriche sul totalitarismo, e cioè l’individuazione dell’estraneazione sociale e dell’isolamento politico come condizioni del suo nascere, rinviavano a problemi filosofici più generali, relativi al perché di un agire sociale e politico di quel genere nei tempi moderni. Non bisogna dimenticare, inoltre, che tra il 1948 e il 1949 la Arendt, in alcune visite in Europa, riprende i contatti personali sia con Jaspers sia con Heidegger (con quest’ultimo i rapporti erano stati interrotti a causa del suo noto filonazismo). Il risultato più organico e originale delle nuove riflessioni della Arendt, anticipato in importanti articoli dei primi anni Cinquanta, è nell’opera del 1958 Vita activa: la condizione umana.

E' questa l’opera che per circa vent’anni ha costituito l’oggetto principale degli studi e delle interpretazioni del pensiero politico-filosofico della Arendt, di cui si è sottolineato il peso della considerazione privilegiata della vita adiva e in particolare dell’agire politico. In realtà già in quest’opera erano presenti forti influenze del pensiero di Heidegger, come vedremo subito, che sarebbero risultate molto più accentuate nell’ultima sua opera, La vita della mente. La pubblicazione di quest’ultima opera nel 1978 ha spinto a riconsiderare l’intero significato del pensiero della Arendt, ora collegato, presso la maggior parte degli studiosi, alle tematiche relative alle posizioni di Heidegger.

Al centro dell’opera del 1958 vi è la delineazione dei caratteri della vita activa quali vengono fissati da Platone e soprattutto da Aristotele, in contrapposizione con la vita contemplativa. Vi è quindi la delineazione storica, dall’antichità greco-romana ai tempi moderni, delle vicende relative alle teorie e alle pratiche della vita adiva. Vi è infine la individuazione (con forte ispirazione heideggeriana) della crisi dei tempi

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moderni, derivante da un rovesciamento delle gerarchie sia tra vita activa e vita contemplativa sia tra i diversi livelli della vita activa.

Vita activa e vita contemplativa costituiscono, nelle riflessioni della Arendt, i due momenti fondamentali della condizione umana, concetto che la Arendt distingue nettamente da quello di natura umana (l’autrice è ben lontana da una concezione essenzialistica, e ben vicina, invece, alle concezioni di un Heidegger e di un Jaspers a proposito della realtà storico-esistenziale dell’essere umano).

La vita activa è la sfera relativa a «ciò che facciamo» e costituisce l’oggetto delle riflessioni dell’opera, svolte dal punto di vista del pensiero, la cui mancanza, osserva la Arendt nelle prime pagine del libro, rappresenta uno degli aspetti negativi del mondo moderno (ediz. Bompiani, Milano 1989, p. 5).

La vita activa si articola in tre fondamentali attività umane, costituenti, nel corso dell’opera, tre aspetti fondamentali della condizione umana: animai laborans, homo faber e zoon politikòn.

«L’attività lavorativa [animai laborans] corrisponde allo sviluppo biologico del colpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale della stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest’ultima è la vita stessa. L’operare [homo faber] è l’attività che corrisponde alla dimensione non-naturale dell’esistenza umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell’operare è un mondo “ artificiale ” di cose, nettamente distinto dall’ambiente naturale. Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato stesso dell’operare sta nel superare e trascendere tali limiti. La condizione umana dell’operare è l’essere-nel-mondo. L’azione [zoon politikòn], la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificamente la condizione - non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam - di ogni vita politica» (Ib.., p. 7).

Non c’è bisogno di sottolineare la gerarchia implicita in questa tripartizione: dalla sfera che ci accomuna agli animali si va a quella che riguarda gli esseri umani quali esseri non naturali ma sociali, che occupano nella loro «pluralità» il mondo e che comunicano non attraverso gli oggetti ma attraverso il discorso, il linguaggio, l’attività politica. E' la gerarchia esplicitamente affermata e teorizzata da Aristotele e messa in pratica sia, per breve tempo, nella polis greca, sia, per tempi più lunghi, nella società romana. La Arendt vede soprattutto fra i romani l’apprezzamento elevato della vita politica, mentre con la crisi dell’impero romano e con l’affermarsi della società

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cristiano- medioevale l’insieme delle attività della vita adiva viene ad appiattirsi e a confondersi in un’unica sfera di impegno nella vita mondana in quanto separata dalla vita eterna.

Il primato della vita eterna su quella mondana, della visione di Dio (vita contemplativa) sulle attività umane (vita adiva), non è però di origine cristiana. Risale alla filosofia greca, a Platone e ad Aristotele, che teorizzano la superiorità del bios theoretikos sul bios politikos. Tale superiorità, confermata e rafforzata dal cristianesimo, è connessa alla differenza radicale tra il mondo come qualcosa di preesistente all’uomo, derivante direttamente da Dio, e i prodotti dell’attività umana, precari e transeunti: «Il primato della contemplazione sopra l’attività si fonda sulla convinzione che nessuna opera prodotta dalle mani dell’uomo possa eguagliare in bellezza e verità il kosmos fisico, che ruota nell’eternità immutabile senz’alcuna interferenza o assistenza dall'esterno, da parte dell’uomo o di dio. Questa eternità si dischiude agli occhi mortali solo quando tutti i movimenti e le attività umane sono in perfetto riposo. Paragonate a quest’attitudine di quiete, tutte le distinzioni e articolazioni entro la vita adiva scompaiono» (Ib.., p. 13).

Nei termini della dissertazione su Agostino del 1929, questa distinzione fa ricordare quella tra la cupiditas (legame con la vita terrena) e la caritas (legame con la vita eterna). Se cessano gli stimoli della cupiditas, la caritas può realizzare il rapporto con l’eterno, con Dio. H cristianesimo pone Dio, al posto del mondo eterno e immutabile di cui parlavano Platone e Aristotele, quale oggetto della contemplazione.

La Arendt ritiene che la gerarchia interna alla vita adiva, entrata in crisi per opera del cristianesimo dopo la fine del mondo greco e romano e negata anche dal mondo moderno per ragioni però diverse da quelle del cristianesimo, abbia una sua validità e debba pertanto venir riaffermata. Il primato dell’agire politico, infatti, significa non appiattire in una indistinta sfera del «fare» quelle attività distinte che sono state definite più sopra. La Arendt ritiene anche necessario negare la tradizionale superiorità della vita contemplativa sulla vita adiva. Esse stanno su un piede di parità e di uguale dignità.

Il grosso dell’opera, dopo che viene precisata la distinzione tra la sfera privata (quella degli affetti) e la sfera pubblica (quella dell’agire politico) della condizione umana, è dedicato a ricostruire storicamente la presenza delle tre attività della vita adiva dall’antichità ai tempi moderni. La parte finale affronta il problema di quel che è successo alla vita adiva e alla vita contemplativa nell’età moderna. In questa pane sono evidenti gli spunti di analisi di ascendenza direttamente heideggeriana.

La Arendt vede in alcuni personaggi pre-modemi (Cristoforo Colombo, Martin Lutero, Galilei) i responsabili dell’apertura della modernità in diversi campi del sapere. Ma il vero iniziatore «moderno» della nuova età è stato Cartesio, che con il suo dubbio ha trovato il «punto di Archimede» della modernità, e cioè il radicamento

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nel soggetto di qualsiasi fonte di certezza e di verità. Due sono state le conseguenze principali della filosofia cartesiana e della sua diffusione nei vari campi dell’esperienza umana: la prima, e la più importante, «è stato il rovesciamento dell’ordine gerarchico tra la vita contemplativa e la vita adiva» (Ib.., p. 214). La seconda, non meno gravida di ulteriori conseguenze (tra le quali l'estraneazione sociale e l’isolamento politico di cui aveva parlato ne Le origini del totalitarismo), è stato un altro rovesciamento, interno, questo, alla vita adiva, dell’antica gerarchia: il risultato è che l’attività preminente non è né quella dell’agire politico (zoon politikòn) né quella della produzione di oggetti (homo faber) ma quella del puro lavorare per la sopravvivenza (animai laborans).

La Arendt analizza con finezza queste successive conseguenze derivanti dalla modernità e dagli sviluppi in tutti i campi dei principi del cartesianismo. La prima conseguenza (la vita activa conquista la superiorità sulla vita contemplativa) è dovuta a una iniziale vittoria, nell’età moderna, dell'homo faber su qualsiasi altro aspetto dell’attività umana: «Una delle conseguenze più plausibili tratte dal dubbio cartesiano fu l’abbandono del tentativo di comprendere la natura, e generalmente di conoscere le cose non prodotte dall’uomo, e il volgersi invece esclusivamente alle cose che dovevano la loro esistenza all’uomo» (Ib.., p. 221).

La vittoria iniziale dell''homo faber, dell’uomo produttore e creatore che non ha più bisogno di un dio o di qualcosa di eterno, porta però conseguenze di altro genere, che condurranno alla disfatta dell'homo faber. Queste ulteriori conseguenze derivano dalla desacralizzazione della vita individuale, che il cristianesimo aveva esaltato e sacralizzato ponendola come prioritaria rispetto al «corpo politico» (p. 234). Rimane, nell’epoca moderna della secolarizzazione, la priorità dell’interesse per la vita, ma per una vita che non ha ormai più nulla di sacro, di cristiano: «L’epoca moderna continuò a operare sul presupposto [cristiano] che la vita, e non il mondo, è il bene più alto per l’uomo»; ma, osserva la Arendt, «non ne consegue di necessità che viviamo ancora in un mondo cristiano. Infatti ciò che oggi importa non è l’immortalità della vita, ma la vita come il bene più alto» (Ib., p. 237).

Il mondo moderno è pervenuto a questo: alla disfatta dell'homo faber (lo zoon politikòn era stato sconfitto dall’affermarsi del cristianesimo) e alla vittoria dell'animal laborans, cioè al primato di quell’attività che ha come fine unico la conservazione della vita: «La vittoria dell'animal laborans non sarebbe mai stata completa se il processo di secolarizzazione, la perdita inevitabile della fede derivata dal dubbio cartesiano, non avesse privato la vita individuale della sua immortalità, o almeno della certezza dell’immortalità. La vita individuale divenne nuovamente mortale, come lo era stata nell’antichità, e il mondo fu ancora meno stabile, meno permanente e offri quindi ancor meno affidamento che nell’era cristiana. L’uomo

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moderno, quando perse la certezza di un mondo a venire, si ripiegò su se stesso» Ib., pp. 238-39).

L’umanizzazione integrale del mondo moderno avviene al livello più basso, secondo la Arendt: non è infatti il livello del primato della politica, e neppure quello del primato della produzione di oggetti, ma è quello del primato del darsi da fare per la pura sopravvivenza: «Nessuna delle facoltà superiori dell’uomo fu più necessaria per connettere la vita individuale con la vita della specie; la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuità della propria vita e di quella della propria famiglia, fu tutto quanto bastava» (Ib., p. 239).

Lo stesso pensiero, osserva la Arendt, usato soltanto in funzione strumentale, «divenne una funzione cerebrale, col risultato che gli strumenti elettronici adempiono queste funzioni molto meglio di noi»; per cui è perfettamente concepibile, scrive con toni pessimistici la Arendt, «che l’età moderna - cominciata con un cosi eccezionale e promettente rigoglio di attività umana - termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto» (Ib.., p. 240).

E' quella passività sulla quale può affermarsi, lo sappiamo, il totalitarismo; è quella passività che può produrre, sappiamo anche questo, gli Eichmann e la «banalità del male».

Un barlume di speranza, nella pagina finale dell’opera, appare quando la Arendt fa riferimento al pensiero, come a un’attività non assimilabile alla vita adiva: un’attività che è presente in pochi esemplari di umanità (gli scienziati, gli artisti), e che «è ancora possibile, e senza dubbio efficace, ovunque gli uomini vivano in condizioni di libertà politica» Ib., p. 242). Un’attività che è assente, invece, in uomini del tipo di Adolf Eichmann. E proprio dall’esperienza di questi uomini, anelli di meccanismi che producono il male, la Arendt sarà sollecitata, negli ultimi anni delle sue riflessioni, ad affrontare il tema del pensiero.

1082.«Vita contemplativa»: pensare, volere, giudicare.

Hannah Arendt perviene alle ultime sue riflessioni organiche sulla vita della mente riprendendo tematiche heideggeriane, agostiniane e soprattutto kantiane. È Kant, infatti, il filosofo al quale si accosta di più negli ultimi anni della sua vita, dedicandogli un corso di lezioni sulla teoria del giudicare nel 1970 (pubblicate postume nel 1982) e parti consistenti de La vita della mente, pubblicata anch’essa postuma nel 1978 a cura dell’amica scrittrice Mary MacCarthy. La stessa tripartizione di quest’opera si rifà in maniera abbastanza diretta alle tre Critiche di Kant. Come si è accennato precedente- mente, delle tre parti dell’opera - pensare, volere, giudicare - solo le prime due sono complete.

La Arendt afferma di essere stata sollecitata a scrivere sulla vita della mente da due ragioni: quella relativa all’assenza di pensiero nel comportamento di uomini quali

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Eichmann e quella relativa alla sfera della vita contemplativa che era rimasta sullo sfondo nell’opera del 1958 sulla vita adiva. La domanda generale che sta alla base delle sue riflessioni è: «Che cosa “facciamo ” quando non stiamo facendo altro che pensare?» (La vita della mente, II Mulino, Bologna 1987, p. 88).

Una risposta a tale domanda viene trovata nella distinzione kantiana tra ragione e intelletto, corrispondente a quella tra pensare e conoscere. Mentre l’intelletto opera per conoscere e ha come oggetto e scopo la verità, la ragione opera per pensare e ha come oggetto e scopo il significato. Il pensare, quindi, non ha scopi conoscitivi rispetto alla verità, ma punta a interrogarsi sul significato, anche quando sa che non può dare risposte a queste domande: «Ponendo delle domande, a cui non si può rispondere, sul significato, gli uomini si costituiscono come esseri interroganti. [...] Ora, è più che probabile che se gli uomini dovessero perdere l’appetito di significato che chiamiamo pensare, se cessassero di fare domande senza risposta, perderebbero insieme non solo l’attitudine a produrre quegli enti di pensiero che si chiamano opere d’arte, ma anche la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si fonda ogni civiltà. In questo senso, la ragione costituisce la condizione a priori dell’intelletto e del sapere» (Ib., p. 146).

Pensare, volere e giudicare costituiscono le attività fondamentali della mente, secondo Arendt, e non sono deducibili l’una dall’altra né riducibili ad un unico comune denominatore. Esse sono autonome l’una dall’altra, anche se operano tutte nella stessa condizione della mente, caratterizzata «da una certa quiete delle passioni dell’anima» (Ib., p. 152), e se hanno in comune una caratteristica specifica, la invisibilità (Ib., p. 154).

Le attività della vita della mente non hanno nulla a che fare, quindi, con l’apparenza, o la sensorialità, che è la condizione normale di tutte le altre attività: «Poiché le attività spirituali, non apparenti per definizione, hanno luogo in un mondo di apparenze e in un essere che condivide queste apparenze attraverso la ricettività dei suoi organi di senso, attraverso la propria attitudine e il proprio impulso ad apparire agli altri, tali attività non possono scaturire che da un deliberato ritrarsi dalle apparenze. E' un ritiro non tanto dal mondo [...] quanto dal suo essere presente ai sensi. Ogni atto spirituale si fonda sulla facoltà della mente di aver presente a se stessa ciò che è assente ai sensi» (Ib., p. 158).

Pensare, volere, giudicare, avvicinano alla condizione della morte, giacché «gli uomini si muovono in un mondo in cui l’esperienza più radicale di sparizione è la morte e ritrarsi dalle apparenze equivale a morire» (Ib., p. 163). Ma il ritrarsi dalle apparenze nelle attività spirituali non è totale, giacché quelle attività si servono della parola, del linguaggio, e attraverso questi «ponti» si mantiene un collegamento con il mondo delle apparenze. E' in particolare la metafora, sulla quale la Arendt scrive pagine efficacissime, che consente il legame col mondo delle apparenze attraverso il

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linguaggio: «Ed è in questa sfera che per mezzo della metafora il linguaggio della mente fa ritorno al mondo della visibilità per illuminare e approfondire ciò che non si può vedere ma può essere detto» (Ib., p. 196).

E ancora, con uno stile suggestivo, scrive la Arendt: «Per quanto nel pensare si sia prossimi a ciò che è lontano, per quanto si sia assenti da ciò che ci è vicino, l’io che pensa, ovviamente, non abbandona mai del tutto il mondo delle apparenze. [...] Concedendosi all’uso metaforico, il linguaggio ci permette di pensare, cioè di avere commercio con il non sensibile, proprio perché consente di “ portare oltre ” - metaphorein - le nostre esperienze sensibili. Non vi sono due mondi proprio perché la metafora li unisce» (Ib., pp. 196-97).

La Arendt collega quindi la problematica delle tre attività spirituali a quella del tempo, riferendosi anche esplicitamente alle posizioni di Agostino, sul quale si soffermerà spesso nella trattazione del volere. Il pensare ha a che fare col presente, realizza una sorta di «paralisi», e «si deve a questa esperienza dell’io che pensa se il primato del presente, il più transitorio dei tempi nel mondo delle apparenze, diventò un principio quasi dogmatico della speculazione filosofica» (Ib., p. 306). Se il pensare è legato al presente, il volere punta al futuro e il giudicare guarda al passato: «Pensare costituisce l’indispensabile preparativo per decidere ciò che sarà e valutare ciò che non è più» (Ib., p. 308).

La volontà, come attività connessa alla libertà, è stata «scoperta», secondo la Arendt, dal cristianesimo, e indagata a fondo soprattutto da Sant’Agostino. Il volere, legato alla libertà, ha a che fare con l’idea di un futuro diverso dal passato, cioè non con una concezione ciclica della natura e della storia (i Greci) ma con una concezione del tipo ebraico-cristiano, che contempla un inizio e una fine (motivo questo molto caro al suo maestro Jaspers). Non c’è volontà libera fra i Greci perché vige tra di loro una concezione ciclica. C’è invece nella tradizione ebraico-cristiana (Ib., p. 326 sgg.). Con una differenza, però, fondamentale fra la tradizione ebraica e quella cristiana, che «scopre» veramente la volontà nel senso comune della parola. Qui la tematica si fa teologica e individua la differenza fondamentale tra Vecchio e Nuovo Testamento: «L’Antica Legge diceva: tu devi fare; la Nuova Legge dice: tu devi volere. Fu l’esperienza di un imperativo che esigeva una sotto- missione volontaria a condurre alla scoperta della Volontà. E in tale esperienza era insito il fatto mirabile d’una libertà di cui nessuno dei popoli antichi - Greci, Romani, Ebrei - aveva avuto nozione: esiste nell’uomo una facoltà in virtù della quale, incurante di costrizione e necessità, egli può dire “ Si ” o “ No ”, dare o no il suo assenso a ciò che è dato di fatto, compresa la propria persona e la propria esistenza» (Ib., p. 383).

Scoperta della volontà significa scoperta della libertà, la cui sede è la interiorità, nella quale ognuno di noi è sovrano. É stato Agostino, soprattutto, il primo vero filosofo della volontà (Ib., p. 401 sgg.). Ad Agostino la Arendt dedica molte pagine,

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contrapponendogli Tommaso, che rovescia (insieme ad Alberto Magno e a Dante) le posizioni di Agostino dando la priorità non più alla volontà ma all’intelletto. Duns Scoto riproporrà la gerarchia agostiniana riassegnando il primato alla volontà. La Arendt prosegue la sua ricostruzione storico-teorica su questo tema soffermandosi su Kant, sull’idealismo tedesco, e proseguendo, attraverso Hegel e Nietzsche, fino a Heidegger, al quale dedica largo spazio.

Con Heidegger la Arendt aveva iniziato a filosofare, con Heidegger finisce, in quest’opera di grande fascino che ha costretto molti studiosi a rivedere interpretazioni consolidate e apparentemente definitive.

CAPITOLO XVIII.

SCHMITT: LE CATEGORIE DEL «POLITICO»

di Giovanni Fornero

1083.Vita e opere. Dalla demonizzazione alla odierna rivalutazione.

La filosofia giuridica e politica del Novecento trova in Cari Schmitt uno dei rappresentanti più originali e discussi.

Carl Schmitt nasce l'11 luglio 1888 a Plettenberg, da una famiglia cattolica di livello sociale medio-basso. Nel 1907 si iscrive all’Università di Berlino, con il proposito di studiare filosofia. Ma poi sceglie gli studi giuridici. Lasciata Berlino, si trasferisce a Monaco e, più tardi, a Strasburgo. Nel giugno 1910 si laurea summa con laude, con una dissertazione sul concetto di colpa. Superato l’esame per l’ingresso nelle carriere legali, nel febbraio 1915 entra come volontario nell’esercito tedesco. Ma essendosi ferito durante l’addestramento, non può andare al fronte e rimane presso il comando di Monaco. Nel 1916 consegue la «Habilitation» accademica a Strasburgo. Nel 1919 ottiene un posto alla «Handelshochschule» di Monaco. Nel semestre invernale 1919- 20 partecipa al seminario di Max Weber. Nel 1921 è docente di diritto a Greifswald, e, dal 1922 al 1928, a Bonn. Nel 1926 contrae il secondo matrimonio, dal quale nascerà una figlia. Alla fine degli anni Venti, Schmitt, che nel frattempo ha pubblicato alcune delle sue opere principali, è ormai una delle figure più influenti della cultura tedesca e uno degli osservatori più acuti delle vicende politiche della Repubblica di Weimar.

Dal 1928 al 1932 insegna alla «Handelshochschule» di Berlino ed entra in contatto con le élites intellettuali e politiche della capitale. Stringe rapporti d’amicizia con Jünger e Popitz e con alcuni membri dell’entourage di Schleicher e von Papen. Nel 1932 difende il Reich contro la Prussia. Dal 1932 al 1933 è professore a Colonia. Propenso ad una soluzione autoritaria ed anticomunista - ma non estremista - della crisi tedesca, appare inizialmente critico verso il partito nazista. Solo dopo l’avvento

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di Hider al potere, con «stupore» di quanti lo conoscevano, comincia ad essere favorevole al nuovo regime. Nel maggio 1933 si iscrive alla NSDAP con il numero di tessera 2.098.860. Sempre nello stesso mese, è cooptato nel Consiglio di Stato prussiano. A ottobre torna nuovamente ad insegnare a Berlino (1933-45). Nel frattempo riveste importanti cariche nell’Associazione nazionalsocialista dei giuristi tedeschi e dirige la «Deutsche Juristen Zeitung». Ad una prima fase (1933-36) di forte coinvolgimento intellettuale e politico con il regime, che trova il suo momento culminante nella giustificazione dell’operato di Hitler in occasione della notte dei lunghi coltelli («l’azione del Führer è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»), succede una seconda fase (1936-45) nella quale Schmitt - sempre più inviso agli elementi più ortodossi del regime, che gli rimproverano soprattutto il carattere opportunistico della sua adesione al nazismo e la fisionomia poco convincente del suo antisemitismo - finisce per essere estromesso dalla vita pubblica. Nel 1936 viene attaccato dall’organo delle S.S. «Das schwarze Korps». Grazie alla protezione di Goring riesce ad evitare il peggio ma è costretto a dare la dimissioni dalla «Zeitung» e dalla Associazione dei giuristi tedeschi. Obbligato all’«emigrazione interna», negli anni seguenti si dedica all’insegnamento e alla riflessione storica e teorica.

Nell’aprile 1945 viene interrogato dai sovietici. Rimesso in libertà, nel settembre dello stesso anno è arrestato dagli americani e tenuto prigioniero per oltre un anno. Nuovamente arrestato nel marzo 1947, viene ascoltato come testimone a Norimberga e rilasciato a maggio con un «non luogo a procedere». Privato della cattedra e allontanato dall’insegnamento, con un decreto umiliante che non sarà mai revocato, si ritira nella «sicurezza del silenzio» a meditare sulle proprie tormentate vicende («Ho conosciuto le escavazioni del destino, / Vittorie e sconfitte, rivoluzioni e restaurazioni, / Inflazioni e deflazioni, bombardamenti, / Diffamazioni, mutamenti di regime e scoppi di tubazioni, / Fame e freddo, campo di concentramento e cella d’isolamento, / E tutto ho attraversato da parte a parte, / E tutto mi ha attraversato da parte a parte»). Dopo aver fatto ritorno nella nativa Plettenberg, nella residenza da lui denominata «San Casciano», passa il resto dei suoi giorni a studiare e a comporre. La sua indefessa attività di libero scrittore dura sino alle soglie della morte, avvenuta, a 96 anni, nell’aprile del 1985.

Fra le sue opere ricordiamo: Gesetz und Urteil (Legge e sentenza, 1912), Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen (Il valore dello Stato e il significato del singolo, 1914), Politische Romantik (Romanticismo politico, 1919), Die Diktatur (La dittatura, 1921), Politische Theologie (Teologia politica, 1922), Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno, 1923), Der Begriff des Politischen (H concetto di ‘politico’, 1927), Verfassungslehre (Dottrina della Costituzione, 1928), Der Hüter der Verfassung (Il custode della Costituzione, 1931), Legalität und Legitimität

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(Legalità e legittimità, 1932), Staat, Bewegung, Volk (Stato, movimento, popolo, 1933), Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens (I tre tipi di pensiero giuridico, 1934), Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes (D Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, 1938), Land und Meer (Terra e mare, 1942), Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945-47 (Ex Captivitate sa- lus. Esperienze degli anni 1945-47, 1950), Der Nomos der Erde im Völkerrecht des jus Publicum Europaeum (D Nomos della terra nel diritto intemazionale dello Jus Publicum Europaeum, 1950), Die Tyrannei der Werte (La tirannia dei valori, 1960), Theorie des Partisanen (Teoria del partigiano, 1963), Politische Theologie II (Teologia politica II, 1970).

La figura intellettuale di Schmitt è stata segnata in modo cruciale dalla sua compromissione con il nazismo. Tant'e vero che, per lungo tempo, si è parlato di lui come di uno dei «teorici ufficiali del nazionalsocialismo» ovvero come di una «mente demoniaca e mefistofelica» destinata a rappresentare «l’ultima incarnazione del machiavellismo moderno». In realtà, la sua filosofia giuridico-politica è maturata prima del nazismo e, come tale, non può dirsi nazista. Anzi, la parte più originale e decisiva di essa, come avremo modo di constatare, ha poco a che vedere con l’ideologia specificamente hitleriana. Questo non significa che il momento nazionalsocialista del suo pensiero sia stato un semplice «incidente di percorso» privo di nessi reali con la sua prospettiva politica (§ 1086). Infatti, se è storicamente inesatto fare di Schmitt uno dei padri fondatori del regime («Se mi rendete responsabile per Hitler - egli dichiarerà al processo di Norimberga - dovete rendere responsabile Rousseau per i giacobini»), sarebbe storiograficamente scorretto perdere di vista i suoi rapporti con il nazismo e con la tradizione del pensiero reazionario. Rapporti che fungono da spia rivelatrice delle tendenze potenzialmente anti-democratiche della sua critica del liberalismo e del parlamentarismo. In altri termini, «smontare il pensiero politico di Schmitt in modo da mettere tra parentesi il suo impegno politico nella edificazione del Terzo Reich, e rimontarlo in modo da piegarlo a valenze progressiste» può essere stata, a suo tempo, un’operazione utile a svincolare il nostro autore dall’annoso cliché nazista, ma, a lungo andare, ha finito per rivelarsi un «.coup de théàtre, anche epistemologico» (A. CAPONE, Introduzione ad AA. VV., Tradizione e modernità nel pensiero politico di Cari Schmitt, a cura di R. Racinaro, Esi, Napoli 1987, p. 8). Un coup de théàtre, si potrebbe aggiungere, di cui oggi non abbiamo più bisogno per accostarci in modo proficuo a Schmitt, e di cui, anzi, dobbiamo liberarci, ai fini di un approccio storiografico tendenzialmente più equilibrato e distaccato (e quindi più scientifico).

Gli anni Ottanta hanno visto un crescente interesse per Schmitt da parte di filosofi, giuristi e politologi di tutto il mondo. Interesse che ha trovato il suo momento culminante in occasione della morte (1985) e del centenario della nascita (1988). Anche nel nostro Paese, nel quale, come ha osservato Norberto Bobbio, vi è stato

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negli ultimi anni uno scambio di padri fra destra e sinistra (con il risultato di avere una nuova destra che si richiama a Gramsci e alla sua teoria dell’egemonia ed una nuova sinistra che si richiama a Nietzsche, Heidegger e Schmitt) lo studioso tedesco ha conosciuto una fortuna notevole, testimoniata dal numero crescente delle opere tradotte e degli interventi critici (cfr. la Nota bibliografica).

Schmitt si è considerato, dall’inizio alla fine, come un semplice giurista: «Mi sento al cento per cento un giurista e niente altro. Io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista» (Un giurista davanti a se stesso. Intervista a Cari Schmitt, a cura di F. Lanchester, in «Quaderni Costituzionali», n. 3, 1983, p. 34). Tuttavia, proprio in quanto giurista, non ha potuto evitare di essere esposto a ciò che egli stesso chiama «il pericolo del Politico». Infatti, in polemica con ogni tipo di formalismo giuridico e di normativismo depoliticizzato, Schmitt dichiara che a tale rischio il giurista «non può sfuggire, neppure scomparendo nel nirvana del puro positivismo» (Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, trad, ital., Adelphi, Milano 1987, p. 57). L’apertura al «politico» ha coinciso a sua volta con l’apertura all’intero universo dei saperi umanistici. Tant’è vero che nel corso del suo lungo e frastagliato itinerario intellettuale, che va dal 1910 al 1978, egli ha toccato i settori più disparati: dal diritto costituzionale alla filosofia politica, dalla storia alla teologia, dal diritto internazionale alla geopolitica, dalla letteratura alla cronaca delle istituzioni ecc. La sua opera manifesta quindi una ricchezza interdisciplinare notevole, dalla quale non può prescindere nessuna ricostruzione complessiva del suo pensiero. Di conseguenza, nelle pagine seguenti, pur privilegiando gli aspetti filosofici e metodologici della sua dottrina, cercheremo di tener presente la globalità del suo discorso teorico e storico.

1084. La critica del normativismo e la teologia politica.

Alla base del pensiero di Schmitt, cosi come si va delineando sin dai primi scritti - da Gesetz und Urteil (1912) a Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen (1914), da Politische Romantik (1919) a Die Diktatur (1921) - vi è un nuovo modo di porsi di fronte alla realtà dello Stato e della politica, che si esprime in un tentativo di rifondazione concettuale dell'idea di sovranità. A questo proposito, il documento più significativo, quello che raccoglie in modo ordinato le intuizioni disseminate nei primi lavori e che elabora in forma compiùta le tesi già contenute in Die Diktatur, è Politische Theologie del 1922.

L’opera, che porta come sottotitolo Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, si apre con la nota e categorica affermazione secondo cui «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» (Teologia politica, trad. ital. in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, 19842, p. 33). Questa tesi, che condensa in forma lapidaria il senso della rivoluzione teorica dello studioso tedesco, acquista forza e significato in contrapposizione al normativismo e al positivismo giuridico. Come noto (§ 825), secondo Kelsen lo Stato coincide con l’ordinamento giuridico, ovvero con

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l’efficacia oggettiva di una norma impersonale. In tal modo, mettendo tra parentesi ogni elemento personalistico e decisionistico, Kelsen risolve, o meglio dissolve, la sovranità nella norma stessa. Ma il normativismo, incalza Schmitt, che si compiace di giocare il ruolo di anti-Kelsen, rivela la sua debolezza in rapporto allo «stato d’eccezione» (Ausnahmezustand), ossia quando viene meno la norma ordinaria. Inserendosi in quel filone di pensiero esistenzialistico che, da Kierkegaard a Jaspers, ha attribuito una portata rivelativa alle «situazioni-limite» (Grenzsituationen), Schmitt insiste sul valore epistemologico e metodologico dello stato d’eccezione, scorgendo, in esso, la chiave di comprensione della normalità stessa. Infatti, difendendo il primato logico e reale dell’eccezione rispetto alla normalità, Schmitt afferma che è l’eccezione a produrre la regola - e non viceversa: «Sarebbe razionalismo conseguente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto di interesse scientifico. L’eccezione confonde l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivistica si incontrano spesso argomenti del genere [...] Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione. Un teologo protestante [Kierkegaard] che ha dimostrato di quale vitale intensità può essere capace la riflessione teologica anche nel xix secolo, ha detto: “L’eccezione spiega il generale e se stessa. E se si vuole studiare corretta- mente il generale, bisogna darsi da fare solo intorno ad una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto molto più chiaramente del generale stesso”» (Ib., p. 41).

In altri termini, trasferendoci dalla filosofia della vita alla teoria giuridica, se la sovranità si identificasse con la norma - e quindi ordine giuridico e ordine normativo fossero la stessa cosa - si dovrebbe ammettere che nel caso d’eccezione, ossia là dove la norma decade o si rivela impotente, la sovranità sparisce. Ma ciò non è vero, in quanto nella situazione d’emergenza, pur essendo sospeso il diritto ordinario, permane pur sempre l’autorità dello Stato. Anzi, è proprio nella situazione d’emergenza che si manifesta la vera natura della sovranità e l’essenza del diritto. Infatti, come si è visto, il sovrano è precisamente colui che ha la prerogativa di decidere sullo stato di eccezione: «Il caso d’eccezione rende palese nel mondo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto» (Ib., p. 40). Di conseguenza, la definizione della sovranità proposta da Schmitt - che egli fa risalire ad una linea di pensiero che va da Bodin alla filosofia cattolica

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della controrivoluzione - presenta l’esplicito carattere di un concetto-limite (Grenzbegriff), ovvero di un’idea che non allude alla situazione «normale» studiata dalle scienze positive ma alla congiuntura «eccezionale» indagata dalla filosofia della vita. Infatti, come il noumeno di Kant è un concetto-limite che serve a circoscrivere le pretese della sensibilità e della scienza fenomenica, cosi l’evento eccezionale ipotizzato da Schmitt è un concetto-limite che serve a circoscrivere le pretese del positivismo giuridico.

In ogni caso, se la sovranità risiede nella decisione e non nella norma, ne segue che non è la decisione a fondarsi sulla norma, bensì la norma a fondarsi sulla decisione: «Anche l’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine, riposa su una decisione e non su una norma» (Ib., p. 37). In questo primato della decisione - il quale sottintende un esistenzialistico primato della personalità e della situazione concreta rispetto a qualsiasi universale dato - risiede il cosiddetto «decisionismo» di Schmitt. Tale decisionismo è stato variamente interpretato e discusso (cfr. ad es. C. Bonvecchio, Decisionismo. La dottrina politica di Cari Schmitt, Unicopli, Milano 1984). Non pare comunque che esso vada interpretato nel senso indicato da Karl Lowith, ossia alla stregua di un occasionalismo nichilistico ed estetizzante destinato ad annientare il valore della ragione e della norma (Der okkasionelle Dezisionismus von Carl Schmitt, 1935 e 1960, trad, ital., in Id., Critica dell’esistenza storica, Morano, Napoli 1967, pp. 111-61). Infatti, pur essendo «fondata sul nulla» (Auf Nichts gestellt) - qui Schmitt intende probabilmente il nulla relativo delle norme stabilite - la decisione di cui egli parla «non è un mero “gesto” arbitrario fine a se stesso - una sorta di art pour l’art - ma il taglio, la scissione innovativa che sta all’origine di ogni ordinamento concreto e realmente esistente» (G. MARRAMAO, Cari Schmitt, in Aa. Vv., Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano 1991, voi. IV, p. 132).

Insieme alla dottrina della sovranità, l’altro tema di fondo di Politische Theologie è, secondo l’indicazione del titolo, la «teologia politica». Con questa espressione il nostro autore non intende la theologia civilis, ossia quella forma di teologia che, a quanto ci riferisce Agostino nel De Civitate Dei (VI, 5) rifacendosi a M. Terenzio Varrone, viene elaborata dai sacerdoti allo scopo di dare legittimità alla città e alle sue leggi. In altri termini, parlando di «teologia politica», Schmitt non intende alludere alla sacralizzazione della politica (o alla politicizzazione del sacro) bensì alla connessione storico-sistematica fra i concetti teologico-religiosi e quelli politico-giuridici. Connessione dovuta al fatto che i concetti politici da un lato derivano da quelli teologici e dall’altro presentano uri analogia strutturale con essi: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è

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necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli» (Ib.., p. 61).

Schmitt fa risalire l’individuazione di questa parentela sistematica fra teologia e politica a Leibniz e precisamente al passo in cui il filosofo scrive: «A buon diritto abbiamo trasferito il modello della nostra ripartizione dalla teologia al diritto, poiché è straordinaria l’analogia delle due discipline» (Ib.., p. 62; il passo di Leibniz è tratto da Nova Methodus, Francofurt 1667, par. 4-5). Un’altra fonte è costituita dai teorici della restaurazione. Infatti, sin da Politische Romantik, Schmitt aveva osservato come i controrivoluzionari - Bonald in primis - avessero esplicitamente colto «le analogie esistenti fra la rappresentazione teologico-filosofica di Dio e l’ordinamento politico della società» (trad, ital., Romanticismo politico, Giuffrè, Milano 1981, p. 96). In particolare, essi avrebbero mostrato: 1) come alla concezione di un Dio personale, creatore e ordinatore corrispondesse, sul piano politico, l’idea della monarchia assoluta; 2) come alla concezione deistica di un Dio estraneo al mondo corrispondesse l’ordinamento della monarchia costituzionale, in cui «il re regna ma non governa»; 3) come alle teorie atee corrispondessero, sul piano politico, le dottrine socialiste ed anarchiche. Il legame fra teologia e politica sarebbe operante anche negli hegeliani di sinistra, in Proudhon e in Bakunin, i quali, al posto di Dio, pongono l’Umanità, secolarizzando le lotte religiose nei conflitti politici (Teologia politica, cit., pp. 72-73). Anche Kelsen avrebbe scorto la parentela logica fra teologia e giurisprudenza, pur facendo della democrazia «l’espressione di un relativismo politico e di una scientificità liberata da miracoli e dogmi e fondata sulla comprensione umana e sul dubbio critico» (Ib., pp. 65-66).

Dal punto di vista metodologico, l’individuazione schmittiana del .nesso storico-sistematico fra teologia e politica si colloca nell’orizzonte di ricerca inaugurato da Weber (al quale, e non a caso, è dedicato Politische Theologie). Infatti, è proprio sulla scorta del suo pensiero che Schmitt parla di una «sociologia dei concetti giuridici». Tale metodo viene accuratamente distinto dalle spiegazioni spiritualistiche e materialistiche dei fenomeni storici vigenti nel XIX secolo. Spiegazioni che Schmitt accusa di riduzionismo acritico: «La spiegazione spiritualistica dei processi materiali e la spiegazione materialistica dei fenomeni spirituali cercano entrambe di accertare nessi originari. Esse stabiliscono prima una contrapposizione fra le due sfere e poi la risolvono, mediante la riduzione di una delle due sfere all’altra, in un nulla: un procedimento che, applicato con caratteri di necessità metodologica, finisce per trasformarsi in caricatura» (Ib.., p. 67). Infatti, respingendo l’idea di una causalità necessaria fra il teologico e il politico, Schmitt si limita a rilevare identità, parallelismi e corrispondenze fra i due settori. Ad esempio, nel caso della sovranità, non si tratta di

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affermare che il concetto cartesiano di Dio rappresenta il riflesso ideale di quell’elemento «reale» che è la monarchia del XVII secolo, ma di prendere atto dell’identità di struttura fra l’organizzazione politica e quella metafisica: «Il quadro metafisico che una determinata epoca si costruisce del mondo ha la stessa struttura di ciò che si presenta a prima vista come la forma della sua organizzazione politica. La sociologia del concetto di sovranità consiste proprio nella determinazione di un’identità del genere» (Ib., p. 69).

Questo gusto per la ricerca di analogie fra i diversi ambiti del sapere e dell’agire di una determinata epoca - che Schmitt condivide con Benjamin - è «sicuramente uno dei frutti più positivi dell’approccio schmittiano ed è uno degli elementi che hanno contribuito in certa misura al fascino esercitato dalla sua opera» (M. NICOLETTI,

Trascendenza e potere. La teologia politica di Cari Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, p. 192).

1085. La teoria generale del «politico» e la dottrina dei «centri di riferimento».

Il secondo scritto fondamentale di Schmitt è il saggio Der Begriff des Politischen (Il concetto di ‘politico’). Apparso originariamente sul weberiano «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» (1927), è stato pubblicato l’anno dopo in un’edizione a sé. Nel 1932 e nel 1963 è stato integrato di note, aggiunte e corollari. Di tutte le opere di Schmitt Der Begriff des Politischen è la più conosciuta ed è quella che ha suscitato intorno a sé i maggiori dibattiti. Infatti, è proprio in questo testo - che Gianfranco Miglio, nella Presentazione all’edizione italiana, definisce come il suo «capolavoro» e come il luogo in cui avviene «la scoperta veramente copernicana delle ‘categorie del politico’» - che il nostro autore è riuscito a dare un’originale espressione teorico-filosofica alle proprie idee.

Anche in questo caso, egli parte dell’enunciazione di una tesi perentoria: «Il concetto di Stato presuppone quello di “politico”» (trad. ital. in Le categorie del ‘politico’, cit., p. 101). Alla tesi segue immediatamente la spiegazione. E' raro, osserva Schmitt, trovare una chiara definizione del «politico». Infatti, quest’ultimo viene solitamente definito in modo negativo, cioè mediante una contrapposizione ad altre sfere (economia, morale, diritto ecc.) oppure viene assimilato a «statale». Ma se nel primo caso non si perviene ad una definizione specifica, ovvero non si coglie in positivo «il nocciolo» del «politico», nel secondo caso si cade nei consueti circoli viziosi per cui la politica viene definita tramite lo Stato e lo Stato tramite la politica. Inoltre, bisogna aggiungere che se in passato poteva essere legittimo equiparare i concetti di «politico» e di «statale», in quanto lo Stato deteneva il monopolio del politico in contrapposizione alla società, oggi, in un periodo in cui Stato e società si compenetrano a vicenda, ossia in una situazione in cui «tutto è politico», almeno virtualmente, il riferimento allo Stato non basta più a fondare un carattere distintivo del politico (Ib., pp. 105-6).

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Il concetto di politico va invece definito attraverso un criterio autonomo, ovvero attraverso una «distinzione di fondo», alla quale può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso proprio. Ora, se la morale si definisce in base alla distinzione fra buono e cattivo, l’estetica in base alla distinzione fra bello e brutto, l’economia in base alla distinzione fra utile e dannoso, «La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)» (Ib.., p. 108). Tale distinzione, puntualizza Schmitt, offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Il suo significato è di indicare «l’estremo grado di intensità» dell’unione o della separazione fra gli individui. Tant’è che «Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici» Ib., p. 120).

Dal punto di vista politico, il nemico è tale non in virtù di una connotazione assiologica, bensì esistenziale. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde), ossia colui che si trova in una situazione diversa dalla mia. D nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, ovvero l'hostis, non l'inimicus in senso lato. Tant’è vero che il noto passo evangelico che comanda l’amore per i nemici (Mt. 5,44; Le. 6,27) si riferisce esclusivamente ai nemici privati (gli inimici) e non ai nemici pubblici: «Nella lotta millenaria fra Cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio “nemico”, cioè il proprio avversario» Ib., p. 112).

Essendo fondata sulla distinzione amico-nemico, la politica è strutturalmente conflitto. Infatti, tutti i concetti politici hanno un senso polemico e diventano astrazioni vuote se viene meno il riferimento ad un nemico esterno. Nella nozione di politico rientra quindi l’eventualità di una lotta, che al limite, può portare alla guerra e alla soppressione fisica del nemico: «I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica» Ib., p. 116). Il fatto che vi sia una connessione strutturale fra la politica e la guerra non significa tuttavia, come si è detto talora, che la politica, per Schmitt, generi necessariamente la guerra. Infatti, la guerra, in quanto esito estremo dell’ostilità, non è il fine reale della politica, ma la possibilità ultima a partire dalla quale essa si definisce: «La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando cosi uno

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specifico comportamento politico» Ib., p. 117). Proprio per questo, Schmitt può scrivere che la sua definizione di politico «non è né bellicistica né militaristica, né imperialistica, né pacifistica» (Ib., p. 116). In altri termini, il nostro autore intende dire che la politica, al pari della sovranità, acquista un senso unicamente in base ad una possibilità o ad un caso-limite: «Ancora oggi il caso di guerra è il “caso critico”. Si può dire che qui, come anche in altri casi, proprio il caso d’eccezione ha un’importanza particolarmente decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose. Infatti solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamente politica» (Ib., p. 118).

Ma sostenere che il raggruppamento amico-nemico fa tutt’uno con la possibilità reale dell’uccisione fisica significa sostenere che la politica è resa tale da quella possibilità estrema che è la morte (cfr. C.E. FRYE, Carl Schmitt’s Concept of Political, in «The Journal of Politics», 1966, 28, pp. 818-30 e M. NICOLETTI, op. cit., pp. 269-70). Questo nesso fra morte e politica, se da un lato rimanda ad Hobbes, dall’altro richiama Heidegger. Infatti, come nell’autore di Essere e tempo l’Esserci c’è finché c’è tale possibilità, cosi, in Schmitt, la politica c’è finché c’è tale possibilità: «Un mondo nel quale sia stata definitivamente accantonata e distrutta la possibilità di una lotta [...], un globo terrestre definitivamente pacificato, sarebbe un mondo senza più la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica» (Il concetto di 'politico', cit., p. 118).

Da quanto si è detto sinora, emerge come la decisione politica primaria, ossia la decisione sovrana, sia quella che consiste nella identificazione dell’amico e del nemico. Tale decisione delle decisioni spetta allo Stato, il quale, come Schmitt ha già chiarito in Die Diktatur, nasce storicamente nel momento in cui, in antitesi alle lotte civili e alle guerre di religione, riesce a neutralizzare i conflitti interni a favore di quelli esterni. Tant’è vero che quando lo Stato non ha più la capacità di «relativizzare» i conflitti esistenti nel proprio ambito, la contrapposizione amico-nemico tende a spostarsi dentro lo Stato stesso e a generare la guerra civile: «Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti “i” contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della “politica interna”, cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato» (Ib., p. 115).

Poiché la politica presuppone sempre l’esistenza di una parte di uomini distinta e contrapposta ad un’altra parte di uomini - «Schmitt ha “scoperto” e dimostrato quarantacinque anni fa», scrive Miglio, «che ovunque c’è “politica” là si incontra l’antitesi “amico-nemico”, e che ogni raggruppamento politico si costituisce sempre a spese di, e contro un’altra porzione di umanità» (Ib., p. 13) - ne deriva che l’unità politica non può essere, per sua essenza, universale: «Dal carattere concettuale del

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“politico” consegue il pluralismo del mondo degli Stati. L’unità politica presuppone la possibilità reale del nemico e quindi un’altra unità politica, coesistente con la prima. Perciò sulla terra, finché esiste uno Stato, vi saranno sempre più Stati e non può esistere uno “Stato” mondiale che comprenda tutta la terra e tutta l’umanità. Il mondo politico è un pluriverso non un universo» (Ib.., pp. 137-38). In altri termini, l’esistenza di un «super-Stato» mondiale appare impossibile, poiché ogni unità implica non solo una pacificazione interna, ma anche una mobilitazione sul fronte esterno. Invece l’umanità «non ha nemici, quanto meno in questo pianeta». Per cui, se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del suo avversario. Analogamente, l’idea di una lega di nazioni può fungere da semplice «strumento ideologico dell’imperialismo di uno Stato o di una coalizione di Stati contro altri Stati» (Ib., p. 140).

La teoria dell’amico-nemico conduce il nostro autore a soffermarsi sui rapporti fra politica ed antropologia. Egli osserva come a dottrine politiche diverse corrispondano antropologie diverse. Ad esempio le teorie autoritarie tendono ad accompagnarsi ad una visione pessimistica, mentre quelle anarchiche ad una concezione ottimistica. Per suo conto, Schmitt, pur non entrando in merito alla struttura metafisica dell’uomo, constata come tutte le teorie politiche «in senso proprio» - e quindi tutte le teorie che non postulino la risoluzione del politico nella situazione metapolitica dell’anarchia o dell’assenza di nemici reali - presuppongano l’uomo come «cattivo». In altri termini, l’idea del carattere «problematico» e «pericoloso» dell’uomo si configura, secondo Schmitt, come una sorta di postulato metodologico di ogni dottrina o prassi politica.

Strettamente connesso alle riflessioni di Der Begriff des Politischen, che contiene anche una sezione di critica del liberalismo di cui diremo al § 1086, è Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen (L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni). In questo breve ma rilevante lavoro del 1929, successivamente inserito nella terza edizione (1932) di Der Begriff des Politischen, Schmitt afferma che la società occidentale moderna si è organizzata, di volta in volta, attorno ad un determinato «centro di riferimento» (Zentralgebiet, territorio centrale). Con tale espressione, Schmitt intende il centro ordinatore della vita spirituale di un’epoca, ovvero il settore o l’ambito decisivo in cui essa tende a riconoscersi. Schmitt enuncia quattro di questi centri di riferimento: il teologico (secolo XVI), il metafisico-scientifico (secolo XVII), il morale-umanitario (secolo XVIII), l'economico (secolo XIX). Per quanto concerne il secolo XX, egli ne parla come dell’era della tecnica. L’esistenza di questi centri di riferimento - che Schmitt, rifiutando ogni filosofia universale della storia, sia essa di tipo progressivo o regressivo, presenta come il frutto di una constatazione positiva, limitata all’ambito geografico della civiltà occidentale - fa si che i problemi dei vari settori vengano risolti a partire da un determinato ambito

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problematico: «Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini “saranno d’accordo”. Lo stesso per le altre epoche: per quella morale-umanitaria si tratta soltanto di educare e formare gli uomini dal punto di vista morale e tutti i problemi si riducono a problemi di educazione; per un’epoca economica è sufficiente risolvere correttamente il problema della produzione e della distribuzione dei beni e tutte le questioni morali e sociali non presentano più nessuna difficoltà; per il pensiero puramente tecnico anche il problema economico viene risolto dalle nuove scoperte tecniche e tutte le questioni, compresa quella economica, passano in secondo piano» (trad. ital. in II concetto di ‘politico’, cit., pp. 173-74).

Parallelamente a questo processo di spostamento degli interessi si ha uno spostamento del primato attribuito ad una certa categoria di studiosi (il teologo, il metafisico-scienziato, il moralista, l’economista, il tecnico). I centri di riferimento condizionano anche la sfera politica e statale, poiché i raggruppamenti amico-nemico si costituiscono in base ad essi. Ad esempio, in un’epoca teologica, il settore religioso rappresenta lo spazio in cui avvengono i conflitti politici e la roccaforte che il potere politico cerca di tenere sotto controllo. Ai diversi centri di riferimento, continua Schmitt, corrispondono le diverse fasi della neutralizzazione e della spoliticizzazione. Infatti, mano a mano che emerge un ambito centrale, esso diviene ben presto un terreno di scontro che rischia di portare alla guerra civile. Da qui l’esigenza di un ambito neutrale che permetta un «minimo di accordo e di premesse comuni» (Ib., p. 176). E poiché il terreno neutrale appena conquistato si trasforma subito in un nuovo campo di battaglia, diventa necessario cercare altre sfere neutrali.

Questo processo di progressiva neutralizzazione degli ambiti spiega perché agli occhi dell’umanità europea sia apparso terreno neutrale ora il sapere metafisico e scientifico (nel Seicento), ora la morale (nel Settecento), ora l’economia (nell’Ottocento). Nel Novecento il terreno in questione tende ad essere incarnato dalla tecnica. Infatti, come l’umanità del xvi secolo, stremata dalle dispute e dalle lotte teologiche, vide nella metafisica e nella scienza un terreno neutrale in grado di garantire un minimo di intesa fra le menti, cosi l’umanità del xx secolo sembra scorgere nella tecnica la definitiva ancora di salvataggio dai conflitti: «Nei confronti delle questioni teologiche, metafisiche, morali ed anche economiche, intorno alle quali si può discutere all’infinito, i problemi puramente tecnici hanno qualcosa di serenamente concreto; essi conoscono soluzioni plausibili ed è comprensibile che si pensasse di salvarsi dalla problematicità inestricabile di tutte le altre sfere, ricorrendo al tecnicismo. Su questo piano sembrano potersi unire rapidamente tutti i popoli e le nazioni, tutte le classi e le confessioni, tutte le età e i sessi, poiché tutti si servono con la medesima ovvietà dei vantaggi e delle comodità del comfort tecnico» (Ib., p. 178). Tuttavia, anche la presunta neutralità della tecnica si rivela un’illusione, poiché essa, in quanto tale, resta

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«culturalmente cieca» e non ha in sé medesima il criterio delle proprie utilizzazioni: «può essere rivoluzionaria e reazionaria, può servire alla libertà e all'oppressione, alla centralizzazione e alla decentralizzazione. Dai suoi principi e dai suoi punti di vista solo tecnici non deriva né una problematica politica né una risposta politica» Ib., pp. 179-80). In antitesi ai filosofi della decadenza dell’Occidente (da Spengler a Scheler) Schmitt ritiene tuttavia che la tecnica non sia un corpo privo di anima, ma il risultato di una fede e di un atteggiamento spirituale ben preciso: «Lo spirito del tecnicismo, che ha portato alla fede di massa in un attivismo antireligioso dell’aldiquà, è spirito, forse spirito maligno e diabolico, ma non tale da essere tolto di mezzo come meccanicistico e da essere ascritto alla tecnica. Esso è forse qualcosa di raccapricciante, ma in sé non è nulla di tecnico e di macchinale. Esso è la fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura» (Ib., p. 181).

Questo discorso ci fa tornare al tema della secolarizzazione e alla teologia politica. La secolarizzazione, per Schmitt, non riguarda aspetti sociologici puramente esteriori (come la perdita di influenza della Chiesa sulla società) poiché concerne, più profondamente, la serie degli «investimenti» effettuati dallo spirito metafisico e religioso dell’uomo. Infatti, secondo Schmitt, la secolarizzazione non implica il passaggio dalla metafisica alla non-metafisica, ovvero la transizione dalla fede al disincanto, ma la sostituzione di un’istanza metafìsica con un’altra, e quindi il progressivo cambiamento degli oggetti di fede. Processo che nella avventura storica dell’Occidente comincia con la fede in Dio e si conclude con la fede nella tecnica.

1086. Dalla dottrina della costituzione alla teoria delle «rivoluzioni SPAZIALI».

Le riflessioni filosofico-giuridico-politiche degli anni Venti trovano nella Verfassungslehre (Dottrina della Costituzione) del 1928 la loro sintesi sistematica. Anche quest’opera, che rappresenta un’alternativa teorica alla Allgemeine Staatslehre (Dottrina generale dello Stato) di Kelsen, apparsa soltanto tre anni prima, ha come punto di riferimento polemico il formalismo e il normativismo. Ciò risulta evidente sin dalla prima parte, interamente dedicata alla delucidazione teorico-storica del concetto di costituzione.

Schmitt distingue quattro concetti di costituzione: uno assoluto, uno relativo, uno positivo e uno ideale. Il concetto assoluto allude alla compagine politica di un popolo, considerata come un «tutto unitario» (trad, ital., Giuffrè, Milano 1984, p. 15). Tale unità può essere intesa a sua volta o in senso esistenziale o in senso ideale. Nel primo caso indica un «concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente» (Ib.., p. 16). Nel secondo caso «un sistema unitario e chiuso delle norme più alte ed ultime» (Ib.., p. 20). Fra il significato esistenziale (la costituzione come Daseinform di un popolo) e il significo ideale (la costituzione come regolamentazione legislativa o norma delle norme) egli opta chiaramente per quello

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esistenziale, poiché, a suo giudizio, «una norma non pone mai se stessa», ma vige in quanto è posta dalla volontà di un potere costituente (Ib.., p. 23). Il concetto relativo allude alla costituzione come molteplicità di singole leggi, aventi specifici requisiti (il fatto di essere scritte e di non poter essere modificate senza procedure particolari). Schmitt respinge tale significato, ritenendolo una relativizzazione dell’identità propria della costituzione. Il concetto positivo allude alla costituzione come decisione fondamentale di un popolo circa le modalità della propria esistenza politica e quindi, insieme al momento esistenziale dell’unità, focalizza il momento della decisione attraverso cui essa si pone e prende forma. Il concetto ideale allude al fatto che, per motivi politici, si è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo quella che corrisponde ad un determinato paradigma di costituzione (ad esempio il modello liberal-borghese).

Illustrati i diversi significati di costituzione e manifestata la sua preferenza per l’accezione positiva, Schmitt, nel seguito dell’opera, affronta una serie di argomenti disparati, che vanno dalla nascita della Costituzione alla legittimità della medesima, dai principi dello Stato borghese di diritto alla distinzione dei poteri ecc. Uno dei punti salienti della sua analisi è la messa in luce dei due «elementi di base» delle forme politiche. Procedendo al di là della tipologia tradizionale dei regimi politici, Schmitt dichiara che le diverse forme di Stato sono riconducibili ai due principi fondamentali dell’identità e della rappresentanza (tema, quest’ultimo, su cui egli si era già soffermato in Römischer Katholizismus und politische Form del 1923, scorgendo nella Chiesa una costruzione giuridica paradigmatica). Infatti, un popolo può raggiungere lo status di unità politica o quando agisce in immediata identità con se stesso o quando la sua unità viene rappresentata da determinati uomini. Per cui, se l’identità trova nella democrazia diretta la sua espressione emblematica, la rappresentanza trova nella monarchia assoluta (e nel motto «l’Etat c’est moi») la sua manifestazione più significativa. Tuttavia, osserva Schmitt, nella realtà concreta della vita politica non esiste uno Stato che possa rinunciare al principio di identità, poiché, in caso contrario, si avrebbe l’assurdo di uno Stato senza popolo. Analogamente, non c’è nessuno Stato senza rappresentanza. Ciò vale anche in una democrazia diretta e, a maggior ragione, nelle democrazie moderne. Del resto, il fatto stesso che l’esistenza politica assuma una forma, comporta un elemento rappresentativo: «In ogni Stato devono esserci uomini che possano dire: L’Etat c’est nous» (Ib.., p. 273). L’intuizione di questa unità dei distinti risale allo stesso Aristotele, il quale «nella dottrina della “politica” ha riconosciuto il vero Stato come unione del dominare e dell’esser dominati, dell’arkein e dell’arkestai» (Ib.., p. 285). Sulla scorta di questi principi, Schmitt intraprende un’analisi teorico-storica della democrazia e dell’aristocrazia, che sbocca in una disamina del parlamentarismo.

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La critica al parlamentarismo e, più in generale, al liberalismo - che risulta contestuale alla critica del normativismo - costituisce una delle componenti di fondo del pensiero di Schmitt e del suo orientamento antindividualistico ed antieconomicistico. Già presente negli scritti che vanno da Der Wert des Staates a Politische Theologie, tale orientamento risulta esplicito soprattutto a partire da Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (La situazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno). In questo saggio del 1923, il nostro autore, a differenza di certa letteratura antiparlamentarista del suo tempo, non si limita a mettere sotto accusa disfunzioni contingenti della vita parlamentare di Weimar, ma denuncia quelli che, a suo avviso, rappresentano gli inconvenienti strutturali del parlamentarismo stesso: l’egemonia dei partiti, la lottizzazione dei pubblici poteri, l’abuso dei privilegi, la policrazia, le ricorrenti crisi di governo, la separazione fra elettori ed eletti, la riduzione della politica a gestione di interessi di parte ecc. In questi inconvenienti egli vede un tradimento della democrazia ed una lampante dimostrazione del fatto che democrazia e parlamentarismo liberale non sono la stessa cosa.

Un altro documento importante, forse quello teoricamente decisivo, della critica antiliberale di Schmitt è Der Begriff des Politischen. Infatti, dopo aver elaborato il concetto di «politico» (§ 1085), Schmitt, nel § 8 del suo scritto, denuncia, per contrapposizione, il carattere «impolitico» (unpolitisch) del liberalismo, sostenendo che quest’ultimo, in virtù del suo individualismo e della sua concezione della politica come prevaricazione e violenza, non è riuscito ad elaborare una propria teoria positiva dello Stato, ma soltanto una critica della politica volta a salvaguardare gli spazi individuali di libertà (op. cit., p. 156). Tant’è vero che al posto della politica e dello Stato, il liberalismo pone quelle due sfere eterogenee che sono l’etica («lo spirito») e l’economia («il commercio»). Ma riducendo le categorie politiche a nozioni economiche o morali, il liberalismo finisce per misconoscere la realtà del politico e per mistificare il fenomeno originario della conflittualità interumana: «Così il concetto politico di lotta diventa nel pensiero liberale, sul piano economico, concorrenza e sul piano “spirituale" discussione» (Ib.., p. 158). Anzi, coerentemente con il suo progetto di smilitarizzazione e di spoliticizzazione del mondo, l’economicismo liberale arriva a proporre la sostituzione della politica con l’economia, non rendendosi conto che un’economia sganciata dalla politica è, essa stessa, una forma degenerata e mistificata di politica. In realtà, conclude Schmitt, il liberalismo, con la sua fraseologia impolitica o antipolitica, non ha ucciso la politica, ma solo la sua realistica comprensione. Infatti, la politica è, e rimane, un destino, cioè un modo d’essere originario della condizione umana, al quale non è possibile sottrarsi.

La critica al liberalismo rappresenta anche uno dei motivi conduttori della Verfassungslehre, la quale attacca il parlamentarismo per la sua incapacità di soddisfare i principi dell’identità e della rappresentanza. Infatti, in virtù della sua natura compromissoria, il parlamentarismo vorrebbe conciliare ambedue i principi, ma

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in concreto finisce per tradirli entrambi: quello di identità, in quanto priva il popolo della sovranità reale, trasferendola in una aristocrazia di deputati, quello di rappresentanza, poiché essendo preda degli egoismi corporativi risulta incapace di incarnare l’unità dello Stato.

Questa serrata critica al liberalismo, come risulta chiaro sin da Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, pur condividendo con le correnti socialiste il rifiuto del sistema parlamentare borghese, risulta complessivamente lontana dall’orizzonte filosofico-politico del marxismo. Infatti, dal punto di vista di Schmitt, il socialismo non rappresenta un superamento del liberalismo, ma una radicalizzazione o estremizzazione del liberalismo stesso, al quale lo accomunano l’economicismo, l’idea della politica come violenza e l’assenza di una dottrina positiva dello Stato.

In Der Hüter der Verfassung (Il custode della Costituzione, 1931), Schmitt ribadisce che lo Stato liberale è nient’altro che una «strabica» sommatoria di interessi particolari, ovvero una «auto-organizzazione della società» mediata dall’azione dei partiti (trad, ital., Giuffrè, Milano 1981, p. 123). Nei confronti di questi ultimi Schmitt manifesta uno spiccato pessimismo, che si estende anche ai partiti meglio intenzionati, i quali, a suo giudizio, sono destinati ad assomigliare al cane di La Fontaine, che, messosi con i migliori propositi a fare la guardia all’arrosto del padrone, vedendo gli altri cani scagliarisi sopra, finisce an-ch'esso per abbandonarsi al pasto comune (Ib., p. 138). In quanto auto-organizzazione della società, lo Stato del XX secolo tende a produrre una identificazione fra società e Stato. Per alludere a questa nuova congiuntura Schmitt usa l’espressione «Stato totale», che all’interno del contesto complessivo del suo pensiero può significare «o l’occupazione dello stato da parte della società (in questo caso lo “stato totale” designa un fenomeno negativo) oppure, viceversa, il controllo e il governo della totalità della società da parte dello stato, nel senso che quest’ultimo impedisce che possano sorgere al proprio interno associazioni capaci di determinare l’esistenza politica di un popolo (e in questo caso “stato totale” designa un fenomeno positivo)» (M. NICOLETTI, op. cit., p. 356). Il processo descritto da Schmitt è dunque il seguente: «dallo Stato assoluto del xvn e xvm secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo xix allo Stato totale dell’identità di Stato e società» (Il custode della Costituzione, cit., p. 125).

Ai significati negativi della nozione di neutralità, cioè ai significati (come quello di non-intervento) che allontanano dalla decisione politica e indeboliscono lo Stato, Schmitt contrappone i significati positivi, ovvero i significati che conducono alla decisione e rafforzano lo Stato. Infatti, secondo Schmitt, la soluzione delle difficoltà presenti non consiste nella neutralizzazione dello Stato in senso negativo, cioè nel senso del non-intervento, ma nella neutralizzazione dello Stato in senso positivo, ovvero nel senso di un’istanza decisionale capace di imporsi sulla società

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indipendentemente dalle pressioni dei partiti e dagli interessi che li muovono (Ib.., p. 176). Tale forza o istanza, capace di azzerare i conflitti interni e di riaffermare la sovranità super partes dello Stato, viene identificata nel Presidente del Reich, inteso alla stregua di un «custode della costituzione» democraticamente garantito dal plebiscito del popolo (Ib., p. 241).

Sul tema plebiscitario torna anche Legalität und Legitimität (Legalità e legittimità, 1932, trad. ital. parziale in Le categorie del 'politico', cit.). Dopo aver polemizzato contro lo «Stato legislativo» e dopo aver sostenuto che la legalità, pur presentandosi come forma chiusa di legittimazione, non risulta in grado di autogiustificarsi, in quanto la fonte autentica della legittimità risiede nel popolo sovrano, Schmitt, nella seconda parte dello scritto, ribadisce la propria simpatia per un sistema democratico-plebiscitario capace di ovviare agli inconvenienti del parlamentarismo e di sintetizzare le due strade della politica: quella che parte dall’alto (= dall’autorità) e quella che parte dal basso (= dal popolo). In altre parole, come traspare anche da altri scritti del periodo, Schmitt è alla ricerca di un modello politico in grado di mettere d’accordo l’istanza democratica con quella di uno Stato forte capace di imbrigliare gli interessi di parte e di fornire una valida risposta alla crisi della repubblica di Weimar. Questo privilegiamento della democrazia plebiscitaria lo conduce a simpatizzare non solo con i regimi presidenziali, ma anche con il movimento fascista, che egli interpreta come un regime di massa fondato sul consenso del popolo, cioè come un regime non antidemocratico, bensì antiliberale. Tuttavia, pur discorrendo di «Stato totale» e pur giudicando in modo positivo i regimi di destra, Schmitt, in questa fase del suo pensiero, appare ancora propenso a valorizzare gli strumenti costituzionali messi a disposizione dalla repubblica di Weimar (come il noto articolo 48, relativo allo stato d’emergenza). Di conseguenza, egli risulta ancora complessivamente lontano dall’area teorica e pratica del nazionalsocialismo.

In una atmosfera inequivocabilmente nazista si muovono invece scritti come Staat, Bewegung, Volk (Stato, movimento, popolo) del 1933 e Der Führer schützt das Recht (Il Führer protegge il diritto) del 1934. Si è discusso parecchio sulla scelta nazista di Schmitt e sulla sua natura «occasionale». Certo, che in questa scelta vi sia stata una buona dose di opportunismo, accompagnata dalla smania, per dirla con Weber, di «mettere le mani negli ingranaggi della storia», è un fatto. Tuttavia, sarebbe riduttivo non scorgerne i nessi con il suo passato intellettuale. Infatti, analogamente ad altri studiosi dell’epoca, Schmitt, ad un certo punto, vide, o credette di vedere, nel nuovo regime, l'incarnazione stessa dell’auspicato «Stato totale» in grado di guarire la civiltà europea dai mali del liberalismo e del parlamentarismo e di fungere da piattaforma per una rinnovata stabilità politica ed economica. Uno Stato, si intende, che nelle intenzioni di Schmitt avrebbe dovuto farsi pilotare dall’intellighenzia tedesca e non, come in effetti avvenne, uno Stato che avrebbe agito da rullo compressore

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dell’intellighenzia tedesca. Per cui, la connessione fra il nazismo e il pensiero di Schmitt, pur non essendo qualcosa di necessario - poiché tale pensiero avrebbe potuto continuare ad identificarsi con altre soluzioni politiche, di tipo autoritario ma non totalitario - non è neppure qualcosa di puramente esteriore ed accidentale, in quanto affonda le sue matrici nel- l’antiliberalismo programmatico del nostro autore. In altri termini, fra il modello interpretativo della continuità e quello opposto della discontinuità esiste, probabilmente, una via intermedia, che, pur non negando la novità e il carattere occasionale della scelta nazista di Schmitt, ne ricerca i collegamenti con le sue precedenti posizioni di pensiero.

Al di là delle possibili letture e spiegazioni del «nazismo» di Schmitt, è un fatto, comunque, che le opere di questa fase manifestino una vistosa caduta di tono e assumano il carattere prevalentemente propagandistico di una giustificazione politico-filosofica del regime hitleriano. Secondo Schmitt, fra il regime nazista e quello di Weimar vi è una discontinuità di base. Infatti, se è vero che «La rivoluzione tedesca fu legale, cioè formalmente corretta secondo la costituzione di prima» e «Lo fu per disciplina e per il senso tedesco dell’ordine» (Stato, movimento, popolo, trad. ital. in Principi politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935, p. 179), è altrettanto vero che la legittimità del nazismo non risiede nei meccanismi formali della repubblica di Weimar, ma nella volontà effettiva del popolo tedesco, il quale, tramite le elezioni del ’33, si è espresso in modo plebiscitario: «Le elezioni sono state in realtà, considerate con i criteri della scienza giuridica, un referendum popolare, un plebiscito, col quale il popolo tedesco ha riconosciuto Adolfo Hitler, il capo del movimento nazionalsocialista, come capo politico del popolo tedesco» (Ib., p. 178).

In virtù della investitura democratica del Führer, il nuovo regime poggia completamente sulla «sostanza» stessa del popolo tedesco. Sostanza che finisce per assumere la forma razzistica di una eguaglianza di stirpe. Infatti, persuaso che la realtà dell’uomo risieda nella «appartenenza a un popolo e a una razza fino ai più profondi e più inconsci moti dell’animo, ed anche fino alla più piccola fibra cerebrale» e che tale identità fondi la specifica distinzione tedesca fra amici e nemici, Schmitt dichiara, senza mezzi termini, che «Senza il principio della identità di stirpe lo Stato nazionalsocialista non potrebbe esistere», in quanto «sarebbe ridato subito in balia, insieme con tutte le sue istituzioni, ai suoi nemici liberali o marxisti» (Ib., p. 227). Contrapponendosi al dualismo dello Stato costituzionale borghese dell’Ottocento, derivante dalla separazione tra sfera politica e sfera privata, Schmitt dichiara che l’unità politica dello Stato nazista è l’unità di tre membra: Stato, movimento e popolo. Queste tre serie, precisa il nostro autore, «non istanno parallele l’una accanto all’altra, ma una di esse, cioè il movimento, che sorregge lo Stato e il popolo, penetra e conduce le due altre», imponendosi in modo originario e permanente a esse (Ib., p. 184). Di conseguenza, il partito, in cui si incarna il movimento, è ciò che dà vita al tutto e che vive in modo onnipervadente nel tutto.

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L’impostazione triadica sta anche a monte di Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens (I tre tipi di pensiero giuridico, 1934). In questo saggio - che va al di là delle contingenti preoccupazioni propagandistiche e che segna uno sviluppo della problematica teorica di Schmitt - al modello normativistico e a quello decisionistico, che già conosciamo, viene affiancato il modello dell'ordinamento concreto-, «Ogni giurista che, consapevolmente o inconsapevolmente, pone a fondamento del suo lavoro un concetto di “diritto”, intende quest’ultimo o come una regola, o come una decisione, o come un ordinamento e una struttura concreta» (trad. ital. in Le categorie del ‘politico’, cit., p. 247). Detto in termini filosofici: la norma è l’ambito dell’universale astratto, la decisione del particolare concreto, l’ordinamento dell’universale concreto. Con questa tripartizione e con la sottolineatura dell’ordinamento concreto, inteso come una struttura globale esistente sotto forma di una totalità effettiva organizzata istituzionalmente, Schmitt non intende negare la verità del decisionismo (§ 1084). Infatti, anche l’ordinamento concreto sgorga da una decisione sovrana, sebbene, in questo caso, non si tratti di una decisione individuale o personale, bensì sovrapersonale (Ib.., p. 252). Tale decisione sovrapersonale, come vedremo (§ 1087), non è altro che la volontà di un popolo di abitare una terra e di dare una forma alla propria esistenza sociale (§ 1086).

Dopo il 1936, parallelamente alimentarsi dei suoi legami con il nazionalsocialismo, la riflessione di Schmitt si è sviluppata in due direzioni di fondo. La prima è costituita dagli studi su Hobbes (1937-38), concepito come il filosofo per eccellenza dello Stato moderno. La seconda è rappresentata dalle considerazioni sul diritto internazionale e sulla geopolitica, di cui diremo fra poco (§ 1087), parlando di Der Nomos der Erde. Tali considerazioni si intrecciano con una nuova maniera di intendere il rapporto uomo-spazio. Infatti, negli scritti che vanno da Völkerrechtliche Neutralität und völkische Totalität (Neutralità internazionale e Stato totalitario, 1938) a Land und Meer (Terra e mare, 1942), Schmitt elabora la teoria secondo cui i vari ordinamenti giuridici e politici derivano la loro concretezza non solo dall’elemento temporale, ma anche da quello spaziale, ossia da un particolare rapporto dell’uomo con l’ambiente circostante. In altri termini, approfondendo gli aspetti esistenziali e concreti della sua dottrina del diritto, Schmitt sostiene che ogni ordinamento politico poggia su di un determinato ordinamento spaziale, il quale non consiste solo nel radicamento tellurico di un popolo o nella sua occupazione di determinati territori, ma anche in una visione ed organizzazione globale dello spazio. Infatti, osserva Schmitt, le grandi rivoluzioni politiche, economiche e culturali della storia sono quasi sempre state accompagnate da altrettante «rivoluzioni spaziali (Raumrevolutionen)» (Terra e mare, trad, ital., Giuffrè, Milano 1986, p. 56). Come esempi storici di tali rivoluzioni spaziali il nostro autore ricorda le conquiste di Alessandro Magno, le imprese di Giulio Cesare e le crociate medievali. Ma il caso più significativo è rappresentato dalle scoperte

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geografiche. Infatti, con queste ultime, non si ha soltanto la scoperta di nuovi territori, ma anche un mutamento dell’immagine complessiva del mondo. Mutamento che, secondo Schmitt, conferma l’esistenza di un nesso organico fra le rivoluzioni spaziali e tutte le altre sfere dell’attività umana.

Sul piano giuridico-politico la rivoluzione spaziale moderna coincide con la separazione fra terra e mare. La terra risulta caratterizzata dal sistema degli Stati nazionali sovrani in equilibrio fra di loro. Il mare risulta caratterizzato dalla libertà e dall’assenza di ordinamento e si configura come dominio di un’unica potenza: l’Inghilterra. Nel Novecento, con la decadenza dell’Europa e dell’Inghilterra (§ 1087) e con la conquista dell’aria da parte dell’aeroplano si ha la crisi del passato ordinamento ed il profilarsi di una nuova, anche se ancora problematica, «rivoluzione spaziale». Per molti, questo mutato scenario tende ad assumere le sembianze apocalittiche di una fine del mondo. In realtà, ammonisce il nostro autore, si tratta soltanto del tramonto di un vecchio mondo e dell’aurora di un nuovo mondo: «l’angoscia umana di fronte al nuovo è altrettanto grande quanto quella davanti al vuoto anche se il nuovo è il superamento del vuoto. Per questo molti vedono solo insensato disordine dove in realtà un nuovo senso è in lotta per il suo ordinamento» (Ib.., p. 82).

1087. Il nomos della terra e la crisi dello «Ius Publicum Europaeum».

Le riflessioni intorno al diritto internazionale e all’ordinamento dello spazio abbozzate negli anni Quaranta trovano in Der Nomos der Erde im Völkerrecht des }us Publicum Europaeum (II nomos della terra nel diritto intemazionale dello Jus Publicum Europaeum, 1950), una trattazione organica, nella quale confluiscono i precedenti risultati di pensiero di Schmitt, il quale si proclama, non senza orgoglio, come l’estremo testimone e portaparola della tradizione del diritto europeo: «Io sono l’ultimo consapevole rappresentante dello Jus Publicum Europaeum, l’ultimo ad averlo insegnato e indagato in un senso esistenziale» (Ex Captivitate Salus, cit., p. 78).

Alla base di questo opus magnum, che può anche venir letto come un grande affresco di filosofìa della storia, vi è la tesi del diritto come «unità di ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung)» (trad, ital., Adelphi, Milano 1991, p. 19). Con questa formula Schmitt intende dire che l’atto primordiale che istituisce il diritto è l’occupazione di terra, ovvero la presa di possesso, mediante una decisione, di un determinato territorio (Landnahme). Questa maniera di intendere il diritto, che sviluppa le precedenti dottrine del decisionismo e dell’ordinamento concreto, sarebbe racchiusa, secondo Schmitt, nell’antico vocabolo greco nomos. Basandosi su di una radicale ipotesi etimologica, ripresa in Nehmen / Teilen / Weiden (Appropriazione / divisione / produzione, 1953) e in Nomos - Nähme - Name (Nomos - appropriazione - nome, 1959), Schmitt fa derivare il termine nomos dal verbo nemein, nel triplice significato di prendere-conquistare (nehmen), spartire-dividere (Teilen), colti- vare-produrre

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(Weiden), precisando che il nomos è «la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva» (Il nomos della terra, cit., p. 59; cfr. Appropriazione / divisione / produzione, trad. ital. in Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 297-98).

Ciò fa comprendere perché la terra, nel linguaggio mitico, è detta «madre del diritto». Infatti, la connessione fra la terra e i concetti di diritto e di giustizia si manifesta in triplice modo. In primo luogo, perché la terra compensa le fatiche umane con i frutti. In secondo luogo perché il terreno dissodato e coltivato mostra delle linee nette di suddivisione, che si esprimono attraverso le delimitazioni dei campi, dei prati e dei boschi. In terzo luogo, perché la terra reca sul proprio suolo gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana: «Famiglia, stirpe, ceppo e ceto, tipi di proprietà e di vicinato, ma anche forme di potere e di dominio, si fanno qui pubblicamente visibili» (Ib., p. 20).

Il concetto di nomos ospita quindi, in se stesso, i concetti di recinzione e di confine («In principio» ripete Schmitt con Jost Trier «sta il recinto»). A loro volta, tali concetti condizionano tutto il mondo umano e stanno alla base dell’idea giuridica, ma anche filosofica, secondo cui ogni cosa ha valore solo all’interno di determinati confini. In altri termini, sia la nostra fraseologia giuridica, sia le nozioni basilari del nostro discorso (v. il concetto di «definizione») hanno una remota origine spaziale. Ma questo originario collegamento fra nomos e occupazione di terra svanisce ben presto nella cultura occidentale: «E' dall’epoca dei Sofisti che si incomincia a non aver più esatta consapevolezza del collegamento [...] In Platone il nomos ha già il significato di uno schedon, di una semplice regola» (Ib.., p. 55). La tappa conclusiva di tale oblio è rappresentata dal positivismo giuridico e dalla sua concezione astratta e formale della «legge» (questo spiega perché il nostro autore, essendo un avversario della mentalità «legal-positivistica», preferisca usare il termine greco nomos invece del termine tedesco Gesetz).

Secondo Schmitt la Landnahme sta a monte non solo del diritto interno, ma anche di quello intemazionale. Nel mondo antico, mancando l’idea e l’esperienza della terra nella sua totalità, non esisteva uno jus gentium capace di abbracciare tutto il pianeta. Certo, i vari regni non potevano fare a meno di avere rapporti scambievoli. Ma ognuno di essi considerava se stesso come il mondo o il centro del mondo, e concepiva la parte della terra situata al di fuori dei propri confini o come area priva di interesse, o come luogo del caos e del disordine o come ambito di eventuale conquista (Ib.., p. 31). Ciò non toglie che i romani, ponendo una distinzione netta fra il nemico (hostis) e il brigante, abbiano cominciato a porre le basi potenziali di un autentico diritto internazionale. Infatti, se il brigante o il criminale è colui che non appartiene

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all’ordine civile, il nemico è colui che, pur non appartenendo al nostro ordine, fa parte di un altro ordine: «la capacità di riconoscere uno justis hostis è all’origine di ogni diritto internazionale. Vi è pertanto un diritto internazionale proprio dell’immagine preglobale del mondo» (Ib.., p. 32). Ovviamente, precisa Schmitt, tale diritto era destinato a rimanere allo stato grezzo.

Anche il mondo medievale, fondato sulla contrapposizione fra cristiani e pagani e sulle due autorità del papato e dell’impero, si configura come un’epoca di diritto internazionale preglobale. Tuttavia, la sua importanza storica è fuori discussione, in quanto esso ha fornito «l’unico titolo giuridico per il passaggio a un primo ordinamento globale del diritto internazionale» (Ib.., p. 38). Tale ordinamento si afferma soltanto in età moderna, in seguito alle scoperte geografiche. Infatti, non appena la terra fu compresa nella forma di un globo reale scientificamente esperibile e misurabile sorse il problema di un ordinamento spaziale di diritto internazionale dell’intero globo terrestre: «La nuova immagine globale dello spazio richiedeva un ordinamento globale dello spazio» (Ib., p. 81). La scoperta del nuovo mondo provocò subito l’accendersi delle lotte per la conquista delle terre e dei mari facenti parte di esso. La divisione e la ripartizione della terra divennero allora una necessità improrogabile. Da ciò le prime linee globali (la «raya» e le «amity lines») a cui segui più tardi quella dell 'emisfero occidentale, che, a partire da Monroe, contrappose il nuovo mondo all’ordinamento spaziale di tipo europeo ed eurocentrico (Ib.., p. 102).

Il moderno diritto intemazionale, lo Jus Publicum Europaeum, si fondava su taluni capisaldi: 1) lo Stato come entità portante; 2) l’avvento di guerre statali non discriminanti; 3) la libertà dei mari; 4) la sanzione dei mutamenti territoriali. Vediamo più analiticamente i vari punti.

Lo Stato sovrano, come Schmitt aveva chiarito sin da Die Diktatur, scorgendo nella dittatura l’essenza dello Stato moderno - e distinguendo fra dittatura «commissaria» che agisce su mandato di un’autorità costituita e dittatura «sovrana» o «istituzionale» in cui il dittatore «è si ancora commissario, ma commissario diretto del popolo, e dunque un dittatore che detta legge anche al suo mandante senza cessare per questo di dipenderne quanto alla propria legittimazione» - nasce come istanza pacificatrice e neutralizzatrice dei conflitti civili e religiosi interni, ovvero come un potere assoluto che si impone dall’alto, al di là di ogni vincolo ecclesiastico o feudale. Di conseguenza, esso non ammette alcuna istanza superiore a se stesso e tende a porsi come soggetto giuridico assoluto avente dinanzi a sé altri soggetti giuridici altrettanto assoluti. Questa dinamica si accompagna ad un nuovo modo di intendere la guerra, che diviene un affare di Stato privo di connotati morali o religiosi. Infatti, superato il concetto medievale e normativo della justa causa, la guerra perde il carattere penalistico-punitivo, per divenire una sorta di duello fra Stati. Nello stesso tempo, il nemico cessa di essere un criminale che deve essere annientato per divenire justis

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hostis, ossia una sorta di concorrente giuridicamente riconosciuto («Aliud est hostis, aliud rebellis»). In tal modo, la guerra si trasforma in una relazione fra Stati sovrani tra loro equiparati e gli avversari, riconosciuti da entrambe le parti quali justi hostes, si contrappongono l’uno all’altro sul medesimo piano. Tale processo sanziona la definitiva formalizzazione del concetto metafisico-religioso della guerra «giusta» nel concetto neutrale della guerra come conflitto istituzionalmente riconosciuto: «Giusta nel senso del diritto intemazionale europeo dell'epoca interstatale è pertanto ogni guerra interstatale che sia condotta da eserciti militarmente organizzati appartenenti a Stati riconosciuti dal diritto intemazionale europeo, sul suolo europeo e secondo le regole del diritto bellico europeo» (Ib.., p. 168).

Questo passaggio dalla guerra civile confessionale dei secoli XVI e XVII alla guerra «in forma», ossia alla guerra tra gli Stati del diritto intemazionale europeo appare a Schmitt come un autentico «miracolo» della razionalità moderna: «Dopo i massacri delle guerre tra fazioni religiose, lo Stato europeo e la riduzione della guerra territoriale europea a semplice guerra tra gli Stati si presentarono come un capolavoro della ragione umana» (Ib., p. 178).

Un altro fattore costitutivo dello Jus Publicum Europaeum è la libertà dei mari. Come si è accennato (§ 1086), l’ordinamento intemazionale dell’epoca moderna appare suddiviso nei due ordinamenti globali della terraferma (caratterizzata dall’equilibrio degli Stati sovrani) e del mare libero (inteso come ambito sciolto da ogni ordinamento e come spazio aperto alla pesca, al commercio, alla pirateria e alla guerra). E poiché la terraferma risulta ulteriormenteL ripartita in zone diverse, si perviene al seguente schema (Ib., p. 224), il quale riproduce l’immagine globale dell’ordinamento spaziale dello ]us Publicum Europaeum tra il 1713 e il 1914:

I cinque status territoriali della terraferma:

1.Territorio statale

2.Colonie

3.Protettorati

4.Terre esotiche con extraterritorialità degli Europei

5.Terre liberamente occupabili

Parte integrante di questo ordine internazionale basato sull’equilibrio fra gli Stati, è il riconoscimento e la regolamentazione dei mutamenti territoriali, sanzionati dalle celebri conferenze europee delle potenze (Ib., p. 233).

D diritto internazionale moderno è un diritto sostanzialmente europeo fondato su di un ordinamento spaziale manifestamente eurocentrico. Niente da stupirsi che con il venir meno della centralità dell’Europa e con l’emergere degli Stati Uniti sia entrato in crisi tutto il sistema pratico e teorico del diritto tradizionale: «Nel corso di mezzo secolo

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l’Europa ha perduto il suo molo di centro della politica mondiale [...] La detronizzazione dell’Europa ha significato anche uno scuotimento di concetti specifici che erano stati elaborati dalle nazioni europee, attraverso faticosi processi di pensiero. Rientrano, fra questi, concetti propri della scienza del diritto come Stato e sovranità, costituzione e legge, legalità e legittimità. Essi sono il prodotto di una lunga simbiosi del pensiero teologico, filosofico e giuridico; appartengono, come componente essenziale, al razionalismo occidentale, culminano in uno Jus Publicum Europaeum elaborato sistematicamente, e vanno a fondo con esso» (Premessa all'edizione italiana di Le categorie del 'politico', dt., p. 21). Il declino dell’Europa inizia, secondo Schmitt, alla fine dell’Ottocento e trova nella Conferenza sul Congo, svoltasi a Berlino negli anni 1884-1885, il suo momento emblematico. Infatti, proprio nella capitale tedesca, dove sembra trionfare il primato dell’Europa sul mondo, accade un fatto allarmante, in quanto il riconoscimento della bandiera della Società del Congo avviene in primo luogo da parte del governo degli Stati Uniti d’America (Il nomos della terra, cit., p. 287). Questo processo culmina nella conferenza di pace di Parigi (1918-19) a cui partecipano, in qualità di potenze vincitrici, anche nazioni extraeuropee. Dalla conferenza di Parigi nasce la Società delle Nazioni la quale rappresenta un altro duro colpo alla sovranità degli Stati. Lo Stato moderno era sorto rifiutando la potestàs indiretta del papa e l’intromissione della Chiesa nei suoi affari interni. Invece, con la Società delle Nazioni si ha il ripristino di un’istanza superiore a quella dei diversi Stati. Istanza che, al di là dd suo astratto universalismo teorico, si configura, in pratica, come lo strumento di dominio di alcune potenze. Inoltre, parallelamente al prevalere degli USA e della linea dell’emisfero occidentale si ha l’avvento di un nuovo dualismo, il quale riproduce, a livello planetario, la distinzione ottocentesco-liberale fra diritto privato e diritto pubblico, fra società e Stato Ib., p. 299).

Rifacendosi a Lorenz von Stein, Schmitt sostiene infatti che accanto al diritto internazionale politico si è sviluppato un diritto internazionale economico fondato sul libero commercio. Un diritto che, alla lunga, si è rivelato più decisivo della sovranità politica dei singoli Stati e che rappresenta, in quanto tale, un ulteriore elemento di instabilità e di «spiazzamento» del vecchio ordine. Per cui, se dal punto di vista del diritto costituzionale «Schmitt vede nell’affermarsi della società civile in contrapposizione polemica allo Stato un elemento negativo di disordine ed instabilità destinato a ricondurre, attraverso il rafforzamento del pluralismo e della policrazia, ad una nuova situazione di guerra civile, cosi dal punto di vista internazionale vede nel risolversi del dualismo tra diritto internazionale economico e diritto interstatale politico a vantaggio del primo momento, un fattore di rottura dell’equilibrio tra le potenze. L’analogia fra i due insiemi di problemi è evidente: non si tratta che del lato interno e del lato esterno della crisi dello jus publicum europaeum» (P.P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum. Saggio su Cari Schmitt, Comunità, Milano 1982, p. 187). In altri termini, la crisi del diritto pubblico europeo, globalmente inteso nel

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duplice significato di diritto pubblico degli Stati europei e di diritto pubblico fra gli Stati europei, si configura come «un processo che interessa contemporaneamente il diritto pubblico interno e quello esterno: da un lato la formazione di raggruppamenti infrastatali dotati di autonomia politica conduce all’annientamento della sovranità (interna), dall’altro il trasferimento del potere di condizionamento della politica mondiale a potenze extraeuropee dissolve la sovranità (esterna) del sistema degli Stati, che per tre secoli aveva retto le sorti delle relazioni intemazionali» (Ib.., p. 11).

La crisi dello Jus Publicum Europaeum si manifesta pure in una riesumazione della teoria della justa causa a scapito della dottrina dello justis hostis. Ciò appare evidente dalla messa sotto accusa del Kaiser Guglielmo II come criminale di guerra e dalla stigmatizzazione della Germania, che avviene sulla scorta di motivazioni morali e politiche le quali non presentano un supporto giuridico positivo, anzi che violano apertamente il principio «nullum crimen, nulla poena sine lege» (Il nomos della terra, cit., pp. 339-41). Ora, questa assimilazione del nemico al bruto, pur essendo prospettata su basi «umanitarie», non rappresenta soltanto un inaccettabile passo indietro rispetto alle conquiste del diritto intemazionale moderno, ma si configura anche come un possibile elemento di disumanizzazione dei conflitti, ovvero come una possibile copertura per l’uso dei terribili mezzi di annientamento di cui dispongono oggi le forze in campo (Ib., pp. 429-31).

Il rifiuto della criminalizzazione del nemico costituisce anche uno dei motivi salienti degli scritti degli anni Sessanta e Settanta. In Die Tyrannei der Werte (La tirannia dei valori, 1960) troviamo una denuncia, non priva di echi heideggeriani, dei pericoli insiti nella contemporanea tendenza a pensare per valori. Infatti, poiché «Nessuno può valutare senza svalutare», in quanto «Chi pone i valori, si è messo con ciò contro i non valori», la logica dei valori si palesa come una logica costituzionalmente aggressiva o tirannica, generatrice di inevitabili conflitti fra gli individui: «La spinta del valore verso la validità è irresistibile, e inevitabile è la Ute di coloro che valutano, svalutano, innalzano di valore, e valorizzano» (trad, ital., Pellicani, Roma 1987, pp. 66-67). Questo meccanismo di affermazione tramite la negazione trova una base filosofica in posizioni come quelle di Scheler e di Haecker, che Schmitt contesta duramente: «Prima [...] Si considerava una massima abbietta che lo scopo dovesse santificare il mezzo. NeUa gerarchia dei valori valgono invece altre relazioni, le quaU giustificano che il valore distrugga il non valore, e che il valore superiore tratti quello inferiore come più scadente. Max Scheler, il grande maestro della teoria dei valori oggettivi, ha affermato - e Theodor Haecker lo ha ripetuto sulle sue orme, con zelo più polemico che meditato -: la negazione di un valore negativo è un valore positivo. Questo è matematicamente chiaro, perché meno per meno dà più [...] Questa frase di Max Scheler permette di ripagare il male con il male, e di trasformare in tal modo questa terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori» (Ib.., pp. 71-72). In tal modo,

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la teoria dei valori finisce per mostrarsi come una detestabile alleata della dottrina della guerra «giusta».

La logica discriminante insita nella filosofia dei valori trova una manifestazione radicalizzata nella figura del «partigiano», sulla quale Schmitt si sofferma in Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen (Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, 1963). Il partigiano è un combattente irregolare caratterizzato da una dedizione totale alla causa politica per cui lotta (Schmitt riporta la tesi di Guevara secondo cui «il partigiano è il gesuita della guerra»). Nel mondo contemporaneo si possono distinguere due tipi diversi di partigiano: «il tipo del difensore autoctono del suolo nazionale e il tipo dell’attivista rivoluzionario che ha per campo d’azione il mondo intero» (trad, ita!.. Il Saggiatore, Milano 1981, p. 23). Per quanto riguarda l’attivista rivoluzionario, esso è un tipo d’uomo che, al posto di uno Stato in crisi e incapace di dare identità politica ai propri membri, ha scelto il Partito: «Nella guerra rivoluzionaria l’appartenenza ad un partito rivoluzionario rappresenta un legame totale. Altri raggruppamenti o associazioni, fra l’altro e particolarmente lo Stato contemporaneo, non sono più in grado di legare a sé i loro propri membri, in un modo cosi definitivo» (Ib.., pp. 10-11). Questo legame con il Partito, se da un lato fonda un’amicizia assoluta tra gli affiliati, dall’altro fonda una inimicizia altrettanto assoluta nei confronti degli avversari. Infatti, dal punto di vista del rivoluzionario, il nemico tende a configurarsi come il negativo assoluto, ossia come colui che, negandoci in modo totale, va negato, o «liquidato», in maniera altrettanto assoluta: «Lenin trasferì sul piano politico il baricentro concettuale della guerra, vale a dire la distinzione fra amico e nemico [...] e fece del nemico reale il nemico assoluto» (Ib.., p. 74).

Nell’ambito di questo processo, che testimonia come sia difficile e raro «portare gli uomini al punto di rinunciare alla discriminazione e alla diffamazione dei loro nemici» (Ib.., p. 72), la grande conquista dello Jus Publicum Europaeum, ossia l’equiparazione del nemico a justis hostis, viene messa da parte e sostituita con una forma estrema di demonizzazione dell’avversario, simile a quella delle guerre civili e religiose. Con la differenza che a rendere assoluta l’inimicizia non è più la religione, bensì una visione ideologica del mondo basata sulla dogmatica tautologia secondo cui ciò che è rivoluzionario è in ogni case giusto, proprio perché rivoluzionario. E con la differenza che l’uomo odierno, a differenza di quello del Cinquecento, risulta in possesso di armi capaci di distruggere completamente l’avversario. Anzi, per certi versi, come il nostro autore aveva già sostenuto nel finale di Der Nomos der Erde, è proprio la presenza e l’uso di tali mezzi a spalancare l’abisso di una discriminazione assoluta dell’avversario: «armi extraconvenzionali richiedono uomini extraconvenzionali [...] Quegli uomini che usano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini, cioè le loro vittime, anche moralmente. Essi devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come

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un non-valore assoluto, altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri» (Ib.., p. 75).

All’interno di queste problematiche, a cui vanno aggiunte quelle relative al confronto Est-Ovest, al dualismo fra paesi industrializzati e non-industrializzati, al destino planetario della tecnica ecc., l’ultimo Schmitt ha ripreso anche il tema della teologia politica, che nel frattempo aveva dato luogo ad una vasta letteratura critica. Combattendo, in antitesi a Erik Peterson, ogni pretesa «liquidazione» della teologia politica e riconfermando, in antitesi ad Hans Blumenberg, la validità della categoria di «secolarizzazione», Schmitt, in Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie (Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, 1970), è tornato a ribadire il concetto dell’analogia strutturale fra i concetti teologici e quelli politici. Parentela che egli, lasciando nuovamente insoluto il problema della loro origine ultima, presenta come il frutto di un’indagine storicogiuridica oggettivamente documentabile, e quindi come un tipo di analisi in cui «Il non credente può trovarvi strumenti ermeneutici di prim’ordine ed il credente [...] l’ininterrotta presenza divina nella storia» (A. CARACCIOLO, Presentazione alla trad. ital. di Teologia politica II, Giuffrè, Milano 1992, pp. XXIII- XXIV). Da questo tipo di analisi sembra comunque profilarsi un nuovo approfondimento del nocciolo teologico della politica, cioè una sorta di teologia politica III, a cui Schmitt non ha potuto attendere, ma alla quale accenna ad esempio in una lettera a Giuseppe Duso: «ora sarebbe matura una Politische Theologie III. Alla fin fine parla la morte: basta!» (cfr. M. NICOLETTI, op. cit., p. 617). Evidentemente, circa la fisionomia concreta di questa nuova teologia politica nulla sappiamo e le più o meno fondate supposizioni dei critici non riescono a coprire un vuoto testuale di cui è doveroso prendere atto.

Capitolo XIX.

METODOLOGIA DELLE SCIENZE SOCIALI E TEORIA DELLA POLITICA NELLA SCUOLA MARGINALISTA AUSTRIACA

di Dario Antiseri

CARL MENGER: LA GENESI ININTENZIONALE DELLE ISTITUZIONI

1088. Menger: la vita e le opere.

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Carl Menger nasce il 28 febbraio del 1840 a Neu Sandec, in Galizia. Nel 1859-1860 Menger è studente all’Università di Vienna; dal 1860 al 1863 in quella di Praga. Doctor iuris utrius presso l’Università di Cracovia nel 1867, lavora come giornalista prima a Lemberg (Leopoli) e poi a Vienna. Nel 1869 si impiega presso l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Nel 1871 escono i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre che originariamente Menger aveva pensato come primo volume di un più ampio trattato di economia. La seconda edizione dei Grundsätze uscirà postuma a cura del figlio di Cari Menger, il matematico Karl. Sempre nel 1871 appare anche la Theory of Political Economy di William Stanley Jevons. Libero docente nel 1872, Menger viene nominato nel 1873 professor extraordinarius all’Università di Vienna. Nel 1874 Léon Walras pubblica i suoi Éléments d’économie politique pure.

Nel 1876 viene nominato tutore del principe ereditario Rudolf. Per circa due anni Menger accompagna Rudolf in viaggi in molte parti d’Europa: Inghilterra, Scozia, Irlanda, Francia e Germania. Mentre soggiornavano in Inghilterra, il principe ereditario e il suo maestro scrissero un libello anonimo dal titolo: Der österreichische Adel und sein constitutioneller Beruf (München 1878), dove si fa un confronto tra la seria responsabilità civile dell’aristocrazia inglese e la irresponsabile vacuità dei rampolli della nobiltà austriaca.

Menger ottiene la cattedra di Economia politica all’Università di Vienna nel 1879. E, da quest’anno, egli per ventiquattro anni sarà uno scrupoloso insegnante, dedito unicamente alla ricerca e alla didattica.

Le Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften und der Politischen Oekonomie insbesondere escono nel 1883, presso Duncker & Humblot di Lipsia (di quest’opera citerò nel seguito la traduzione italiana apparsa presso la UTET nel 1937 con il titolo: Il metodo nella scienza economica). Nello stesso anno Gustav Schmoller, leader riconosciuto della Scuola storica tedesca di economia, accademico potente e prestigioso, dà alla stampa una recensione, concernente nella prima parte il lavoro di Menger e nella seconda l’Einleitung in die Geisteswissenschaften di W. Dilthey. Pubblicata nello «Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft im Deutschen Reich» (VII, 1883, pp. 239[976]-251[987]), di cui Schmoller era direttore, la recensione portava il titolo: Zur Methodologie der Staatsund Socialwissenschaften. Tale recensione (tradotta in italiano da Dario e Riccardo Faucci in appendice all’articolo di Riccardo Faucci, Gustav Schmoller e la Scuola storica in Italia, in «Quaderni di Storia dell’economia politica», n. 3, 1988) costituisce un attacco duro e sprezzante da parte di chi si reputava - e veniva considerato - un grande maestro contro il lavoro di uno studioso che, pur avendo certe doti, è pur sempre uno studioso «periferico» e «non influente». La risposta di Menger a Schmoller non si fece attendere e arrivò l’anno dopo, nel 1884, con il pamphlet: Die Irrtümer des Historismus in der Deutschen Nationalökonomie (Holder, Vienna; trad. ital. Gli errori dello storicismo, Rusconi, Milano 1991, con una premessa all’edizione italiana di Sergio Ricossa). Si tratta di una risposta aspramente polemica, a tratti piena di disprezzo, nella quale Menger demolisce puntualmente le tesi di Schmoller e ripropone con decisa sicurezza i risultati scientifici conseguiti nelle Untersuchungen. Con le Untersuchungen di Menger, con l’attacco di Schmoller a Menger e con la replica di Menger a Schmoller la disputa sul metodo (Methodenstreit) delle scienze

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sociali raggiunge uno dei punti di maggior significato teorico che si siano avuti nella lunga storia di tale controversia.

Nel 1887 Menger pubblica nella «Zeitschrift für das Privat und öffentliche Recht der Gegenwart» (vol. XIV) una impegnata recensione dello Handbuch der politischen Oekonomie di G. Schönberg, recensione dal titolo: Zur Kritik der politischen Oekonomie. Dell’anno seguente, 1888, è lo scritto Zur Theorie des Kapitals (in «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», nuova serie, vol. XVII, 1888), in cui l’autore espone alcune considerazioni critiche nei riguardi del concetto di capitale di Eugen Böhm-Bawerk. I Grundzüge einer Klassifikation der Wirtschaftswissenschaften (in «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», nuova serie, vol. XIX, 1889), appaiono appunto nel 1889: in tale scritto, anche se non soltanto in esso, Menger traccia, nell’ambito dell’economia, una divisione delle scienze - che di recente è stata riproposta nel cosiddetto «modello Popper-Hempel» - tra scienze teoriche, scienze storiche e scienze pratiche.

Nel 1892 Menger entra nella Commissione, di cui era vicepresidente l’allora ministro delle finanze Böhm-Bawerk, e che era stata istituita per la trattazione dei problemi monetari. Menger propose un sistema monetario che, abbandonando l’argento, si ancorasse all’oro. Le sue considerazioni egli le affidò a due pubblicazioni: 1) Beiträge zur Währungsfrage in Oesterreich-Ungarn (Verlag von Gustav Fischer, 1892); 2) Oer Übergang zur Goldwährung. Untersuchungen der österreichisch-ungarischen 'Valutareform (Wilhelm Braumüller, Wien-Leipzig 1892). Sempre del 1892 sono tre altri scritti: la voce Gold per lo Handwörterbuch der Staatswissenschaften·, un articolo in francese, La Monnaie Mesure de la Valeur (nella «Revue d’économie politique»); e un altro in inglese, On the Origin of Money (in «The Economic Journal»).

La conferenza Das Goldagio und der heutige Stand der Valutareform è del 1893. E, a partire da quest’anno, il lavoro scientifico creativo di Menger può dirsi concluso. Egli seguiterà a pubblicare solo brevi scritti consistenti soprattutto di «recensioni, notizie biografiche e di introduzioni a lavori dei suoi allievi. Un suo ultimo articolo è un necrologio per il suo allievo Böhm-Bawerk, il quale morì nel 1914» (F.A. von Hayek, Einleitung a C. Menger, Gesammelte Werke, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1968, vol. I, ρ. XXX). Menger trascorre il suo tempo nello studio della filosofia, della psicologia e dell’etnografia. A sessantatré anni, nel 1903, lascia l’insegnamento per potersi interamente dedicare ai suoi studi: la sua unica distrazione è andare a pesca. Muore nel 1921 all’età di ottantuno anni.

1089. Menger: da che cosa dipende il valore di una merce?

I Grundsätze der Volkswirtschaftslehre (prima traduzione italiana, pubblicata ad Imola nel 1909 a cura di Maffeo Pantaleoni con il titolo: Principii fondamentali di Economia Politica·, una seconda traduzione si ebbe nel 1925 e fu pubblicata dall’editore Laterza di Bari; qui, di seguito cito dalla traduzione pubblicata dalla UTET, Torino 1976, con il titolo: Principi di economia politica) - ha scritto Richard Schüller nella Introduzione alla seconda edizione tedesca del 1923, curata dal matematico Karl Menger - hanno costituito un enorme stimolo per lo studio dei problemi economici. In quest’opera, Menger «spiegò gli eventi economici con le necessità degli uomini analizzando ampiamente e descrivendo con magistrale

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chiarezza i rapporti fra gli individui e i beni. Egli ha dimostrato come il valore di ogni bene dipenda dall’intensità del bisogno che esso soddisfa, come il valore regoli il consumo e la produzione, come lo scambio, la moneta e il prezzo poggino su di esso. Al posto della semplice constatazione dei fenomeni generali e della loro spiegazione superficiale basata sulla considerazione dei valori medi egli pone l’osservazione della vita economica reale degli uomini. I bisogni graduali, gli impulsi, le azioni degli uomini vengono esaminati attentamente per giungere alla spiegazione dei fenomeni economici» (cit. da R. Schüller, Introduzione a C. Menger, Principi di economia politica, trad, ital., UTET, Torino 1976, p. 51).

Ebbene, la questione di fondo affrontata da Menger nei suoi Grundsätze è il problema del valore delle merci. Più tardi, nel 1889, Menger scriverà: «La teoria secondo la quale le quantità di lavoro impiegate per produrre un bene ovvero il suo costo di produzione regolano il rapporto di scambio tra i beni, che doveva spiegare il fenomeno dei prezzi, si dimostrò contraria all’esperienza e decisamente insufficiente in seguito ad un esame più approfondito. Moltissime cose, malgrado il lavoro impiegato a produrle e gli alti costi di produzione, raggiungono prezzi molto bassi e talvolta non ottengono alcun prezzo, mentre spesso i beni che ci vengono offerti dalla natura raggiungono prezzi elevati. E' evidente - senza parlare di altri fenomeni - che la spiegazione del profitto netto dell’impresa, della rendita netta e dell’interesse netto del capitale, cioè la spiegazione di numerosi fenomeni economici mediante la teoria suddetta, porta a difficoltà insormontabili poiché si tratta di fenomeni che non possono essere ricondotti ai costì di lavoro o di produzione. I formulatori della teoria economica non possono non aver pensato talvolta che il prezzo che paghiamo per un bene non dipende dal lavoro o dai costi della sua produzione ma che, al contrario, impieghiamo lavoro e capitali per produrre beni che pensiamo di vendere a prezzi vantaggiosi» (cit. da K. Menger, Introduzione dell’Editore a C. Menger, Principi di economia politica, cit., pp. 53-54).

Da che cosa dipende il valore di una merce? Questo, dunque, è l’interrogativo cui cercò di rispondere Cari Menger e cui cercarono una risposta, indipendentemente da lui, l’inglese William Stanley Jevons (1835-1882), il francese Léon Walras (1834-1910) e lo svedese Knut Wickseil (1851-1926) i quali - in maniera indipendente, appunto - elaborarono la teoria nota come marginalismo o teoria dell’utilità marginale, abbandonando la teoria del valore lavoro - enunciata in un primo momento da Smith, espressa con molta chiarezza da Ricardo e ripresa da Marx - secondo cui, come valori, tutte le merci sono essenzialmente misure determinate di tempo di lavoro coagulato.

La «stella polare», il punto di costante riferimento del marginalismo - scrive Enrico Saltari - «è costituito dal consumo, che assume cosi una posizione dominante rispetto allo scambio, alla produzione e alla distribuzione; egemonia che risulta garantita dal fatto che ogni singola azione dell’attività umana in tanto ha significato economico in quanto è concepita in funzione del consumo» (E. Saltare Nasata e sistemazione dell’economia «marginalista», Loescher, Torino 1978, p. 14). Per dirla con altre parole, è la soddisfazione dei bisogni «l’angolo visuale da cui la teoria deve guardare lo svolgersi dell’attività economica per comprendere le leggi che la regolano» (Ib.). Questi bisogni, però, i marginalisti li colgono sul terreno individuale, «attribuendo quindi il massimo rilievo al fatto che l’importanza attribuita ai vari

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bisogni differisce da individuo ad individuo. Di qui [...] la tendenza del marginalismo a concentrare la propria attenzione soprattutto sul comportamento individuale, relegando la possibilità di ogni rapporto sociale al momento dello scambio, e cioè in sostanza al mercato» (Ib., pp. 14-15).

Il valore di un bene - scrive Menger nei Grundsätze - «non è una cosa misteriosa o inspiegabile, bensì un rapporto pratico ed esattamente definibile tra i beni economici e la soddisfazione dei nostri bisogni, cioè, indirettamente, tra i beni e il nostro benessere» (C. Menger, Principi di economia politica, cit., pp. 197-98). In altri termini, «il valore [...] non è inerente ai beni, non è una loro qualità e neppure un’entità indipendente che esiste per se stessa. Esso è l’importanza che i beni concreti acquistano per gli uomini quando questi si rendono conto di dipendere dalla disponibilità di tali beni per la soddisfazione dei loro bisogni; senza tale consapevolezza dell’uomo il valore non esiste» (Ib., p. 197). Di conseguenza, afferma sempre Menger, «non è corretto usare l’espressione “ valore ” per indicare un bene che ha valore per un soggetto economico oppure per definire cose reali, come se il valore fosse qualcosa di oggettivo. Soltanto i beni sono oggettivi, il valore è qualcosa di essenzialmente diverso, un giudizio degli uomini intorno all’importanza che la disponibilità di certi beni ha per la conservazione della loro vita. Il considerare oggettivo il valore dei beni, che è viceversa soggettivo per sua natura, è stato motivo di confusione nei principi della scienza economica» (Ib ).

La ricchezza sociale è l’insieme dei beni (materiali e immateriali) che sono utili e disponibili in quantità limitata. E proprio sull'utilità dei beni puntano i marginalisti. Il valore di un bene dipende dall’utilità che un individuo ne ricava. Una bistecca è utile per un denutrito, e inutile per un vegetariano. E per lo stesso individuo un bene può aver più o meno valore a seconda della quantità in cui esso è disponibile: centomila lire valgono niente per un miliardario, ma hanno un valore inestimabile per un affamato senza un quattrino.

L’utilità di un bene, pertanto, consiste nella soddisfazione che il suo proprietario o destinatario riceve dal possederlo, dal consumarlo. Tuttavia, man mano che un individuo acquisisce unità aggiuntive di una merce, aumenta si la soddisfazione o utilità totale che egli ne ricava, ma non in misura proporzionale. Ed eccoci cosi alla legge dell’utilità decrescente, la quale afferma, in termini generali, che «nella misura in cui il consumo di una merce da parte di un individuo aumenta in rapporto al suo consumo di altre merci, l’utilità marginale della merce in questione - a parità di condizioni - tenderà a diminuire rispetto all’utilità marginale delle altre merci consumate» (A. Seldon-Pennance, Utilità marginale decrescente, in Dizionario di economia, trad, ital., Mondadori, Milano 1979, p. 403). Da notare è che il termine «utilità marginale» (marginal utility o, in tedesco, Grenznutzen) non è un termine usato da Menger, «esso venne introdotto solo tredici anni più tardi da Friedrich von Wieser» (F.A. von Hayek, Il posto dei Grundsätze di Menger nella storia del pensiero economico, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, trad, ital., Armando, Roma 1988, p. 299).

Confutata, dunque, in base ai fatti la teoria del valore lavoro, Menger volle ricostruire - sulla base del valore inteso «in un senso soggettivo» - la teoria economica. Teoria che si interessa di fenomeni che «sono indipendenti dalla nostra volontà - come le leggi chimiche

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sono indipendenti dalla volontà del chimico», fenomeni oggetto di indagini miranti a stabilire, ad esempio, «se e a quali condizioni una cosa sia utile, se sia o non un bene, se un bene sia economico, se abbia valore e quale esso sia, quali condizioni siano necessarie perché possa avvenire uno scambio economico fra due individui, quali siano i margini di formazione del prezzo, eccetera» (Principi di economia politica, cit., p. 71).

1090. Menger: L'individualismo metodologico e il compito delle scienze sociali.

Con i suoi Grundsätze Menger - al pari di Jevons - volle combattere la teoria smithiana, giacché era persuaso della «assurdità» di siffatta teoria e cercò di «sostituirla con un’altra teoria». Fu allora sufficiente parlare di un’altra teoria economica perché in Germania i rappresentanti della Scuola storica dell’economia tacciassero Menger di «astrattezza», mentre - egli annota - «al contrario, io ero partito dall’osservazione dei fenomeni reali dell’economia e dalla loro analisi cercando di ricondurli ai loro fattori causali ed ai motivi psicologici che stanno alla loro origine» (Karl Menger, Introduzione dell’editore a Carl Menger, Principi di economia politica, cit., p. 56).

Di fronte al dominio della Scuola storica dell’economia che combatteva la teoria economica in generale e che riduceva, sostanzialmente, l’economia a storia di eventi economici (quando da queste ricerche su fatti singoli non passava a schemi di filosofia della storia campata per aria), Cari Menger, a difesa della teoria economica, pubblica nel 1883 le sue Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften, persuaso che la questione metodologica era «il più urgente bisogno del momento» (Il metodo nella scienza economica, cit., p. 78). Con il suo libro Menger si propose «di determinare il carattere della economia politica, le sue partizioni, la natura delle sue verità» (Ib., p. 19).

In particolare, Menger nelle Untersuchungen distingue la conoscenza in conoscenza individuale e conoscenza generale, distingue cioè le scienze in scienze dell’aspetto individuale (scienze storiche) dei fenomeni e in scienze dell’aspetto generale (scienze teoriche) dei fenomeni. Insiste sul fatto che senza la conoscenza generale, senza cioè la teoria, non sono possibili né la spiegazione storica né la previsione e il dominio dei fenomeni. Distingue, di conseguenza, le scienze in scienze teoretiche, scienze storiche e scienze pratiche (Ib., pp. 163-70). Precisa che, nell’ambito dell’economia, scienze storiche sono la storia economica e la statistica economica; scienze pratiche sono la politica economica e la scienza delle finanze; scienza teoretica, infine, è l’economia teorica (Ib., pp. 166-70). Nell’ambito della ricerca teorica, poi, Menger distingue ancora tra l'indirizzo empirico-realista che tende a leggi fenomeniche (di coesistenza e successione tra i fenomeni) le quali, non rigorose o non «esatte», ammettono eccezioni, e l'indirizzo esatto che si propone di stabilire leggi rigorose dei fenomeni e uniformità nella successione dei fatti, leggi ed uniformità tali da non ammettere eccezioni (Ib., pp. 38-47). In ogni caso, afferma Menger, «scopo delle scienze teoretiche è intendere, conoscere, superando la immediata esperienza, e dominare il mondo della realtà. Noi perveniamo ad intendere i fenomeni mediante teorie, in quanto le teorie ci presentano il singolo fatto concreto come un caso di una regolarità generale, e arriviamo a una conoscenza che trascende la immediata esperienza [...]; infine, noi dominiamo il mondo reale in quanto, sulla base delle nostre conoscenze teoretiche, possiamo porre le condizioni - dato che ciò sia in nostro potere - di un dato fenomeno e cosi provocarne il verificarsi» (Ib.,

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p. 39). Ben si vede, dunque, che l’indagine teoretica deve percorrere, ad avviso di Menger, «una via che è essenzialmente diversa dalla induzione empirico-realistica di Bacone» (Ib., p. 43).

Menger, inoltre, sottolinea la parzialità di ogni teoria scientifica: nessuna scienza esatta racchiude in sé la comprensione universale nemmeno della più piccola parte del mondo reale (Il metodo nella scienza economica, cit., pp. 56-57). Egli fa anche presente che scorgere nell’interesse individuale l’elemento fondamentale per la costruzione dell’«economia esatta» non ha «il compito di insegnarci a comprendere in generale e nella loro totalità i fenomeni sociali o magari i fenomeni umani [...]; bensì ha il compito di procurarci la comprensione di un aspetto particolare - invero il più importante, della vita umana - vale a dire dell’aspetto economico, mentre la comprensione dei rimanenti aspetti resta affidata ad altre teorie che ci fanno conoscere le forme della vita umana dal punto di vista proprio delle altre tendenze (per esempio, dal punto di vista del sentimento sociale, dell’idea del diritto e via dicendo)» (Ib., p. 65). E, per tutto ciò, risulta infondato, ad avviso di Menger, il rimprovero di «atomismo» contro i sostenitori dell’economia teorica, rimprovero che si baserebbe sul fatto che i fenomeni dell’economia sono ricondotti ai loro elementi ultimi e con essi spiegati (Ib., cap. Vili, pp. 67-71). Per Menger, ha scritto L.H. White, «la natura del mondo fisico (la scarsità delle risorse naturali) insieme con la natura umana (il desiderio di una maggiore soddisfazione dei bisogni) determina la struttura essenziale del mondo economico» (L.H. White, Methodology of the Austrian School, The Center for Libertarian Studies, New York 1977, p. 3). Per la teoria economica esistono risorse scarse e individui alla ricerca della più grande soddisfazione dei loro bisogni e desideri. E sono le azioni di questi individui che la teoria economica prende in considerazione.

In realtà, scrive Menger, «la collettività come tale non è un soggetto in grande, che ha bisogni, lavora, traffica e concorre; e quello che si dice “ economia sociale ” non è quindi l’attività economica di una società, nel senso proprio della parola. L’ “ economia sociale ” non è un fenomeno analogo alle economie individuali, cui appartiene anche l’economia finanziaria, non è una cosa che si contrapponga o sussista accanto alle economie individuali. Nella sua forma fenomenica più generale essa è una molteplicità, tutta peculiare, di economie individuali» (Il metodo nella scienza economica, cit., p. 67). I fatti dell’economia sociale «non sono immediate manifestazioni della vita di un popolo come tale, immediati e diretti prodotti della sua attività economica, bensì sono la risultante di tutti gli innumerevoli sforzi della collettività, e non possono quindi, sulla base di quelle premesse, essere sistemati secondo questo punto di vista fittizio» (Ib., pp. 69-70). E, pertanto, chi intende pervenire ad una comprensione teorica dei fenomeni umani più complessi - per esempio, di quei fenomeni che contrassegniamo come fenomeni dell’«economia sociale» - «deve risalire ai loro veri elementi, alle economie individuali della collettività, e tentare di indagare le leggi secondo le quali l’economia sociale deriva da quelle individuali» (Ib., p. 70; si veda anche p. 123). E chi, invece, persegue la via opposta, «non capisce - scrive Menger - la natura dell’economia sociale, si muove sul fondamento di una finzione, ed insieme disconosce il compito più importante dell’indirizzo teoretico esatto, vale a dire quello di risolvere i fatti più complessi negli elementi più semplici» (Ib., p. 70). E come il metodo individualistico funzioni, Menger

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lo mostra nella spiegazione della genesi di regole e di istituzioni sociali, le quali possono, a suo avviso, essere generate in due modi: o secondo il modo pragmatico (cioè come risultato di una volontà di individui diretta ad un fine) oppure quali esiti inintenzionali di azioni individuali che miravano ad altro (si tratta qui di un meccanismo a mano invisibile, il quale in realtà riesce a rendere ragione dell’esistenza della maggior parte dei fatti sociali) (Ib., p. 166 sgg.).

Da combattere, per Menger, è la pretesa universalizzante della teoria pragmatistica circa l’origine e il mutamento degli istituti sociali. La teoria pragmatistica afferma che tutti gli istituti e fenomeni sociali sorgono e mutano ad opera di espliciti accordi o tramite una legislazione positiva. Siffatta pretesa, però, è - scrive Menger - un errore, giacché «il diritto, il linguaggio, lo Stato, la moneta, il mercato, tutti questi istituti sociali sono, nelle varie forme fenomeniche e nelle loro incessanti mutazioni, in non piccola parte il prodotto spontaneo dell’evoluzione sociale; i prezzi dei beni, il saggio dell’interesse, la rendita fondiaria, i salari e mille fenomeni della vita sociale in genere e dell’economia in particolare mostrano esattamente la stessa peculiarità, e anche la loro comprensione non può essere “pragmatistica”, ma deve essere analoga a quella degli istituti sociali sorti spontaneamente» (Ib., p. 112). E se le cose stanno cosi, allora «la soluzione dei più importanti problemi delle scienze sociali teoretiche e dell’economia teorica in particolare, è strettamente correlata con la questione della comprensione teoretica delle origini e delle trasformazioni degli istituti sociali sorti per via “organica”» (Ib.), cioè per via non intenzionale ma spontanea. Tutto ciò nella consapevolezza che, nel corso dell’evoluzione sociale, l’intervento dei poteri pubblici crea nuovi istituti e muta o sviluppa quelli sorti per via non intenzionale. In ogni caso, «ai primordi della società, la sola origine dei fenomeni sociali può, d’accordo con i fatti, essere stata quella irriflessa» (Ib., p. 122). Mentre «l’odierno sistema del mercato, il sistema monetario, il diritto attuale, lo Stato moderno, ecc. ci offrono altrettanti esempi di istituzioni che si presentano come il risultato dell’attività combinata di [...] fattori “organici” e “positivi”» (Ib.).

1091. Menger: la genesi inintenzionale della moneta.

Sarà Ludwig von Mises a parlare di «esempio classico» a proposito della spiegazione che Cari Menger ha dato della natura e dell'origine della moneta: un fenomeno che «ha attirato da sempre l’attenzione dei filosofi, dei sociologi, degli economisti e degli operatori economici» (Prindpi di economia politica, cit., p. 345). In realtà, «il fatto che una persona ceda ad un’altra una parte del suo patrimonio in cambio di qualcosa che le è più utile è chiaramente spiegabile per chiunque. Ma il fatto che, presso i popoli civili, migliaia di persone si diano continuamente da fare per scambiare anche i più utili tra i loro beni contro piccoli pezzi di metallo per sé inutili o contro pezzetti di carta (banconote e buoni del tesoro) sembra un comportamento talmente contrario al buon senso che non ci dobbiamo meravigliare se parecchi studiosi dei fenomeni monetari lo considerano una strana anomalia della vita economica, e ad un grande pensatore come il Savigny esso appare addirittura un fenomeno misterioso» (Ib.).

Nella storia del pensiero non è affatto difficile rintracciare «una catena ininterrotta di spiegazioni intorno alla natura della moneta e al suo carattere particolare nell’ambito degli

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oggetti di scambio» (Ib., p. 346). Ebbene, si chiede Menger, «qual è la natura di quei pezzetti di metallo e di quei pezzetti di carta che sembrano non avere nessuna utilità eppure, contraddicendo ogni esperienza, danno, a chi li possiede, un potere quasi illimitato su tutti i mercati e talvolta anche sulla vita degli uomini?» (Ib.). Sono essi creazioni volute ed intenzionali, riconducibili a convenzioni o ad ani legislativi di uomini che esplicitamente si prefiggevano delle chiare finalità (si vedano Platone, De re publica, Π, 2; e Aristotile, Ethica Nicom., V, 8) oppure si tratta, anche in questo caso, di un’istituzione sorta per via irriflessa, «cresciuta su» in modo inintenzionale quale esito di altre azioni intenzionali? Ecco, dunque, un problema che la scienza è chiamata a risolvere.

Certo, l’idea che una merce diventi moneta ad opera di un’esplicita convenzione o di un atto legislativo non è opinione «fondamentalmente falsa», giacché «la storia ci offre di fatto degli esempi di determinate merci dichiarate moneta da una legge» (Il metodo nella scienza economica, cit., p. 118). Tuttavia, fa notare Menger, «non si deve dimenticare che, nella maggioranza dei casi, la deliberazione legislativa notoriamente determinò non già la qualifica di moneta ad una data merce, ma il riconoscimento ufficiale come moneta di una merce che già serviva come tale» (Ib.). E, in ogni modo, la «spiegazione pragmatistica» dell’origine di quell’istituto sociale che è la moneta non riesce in tutti quei rilevanti casi in cui la moneta non è palesemente il risultato di un’attività legislativa, ma è «sorta dai rapporti economici stessi, senza interventi legislativi, spontaneamente o, come altri si esprime, organica-mente» (Ib.). In altri termini, la scienza deve qui spiegarci come una merce, con lo sviluppo della civiltà economica, si solleva «senza un accordo espresso degli individui e senza un atto legislativo sulla cerchia di tutte le altre merci e diventa moneta, vale a dire diventa una merce che da tutti è accettata in cambio di beni offerti, anche senza uno speciale bisogno di questa merce moneta» (Ib.).

Ecco le linee argomentative attraverso le quali Menger spiega il fenomeno. Finché presso un popolo domina il semplice commercio di scambio (economia di baratto), ogni individuo cerca di scambiare i beni superflui con quelli di cui ha immediato bisogno e rifiuta quei beni di cui non ha bisogno ovvero dei quali è ben fornito. Ora, però, perché l’individuo che porta al mercato le sue merci superflue possa scambiare queste sue merci superflue con i beni desiderati, «deve non soltanto trovare qualcuno che richieda le merci che egli offre, ma contemporaneamente anche l’altro che offra le merci che egli desidera» (Ib.). Ma questa è, appunto, «la circostanza che, in un regime di puro scambio, oppone tante difficoltà al traffico e lo serra in limiti angusti» (Ib.).

Come ovviare a siffatto inconveniente, cosi dannoso allo scambio? Quale efficace rimedio si poteva ad esso opporre? «Ognuno poteva facilmente osservare da sé che talune merci, e precisamente quelle che rispondevano a bisogni molto generali, erano domandate più delle altre, e che perciò, portando al mercato queste e non altre merci meno agevolmente vendibili, più facilmente riusciva a trovare, proprio tra coloro che domandavano queste merci, coloro che offrivano le merci che desiderava» (Ib., pp. 118-19). Cosi, per esempio, in una popolazione nomade ognuno sa in base alla propria esperienza che, «portando al mercato bestiame, anziché altra merce che abbia un più ristretto giro di compratori, è più facile trovare, tra i tanti che sono disposti a fame acquisto, coloro che offrono le merci di cui c’è

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desiderio» (Ib., p. 119). Di conseguenza, «doveva sorgere l’idea, in chi portava al mercato dei beni meno agevolmente vendibili, di dare questi beni in cambio non soltanto di quelle merci di cui appunto aveva bisogno, ma, ove questo scopo non fosse direttamente raggiungibile, anche di altre merci, di cui invero non aveva egli stesso bisogno, ma che erano però più smerciabili delle sue. In questo modo egli non conseguiva direttamente il risultato dell’operazione economica che si proponeva (vale a dire lo scambio con dei beni di cui aveva bisogno), ma vi si avvicinava considerevolmente. Cosi l’interesse economico porta i singoli attori economici, con una maggiore conoscenza del loro interesse individuale, senza qualsiasi accordo, senza coazione legislativa, anzi addirittura senza alcun riguardo verso l’interesse pubblico, a scambiare le merci proprie con altre aventi un mercato più vasto, anche se di queste non hanno un immediato bisogno; e tra queste merci saranno preferite quelle che sono più adatte a servire alla funzione di mezzo di scambio nel modo più comodo ed economico» (Ib.). Cosi, pertanto, «sotto il potente influsso della consuetudine, appare quel fenomeno, che è dato osservare dappertutto col crescere della cultura economica, vale a dire che un certo numero di beni, e precisa-mente quelli che nei riguardi di tempo e luogo sono i più facilmente smerciabili, trasportabili e durevoli e più agevolmente divisibili, siano accettati in cambio da tutti e perciò possano essere permutati con qualsiasi altra merce. Questi beni furono dai nostri antenati chiamati moneta» (Ib.).

In conclusione, «la moneta, una delle istituzioni che nel più alto significato della parola servono al benessere comune, può [...] sorgere, al pari di altre istituzioni sociali, mediante un atto legislativo. Ma questo non è né il solo né il modo originario col quale sorge la moneta, che nasce piuttosto mediante quel processo da noi più sopra raffigurato [...]. È [...] manifesto che l’origine della moneta può essere spiegata compiutamente nella sua realtà soltanto se sappiamo ravvisare in quest’istituzione sociale il prodotto irriflesso, il risultato involontario dell’attività specificamente individuale dei membri di una collettività» (Ib., p. 120). Quel che vale per l’origine della moneta vale anche, secondo Menger, per altre istituzioni sociali. Non tutti i fenomeni sociali sorgono ad opera di espliciti accordi o attraverso la legislazione positiva.

1092. Menger: istituzioni sociali sorte per via irriflessa e spiegabili in termini individualistici.

Non solo la moneta, il prezzo dei beni, il saggio di interesse, la rendita fondiaria, i salari e innumerevoli altri fenomeni economici possono venir spiegati come esiti «irriflessi» di azioni volte ad altro scopo, ma, ad avviso di Menger, allo stesso modo è possibile rendere conto di fenomeni sociali e di istituzioni sociali, che «servono ugualmente al benessere comune, anzi ne sono addirittura le condizioni, senza che peraltro siano di regola il risultato di una attività intenzionale, diretta a promuovere questo benessere stesso» (Ib., p. 12).

«Anche oggi, solo in casi rarissimi - scrive Menger - accade che nuove località si formino pel fatto che un certo numero di persone, di capacità e professioni diverse, si riuniscano con lo scopo di fondare una città, e quindi realizzino questa intenzione programmaticamente, per quanto, beninteso, siffatta origine di nuove colonie non sia da escludere, anzi sia dall’esperienza confermata. Di regola le città sorgono per via irriflessa, vale a dire col semplice manifestarsi di interessi individuali, che da sé, cioè senza una precisa intenzione,

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conduce a un risultato utile all’interesse generale. Gli agricoltori che per i primi occupano un territorio, l’artigiano che per il primo si stanzia

in mezzo a loro, perseguono di regola soltanto un interesse individuale; cosi il primo albergatore, il primo mercante, il primo maestro e cosi via dicendo. Col crescere dei bisogni tra i membri della società, anche altri soggetti economici trovano conveniente, in mezzo a questa comunità che poco a poco si sviluppa, darsi a nuove occupazioni, oppure di sviluppare le nuove occupazioni. Cosi sorge gradatamente una organizzazione economica che è altamente giovevole agli interessi dei vari membri della colletdvità, anzi senza di cui non si potrebbe immaginare una normale esistenza; eppure questa organizzazione non è affatto il risultato di una volontà comune, diretta alla sua costituzione. Questa volontà di regola si manifesta soltanto negli stadi più progrediti della evoluzione della vita collettiva e provoca non già la nascita, ma soltanto il perfezionamento degli istituti sociali già sorti per via “organica”» (Ib., pp. 120-21).

«Lo stesso - scrive ancora Menger - dicasi circa l’origine dello Stato. Chi sia imparziale non può mettere in dubbio che, mediante l’accordo di un numero conveniente di persone aventi la disponibilità di un territorio, possa, in circostanze favorevoli, esser messa la base per una comunità capace di sviluppo. Né può ragionevolmente dubitarsi che dai rapporti naturali di autorità familiare possa esser tratto uno Stato capace di vivere per opera o di alcuni che comandano o di gruppi di questi, anche senza l’accordo di tutti gli appartenenti. Certamente è unilaterale la storia che riconduce l’origine di quell’istituto sociale, che chiamiamo Stato, esclusivamente ad una formazione per via “ organica ”. Ma altrettanto errata, anzi ancor più antistorica, è la teoria secondo la quale tutti gli Stati sarebbero originariamente sorti mediante un accordo di alcuni potenti o di loro gruppi, diretto alla fondazione dello Stato stesso, o per via di una attività coscientemente diretta a quello scopo. Senza dubbio infatti gli Stati, almeno nei primi stadi della evoluzione della umanità, sono sorti perché alcuni capi di famiglie, che vivevano l’uno accanto all’altro liberi da qualsiasi vincolo statale, senza mettersi d’accordo, ma per il semplice fatto che essi avevano imparato a conoscere sempre meglio i loro interessi individuali e si sforzavano di perseguirli (mediante la volontaria sottomissione dei più deboli alla protezione dei più potenti, mediante l’efficace soccorso recato al vicino quando questi doveva subire violenze in condizioni tali che anche gli altri abitanti del territorio si ritenevano minacciati nel loro benessere) pervennero a realizzare una comunità statale ed una organizzazione ancorché rudimentale. E' possibile che accordi diretti a rafforzare la vita comune e rapporti di autorità di vario genere abbiano in alcuni casi stimolato effettivamente un siffatto processo di formazione statale; in altri casi la precisa conoscenza e la affermazione degli interessi individuali da parte di singoli capi di famiglia coabitanti hanno senza dubbio portato alla formazione dello Stato anche senza gli influssi sopra accennati, anzi addirittura senza che l’individuo tenesse conto dell’interesse generale. Pure quell’istituto che noi chiamiamo lo Stato, è stato almeno nelle sue forme primitive l’involontario risultato di un’attività al servizio di interessi individuali» (Ib., p. 121).

Allo stesso modo, prosegue Menger, si potrebbe dimostrare che altre istituzioni sociali, come il linguaggio, il diritto (Ib., p. 177 sgg.) o il costume sono sorte per via spontanea, senza coazione legislativa, senza alcun riguardo per l’interesse pubblico, ma unicamente sotto

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«l’impulso di interessi individuali e quale risultato dell’affermarsi di questi» (Ib., p. 122). Cosi, «l’organizzazione del traffico in mercati periodicamente ricorrenti e localizzati, l’organizzazione della società mediante la separazione di professioni e la divisione del lavoro, gli usi commerciali e cosi via dicendo, tutte istituzioni queste che servono in modo eminente al benessere comune e che a prima vista sembrano abbiano avuto necessariamente origine da un accordo o dalla volontà dello Stato, sono non già il risultato di convenzioni, trattati, leggi, o del fatto che i singoli individui abbiano tenuto in conto particolare l’interesse pubblico, sibbene il risultato di sforzi al servizio di interessi individuali» (Ib.). Certo, sottolinea Menger «è chiaro che in questo processo di formazione “organica” l’autorità legislativa non di rado interviene, e ne accelera cosi o ne modifica i risultati» (Ib.). Tuttavia, fa egli presente, «ai primordi della società, la sola origine dei fenomeni sociali può, d’accordo con i fatti, essere stata quella irriflessa» (Ib.). Nel corso, però, della evoluzione sociale «l’intervento preciso dei poteri pubblici nei rapporti sociali appare sempre più manifesto; accanto alle istituzioni sorte per via “organica” ne sorgono altre, che sono il risultato dell’operare sociale volto a uno scopo determinato; altre istituzioni, sorte per via organica, trovano la loro prosecuzione e trasformazione nella attività delle autorità pubbliche diretta scientemente ai fini sociali. L’odierno sistema del mercato, il sistema monetario, il diritto attuale, lo Stato moderno, ecc., ci offrono altrettanti esempi di istituzioni, che si presentano come il risultato dell’attività combinata di forze individuali e teleologico-sociali, ossia, con altre parole, di fattori “organici” e “positivi”» (Ib.).

1093. Menger: il primato del teorico.

Nella sua recensione delle Untersuchungen di Menger, Schmoller si affretta subito a giustificare il lavoro suo proprio e quello della Scuola storica, e dò nel senso che, affinché le generalizzazioni dell’economia non restino campate per aria, occorre aumentare le osservazioni storiche, affinarle e migliorarle, «in modo che ad opera di un materiale descrittivo di esperienze di ogni genere sempre più ampio e migliore possono venir migliorate la classificazione e le concettualizzazioni e possono venir conosciuti più chiaramente, in tutta la loro portata, le serie tipiche dei fenomeni, i loro rapporti e le loro cause» (Zur Methodologie der Staats und Socialwissenschaften, cit., p. 241). Schmoller è dell’avviso che la Scuola storica tedesca dell’economia abbia approfondito e arricchito tutta la scienza (Ib., p. 247); e ribadisce che Menger, pur essendo «un acuto dialettico e una testa logica», è tuttavia uno studioso limitato e astratto, privo «di una formazione generale filosofica e storica» e di un orizzonte abbastanza ampio da «fargli vedere le esperienze e i concetti da tutte le parti»; è uno studioso che presume dal suo «angolino» di vedere troppo e che «con aria troppo sicura da maestro di scuola prende la bacchetta e pensa di darla sulle dita di quanti [...] non sono del suo parere» (Ib., p. 251).

Trascurando la teoria, la Scuola storica degli economisti tedeschi - replica Menger ne Gli errori dello storicismo - «ha perduto l’idea stessa di economia politica e delle sue parti; ha smarrito la comprensione dei rapporti di queste parti tra di loro e con le loro discipline ausiliarie; ma soprattutto ha perso l’idea di differenti e legittimi orientamenti della ricerca teorica nel campo dell’economia» (Gli errori dello storicismo, cit., p. 61). Per Menger la cosa più urgente è ristabilire il primato del teorico·, senza teoria economica non c’è scienza

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economica, non c’è né spiegazione né previsione di fatti economici. Ciò equivale a dire che senza teoria economica, senza le leggi dell’economia, non sono possibili né la storiografia economica né le scienze pratiche dell’economia. Per questo l’unilateralità degli economisti tedeschi che riducono l’economia a storia di fatti economici è un errore da estirpare con la massima urgenza. Ma a parte ciò, fa presente Menger, occorre porre in evidenza che la concezione di Schmoller è una vera e propria impossibilità logica. Schmoller afferma che la teoria economica conoscerà, nel futuro, una nuova epoca, quando i teorici potranno utilizzare a pieno il materiale offerto dalle descrizioni storiche e statistiche (Ib., pp. 78-79). I fatti del mondo economico, però, sono infiniti: «si pensi soltanto al prezzo della carne a Elberfeld, a Pforzheim, a Mühlheim, a Hildesheim, a Gemmersheim, a Zwickau e cosi via» (Ib., p. 79). E, stando cosi le cose, dato cioè che i fatti del mondo economico sono infiniti, quanto tempo è necessario - si chiede Menger - perché la micrografia, nel senso di Schmoller, sia da considerare completa? Quanto tempo dobbiamo aspettare prima di por mano alla teoria?

Né la conoscenza dei fatti del passato è sufficiente - sostiene Menger - a costituire l’esclusivo fondamento delle scienze pratiche dell’economia. Difatti è chiaro che «anche la più radicale conoscenza del passato dei popoli non è in grado in sé e per sé di stabilire i principi di un intervento adeguato nell’economia, o di un agire adeguato nell’ambito di quest’ultima» (Ib., p. 84). E ciò per la ragione che «la vita economica dei popoli pone senza sosta compiti nuovi all’amministrazione economica e finanziaria, compiti che possono venir risolti non esclusivamente sulla base dello studio del passato, ma solo sulla base di conoscenze che, estendendosi bene al di là di un puro e semplice sapere storico e statistico, riguardano le attuali esigenze della vita dello Stato, della mutevole concezione dei compiti dell’attività statale, della situazione delle scienze tecniche, e cosi via» (Ib., pp. 84-85). In altri termini, «lo storico, questo “ profeta rivolto all’indietro ”, non può [...] essere l’unico competente nell’ambito delle scienze pratiche dell’economia» (Ib., p. 85).

È, dunque, dall’interno della riflessione sulla storiografia economica e sulle scienze pratiche dell’economia (politica economica e scienza delle finanze) che riemerge la necessità logica della teoria economica. I rappresentanti della Scuola storica tedesca dell’economia invece di ricercare le «leggi dell’economia» e «i principi per l’agire efficace nel campo dell’economia politica», si preoccupano solo di raccogliere materiale, comportandosi cosi come quel carrettiere «che voleva valere come architetto per aver portato alcune carrettate di sabbia e di pietre al cantiere» (Ib., p. 86).

Schmoller, insomma, è - ad avviso di Menger - un intellettuale superbo e un giudice incompetente, il quale confonde i concetti scientifici più elementari e il cui sapere consiste in una mucillagine di materiali storico-statistici: «la sua tendenza ai fraintendimenti è veramente il lato più deplorevole della sua attività critica nel campo della nostra scienza» (Ib., p. 115). Ma contro il tentativo di Schmoller e dei suoi seguaci di dissolvere la teoria economica e di ridurre la scienza economica a descrizione di sparpagliati fatti unici e irripetibili, Menger ha insistito sul fatto che la costituzione e l’individuazione dei fatti economici è impossibile senza teoria economica e sull’altra idea per cui senza leggi economiche non si danno né spiegazioni né previsioni economiche (Il metodo nella scienza economica, cit., p. 30, p. 22). Sono i tipi (o le forme fenomeniche tipiche) dei fenomeni economici e le relazioni tipiche tra

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i fenomeni economici, le cose che interessano il teorico dell’economia. Cosi, per esempio, «i fenomeni della compra-vendita, della moneta, della domanda e dell’offerta, del prezzo, del capitale, dell’interesse, sono esempi di forme fenomeniche tipiche dell’economia, mentre il costante verificarsi di alcuni fatti, come il ribasso del prezzo di una merce in seguito all’accresciuta offerta, il ribasso dei prezzi per l’aumentata quantità del medio circolante, il cadere del saggio dell’interesse per una notevole accumulazione di capitali e via dicendo, rappresentano delle relazioni tipiche tra fenomeni economici» (Ib., p. 22). E non bisogna dimenticare che la teoria economica - sia nell’indirizzo esatto sia in quello empirico - è sempre selettiva: non è legittimo rimproverare alla teoria economica di non afferrare il tutto della vita (Ib., p. 56 sgg.).

1094. Menger: la filosofia della storia non è teoria economica.

Dunque, prima di tutto: la teoria economica. Ma la teoria economica, afferma Menger, non va minimamente confusa con quelle teorie onnicomprensive e totalizzanti o filosofie della storia che presumono di aver colto le leggi di sviluppo dell’intera storia umana (filosofie della storia chiamate di recente da Karl Popper col nome di «storicismo»). Scrive Menger: «La concezione della economia teorica o magari della economia politica come una scienza dei “ parallelismi della storia economica ” e via dicendo è segno di una limitatezza di vedute addirittura spaventosa, che si può spiegare soltanto con la circostanza che la scuola storica tedesca dell’economia si è sviluppata senza un serio contatto con gli altri indirizzi scientifici. Essa è un esempio eloquente delle aberrazioni cui può andare incontro una scuola scientifica quando non abbia la fortuna di incontrare dei seri avversari» (Ib., p. 92). Pensare alla teoria economica ed equipararla alla «filosofia della storia» è un errore molto grave e grossolano. Siffatto errore è analogo a quello di chi confondesse l’evoluzione del mondo organico «con l’indagine teoretica nel campo dei fenomeni organici (per esempio della fisiologia) o addirittura con l’indagine naturalistica in generale» (Ib., p. 91). E', insomma, un errore troppo pesante quello di scambiare le presunte leggi dello sviluppo economico «con le leggi che ci mostrano come il prezzo dei beni dipenda dalla domanda e dall’offerta, o dalla quantità del medio circolante, come la rendita fondiaria dipenda dalla maggiore o minore distanza del fondo dal mercato o dalla sua diversa fertilità, come l’interesse dipenda dal maggiore e minore risparmio o da uno spirito commerciale più o meno vivo degli abitanti di un paese; leggi tutte, che non possono essere ragionevolmente definite come valori paralleli dello svolgimento storico dell’economia» (Ib., pp. 90-91).

In termini diversi: la filosofia della storia, nelle tante sue manifestazioni, non è mai teoria scientifica. «Cosi - scrive Menger - già si designò come “filosofia della storia” ora la dimostrazione di un progredire costante della umanità nel suo svolgimento (Perrault, Turgot, Leroux); ora quella dello svolgimento della umanità in epoche determinate (Condorcet); ora si volle dimostrare che la storia è una progressiva realizzazione dell’idea di libertà (Michelet), una educazione della umanità (Lessing), un procedere verso l’attuazione dell’idea della umanità (Herder); ora che la storia dei singoli popoli presenta una linea ascendente, un punto di massimo e una curva discendente (Bodin, Vico); che il fine ultimo della storia è la costituzione di uno stato in cui libertà e necessità si disposano armoniosamente (Schelling); anzi, pretese perfino dimostrare che la civiltà francese è il prototipo addirittura della civiltà

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umana in genere (Guizot)» (Ib., p. 92). Ebbene, prosegue Menger, «questi ed altri innumerevoli indirizzi della indagine filosofico-storica potrebbero essere in qualche modo trasportati nel campo economico, e cosi, accanto alla filosofia dei “ parallelismi della storia economica ”, che i nostri economisti tedeschi della scuola storica riconoscono per la sola “ filosofia della storia economica ”, potremmo avere molte altre di tali filosofie. E' chiaro tuttavia che, pur mettendo insieme tutti questi vari indirizzi, non si otterrebbe la equivalente della indagine teoretica. Anche dando all’espressione “ filosofia della storia economica ” il significato più largo, la identificazione di questa con l’economia teorica sarebbe sempre una mostruosa unilateralità» (Ib.). La dottrina delle leggi evolutive dei popoli (Hildebrand), le leggi evolutive ricavate dal paragone delle diverse storie dei popoli (Roscher), e cose del genere non sono scienza dei fatti economici, sono filosofie della storia: pseudo-storia, pseudo-sapere.

LUDWIG VON MISES: L’IMPRATICABILITÀ DEL SOCIALISMO

1095. Von Mises: la vita e le opere.

Ludwig von Mises nasce il 19 settembre 1881 a Lemberg (Leopoli). Uno dei suoi due fratelli, Richard, è il noto matematico di orientamento neopositivista. Iscrittosi nel 1900 alla Facoltà di legge e scienze politiche dell’Università di Vienna, si interessa di storia economica, stimolato da Carl Grünberg, il quale sarà in seguito il primo direttore dell’Istituto per la ricerca sociale, da cui si svilupperà la Scuola di Francoforte.

Nel 1903, durante le vacanze di Natale, Mises legge i Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di Carl Menger. «Fu la lettura di questo libro - confesserà egli più tardi (in Notes and Recollections, Libertarian Press, South Holland, 111., 1978, p. 33) - che fece di me un economista». Mises conoscerà di persona Menger, solo alcuni anni dopo, nel 1910; con lui da allora in poi ebbe numerosi colloqui. Nel 1909 Mises viene assunto alla Camera di commercio di Vienna, dove lavorerà sino al 1938. Intanto nel 1912 esce la prima edizione tedesca di Theorie des Geldes und der Umlaufsmittel (Duncker & Humblot, München-Leipzig, 1912).

Sino al 1913 Mises frequenta regolarmente il famoso seminario di Böhm-Bawerk. Nel 1913 ottiene la libera docenza e nell’anno accademico 1913-1914 tiene il suo primo seminario presso l’Università di Vienna. Nel 1914 Mises è al fronte e vi resta sino a pochi mesi prima della fine della guerra, quando viene richiamato a Vienna per lavorare presso la Divisione economica del Ministero della guerra. Dall’autunno del 1918 all’autunno del 1919 si ha il collasso della monarchia asburgica. Ebbene, in questo periodo - dice Mises - «il più importante compito che io mi assunsi fu quello di impedire una rivoluzione bolscevica [...]. La cosa mi riuscì grazie alla mia influenza su Otto Bauer. Che il bolscevismo non abbia allora vinto a Vienna fu dovuto soltanto ai miei sforzi. Io, da solo, riuscii a distogliere Bauer dal cercare l’unione con Mosca» (Notes and Recollections, cit., p. 77).

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Nel 1919 Mises pubblica Nation, Staat und Wirtschaft (Manzsche Verlagsund Universitäts-Buchhandlung, Wien, 1919), lavoro che l’autore definisce come «un libro scientifico con un disegno politico. Era un tentativo di alienare i sentimenti della gente tedesca e austriaca dalle idee nazional-socialiste [...] e di raccomandare la ricostruzione sulla base di una politica liberal-democratica» (Notes and Recollections, cit., p. 66).

Sempre nel 1919 Mises espone alla società economica il saggio Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen Gemeinwesen (Il calcolo economico nella società socialista). E' questo un saggio destinato ad avere una enorme importanza. In esso Mises dimostra che il calcolo economico - e quindi una economia razionale - è impossibile in una società socialista. Il saggio viene pubblicato nel 1920 nell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» (vol. XL VH, pp. 85-121), e verrà poi incorporato nel libro Gemeinwirtschaft (Gustav Fischer, Jena, 1922; in inglese: Socialism, in italiano: Socialismo, Rusconi, 1990). Nella sua stesura originale il saggio fu ripubblicato in inglese da Hayek nel 1935 nel volume collettivo: Collectivist Economie Phnning (trad. ital. Pianificazione economica collettivistica, Einaudi, Torino, 1946).

Il Privatseminar viennese di Mises ha inizio nel 1920. Tra i partecipanti abituali occorre menzionare: Gottfried Haberler, Friedrich A. von Hayek, Felix Kaufmann, Fritz Machlup, Oskar Morgenstern, Alfred Schütz, Richard von Strigi, Erich Voegelin. Nel 1922 esce Gemeinwirtschaft (Socialismo). Nel 1925 Mises è eletto membro della Associazione tedesca di sociologia, i cui membri erano, in gran parte, allievi di Schmoller e Wagner. Fa parte anche dell’Assoàazione per la politica sociale. Nella prima associazione conosce Sombart; nella seconda si lega di amicizia con Max Weber. Nel 1926 Mises compie un viaggio negli Stati Uniti. E al ritorno fonda l'Istituto per lo studio del ciclo economico. Pubblica Liberalismus (Gustav Fischer, Jena), nel 1927; del 1929 è la Kritik des Interventionismus (Gustav Fischer, Jena). Questi ultimi sono due libri che, come dice lo stesso Mises, «analizzano tutti i concepibili sistemi di cooperazione esaminandone la loro praticabilità» (Notes and Recollections, cit., p. 113). Si tratta di studi che troveranno il loro punto di approdo in Nationalökonomie, l’antecedente tedesco di Human Action. I pregevoli saggi metodologici di Mises escono nel 1933 nella raccolta: Grundprobleme der Nationalökonomie (Gustav Fischer, Jena; trad. ingl. Epistemological Problems of Economics, New York University Press, New York e London 1975; trad. ital. Problemi epistemologici dell’economia, trad, ital., Armando, Roma, 1988). Il compito e il campo della scienza dell'azione umana è il primo fondamentale saggio della raccolta e - come ha scritto F. Machlup - esso «non è altro che un ampio abbozzo delle idee principali della parte metodo-logica di Human Action». Nel saggio Sociologia e storia (apparso per la prima volta nel 1923) Mises si misura con Max Weber.

Nel 1934 Mises viene invitato a ricoprire la cattedra di Relazioni economiche intemazionali presso l’Institut Universitaire des Hautes Etudes Internationales di Ginevra. Egli si trasferisce a Ginevra, ma ritorna frequentemente a Vienna per seguire il suo lavoro alla Camera di commercio. A Ginevra l’insegnamento gli viene riconfermato sino al 1940. E qui egli è in contatto con colleghi di grande prestigio come Gottfried Haberler, Wilhelm Röpke, William Rappard, Guglielmo Ferrerò, Paul Mantoux e Hans Kelsen. A Ginevra Mises ospitò anche Musil, il quale mori, povero, proprio in questa città nel 1942.

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Nationalökonomie. Theorie des Handelns und Wirtschaftern esce nel 1940 presso le Editions Union di Ginevra (trad. ingl. Human Action, Yale University Press, New-Haven, 1948; trad, ital., L’azione umana, UTET, Torino, 1959). Nello stesso 1940, il 2 agosto, Mises sbarca a New York. In America Mises entra subito in contatto con alcuni suoi ex-discepoli quali, tra altri, Felix Kaufmann, Fritz Machlup, Alfred Schütz, Dse Mintz e Adolphus Redley. Riceve una sovvenzione dalla Rockfeller Foundation. E nel 1944 pubblica Omnipotent Government (Yale University Press, New Haven; rist. presso la Arlington House, New Rochelle-New York, 1969; trad, ital., Lo stato onnipotente, Rusconi, Milano, in corso di pubblicazione). Questo libro «è non soltanto la storia della caduta della Germania, esso è anche una poderosa critica delle ideologie politiche, sociali ed economiche che hanno dato forma alla storia europea degli ultimi duecento anni» (H.F. Sennholz, Postscript a Notes and Recollections, cit., p. 158). E subito dopo Omnipotent Government esce Bureaucracy (Yale University Press, New Haven, 1944; trad, ital., Burocrazia, Rusconi, Milano, 1991), lavoro in cui Mises «mette a confronto in maniera sistematica i tratti caratteristici della gestione socialista con quelli della gestione di profitto» (H.F. Sennholz, Postscript, cit., p. 158). Burocrazia è un saggio «che sa lucidamente coniugare spirito battagliero di contestazione e rigore di valutazione scientifica» (D. Fisichella, Premessa, all’ediz. ital. di Burocrazia, cit., p. 11).

Nel mese di gennaio del 1945 Mises è nominato professore presso la Graduate School of Business Administration della New York University. Un anno dopo, nel gennaio del 1946, Mises ottiene la cittadinanza americana. Nel 1947 è tra i fondatori della Mont Pèlerin Society. E nel 1948 ha inizio il suo Seminario presso la New York University. E per ben 21 anni i membri del Seminario di Mises a New York si riuniscono ogni giovedì dalle 7,25 alle 9,25 di sera. Tra i più assidui e fedeli partecipanti alle discussioni del giovedì sera ci furono: Robert G. Anderson, Edward Fany, Henry Hazlitt, Israel Kirzner, Toshio Murata, George Reisman, Murray M. Rothbard e Hans F. Sennholz. Le riunioni del Seminario newyorkese di Mises ebbero termine nel 1969.

Profit and Loss è il titolo del saggio che Mises legge alla riunione della Mont Pèlerin Society del 1951. Nel 1952 Mises pubblica una raccolta di saggi e conferenze con il titolo: Planning for Freedom, Libertarian Press, South Holland, 111.

The Anti-Capitalistic Mentality viene pubblicata nel 1956 (D. van Nostrand, Princeton; trad, ital., La mentalità anticapitalistica, Armando, Roma, 1988). Dal libro emerge che la mentalità anticapitalistica è «l’atteggiamento tipico della categoria dei risentiti, incapaci di misurarsi con le sfide del mercato e che aspirano ad una “ sistemazione ” sociale strappata al di fuori della competizione e una volta per tutte» (L. Infantino, Introduzione all’ediz. ital. di La mentalità anticapitalistica, cit., p. 14). Theory and History è del 1957 (Yale University Press, New Haven; rist. dalla Arlington House, New Rochelle-New York, 1969) ed è «un’opera in cui Mises è pervenuto ad una epistemologia generale applicabile a tutti i settori della conoscenza umana» (H.F. Sennholz, Postscript, cit., p. 165). Su argomenti epistemologici, con speciale riferimento all’epistemologia dell’economia. Mises torna in The Ultimate Foundation of Economie Science (D. van Nostrand, Princeton, 1962; rist. nel 1977 dalla casa editrice Sheed Andrews and McMeel di Kansas City), dove è possibile trovare un

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ulteriore attacco a fondo contro le tesi neopositivistiche e una pregevole analisi delle loro disastrose conseguenze. The Historical Setting of the Austrian School of Economics (Arlington House, New Rochelle-New York; trad, it., La collocazione storica della Scuola austriaca di economia, «Quaderni del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali», Roma, 1992) è del 1969. Mises si spegne il 10 ottobre 1973, all’età di 92 anni.

1096. Von Mises: la prasseologia come scienza a priori.

Ne L’azione umana Mises chiama prasseologia la scienza generale dell'azione umana. E chiama catallattica la scienza dello scambio o economia, la quale cosi diventa una parte della prasseologia (si consulti su questo punto I.M. Kirzner, Introduzione ad Aa. Vv., Method, Process, and Austrian Economics. Essays in Honor of Ludwig von Mises, D.C. Heath and Company, Lexington, 1982, p. 3). Ebbene, «il punto di partenza dell’intera riflessione prasseologica non consiste in assiomi arbitrariamente scelti; questo punto di partenza è piuttosto una proposizione auto-evidente, pienamente, chiaramente e necessariamente presente in ogni mente umana. Un solco incolmabile separa quegli animali nelle cui menti è presente siffatta conoscenza da quelli nelle cui menti tale conoscenza non è pienamente e chiaramente presente» (The Ultimate Foundation of Economie Science, cit., p. 4). E questa verità auto-evidente consiste nella conoscenza del fatto che l'uomo tende consapevolmente a raggiungere fini (Ib., p. 6). Si tratta - dice Mises - di una conoscenza che non deriva dall’esperienza, ma dalla ragione: «Quello che sappiamo circa le fondamentali categorie dell’azione - agire, economizzare, preferire, il rapporto tra mezzi e fini e tutto il resto che insieme a ciò costituisce il sistema dell’azione umana - non deriva dall’esperienza. Noi concepiamo tutto questo dall’interno, cosi come concepiamo le verità logiche e matematiche a priori, senza riferimento ad esperienza alcuna» (Problemi epistemologici dell’economia, cit., p. 41; e L.M. Lachmann, Premessa ai Problemi epistemologici dell’economia, cit., p. 15). La prasseologia è scienza a priori (per un serio apprezzamento dell’apriorismo di Mises si veda F. Machlup, Omaggio a Mises, in «Controcorrente», VII, 1-3, 1975, p. 9). Ed essa non è riconducibile né alla psicologia né alla storia, due scienze di natura empirica. «Tema della psicologia - scrive Mises - sono gli accadimenti interni che sfociano o possono sfociare in un’azione definita. Tema della prasseologia è l’azione come tale» (L'azione umana, cit., p. 12). La prasseologia non studia - come fa la psicologia - i motivi dell’azione; né essa invade il campo della storia che «si occupa del contenuto concreto dell’azione umana», in quanto indaga sugli sforzi umani «nella loro infinita varietà e molteplicità e su tutte le azioni

individuali con le rispettive implicazioni accidentali, speciali e particolari» (Ib., p. 29). La prasseologia studia, invece, l’azione umana in quanto tale (il rapporto mezzi-fini; la relazione tra teleologia e causalità, ecc.).

1097. Von Mises: l’azione umana è sempre razionale.

La prasseologia si distingue dalla psicologia e dalla storia. E, pur essendo scienza a priori, essa si distingue pure dal sistema logico. E ciò per il fatto che essa implica sia la categoria di tempo che quella di causalità (L'azione umana, cit., pp. 95-96). L’azione è sempre programmazione per un futuro migliore (Ib., p. 96); futuro che, in ogni caso, resta sempre incerto (Ib., p. 101). D’altra parte, l’azione è scelta meditata di mezzi in vista del

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raggiungimento di fini. 0 mondo, però, non è fatto di mezzi; in esso esistono soltanto cose. E «una cosa diventa mezzo quando la ragione umana pensa di impiegarla per il raggiungimento di taluni fini e l’azione la impiega realmente a questo scopo» (Ib., p. 89). E' solo il pensiero dell’uomo a trasformare una cosa qualsiasi in un mezzo in vista di un fine. E, qui, a proposito di fini, Mises ribadisce il fatto che ogni azione tende a rimuovere qualche insoddisfazione, ma sottolinea anche che sui fini la prasseologia non può dire nulla di più. «La prasseologia è indifferente agli scopi ultimi dell’azione. Le sue conclusioni sono valide per ogni specie di azione indipendentemente dai fini perseguiti. Essa è una scienza dei mezzi non dei fini» (Ib., p. 15). Non sta alla prasseologia stabilire ciò che farebbe più felice un uomo (Ib., p. 53). Prasseologia e catalettica «non trattano dei moventi e dei fini ultimi dell’azione, sibbene dei mezzi applicati all’ottenimento di un fine cercato» (Ib., p. 16); e «i principi della prasseologia e dell’economia sono validi per tutte le azioni umane senza riguardo ai motivi, cause e scopi che ad esse sottostanno» (Ib., p. 21; e R. Cubeddu, Il liberalismo della Scuola austriaca: Menger, Mises, Hayek, Morano Editore, Napoli, 1992, p. 59 sgg.).

Ora, però, se le cose stanno cosi, allora diventa impossibile distinguere tra fini razionali e fini irrazionali. Nessuno - afferma Mises - «è qualificato a dichiarare che cosa renderebbe più felice o meno scontento un altro uomo» (L’azione umana, p. 18). Tutti gli altri animali vivono dominati dall’istinto di conservazione e di proliferazione; ma l’uomo - dice Mises - «può decidere di farsi uccidere per testimoniare un ideale “più alto”» (Ib., p. 19). E, d’altro canto, bisogna essere cauti nel dichiarare irrazionali i mezzi usati da altri uomini, da altri gruppi, magari in altre epoche. «I medici che cento anni fa impiegavano certi metodi per la cura del cancro, metodi che i medici contemporanei rigettano, erano - da un punto di vista dell’odierna patologia - pessimamente informati e quindi inefficienti. Ma non agivano irrazionalmente, facevano del loro meglio. E' probabile che fra un altro centinaio di anni i medici disporranno di metodi più efficienti per la cura di questa malattia. Questi saranno più efficienti ma non più razionali di quelli dei nostri medici» (L'azione umana, cit., p. 20; e anche Problemi epistemologici dell’economia, cit., p. 56). La realtà è che colui che agisce usa quei mezzi che, per quanto egli ne possa sapere, pensa essere i più idonei. E cosi, allora, che «l’azione umana è necessariamente sempre razionale» (L'azione umana, cit., p. 18; e Problemi epistemologici dell'economia, cit., p . 57); e, quindi, sempre economica (Socialismo, cit., p. 139), in quanto tentativo di raggiungere con i mezzi più adatti i fini desiderati. Per Mises, dunque, «le sfere dell’azione razionale e dell’azione economica sono [...] coincidenti» (Ib.). Azione umana, azione razionale e azione economica sono coincidenti. E, tuttavia, Mises distingue l’ambito dell’azione puramente economica dalla sfera dell’azione razionale. E tale distinzione è effettuabile, a suo avviso, puntando sul fatto che «la sfera del “ puramente economico ” è nient’altro che la sfera in cui è possibile il calcolo in termini di moneta» (Ib., p. 153; e anche L’azione umana, cit., p. 205 sgg.).

1098. Von Mises: teoremi fondamentali della prasseologia.

a) L’azione umana è azione cosciente e responsabile. «In principio c’era l’atto»: è questa l’idea cardine della prasseologia, per la quale - afferma Mises - «il concetto di uomo è soprattutto il concetto di un essere che agisce. La nostra consapevolezza è quella di un ego che è capace di agire e che agisce. L’intenzionalità dietro i nostri atti li rende

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azioni» (Problemi epistemologici dell'economia, cit., p. 41). L’azione umana è azione consapevole e volontaria. E «ciò che distingue l’uomo dalle bestie è precisamente il fatto che egli aggiusta il suo comportamento deliberatamente» (L’azione umana, cit., p. 16). L’animale cede all’impulso. Cosi, però, non è per l’uomo: «egli non è un essere incapace di contrastare l’impulso che richiede più urgentemente di essere soddisfatto. Essendo un essere capace di dominare i suoi istinti, le sue emozioni e i suoi impulsi, egli può razionalizzare il suo comportamento. Rinuncia alla soddisfazione di un desiderio bruciante per soddisfarne altri. Non è un burattino dei propri appetiti. Non violenta ogni donna che solletica i suoi sensi; non divora ogni pezzo di cibo che lo tenta; non abbatte ogni individuo che desidererebbe uccidere. Arrangia le sue voglie e i suoi desideri in una scala, sceglie; in breve, agisce [...]. L’uomo ha inibizioni, può dominare i desideri, è capace di sopprimere i desideri e gli impulsi istintivi» (Ib.). Certo, può anche accadere che un impulso si manifesti con una forza tale per cui non varranno le considerazioni intese a frenarlo. Bene, anche in questo caso - scrive Mises - «vi è scelta. L’uomo decide di cedere in favore del desiderio in questione» (Ib.).

b) L’uomo agisce perché è insoddisfatto. L’azione umana è, dunque, azione cosciente e responsabile. Scrive Mises: «L’uomo agente può scegliere, determinare e tentare di raggiungere un fine. Di due cose che non può avere insieme ne sceglie una e rinuncia all’altra. L’azione perciò esige sempre sia di prendere che di rinunciare» (Ib., p. 12). Desideri, speranze, annunci di azioni, non sono azioni. L’azione - sostiene Mises - è «una cosa reale» (Ib., p. 13). Eccone una definizione chiara: «Azione significa impiego di mezzi per il raggiungimento di fini» (Ib). Va da sé allora, che «come regola, uno dei mezzi impiegati è il lavoro dell’uomo che agisce. Ma ciò non è sempre il caso. In speciali condizioni una parola è tutto ciò che occorre. Colui che dà ordini o interdizioni può agire senza dispendio di lavoro. Il parlare o il tacere, il sorridere o il restare seri, possono essere azione. Consumare e godere sono azioni non dissimili dall’astenersi e dal godimento accessibili» (Ib.). Azione significa, quindi, consapevole impiego di mezzi per il raggiungimento di fini scelti. E l’uomo agisce perché è insoddisfatto. Difatti, «un uomo perfettamente soddisfatto del suo stato di cose non avrebbe incentivo a cambiarle. Egli non avrebbe né voglia né desideri; sarebbe perfettamente felice. Non agirebbe; vivrebbe semplicemente libero da ogni cura» (Ib., p. 14; e vedasi anche Socialismo, cit., p. 139).

c) La categoria «mezzi-fini» presuppone la categoria «causa-effetto». L’uomo agisce perché insoddisfatto. Ma può agire solo a patto che sia stato «capace di scoprire le relazioni causali che determinano il mutamento e il divenire dell’universo» (L’azione umana, cit., p. 21). La scienza, dice Mises, è «l’unica base per una azione che ci porti più vicino ai fini ai quali miriamo» (Problemi epistemologia dell'economia, cit., p. 57). Lo scopo della teleologia è Γeffetto della causalità: si potrà conseguire un qualche scopo soltanto se si conosceranno i mezzi (che sono cause dell'effetto) adatti per raggiungerlo. Là dove l’uomo non scorge nessi causali, li è per lui impossibile di agire. E non ci può essere azione neanche quando non si sia in grado di influenzare le cause, pur conoscendole (si pensi, ad esempio, alle maree o a un’eclisse solare). In breve: «dobbiamo semplicemente stabilire il fatto che per agire l’uomo deve conoscere la relazione causale fra eventi, processi o stati di cose. E che solo nella misura in cui egli conosce questa relazione, la sua azione può raggiungere i fini

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cercati» (L’azione umana, p. 22). E, in effetti, «in un mondo senza causalità e regolarità di fenomeni non ci sarebbe campo per il ragionamento e l’azione. Un mondo siffatto sarebbe un caos in cui l’uomo sarebbe incapace di trovare orientamento e guida» (Ib.·, R. Cubeddu, Il liberalismo della Scuola austriaca: Menger, Mises, Hayek, cit., p. 62).

d) Il dualismo metodologico di teleologia e causalità. Diversamente da quei «metafisici» che sono i positivisti, i monisti e i panfisicalisti, Mises asserisce che allo stato attuale della conoscenza scientifica noi non siamo affatto in condizione di sapere quali fattori fisici producano quei pensieri e quelle volizioni che poi si manifestano in atti concreti (L'azione umana, p. 17). In una situazione del genere, diventa per noi inevitabile, ad avviso di Mises, la chiara e decisa accettazione di un dualismo metodologico·, «la ragione e l’esperienza ci mostrano due regni separati: il mondo esterno dei fenomeni fisici, chimici e fisiologici e il mondo interno del pensiero, del sentimento, della valutazione e dell’azione deliberata. Nessun ponte congiunge - per quanto oggi ci è dato di vedere - queste due sfere. Talvolta eventi esterni identici producono reazioni umane differenti ed eventi esterni differenti, identiche reazioni. Non sappiamo perché» (Ib., pp. 17-18). E non scorgendosi un ponte che riunisca causalmente il mondo esterno fisico-chimico-fisiologico al mondo interno dei pensieri e delle volizioni, l’azione umana si configura come il dato ultimo della prasseologia e la teleologia risulta irriducibile alla causalità. «L’esperienza quotidiana non prova soltanto che l’unico metodo adatto per studiare le condizioni del mondo extra-umano è fornito dalla categoria di causalità; essa prova in modo non meno convincente che i nostri simili sono esseri agenti come noi stessi. Per comprendere l’azione non si dispone che di uno schema interpretativo e di analisi, cioè di quello apprestato dalla conoscenza e dall’analisi del nostro proprio comportamento finalistico» (Ib., p. 25). Noi - scrive Mises - «non possiamo pensare un mondo senza causalità e teleologia» (Ib., p. 34); esso sarebbe un mondo «assolutamente misterioso e incomprensibile» (Ib., p. 24).

e) Azione umana e utilità marginale. L’uomo agisce per rimuovere quelli che lui avverte essere disagi. A tal fine egli valuta i mezzi migliori e più adatti. E la legge dell'utilità marginale - dice Mises - è sempre implicita nella teoria dell’azione. «Essa è null’altro che il rovescio dell’enunciato che ciò che soddisfa di più è preferito a ciò che dà una soddisfazione minore. Se la provvista disponibile aumenta da n-1 unità a n unità, l’incremento può essere impiegato soltanto per rimuovere un bisogno meno urgente o meno penoso fra tutti i bisogni che potrebbero essere rimossi per mezzo della provvista n-1. La legge dell’utilità marginale non si riferisce al valore d’uso oggettivo, ma al valore d’uso soggettivo. Essa non si riferisce alla generale capacità fisica o chimica delle cose a produrre un effetto definito ma alla loro importanza per il benessere dell’uomo cosi come egli lo vede nello stato di cose momentaneamente prevalente. Non tratta essenzialmente del valore delle cose, ma del valore dei servizi che un individuo può aspettarsi di ottenere da esse» (Ib., p. 120).

1099. Von Mises: difesa dell’individualismo metodologico e critica della mitologia collettivistica.

Dalle precedenti riflessioni prasseologiche discende la decisa difesa dell'individualismo metodologico. L’azione umana è sempre azione di questo o quello individuo. Scrive Mises: «ogni azione razionale è in primo luogo un’azione individuale» (Socialismo, cit., p. 139). In

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realtà: «solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce» (Ib ). E' questa la sostanza dell’individualismo metodologico: nel mondo ci sono soltanto individui, i quali, pensano, ragionano e agiscono interagendo. «Il corso della storia - afferma Mises - è determinato dalle azioni degli individui e dagli effetti di queste azioni» (L’azione umana, cit., p. 47).

Ora, però, se è solo l’individuo a pensare e ad agire, che ne è di quelle entità collettive come lo «Stato», la «nazione», il «popolo», la «classe» o il «partito»? Che cosa corrisponde, nella realtà effettiva, a siffatti concetti? Che tipo di esistenza conducono queste entità collettive? Ebbene, «per una collettività sociale - risponde Mises - non v’è esistenza e realtà al di fuori delle azioni dei membri individuali» (Ib., p. 41); «la realtà di un tutto sociale consiste nelle azioni degli individui che lo compongono» (Ib.). Cosi, «lo Stato non è né freddo né caldo, giacché esso è un concetto astratto nel cui nome agiscono uomini viventi [...]. Ogni attività statale è azione umana, un male inflitto da uomini su uomini» (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 57); ed è ben vero che quando si parla di mercato si è soliti parlare metaforicamente di forze anonime ed automatiche azionanti il meccanismo del mercato e «con tali metafore - annota Mises - si è pronti a trascurare il fatto che gli unici fattori che informano il mercato e la determinazione dei prezzi sono gli atti intenzionali degli uomini. Difatti, non v’è automatismo, ma solo uomini che perseguono coscientemente e deliberata-mente i fini scelti» (L'azione umana, cit., p. 301). E, d’altra parte, «la società non è altro che la combinazione di individui per uno sforzo comune. Essa non esiste che nelle azioni degli individui. Parlare di una società autonoma dall’esistenza indipendente, della sua vita, anima, azioni, è una metafora che può condurre a crassi errori [...] L’azione è sempre azione di individui» (Ib., p. 139). L’idea di una società «che possa operare o manifestarsi separatamente dall’azione degli individui è assurda» (Problemi epistemologici dell'economia, cit., p. 64).

A questa tesi ontologica Mises affianca quella metodologica stando alla quale le entità collettive possono venire conosciute soltanto «attraverso l’analisi delle azioni degli individui»; in altri termini, «l’individualismo metodologico, lungi dal contestare il significato di questi tutti collettivi, considera uno dei compiti principali la descrizione e l’analisi del loro divenire e scomparire, delle loro mutevoli strutture e del loro funzionamento. E sceglie il solo metodo adatto a risolvere soddisfacentemente il problema (L’azione umana, cit., p. 41). E questo equivale a dire che nelle indagini sui fenomeni sociali si dovrà partire dall’azione dell’individuo, giacché è solo e proprio questa «l’unica cosa di cui possiamo avere conoscenza diretta» (Problemi epistemologici dell’economia, cit., p. 64).

Sono i collettivisti ad opporsi all’individualismo metodologico. Secondo loro ai concetti collettivi («Stato», «nazione», «classe», «partito», ecc.) corrispondono effettive realtà sostanziali. I collettivisti ipostatizzano costrutti mentali; sostengono che è l’individuo ad essere una astrazione (The Ultimate Foundation of Economie Science, cit., p. 79); e, dato che vedono nelle entità collettive delle sostanze reali, vanno alla scoperta delle leggi che ne regolano o determinano genesi e mutamento. E' cosi che compaiono quelle filosofie della storia che «non solo indicano la meta finale dell’evoluzione storica, ma svelano anche la via che l’umanità è obbligata a seguire per raggiungere la meta. I sistemi di Hegel, Comte e Marx

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appartengono a queste classi» (Theory and History, cit., p. 163). Per quel che, poi, concerne più specificamente il marxismo, Mises annota che «l’idea di una inarrestabile tendenza verso la salvezza e il raggiungimento di uno stato perfetto di eterna felicità è un’idea eminentemente teologica. In un sistema ateo essa è una pura scommessa gratuita, priva di qualsiasi senso. Non c’è teologia senza Dio» (Ib., p. 176). Il collettivismo esige da parte dell’individuo il sacrificio della propria libertà sull’altare di onnivore e necessitanti forze storiche, forze «misteriose e non suscettibili di analisi e di discussione» (The Ultimate Foundation of Economie Science, cit., p. 82). Sennonché - si affretta a precisare Mises - tali forze necessitanti e onnipotenti sono pura mitologia. E ciò per la ragione che gli eventi sociali sono esiti di azioni di individui; e quel che pone in moto l’azione non sono affatto forze misteriose e destini ineluttabili, sono idee: idee prodotte dalla mente di alcuni individui e trasmesse ad altri individui. Ebbene, se si ammette una cosa del genere, si è allora accettato il nucleo teorico fondamentale dell’individualismo metodologico, vale a dire che «sono le idee sostenute dagli individui a determinare la loro lealtà di gruppo, e un collettivo non appare più come un’entità che agisce autonomamente o di sua propria iniziativa» (Ib.).

1100. Von Mises: capitalismo e calcolo economico.

L’«immensa maggioranza degli individui desidera raggiungere fini quali l’innalzamento del tenore di vita, una maggiore e migliore provvista di cibo, di vestiario, di cose e conforti materiali, una più sana abitazione, servizi efficienti» (Problemi epistemologici dell’economia, cit., p. 60). Ebbene, il maggior benessere per il maggior numero di individui; il soddisfacimento del maggior numero di finalità e desideri del maggior numero di persone sono scopi meglio perseguibili attraverso l’economia di mercato oppure essi si possono raggiungere nel modo più spedito tramite la pianificazione economica centralizzata? Questo è l’interrogativo che Mises si pone e di continuo riaffronta in tutte le sue opere: libero mercato o socialismo? E il suo verdetto è inequivocabile: il socialismo, vale a dire la società che ha abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione, non è un mezzo adeguato per i fini voluti; l’economia «socialista» è irrazionale^ impraticabile; è la strada della galera e della fame; la via della schiavitù. E' l’economia di mercato che Mises considera come il mezzo più adeguato per stabilire e incrementare il benessere e la libertà.

«Il capitalismo o economia di mercato - scrive Mises - è quel sistema di cooperazione sociale e di divisione del lavoro che è basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. I fattori materiali della produzione sono di proprietà di singoli cittadini, i capitalisti e i proprietari terrieri. Gli stabilimenti e le aziende agricole sono gestite da associazioni di individui che posseggono essi stessi il capitale e la terra, o li hanno presi in prestito o in affitto dai proprietari. La libera impresa costituisce la caratteristica tipica del capitalismo. Lo scopo di ogni imprenditore - sia industriale che agricoltore - è di realizzare profitti» (Burocrazia, cit., p. 37). E, in un siffatto tipo di economia, nell’economia di mercato, sovrani non sono gli imprenditori, sovrani sono i consumatori. «A stabilire ciò che ha da essere prodotto non sono né gli imprenditori né gli agricoltori né i capitalisti, ma i consumatori. Se un commerciante non obbedisce rigorosamente agli ordini del pubblico espressi dalla struttura dei prezzi di mercato, incorre in perdite, va in fallimento e cosi è rimosso dalla sua eminente posizione di guida. Lo rimpiazzano altri che hanno operato

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meglio nel soddisfare la domanda dei consumatori» (L’azione umana, cit., p. 263). Sul mercato sovrani sono i consumatori. Ed è in questo senso che «il mercato è una democrazia in cui ogni centesimo dà diritto ad un voto» (Ib., p. 264; e Burocrazia, cit., p. 39). E profitti e perdite sono gli strumenti attraverso i quali i consumatori tengono sotto controllo tutte le attività economiche (vedasi E. Butler, Ludwig von Mises, Gower Publishing Company, Aldershot, 1988, pp. 38-41).

Il problema che deve venir risolto nella gestione degli affari economici è - sostiene Mises - il seguente; «Ci sono innumerevoli “ tipi di fattori materiali di produzione ”, e, all’interno di ciascuna classe, essi differiscono l’uno dall’altro sia riguardo alle loro proprietà fisiche, sia riguardo ai luoghi in cui sono disponibili. Ci sono milioni di lavoratori che differiscono ampiamente in relazione alla capacità di lavoro. La tecnologia ci offre informazioni sulle illimitate possibilità che si hanno in riferimento a ciò che si potrebbe ottenere utilizzando questa quantità di risorse materiali, beni-capitali e forza-lavoro per la produzione dei beni di consumo. Quali di questi metodi e procedure sono i più vantaggiosi? Quali di questi dovrebbero essere messi in atto, in quanto capaci di contribuire al meglio alla soddisfazione dei bisogni più urgenti? Quali dovrebbero essere differiti o scartati in quanto la loro esecuzione verrebbe a stornare i fattori di produzione da altri progetti la cui attuazione contribuirebbe di più alla soddisfazione di bisogni pressanti?» (Burocrazia, cit., p. 40).

Ebbene, a questi interrogativi - scrive Mises - «non si può rispondere con qualche calcolo in natura. Non si possono inserire in un calcolo le cose più disparate se non esiste fra esse un comune denominatore» (Ib.). E proprio qui sta la superiorità del sistema capitalistico su ogni e qualsiasi forma di socialismo: siffatta superiorità dipende dal fatto che il sistema capitalistico «è l’unico sistema di cooperazione sociale e divisione del lavoro che rende possibile l’applicazione di un metodo di calcolo e stima economica nella programmazione di nuovi progetti e nella valutazione del grado di efficienza di impianti industriali, aziende agricole e officine già funzionanti» (Ib., p. 39).

La realtà è che l’individuo che compie un’azione puramente economica intende stabilire, attraverso il calcolo economico, il risultato della sua azione «mettendo a confronto l’investimento e la produzione» (L'azione umana, cit., p. 205). E fa questo applicando quelle che sono le nozioni fondamentali del calcolo economico: «capitale e reddito, profitti e perdite, spesa e risparmio, costi e rendimenti» (Ib.). Ma occorre tenere presente che questo calcolo è possibile solo in una società capitalista, vale a dire in una economia di mercato: esso «è un metodo disponibile soltanto alla gente che agisce nel sistema economico della divisione del lavoro in un ordine sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione» (Ib., p. 210). Esso serve unicamente «alle considerazioni di individui o di gruppi di individui operanti in un ambiente istituzionale di questo ordine sociale» (Ib. ). E la base del calcolo economico - del calcolo che mette a confronto i costi e i benefìci - sta nei prezzi di mercato: «i prezzi di mercato sono i fatti ultimi per il calcolo economico [...] Il calcolo economico in termini di prezzi monetari è quello degli imprenditori che producono per i consumatori di una società di mercato» (Ib.; E. Butler, Ludwig von Mises, cit., p. 192 sgg.).

1101. Von Mises: ltmpossibilità del calcolo economico in una società socialista.

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Nella società capitalistica qualsiasi progetto si basa sui prezzi di mercato. E il calcolo in moneta «è la stella che guida l’azione in un sistema sociale a divisione del lavoro. E' la bussola dell’uomo che si dedica alla produzione. Questi calcola per distinguere gli aspetti remunerativi della produzione dai non remunerativi. Quelli che i consumatori sovrani probabilmente approveranno da quelli che probabilmente disapproveranno. Ogni singolo passo dell’attività imprenditoriale è soggetto all’azione del calcolo monetario» (L’azione umana, p. 223). Ci volle un grande genio come quello di Goethe - ricorda Mises - per dire della contabilità in partita doppia che essa è «una delle più belle invenzioni dello spirito umano» (Tale espressione si trova nel cap. X del libro I dell’opera di Goethe: Wilhelm Meisters Lehrjahre; si veda al riguardo lo scritto di Mises: Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 97). Tramite il calcolo dei profitti e delle perdite, l’imprenditore può controllare tutti i settori della sua impresa: «i libri contabili e i bilanci sono la coscienza dell’impresa» (Burocrazia, cit., p. 50).

Questa «coscienza» non esiste e non può esistere in uno stato socialista, in uno stato cioè che ha abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione: «la proprietà pubblica dei mezzi di produzione non è nient’altro che socialismo o comuniSmo» (A Critique of Interventionism, cit., p. 16). E, sottolinea Mises, tra economia di mercato e socialismo non c’è una terza via (L'azione umana, cit., pp. 265-66; H.F. Sennholz, Introduction a L. von Mises, A Critique of Interventionism, cit., p. 9; F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, trad, ital., Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 338). Ebbene, in regime socialista tutta la produzione brancola nel buio. Nella società socialista, nella quale non c’è che un solo manager, «non ci sono né prezzi dei fattori di produzione né calcolo economico» (Burocrazia, cit., p. 48). Ma - come già sappiamo - «senza calcolo economico non ci può essere alcuna attività economica» (Socialismo, cit., p. 146). Di conseguenza, poiché in uno stato socialista il calcolo economico è impossibile, in esso non può esserci nessuna attività economica razionale. In uno stato socialista le ruote dell’economia «girerebbero, ma girerebbero a vuoto»; in simile stato «si avrebbe la produzione senza capo né coda di un meccanismo irrazionale» (Ib., p. 147). Approfondendo questo punto che è della massima importanza, Mises annota: «All’imprenditore di una società capitalista un fattore di produzione manda a dire attraverso il suo prezzo: “non toccarmi, io sono stato destinato a soddisfare un altro bisogno, più urgente ”. Ma sotto un regime socialista - sottolinea Mises - i fattori della produzione sono muti. Essi non forniscono alcun suggerimento al pianificatore. La tecnologia gli offre un gran numero di soluzioni possibili per il medesimo problema. Ciascuna di queste richiede un dispendio di altri tipi e quantità di diversi fattori di produzione. Ma, dato che il manager socialista non può ridurli ad un comune denominatore, egli non è in grado di scoprire quale di queste soluzioni sia la più vantaggiosa» (Burocrazia, cit., p. 48; e p. 78).

Il socialismo porta di necessità al caos totale perché la sua economia è un tessuto di azioni irrazionali. Il socialismo è la negazione del libero mercato. Ma «dove non c’è mercato libero non c’è un meccanismo per la formazione del prezzo; e senza un meccanismo per la formazione del prezzo non c’è calcolo economico» (Socialismo, cit., p. 159). E senza calcolo economico non può esserci alcuna attività economica razionale. In tal senso, l’abolizione del mercato - il socialismo - equivale all’impossibilità di risolvere razionalmente i problemi

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economici. E fra le conseguenze di questa impossibilità ci sono arbitrio e corruzione del potere politico, distruzione e dilapidazione delle risorse nazionali, riduzione dei governati a servi dei possessori della «verità» e dei guardiani del giusto ed ineluttabile «senso della storia». L’abolizione del mercato è la via della fame e della schiavitù. E questa, purtroppo, è stata la via indicata come la via del paradiso a intere generazioni di giovani da intellettuali e scrittori (La mentalità- anticapitalista, cit., capp. 1 e 3).

E se i governi «socialisti» della Russia di Lenin e di Stalin e della Germania nazista sono andati avanti nella loro attività economica, ciò si è avuto - scrive Mises - «non nonostante che si trovassero ad operare accanto a nazioni capitalistiche, ma proprio perché, trovandosi b un mondo b cui parecchie nazioni erano ancora ancorate all’economia di mercato, potettero riferirsi ai prezzi di questa economia per fare i loro calcoli, per tenere la contabilità e proporre quindi i loro piani» (Socialismo, cit., p. 80). E' evidente, osserva Mises, che tale «stato di cose verrebbe a mancare se le aziende socialiste operassero b un ambiente puramente socialistico» (Ib., p. 146 e p. 165).

Fu nel 1920 che Mises dimostrò che il calcolo economico è impossibile in una società socialista. E non pochi socialisti da allora si persuasero che quello del «calcolo economico» è il problema chiave dell’economia socialista. Ma, in ogni caso, non ha costituito una grossa fatica per Mises dimostrare che le proposte di un calcolo economico socialista - avanzate da neosocialisti come Oskar Lange, H.D. Dickinson, K. Polanyi ed Eduard Heimann -erano naturalmente destinate a fallire pietosamente (L’azione umana, cit., pp. 674-85; Socialismo, cit., pp. 565-71). Fu Oskar Lange ad ammettere del tutto apertamente che «i socialisti hanno certamente dei buoni motivi per essere grati al professor Mises, il grande advocatus diaboli della loro causa: è stata infatti la sfida da lui lanciata che li ha costretti a riconoscere l’importanza di un adeguato sistema di calcolo economico come guida alla distribuzione delle risorse in un’economia socialista. Non solo. E' merito principale di tale sfida se molti socialisti si sono resi conto della stessa esistenza di questo problema; il merito di aver costretto i socialisti ad affrontare sistematicamente tale questione spetta interamente al professor Mises. La sua statua dovrebbe occupare il posto d’onore nel grande atrio del ministero della socializzazione o del comitato centrale dello Stato socialista» (Sulla teoria economica del socialismo, in Aa.Vv., Teoria economica e economia socialista, trad, ital., Savelli, Roma, 1975, p. 61). L’ammissione di Lange è certamente onesta. Essa, però, implica una impossibilità: calcolo economico ed economia pianificata sono inconciliabili. Quindi nella medesima città non è possibile avere la statua del professor Mises e insieme il ministero della socializzazione.

1102. Von Mises: economia di mercato come democrazia economica.

E' chiaro, nella prospettiva di Mises, che tra l’economia di mercato e la democrazia esiste un inscindibile nesso. Nel socialismo la centralizzazione dei mezzi di produzione fa si che non solo tutti i mezzi siano nelle mani dell’autorità, ma che nelle loro mani ci siano anche tutti i fini. Nella società capitalistica, invece, i fini non sono stabiliti da chi possiede i mezzi di produzione; anzi, al contrario, sovrani in una società di mercato sono i consumatori. La società capitalistica «è la democrazia dei consumatori» (Serialismo, cit., p. 489). E in questa democrazia a comandare sono esattamente i consumatori. «Il consumatore è in grado di dare

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libero sfogo ai suoi capricci e alle sue fantasie. Gli imprenditori, i capitalisti e gli agricoltori hanno invece le mani legate, essendo tenuti a ottemperare nelle loro funzioni agli ordini del pubblico acquirente» (lb ). I produttori debbono ubbidire ai consumatori, devono andare incontro alle preferenze dei consumatori. Unicamente all’interno del capitalismo gli uomini sono liberi di vivere secondo i loro piani, di realizzare i propri desideri. E qui c’è da badare al fatto che dietro alla preferenza per le merci ci sono il più delle volte scelte di valore, preferenze per idee e ideali differenti. Se la gente vuol leggere la Bibbia invece dei romanzi gialli, il produttore si deve affrettare a stampare copie della Bibbia.

E' il mercato il regno della libertà. E fuori dalla società capitalistica, la libertà degli individui viene soffocata e poi sradicata. Scrive Mises: «Non appena la libertà economica che l’economia di mercato concede ai suoi membri è rimossa, tutte le libertà politiche e le carte dei diritti diventano inganno. Habeas corpus e processi davanti al magistrato sono una vergogna se, sotto il pretesto dell’opportunità economica, l’autorità ha potere di relegare ogni cittadino indesiderato sull’Artico o in un deserto e di assoggettarlo ai “ lavori forzati ” a vita. La libertà di stampa è un puro inganno se l’autorità controlla tutti gli uffici-stampa e le cartiere. E cosi sono tutti gli altri diritti dell’uomo» (L’azione umana, cit., p. 277). La realtà è che la sostituzione della pianificazione economica all’economia di mercato «toglie ogni libertà e lascia all’individuo unicamente il diritto di obbedire» (Ib., p. 276).

La proprietà privata dei mezzi di produzione è, dunque, la base del benessere per il maggior numero di persone e, simultaneamente, è il fondamento della libertà dei cittadini. L’abolizione della proprietà privata è abolizione della libertà individuale; significa produzione irrazionale, distruzione delle risorse, e riduzione della popolazione alla fame. Stando cosi le cose, appare con maggior chiarezza l’idea di Mises secondo cui socialismo e liberalismo si propongono i medesimi fini, mentre differiscono sui mezzi. La prasseologia - scienza dei mezzi e non dei fini - ci dice che i mezzi approntati dal socialismo non sono adatti a raggiungere i fini voluti. Fini che, invece, sono conseguibili tramite l’adozione dell’economia di mercato. Precisato e ammesso tutto ciò, diventa a questo punto impellente rispondere al seguente interrogativo: quale deve essere la funzione dello Stato relativamente ad una società che abbia abbracciato l’economia di mercato in regime di divisione del lavoro? Ebbene, a siffatto cruciale interrogativo Mises risponde: «lo Stato, apparato sociale coercitivo, non interferisce col mercato e con le attività civili dirette dal mercato. Esso impiega il suo potere coercitivo solo per prevenire azioni distruttive e preservare il funzionamento regolare dell’economia di mercato. Protegge la vita, la salute e la proprietà dell’individuo contro l’aggressione violenta o fraudolenta dei malviventi interni e dei nemici esterni. Cosi lo Stato crea e preserva l’ambiente in cui l’economia di mercato può funzionare con sicurezza» (Ib., p. 251).

Questa è la concezione dello Stato liberale, concezione difesa dai liberali del xvm secolo tramite la dottrina dei diritti innati e naturali dell’uomo. Mises non nega il valore storico e l’influenza avuta da simile dottrina. Fa però presente che se da una parte il giusnaturalismo ha portato anche alle rivendicazioni social-democratiche (facendo apparire inconciliabili liberalismo e democrazia), dall’altra esso non regge teoricamente per la ragione che i sostenitori di tale dottrina sono smentiti dal «fatto incontestabile che Dio e la natura non

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hanno creato l’uomo uguale, essendo molti nati robusti e vigorosi, e altri minorati e deformi» (Ib., p. 169). E' la scienza naturale - scrive Mises - che «ha dimostrato in modo irrefutabile che gli uomini sono differenti» (Ib., p. 168). Ed egli ricorda l’idea di Bentham secondo la quale «i diritti naturali e imprescrittibili sono soltanto retorica e non-senso» (Bentham, Anarchical Fallacies, vol. II delle Works, a cura di Bowring, p. 501). Né d’altro canto, si può sostenere che la democrazia sia da preferire allo stato totalitario a motivo del fatto che essa permetterebbe una migliore selezione dei capi politici. In realtà, non si capisce perché la democrazia dovrebbe essere più fortunata della tirannia o dell’aristocrazia nella scelta dei capi. E poi, aggiunge Mises, non è difficile vedere come nella storia degli Stati non democratici siano apparsi «autentici talenti politici», mentre nella storia degli Stati democratici i governanti non sono sempre stati all’altezza della situazione né erano le persone migliori (Socialismo, cit., p. 94).

1103. Von Mises: una fondazione economica dello «Stato di diritto».

E' soprattutto in Liberalism che Mises esplicita con tutta chiarezza quelli che, a suo avviso, sono i veri e solidi fondamenti dello Stato liberale (si veda E. Butler, Ludwig von Mises, cit., pp. 109-11). Ed egli fa questo seguendo una linea argomentativa di grande acutezza ed efficacia, al di fuori di ogni appello retorico ai sentimenti e di qualsiasi predica sui valori. Ecco lo schema dell’argomentazione: 1) inoppugnabili ragioni logiche ed empiriche ci dicono che benessere e libertà sono inscindibilmente legati all’economia di mercato e necessariamente negati dove un’economia (socialista, fascista, nazista) ha abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione; 2) ammessa siffatta premessa, segue da essa che se si vuole benessere e libertà, allora dobbiamo creare e sviluppare tutti quei mezzi che istituiscono, favoriscono e proteggono l’economia di mercato; 3) basandosi su queste due premesse, Mises fissa i fondamenti dello Stato di diritto, trasformando idee ed ideali in mezzi o strumenti di supporto dell'economia di mercato, e quindi dello Stato di diritto.

1) Proprietà significa - scrive Mises - proprietà privata dei mezzi di produzione. E la proprietà privata dei mezzi di produzione è il punto nevralgico del liberalismo: «Tutte le altre richieste del liberalismo risultano da questa fondamentale premessa» (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 19). E' stata l’economia di mercato che ha fatto dell’uomo «il signore della terra e il creatore delle meraviglie della tecnologia» (Ib., p. 18). E se è difficilmente contestabile il fatto che «il lavoratore medio americano gode di comodità di cui Creso, Crasso, i Medici e Luigi XIV lo avrebbero invidiato» (L’azione umana, cit., p. 257), ciò è semplicemente dovuto all’economia di mercato. Ed economia di mercato equivale alla proprietà privata dei mezzi di produzione.

2) Il liberale Mises non si oppone alla schiavitù, al lavoro servile, per motivi umanitari o comunque per ragioni ideali-filosofiche o religiose. L’argomento che Mises accetta contro la schiavitù e a favore della libertà è quello per cui «il lavoro libero è incomparabilmente più produttivo del lavoro da schiavo» (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 21). Lo schiavo non ha nessun interesse a dare il meglio di sé. Egli lavora per ottenere quello che basta per non essere punito. «Il libero lavoratore, dall'altra parte, sa che più lavoro porta a termine, più alta sarà la sua paga» (Ib., pp. 21-22).

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Il liberale, dunque, non difende la libertà per motivi umanitari, ma a motivo della maggiore produttività del lavoro libero. «Noi liberali - scrive Mises - non affermiamo che Dio e la Natura vollero liberi tutti gli uomini, e ciò perché non conosciamo i disegni di Dio e della natura, e noi evitiamo, per principio, di trascinare Dio e la natura in una disputa su problemi di questo mondo. Quanto noi sosteniamo è soltanto che un sistema basato sulla libertà per tutti i lavoratori è garanzia della massima produttività del lavoro umano e che esso è pertanto nell’interesse di tutti gli abitanti della terra» (Ib., p. 22). Mises scorge una conferma della maggiore produttività del lavoro dell’uomo libero nel fatto che l’operaio europeo dei nostri giorni vive tra beni e comodità sconosciuti persino al Faraone di Egitto, e ciò «nonostante che il Faraone avesse sotto il suo comando migliaia di schiavi, mentre l’operaio non può contare su nient’altro che sulla forza e l’abilità delle sue mani» (Ib., p.23).

3) Il liberale vuole la pace. La pace «è la teoria sociale del liberalismo» (Socialismo, cit., p. 92). Per questo il liberale «aborrisce la guerra non, al pari dell’umanitario, a dispetto del fatto che essa ha conseguenze benefiche, ma per la ragione che essa provoca solo danni» (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 24). La guerra falcia vite umane e devasta capitali; distrugge la cooperazione sociale, spazza via la divisione del lavoro, cioè la fonte della ricchezza. «Se un villaggio, scrive Mises, è diviso in due fazioni, con il fabbro da una parte e il calzolaio dall’altra, una fazione soffrirà della mancanza di scarpe e l'altra della mancanza di utensili ed armi» (Ib., p. 25). La guerra è solo dolore e miseria. E l'eliminazione della divisione intemazionale del lavoro è sinonimo di progressivo immiserimento. «Il tè sul tavolo della colazione - afferma Mises - viene fornito dal Giappone o Ceylon, il caffè dal Brasile o da Giava, lo zucchero dalle Indie occidentali, la carne dall’Australia o dall’Argentina, il cotone dall’America o dall’Egitto, la pelle per oggetti di cuoio dall’India o dalla Russia, e cosi via. E in cambio di queste cose le merci inglesi vanno in tutte le parti del mondo, o nei villaggi e nelle fattorie più lontane e fuori di mano» (Ib., p. 27).

Il filantropo umanitario predica contro la guerra e dice al potente: «Non fare la guerra, anche se tu hai la prospettiva di incrementare, con una vittoria, il tuo benessere. Sii nobile e magnanimo e rinuncia ad una vittoria allettante, pur se questo significa per te un sacrificio e una perdita di vantaggi» (Ib., p. 14). Questo dice il filantropo umanitario al potente che intende far guerra. Il liberale non usa questi argomenti che additano all’avversario nobili ideali e comportamenti generosi. Il liberale cambia il tavolo del gioco e insiste sul fatto che la guerra è un male anche per il vincitore, tenta di indurre il potente - potenziale guerrafondaio - alla ragione e cerca di fargli capire che «la pace è per lui, il più forte, vantaggiosa cosi come lo è per il più debole» (Ib.). In poche parole, il filantropo idealista dice ai potenti: non fate la guerra, siate buoni, anche se cosi ci rimettete; il liberale dice invece ai potenti: i vostri interessi vengono meglio salvaguardati con la pace, la guerra vi danneggia, è con la guerra che voi ci rimettete, quindi non fatela.

4) Se la pace va cercata, difesa e protetta perché la guerra porta solo miseria (oltre che dolore e morte), parimenti è per motivi di utilità che va difesa Γuguaglianza davanti alla legge. Va difesa giacché essa è alla base del mantenimento della pace (Ib., p. 28). Gli uomini non sono uguali; ma ad essi vanno garantiti gli stessi diritti. E ciò per la semplice ragione che

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«è pressoché impossibile preservare una pace durevole in una società in cui i diritti e i doveri delle rispettive classi sono differenti» (Ib).

5) Funzionale, anzi necessaria all’esistenza e al funzionamento dell’economia di mercato è la diseguaglianza nei redditi e nella ricchezza. E, in realtà, «solo perché nel nostro ordine sociale è possibile l’ineguaglianza della ricchezza, solo perché questa ineguaglianza stimola ognuno a produrre per quel che può e a costo più basso, l'umanità può oggi avere a sua disposizione la ricchezza annua totale ora disponibile per il consumo» (Ib., p. 31).

Ma c’è di più. Difatti, rendendo possibile il (relativo e storico) lusso dei ricchi, la diseguaglianza nella ricchezza svolge importanti funzioni sociali: innanzi tutto, il lusso dei ricchi di oggi è la necessità di domani; e poi il lusso dei ricchi indica all’industria quali cose nuove produrre e introdurre sul mercato (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 32). In effetti, molte cose che oggi ci appaiono come necessità, una volta erano considerate un lusso (Ib.). «Quando - si era allora nel Medioevo - una aristocratica signora bizantina che aveva sposato un doge veneziano usò un aggeggio d’oro - che potrebbe essere chiamato il precedente della forchetta come oggi noi la conosciamo - e l’usò invece delle dita, nel mangiare i suoi cibi, i Veneziani considerarono tutto ciò un lusso peccaminoso, e pensarono questo proprio allorché la donna fu colpita da una terribile malattia: questa dev’essere - pensarono i veneziani - la ben meritata punizione di Dio per simile innaturale stravaganza. Due o tre generazioni più tardi anche in Inghilterra un bagno in casa veniva considerato un lusso. Oggi la casa di ogni operaio inglese ne ha uno di tipo migliore. Trentacinque anni fa non cerano automobili; venti anni fa il possesso di un simile veicolo era il segno di un modo di vita particolarmente lussuoso; oggi negli Stati Uniti anche l’operaio ha la sua Ford» (Ib.).

6) La proprietà privata dei mezzi di produzione è il perno di una società funzionante. E siccome la società - la convivenza tra gli uomini - è un bene da non distruggere, la proprietà privata è una istituzione che ha la sua giustificazione morale (Ib., p. 33). Cosi come è un bene lo Stato. Il liberale si trova dalla sponda opposta del «socialismo», e tuttavia egli non è un anarchico (Ib., pp. 35-39). E' scorretto - afferma Mises - rappresentare l’atteggiamento del liberalismo nei confronti dello Stato dicendo che esso vuole restringere la sfera della possibile attività statale o che aborre, di principio, ogni attività statale in relazione alla vita economica. La posizione che il liberalismo prende riguardo al problema della funzione dello Stato è la conseguenza necessaria della sua difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione. Se uno è a favore di quest’ultima, costui non può, ovviamente, essere anche a favore della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ponendoli a disposizione del governo piuttosto che dei possessori privati. Pertanto, la difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione implica già una molto severa limitazione delle funzioni assegnate allo Stato (Ib., p. 38). E, qua giunto, Mises non si stanca di ripetere che «la ragione per cui il liberalismo si oppone ad una ulteriore estensione della sfera dell’attività statale è precisamente che essa, in effetti, abolirebbe la proprietà privata dei mezzi di produzione. E nella proprietà privata il liberale vede il principio più adatto per l’organizzazione della vita dell’uomo in società» (Ib.).

Da quanto detto risulta che il liberalismo è ben lontano dal mettere in discussione «la necessità di una macchina statale, di un sistema di leggi e di un governo» (Ib., p. 39). Per il

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liberale - scrive Mises - «lo Stato è una necessità assoluta, dal momento che esso deve assolvere i compiti più importanti: la protezione non solo della proprietà privata, ma anche della pace, e ciò perché in assenza di questa ultima non è possibile raccogliere i frutti maturi della proprietà privata» (Ib.). Siffatte considerazioni - prosegue Mises - sono da sole sufficienti a determinare le condizioni che uno Stato deve soddisfare per adeguarsi all’ideale di Stato liberale: esso non solo deve essere capace di proteggere la proprietà privata, deve essere anche tale che il tranquillo e pacifico corso del suo sviluppo non venga mai interrotto da guerre civili, rivoluzioni o insurrezioni» (Ib.). Ed esattamente al fine di evitare i disastri e le tragedie della guerra civile risulta adatta la forma democratica dello Stato (R. Cubeddu, Il liberalismo della Scuola austriaca: Menger, Mises, Hayek, cit., p. 449). «La democrazia è quella forma di costituzione politica che rende possibile l’adattamento del governo ai desideri dei governati senza lotte violente» (Liberalism in the Classical Tradition, cit., p. 42). E senza le regole della democrazia, solo la forza e la violenza possono decidere chi governa e come passare da un governo all’altro. D liberale è intollerante soltanto con gli intolleranti. Per il resto il liberalismo «proclama la tolleranza per ogni fede religiosa e per ogni credenza metafisica, non perché esso è indifferente a queste cose “ più alte ”, ma sulla base della convinzione che l’assicurare la pace nella società deve avere la precedenza su tutto e su tutti» (Ib.). E questo perché in democrazia «non è necessaria nessuna guerra civile per porre al potere coloro che vogliono lavorare in accordo con la maggioranza» (Ib.).

1104. Von Mises: economia di mercato e cristianesimo.

Su diversi argomenti, Mises non risparmia critiche e attacchi al cristianesimo. Cosi, per esempio, riguardo al matrimonio monogamico, egli fa presente che «non i riformatori morali abolirono la poligamia, né la chiesa l’ha combattuta per prima. Per secoli il cristianesimo non sollevò nessuna obiezione contro la poligamia dei re barbari. Carlo Magno si intratteneva con molte concubine» (Socialismo, cit., p. 120). La monogamia si è imposta per merito della moglie che contrae matrimonio come ereditiera e proprietaria, provvista di ricche doti e con i più pieni diritti di disporne (Ib.). Insomma, «man mano che l’idea di contratto è entrata nel diritto matrimoniale, essa ha infranto il dominio del maschio e ha fatto della moglie una compagna (partner) con gli stessi diritti del marito. Da un rapporto unilaterale basato sulla forza, il matrimonio si trasforma cosi in un mutuo accordo. La serva diventa sposa con il diritto di esigere dall’uomo tutto ciò che questi può esigere da lei. E passo dopo passo essa ha assunto nella casa la posizione che occupa oggi» (Ib.).

Ma veniamo alla cosa che ci interessa di più. I primi cristiani, dice Mises, vivevano nell'attesa dell'avvento imminente del Regno di Dio. Ora, però, «l’attesa di un ordine nuovo, stabilito da Dio stesso e prossimo a venire, e la concentrazione di ogni azione e di tutti i pensieri sull’imminente avvento del Regno di Dio rendono l’insegnamento di Gesù completamente negativo. Egli rifiuta tutto l’esistente senza offrire nulla in sua sostituzione. Arriva a pretendere lo scioglimento di tutti i legami sociali esistenti. Gesù è in grado di tollerare le leggi terrene dell’Impero romano e le prescrizioni della legge ebraica, perché è indifferente ad esse, disprezzandole come cose importanti solo nell’ambito di ristretti limiti temporali, e non perché egli riconosca il loro valore. Gesù non era un riformatore sociale. I suoi insegnamenti non avevano nessuna applicazione morale alla vita terrena» (Ib., pp.

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460-61). E proprio qui, ad avviso di Mises, sta la ragione che «ha permesso al cristianesimo di fare la sua trionfale avanzata nel mondo. Essendo neutrale rispetto a ogni sistema sociale, esso è stato in grado di attraversare i secoli senza essere distrutto dalle tremende rivoluzioni sociali che hanno avuto luogo. Solo per questa ragione esso poté diventare la religione degli imperatori romani e degli imprenditori anglosassoni, dei negri africani e dei teutoni europei, dei signori feudali del Medioevo e dei moderni operai dell’industria» (Ib., p. 461). La realtà è, afferma Mises, che «ogni epoca e ogni partito ha potuto attingere dal cristianesimo ciò che desiderava, perché esso non contiene nulla che lo leghi a un determinato sistema sociale» (Ib.).

I Vangeli - insiste Mises - «non sono socialisti e non sono comunisti». Da una parte, «essi [...] sono indifferenti a tutte le questioni sociali, dall'altra sono pieni di risentimento contro la proprietà e contro tutti i proprietari» (Ib., p. 465). E, stando cosi le cose, «la dottrina cristiana, una volta separata dal contesto in cui Cristo la predicava - l’attesa dell’imminente Regno di Dio -, può essere estremamente distruttiva. Mai e in nessun luogo un sistema di etica sociale, un sistema cioè di norme che regolino la cooperazione sociale, può essere costruito su una dottrina che proibisce qualunque preoccupazione per il sostentamento quotidiano e il lavoro» (Ib.). Questo, sottolinea Mises, l’aveva ben capito papa Innocenzo XII, il quale, come racconta il benedettino inglese Matteo Parisiense, dopo aver ascoltato la regola di san Francesco gli consigliò di andare dai porci, cui assomigliava più che agli uomini, di rotolarsi con loro nel fango e di dare a loro la sua regola (Ib., p. 449). E, commenta Mises, Egidio, uno dei primi compagni di san Francesco, poteva credere di stare imitando, con la sua vita in povertà, gli uccelli dell’aria, solo perché c’erano altri che lavoravano e che potevano mantenerlo in vita con le loro elemosine (Ib.).

In breve, Mises sostiene che «le conquiste culturali della chiesa nei secoli del suo sviluppo sono opera della chiesa, non del cristianesimo [···] L’etica sociale di Gesù non ha contribuito affatto a tale sviluppo. La conquista della chiesa consiste in questo caso nell’aver reso questa morale inoffensiva, ma sempre solo per un limitato periodo di tempo». Il Vangelo è il fondamento della chiesa, e «per questo essa dev’essere sempre preparata a una rivolta da parte di quanti, fra i suoi fedeli, danno delle parole di Cristo un’interpretazione diversa da quella decretata dalla chiesa» (Ib., p. 466).

La convinzione profonda di Mises è che «dalle parole dei Vangeli non può venir mai desunta un’etica sociale applicabile alla vita terrena» (Ib.). E da qui deriverebbero le due soluzioni che storicamente la cristianità ha assunto nei confronti del problema sociale: la soluzione della chiesa orientale e quella della chiesa occidentale. La chiesa orientale ha rinunciato alla responsabilità di prendere una qualche posizione riguardo all'etica sociale, mentre la chiesa occidentale «ha sempre incorporato nei propri insegnamenti quell’etica sociale che corrispondeva meglio ai suoi interessi del momento e che meglio favoriva la sua posizione nello Stato e nella società» (Ib.). E, in effetti, fa presente Mises, «essa si è alleata con i signori feudali contro i servi della gleba, ha sostenuto l’economia schiavistica delle piantagioni americane, ma - nel caso del protestantesimo e specialmente del calvinismo - ha anche fatto propria la morale del nascente razionalismo. Ha favorito la lotta dei fittavoli irlandesi contro gli aristocratici inglesi, ha combattuto con i sindacati contro gli imprenditori,

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e con i governi conservatori contro i partiti socialisti. E sempre è stata capace di giustificare il suo atteggiamento con citazioni dalla Bibbia» (Ib., pp. 456-57). Dinanzi a questi fatti, Mises dichiara che essi equivalgono «a una abdicazione del cristianesimo nel campo dell’etica sociale, poiché in tal modo la chiesa diventa uno strumento senza volontà nelle mani del tempo e della moda» (Ib., p. 467). Ogni movimento intende legittimarsi sulle parole della Scrittura e, «considerata la natura dei brani scritturistici utilizzati per fini sociali e politici, è chiaro che sono proprio le dottrine più distruttive quelle destinate a vincere» (Ib.). Ed è cosi che «la religione dell’amore può trasformarsi, come è anche accaduto, nella religione dell’odio» (Ib., p. 470).

Premesse tali considerazioni - che facilmente potrebbero spingere al pessimismo -, Mises intravede un’altra via e si chiede: «Anche se è destinato a fallire ogni tentativo di costruire sui Vangeli una specifica etica sociale cristiana, non potrebbe essere possibile armonizzare le dottrine cristiane con un’etica sociale che promuove, invece di distruggerla, la vita sociale e utilizzare cosi le grandi forze del cristianesimo al servizio della civiltà?» (Ib., p. 467). La chiesa si scontrò con la scienza moderna, condannò Galileo e più tardi ha combattuto la teoria darwiniana. Oggi la chiesa si è riconciliata con la scienza e «anche ai preti della chiesa di Roma è oggi concesso di studiare astronomia e la teoria evoluzionistica» (Ib.). Ebbene, si domanda Mises, «non potrebbe allora accadere la stessa cosa in sociologia? Non potrebbe la Chiesa conciliarsi con il principio sociale della libera cooperazione attraverso la divisione del lavoro? Il principio dell’amore cristiano non potrebbe essere interpretato in questo senso e a questo scopo?» (Ib.).

FRIEDRICH AUGUST VON HAYEK:

DALLA DEMOCRAZIA ALLA DEMARCHIA

1105. Von Hayek: la vita e le opere.

Friedrich August von Hayek nasce a Vienna l’8 maggio del 1899 da una famiglia di grande tradizione accademica. Nel novembre del 1918, dopo essere stato in Italia sul fronte del Piave, si iscrive alla Facoltà di legge dell’Università di Vienna. Frequenta le lezioni dell’economista Friedrich von Wieser e del sociologo-filosofo Otmar Spann. Si appassiona alle idee di Ernst Mach (si veda al riguardo J. Gray, Hayek on Liberty, Blackwell, Oxford, 1984, p. 8 sgg.); e trova di grande interesse la Allgemeine Erkenntnislehre di Moritz Schlick. Nel novembre del 1921 Hayek si laurea in legge. Decide di proseguire gli studi e nel marzo del 1923 è anche dottore in scienze politiche.

Ancora studente è tra i fondatori di un gruppo di giovani studiosi interessati alle scienze sociali. Tra di essi vi sono pensatori destinati a diventare stelle di prima grandezza, come gli economisti Gottfried von Haberler, Fritz Machlup e Oskar Morgenstern, il filosofo politico Eric Voegelin, il sociologo Alfred Schütz ed altri ancora. La maggior parte di costoro frequenterà poi il famoso seminario che Ludwig von Mises terrà presso la Camera di commercio. E proprio Mises sarà il direttore di Hayek quando costui, nel 1921, entrerà a

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lavorare presso lo Oesterreichischer Abrechnungsamt (un ufficio governativo addetto alla sistemazione dei debiti prebellici). Nel 1923 Hayek si reca a New York, dove alla Columbia University frequenta le lezioni di Wesley C. Mitchell sulla storia del pensiero economico e il seminario di John B. Clark. Torna a Vienna nel marzo del 1924 e nei due anni successivi scrive alcuni articoli su problemi monetari. L’anno appresso fonda insieme a Mises l'Istituto austriaco per la ricerca sul ciclo economico. Del 1929 è il suo primo volume Geldtheorie und Konjunkurtheorie, nello stesso anno Hayek prende la libera docenza in economia politica.

Su invito di Lionel Robbins, Hayek nel 1931 si reca alla London School of Economics; vi tiene quattro lezioni intitolate Prices and Production, e vi ottiene un posto di professore. Nei diciotto anni successivi, durante i quali Hayek rimarrà a Londra, egli sarà l’unico oppositore di John Maynard Keynes.

Fu Gottfried von Haberler - ricorda Kurt R. Leube (nella Biografical Introduction a The Essence of Hayek, a cura di C. Mishiyama e K.R. Leube, Hoover Institution Press, Stanford University, Stanford, 1984, p. xx) - ad attirare nel 1935 l’attenzione di Hayek sulla Logica della scoperta scientifica di Karl R. Popper. Hayek - dice sempre Leube - trovò nell’opera di Popper pensieri simili a quelli che egli stesso aveva formulato nel saggio The Nature and History of Problem (che è l’introduzione al volume di autori vari: Collectivist Economie Planning: Critical Studies on the Possibilities of Socialism, Roudedge, London, 1935; trad, ital.: Pianificazione economica collettivistica. Studi critici sulla possibilità del socialismo, Einaudi, Torino, 1946). Fu cosi allora che nel 1936 Hayek invitò Popper alla London School perché leggesse il suo scritto Miseria dello storicismo al seminario che Hayek teneva insieme a Lionel Robbins, Emst Gombrich e G.L.S. Shackle. Fu questo l’inizio di una grande amicizia tra Popper ed Hayek, amicizia che è durata una vita e che è stata feconda di reciproci stimoli intellettuali.

Nel 1937 Hayek pubblica il saggio Economics and Knowledge (trad, ital.: Economia e conoscenza, in Conoscenza, mercato, pianificazione, Il Mulino, Bologna, 1988) in cui egli per la prima volta introduce l’idea di divisione della conoscenza. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Hayek si mette a scrivere un libro che, pubblicato nel 1944 e dedicato «ai socialisti di tutti i partiti», fece conoscere il suo autore ben al di là della ristretta cerchia degli economisti. Questo libro è The Road to Serfdom (Roudedge, London, 1944; trad. ital. col titolo Verso la schiavitù, Rizzoli, Milano, 1948). In esso Hayek mette a nudo, tra l’altro, le radici socialiste del nazismo, oltre al fatto che il socialismo si basa su idee impraticabili. Il successo del libro, ricorda E. Buder, fu grande ed immediato sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti: «lo stimato economista Hayek si era improvvisamente trasformato in un polemico teorico della società» (E. Butler, Friedrich A. Hayek, trad, ital., Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1986, p. 9).

Del 1941 è The Counter-Revolution of Science (apparso in tre parti sulla rivista «Economica») in cui l’autore rintraccia le radici dello scientismo nella Ecole Polytechnique, in Saint-Simon e Comte. Tra il 1942 e il 1944 datano i tre saggi intitolati Scientism and the Study of Society (anch’essi pubblicati originariamente su «Economica»): si tratta di scritti importantissimi nei quali Hayek analizza la natura dello scientismo - inteso come la pretesa di una applicazione acritica dei metodi delle scienze naturali alle scienze sociali; e fa vedere i

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danni provocati nella vita sociale dall’idea derivante dall’immagine positivistica della scienza secondo la quale gli uomini possono mutare le istituzioni a volontà secondo piani prestabiliti. Nel 1952 tutti questi saggi sono apparsi nel volume The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason (The Free Press, London, 1952; trad, ital.: L'abuso della ragione. Studi sulla controrivoluzione nella scienza, Vallecchi, Firenze, 1987). In questo volume, come terza parte, Hayek aggiunse lo scritto - pubblicato nel 1951 in «Measure» - su Comte ed Hegel, scritto in cui vengono sottoposte ad un esame approfondito e ad una critica rigorosa le pretese «storicistiche» di Hegel e di Comte, vale a dire la loro presunzione di aver scoperto le leggi (deterministiche, fatalistiche e quindi liberticide) che guiderebbero la storia umana nella sua totalità.

Del 1945 è The Use of Knowledge in Society (originariamente in «American Economie Review», 35, n. 4, pp. 510-30; trad, ital.: L’uso della conoscenza nella società, in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.). Qui viene approfondito il tema della dispersione della conoscenza, già discusso in Economia e conoscenza·, si vedono le ragioni dell’impossibilità di una centralizzazione di tutte le conoscenze, specie di quelle concernenti circostanze particolari di tempo e di spazio; e si punta l’attenzione sul fatto che in una società, nella quale la conoscenza di fatti importanti è dispersa tra milioni di individui, il sistema dei prezzi è il solo meccanismo a funzionare da vero e proprio sistema di comunicazione. Individualism: True and False, del 1946, è uno scritto che è stato definito come un vero e proprio capolavoro di storia delle idee. Questi due scritti - insieme ad Economia e conoscenza, all’Introduzione e al saggio conclusivo di Pianificazione economica collettivistica [a) La natura e la storia del problema; b) Lo stato del dibattito], a The Meaning of Competion (trad, ital.: Il significato della concorrenza, in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.) e ad altri saggi ancora confluiscono nel volume Individualism and Economie Order (Routledge, London, 1949).

Nel 1947 Hayek organizza un convegno di studiosi, giornalisti e politici di tendenza liberale. Tale convegno ebbe luogo in un albergo sul Monte Pèlerin, vicino a Vevey, in Svizzera. Fu da questo incontro che nacque la Mont Pèlerin Society, una società di circa quattrocento membri che si radunano periodicamente «al fine di scambiarsi idee sulla natura di una società libera e sui mezzi per rafforzare la sua difesa intellettuale» (Kurt K. Leube, Biografical Introduction, cit., pp. xxin-xxiv). Della Mont Pèlerin Society Hayek è stato presidente sino al 1960. Dal 1960 sino alla morte ne è stato presidente onorario. Fondatori insieme ad Hayek della Mont Pèlerin Society sono stati, tra altri, Ludwig von Mises, Milton Friedman e Karl R. Popper.

Hayek lascia la London School of Economics nel dicembre del 1949. Si trasferisce negli Stati Uniti, dove nell’ottobre dell’anno dopo accetta la cattedra di scienze sociali e morali offertagli dall’Università di Chicago. Qui ha l’opportunità di lavorare a contatto con personalità quali Frank Knight e Milton Friedman. Piti tardi entrò a far parte di questo gruppo di pensatori liberali anche George Stigler. Nello stesso anno 1950 Hayek si sposa per la seconda volta, con una signora viennese: Helene Bitterlich.

Tiene la sua prolusione sul tema Comte ed Hegel. E nel 1952 pubblica The Sensory Order (Roudedge and Kegan Paul, London; trad. itaL: L'ordine sensoriale, Rusconi, Milano, 1990),

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un libro di psicologia teorica in cui Hayek offre una originale spiegazione dei rapporti mente-cervello. Tutta la nostra conoscenza, ad avviso di Hayek, trova la sua base nella capacità del sistema nervoso di classificare e riclassificare la propria attività, a differenti livelli successivi, sotto la pressione di nuove esperienze. In ogni caso, tuttavia, ci sarà sempre una parte della nostra conoscenza che non potrà essere controllata dall’esperienza, per il fatto che ne costituisce il principio ordinante, essendo implicita nell’apparato di classificazione tramite il quale conseguiamo quell’esperienza. Questa è la ragione principale che conduce Hayek al riconoscimento di una intrinseca limitazione della razionalità umana, in quanto è impossibile una piena autocomprensione e autospiegazione della mente. E una conclusione del genere risulta di enorme rilievo in campi di ricerche interessate a fenomeni di «complessità organizzata», quale il cervello umano, oppure anche i sistemi di mercato.

Per il volume di autori vari: Capitalism and the Historians (Roudedge and Kegan Paul, London, 1954; trad, ital., Il capitalismo e gli storici, Sansoni, Firenze, 1947) Hayek scrive una preziosa introduzione dal titolo History and Politics, in cui egli attacca il «mito supremo» stando al quale la condizione della classe operaia sarebbe peggiorata in conseguenza del sorgere del capitalismo. Questa credenza, dice appunto Hayek, è un mito e «un più attento esame dei fatti ha [...] condotto ad una completa confutazione di questa tesi» (trad, ital., cit., p. 24).

Del 1960 è The Constitution of Liberty (Routledge and Kegan Paul, London; trad, ital., La società libera, Vallecchi, Firenze, 1969), un’opera che Sergio Ricossa (Presentazione a La società libera, cit., p. 11) ha definito «un classico della libertà».

Nella primavera del 1962 Hayek lascia Chicago e accetta la cattedra - che era stata del suo amico Walter Eucken - di economia politica offertagli dall’Università tedesca di Freiburg i.B. Dà alla stampa nel 1967 la raccolta di scritti: Studies in Philosophy, Politics and Economics (Roudedge and Kegan Paul, London). Pubblica nel 1968 l’importante saggio: Der Wettbewerb als Entdeckungsverfahren (pubblicato a Kiel dall’Institut für Weltwirtschaft; trad, ital. Il sistema concorrenziale come strumento di conoscenza, in «L’Industria», n. 1, 1970; altra traduzione italiana in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.; e ancora un’altra traduzione nella versione italiana dei Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee. Armando, Roma, 1988). Nel 1969 esce una raccolta di studi dal titolo: Freiburger Studien: Gesammelte Aufsätze (Mohr-Siebeck, Tübingen).

Nel 1969 Hayek diventa professore emerito dell’Università di Freiburg e accetta una visiting professorship dell’Università di Salzburg in Austria. Del 1970 è il saggio: Die Irrtümer des Konstruktivismus und die Grundlagen legitimer Kritik gesellschaftlicher Gebilde (W. Fink, München-Salzburg; la versione inglese di questo saggio apparirà con il titolo The Errors of Constructivism, nei New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas che Hayek pubblicherà nel 1978 presso Roudedge and Kegan Paul di Londra; trad, ital.: Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit.).

Nel 1973 esce il primo volume della sua monumentale opera: Law, Legislation and Liberty (Roudedge and Kegan Paul, London; trad, ital.: Legge, legislazione e libertà. Il Saggiatore, Milano, 1986). Questo primo volume dal titolo Regole e ordine sarà seguito nel 1976 dal

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secondo volume: Il miraggio della giustizia sociale. Il terzo volume su II sistema politico di un popolo libero apparirà nel 1979. In questa sua grandiosa opera Hayek distingue tra ordine spontaneo e organizzazione costruita; mostra come il costruttivismo razionalistico distrugga l’ordine spontaneo e con ciò le difese della libertà individuale; fa vedere che l’idea di giustizia sociale è un residuo di atavismo carico di pericoli per la nostra civiltà; mette il dito sulla piaga di quell’onnipotenza dei parlamenti delle attuali democrazie, su quel potere illimitato che le ha trasformate in tirannie; e propone un ordine politico di un popolo libero.

Nel 1974 Hayek viene insignito del Premio Nobel per l’economia e per l’occasione pronuncia un discorso dal titolo The Pretence of Knowledge (pubblicato nelle Freiburger Studien e nei Nuovi studi-, trad. ital. anche in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.). Qui, basandosi sull’idea della dispersione della conoscenza tra una moltitudine di individui, egli articola di nuovo una critica alle tesi di Keynes. Ma la sorte volle che egli dividesse il Premio Nobel con un suo avversario: Gunnar Myrdal, uno dei maggiori responsabili dello stato assistenziale svedese.

La più recente opera di Hayek è The Fatal Conceit. The Errors of Socialism (Roudedge, London, 1988; trad. ital. La presunzione fatale, Rusconi, Milano, in corso di stampa), dove l’autore critica il socialismo in quanto frutto maturo della tradizione razionalistico-costruttivistica, e dove riafferma la superiorità della sua concezione evoluzionistica delle istituzioni sociali.

Testimone della caduta del socialismo reale, Hayek ha potuto cosi avere prima della fine della sua vita la conferma delle «previsioni» che sul socialismo avevano fatto sia lui che il suo maestro Mises. Hayek è morto, a Freiburg i.B., il 23 marzo 1992.

1106. Von Hayek: difesa dell'individualismo metodologico e critica del collettivismo metodologico.

Nel saggio Scientismo e scienze sociali - che costituisce la prima parte del volume L’abuso della ragione - Hayek scrive: «Mentre nelle scienze della natura il contrasto fra l’oggetto della ricerca e la spiegazione che ne diamo coincide con l’abituale distinzione fra idee e fatti oggettivi, nelle scienze sociali ^necessario introdurre una distinzione fra le idee costitutive, che sono cioè parte integrante dei fenomeni che intendiamo spiegare e le idee che noi medesimi, o le persone stesse di cui vogliamo spiegare le azioni, possiamo esserci fatti a proposito di tali fenomeni. Queste ultime idee non sono generatrici di strutture sociali, ma teorie intorno alle strutture stesse» (L'abuso della ragione, cit., p. 39).

Ecco, dunque, che, se nelle scienze della natura abbiamo teorie su fatti, nelle scienze sociali il ricercatore ha a che fare con idee su idee (Ib., p. 40). E, proprio qua, è necessario «distinguere nettamente le opinioni motivanti e costitutive da una parte, e le concezioni speculative o esplicative, che gli individui hanno elaborato a proposito degli “insiemi”, dall’altra; il rischio di confonderle è infatti grave e sempre presente» (L’abuso della ragione, cit., p. 41, corsivo nostro). Secondo Hayek, insomma, «sono le idee che la mente popolare ha elaborato a proposito di entità collettive come “ società ” o “ sistema economico”, “capitalismo” o “imperialismo”, ecc., che nelle scienze sociali il ricercatore deve considerare volgari, che non si devono confondere con i fatti. Astenersi coerentemente dal trattare alla

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stregua di “ fatti ” queste entità astratte, e prendere sistematicamente le mosse dalle concezioni dalle quali gli uomini sono indotti all’azione, e non dai risultati delle loro teorizzazioni sulle proprie azioni: ecco il tratto caratteristico dell’individualismo metodologico che è intimamente connesso con il soggettivismo delle scienze umane» (Ib.). Di conseguenza, 1’«approccio scientista» di chi «rifiuta di prendere le mosse dalle concezioni soggettive onde risultano determinate le azioni dei singoli, cade regolarmente [...] proprio nell’errore che si propone di evitare; infatti, finisce col trattare come entità reali certi aggregati che sono mere astrazioni e generalizzazioni popolari» (Ib.).

Dalle precedenti considerazioni appare ben chiaro che «sono le concezioni e opinioni dei singoli quelle di cui abbiamo conoscenza diretta e che costituiscono gli elementi a partire dai quali dobbiamo ricostruire i fenomeni più complessi» (Ib., p. 42). Pertanto: «non sono affatto i vari tipi di credenze e atteggiamenti individuali l’oggetto della nostra spiegazione: essi sono semplicemente gli elementi a partire dai quali noi ricostruiamo le possibili strutture relazionali interindividuali» (Ib.). Tutto ciò sta a dirci che sono le credenze e gli atteggiamenti individuali a costituire i «dati» delle scienze sociali (Ib., p. 43), per cui il compito delle scienze sociali non consiste nella spiegazione dell’azione cosciente (Ib.): «questa spiegazione, ammesso che sia possibile, è tutt’altra cosa e rappresenta il compito proprio della psicologia» (Ib.). Su questo punto Hayek si dichiara d’accordo con L. Robbins, il quale aveva scritto che, in particolare, gli economisti considerano «i fenomeni studiati dalla psicologia come i dati donde procedono le loro deduzioni» (L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, 1935, 2‘ed., p. 36). Il metodo delle scienze sociali può definirsi, dice Hayek, «compositivo» o sintetico (L’abuso della ragione, cit., p. 42; si vedano le osservazioni di R. Cubeddu, Sul tema dell'individualismo metodologico, in «Il Politico», LIV, 2, 1989, p. 325): allo scienziato sociale «si presentano come dati elementi semplici che concorrono alla formazione di quei fenomeni complessi che egli non può sottoporre a osservazione nel loro insieme» (L'abuso della ragione, cit., p. 42). In breve: «per le scienze sociali le varie modalità dell’azione cosciente rappresentano i “ dati ” che esse hanno soltanto il compito di disporre ordinatamente, onde renderli effettivamente utilizzabili ai loro fini» (Ib., p. 43). E questo compito - il compito delle scienze sociali -si risolve per Hayek, come si vedrà tra poco, nell’analisi delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali.

All’individualismo metodologico si oppone il collettivismo metodologico. E tipica del collettivismo metodologico è «la sua tendenza a trattare certi “ insiemi ” quali “ società ” o “ economia ” o “ capitalismo ” (come “ fase ” storica determinata) o una particolare “ industria ” o “ classe ” o “ nazione ” come oggetti dati, in se stessi compiuti, le cui leggi possiamo scoprire osservando il loro comportamento come “insiemi”» (Ib., p. 61). Una convinzione del genere, tanto diffusa e tanto radicata, è dovuta anche al fatto che «l’esistenza, nell’uso corrente, di termini come “ società ” o “ economia ” è ingenuamente considerata come prova evidente dell’effettiva esistenza di determinati “ oggetti ” che a quei termini concretamente corrispondono. D fatto che tutti parlino di “ nazione ” o di “ capitalismo ” porta a credere che il primo passo, nello studio di quei fenomeni, debba consistere nell’andame a verificare

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l’aspetto, esattamente come ci si comporterebbe nei confronti di una certa roccia o di un certo animale» (Ib., p. 62).

Sennonché, sottolinea giustamente Hayek, «l’errore implicito in questo approccio collettivistico consiste nel considerare alla stregua dei fatti quelle che non sono altro che teorie provvisorie, modelli costruiti dalla mente ingenua per spiegarsi la connessione esistente fra alcuni dei fenomeni singoli che noi osserviamo» (Ib ). E' un grave errore «trattare come fatti quelle che sono tutt’al più vaghe teorie popolari» (Ib.). Ma, vittime di questo errore, i fautori del collettivismo metodologico «proprio quando meno se l’aspettano, [...] cadono vittime dell’errore del “ realismo concettuale ” (definito da A.N. White-head come “abbaglio della concretezza fuor di luogo”)» (Ib., pp. 62-63).

Il collettivismo metodologico è realismo ingenuo, «che acriticamente presume che, se certi concetti sono di uso corrente, devono anche esistere in concreto proprio quelle “ date ” cose che essi designano» (Ib., p. 63). E, purtroppo, tale concezione - il realismo ingenuo - «è cosi profondamente radicata nel corrente modo di trattare i fenomeni sociali, che è necessario un decisivo sforzo di volontà per liberarsene» (lb ). Proprio per questo, contro il realismo ingenuo occorre ribadire con tutta chiarezza, che «le scienze sociali non si occupano di dati “ insiemi ”, ma loro compito è di procedere alla costituzione di questi insiemi costruendone i modelli in base ad elementi noti» (Ib., p. 64). E «l’errore di trattare alla stregua di oggetti reali gli insiemi, che non sono altro che costrutti e che non possono avere altre proprietà che quelle derivanti dal modo in cui li abbiamo messi insieme a partire dagli elementi componenti, si è manifestato in varie forme, ma, forse più frequentemente, nella forma di teorie che postulano l’esistenza di una mente “ sociale ” o “ collettiva ” ed ha, sotto questo profilo, determinato l’emergenza di pseudo-problemi» (Ib., p. 66).

1107. Von Hayek: la scoperta di Bernard Mandeville; la critica del costruttivismo· L’autonomia e il compito delle scienze sociali.

Ad agire sono sempre e solo gli individui. E, fa presente Hayek, come ben vide Bernard Mandeville (1670-1733) nella sua paradossale Favola delle api, le azioni umane intenzionali hanno conseguenze inintenzionali (Il dottor Bernard Mandeville, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., p. 271 sgg.). Questa è la morale della Favola di Mandeville: i vizi privati possono contribuire alla felicità pubblica. Adam Smith accusò Mandeville di moralismo rovesciato (A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, in Works and Correspondence of Adam Smith, Oxford University Press, Oxford, 1976, vol. I, pp. 308-14). E, tuttavia, occorre ripetere che la scoperta di Mandeville - vale a dire la scoperta dell'esistenza delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali - è b grado di distruggere quella pretesa grande e presuntuosa verità sostenuta da quegli pseudorazionalisti che sono i costruttivisti e, di conseguenza, dagli utopisti e dai teorici di quella che Popper ha chiamato la teoria cospiratoria della società. E qui il costruttivismo lo esprimiamo con la formula hayekiana secondo cui «l’uomo, dato che ha creato egli stesso le istituzioni della società e della civiltà deve anche potere alterarle a suo piacimento in modo che soddisfino i suoi desideri o le sue aspirazioni» (Glierrori del costruttivismo, cit., p. 11).

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Alla caccia di quegli pseudorazionalisti, che sono appunto i costruttivisti, Hayek individua nel razionalismo cartesiano (Gli errori del costruttivismo, cit., p. 13; si vedano anche: Individualism: True and False, in Individualism and Economic Order, cit., pp. 3-4; Legge, legislazione e libertà, cit., p. 37 sgg.; e The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, cit., pp. 143-47) la fonte da cui «discendono» tutte le forme moderne del costruttivismo. Da quel momento, egli afferma, prevalse quell'irragionevole «Età della Ragione», che fu dominata interamente dallo spirito cartesiano (Gli errori del costruttivismo, cit., p. 13). Nel Discorso sul metodo (seconda parte) Cartesio - ricorda Hayek - ha scritto che «se Sparta è stata un tempo fiorente [...], ciò è dovuto al fatto che le sue leggi, essendo state bventate da uno solo, tendevano tutte allo stesso fbe». La fede costruttivistica degli Illuministi la espresse al meglio Voltaire quando alla voce «Legge» del Dizionario filosofico sentenziò: «Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e fatevene altre da soli». Cartesiani, Illuministi, Positivisti sono, dice Hayek, tutti costruttivisti (Ib., p. 21): non usano la ragione, ne abusano. E di questo abuso della ragione Hayek accusa anche il suo maestro Hans Kelsen, per il quale «il diritto è [...] una costruzione deliberata a servizio di determbati particolari interessi» (Ib., p.24; per le critiche di Hayek a Kelsen si consulti Legge, legislazione e libertà, cit., pp. 242-54; cfr. anche G. Pecora, La democrazia di Hans Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, pp. 81-84). E il costruttivismo, prosegue Hayek, ha infettato «l’btero socialismo». E, ancora, vasti settori della psichiatria e della psicologia (Gli errori del costruttivismo, cit., pp. 20-22).

La mano nascosta di A. Smith, l’idea di A. Ferguson secondo cui le istituzioni umane sono frutto dell’azione umana ma non dell’umano progettare, i pubblici benefici non dovuti a nessun piano di inventori di cui parla Hume, Γeterogenesi dei fini di Wundt sono altrettante e penetranti testimonianze di una antica e diffusa consapevolezza che Hayek inquadra nella sua prospettiva evoluzionistica e sulla quale egli fonda l’autonomia delle scienze sociali. Difatti, se per Menger l’analisi delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali è un compito delle scienze sociali, per Hayek essa è il compito specifico ed esclusivo delle scienze sociali. In realtà, scrive Hayek, i problemi che le scienze sociali «cercano di risolvere si presentano solo in quanto l’azione cosciente di una molteplicità di persone dà luogo a risultati imprevisti e in quanto si constata l’esistenza di certe regolarità maturate spontaneamente al di fuori di ogni deliberazione programmatica» (L’abuso della ragione, cit., p. 43). Il compito delle scienze sociali, insomma, è quello di spiegare gli effetti non previsti delle azioni intenzionali. E sta proprio qui l’autonomia delle scienze sociali. Difatti, «se i fenomeni sociali non manifestassero altro ordine all’infuori di quello conferito loro da un’intenzionalità cosciente, non ci sarebbe posto per alcuna ricerca teorica della società e tutto si ridurrebbe esclusivamente, come spesso si sente dire, a problemi di psicologia. E' solo nella misura in cui un certo tipo di ordine emerge come risultato dell’azione dei singoli, ma senza essere stato da alcuni di essi coscientemente perseguito, che si pone il problema di una loro spiegazione teorica» (Ib., si veda anche il saggio: The Results of Human Action but not of Human Design, in Studies in Philosophy, Politics, and Economics, cit., pp. 96-105).

Hayek, insomma, non dice che l’analisi delle conseguenze inintenzionali è il compito principale delle scienze sociali teoriche, afferma piuttosto che esso è il loro unico e specifico compito (si veda a riguardo A.E. Galeotti, Individuale e collettivo. L'individualismo

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metodologico nella teoria politica, Angeli, Milano, 1988, p. 152). In sostanza, per Hayek, «negare l’esistenza e lo studio dell’emergenza dell’ordine spontaneo, significa negare l’esistenza di un oggetto proprio delle scienze teoriche della società» (L'abuso della ragione, cit., p. 43).

1108. Von Hayek: L'uso della conoscenza nella società e il sistema dei prezzi come sistema di comunicazione.

Nel 1935 Hayek cura la raccolta di saggi (di N.G. Pierson, Mises, Georg Hahn e Barone) integrata da due suoi scritti e intitolata Collectivist Economic Planning. Critical Studies on the Possibilities of Socialism. Con tale volume egli intende fare il punto sul problema della pianificazione economica collettivistica. Hayek punta qui la sua attenzione sulla possibilità di funzionamento del sistema socialista e si domanda se la pianificazione economica centralizzata potrà mai raggiungere il fine desiderato, si chiede cioè se l’istituzione di una autorità centrale possa essere la via più spedita per «risolvere il problema economico di distribuire una quantità limitata di risorse fra un numero praticamente infinito di scopi concorrenti» (Pianificazione economica collettivistica. La natura e la storia sul problema, in Aa. Vv., Economia collettivistica pianificata, Einaudi, Torino, 1946, pp. 15-17; ora rist. anche come cap. VIII di Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.). Ebbene, obietta Hayek, il presupposto di una sola scala di valori è semplicemente un errore fattuale; negare la sovranità del consumatore equivale ad annullare la sua libertà; inoltre, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione significa l’impossibilità del calcolo economico e quindi la fine di una economia razionale; infine, se si analizza la soluzione sovietica, si vede subito che le formulazioni matematiche del problema della pianificazione sono infondate, se non altro per la ragione che presuppongono una concentrazione, nell’autorità-centrale, di conoscenze teoriche e pratiche che, invece, sono diffuse tra milioni e milioni di uomini (Lo stato del dibattito, 1935, rist. come cap. IX di Conoscenza, mercato, pianificazione, cit., p. 246).

La pianificazione «è un esito dell’atteggiamento “scientistico”, è lo scientismo, infatti, a costituire il supporto di tutte quelle filosofie politiche e sociali che mirano ad una ricostruzione razionale della società e ad una pianificazione deliberata delle istituzioni sociali» (F. Donzelli, Introduzione a F.A. von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione, cit., p. 48). Impostazione quest’ultima o atteggiamento che Hayek chiama, come già sappiamo, costruttivismo o razionalismo costruttivistico. In ogni caso, «il problema di quale sia il modo migliore di utilizzare le conoscenze inizialmente disperse tra le varie persone è perlomeno uno dei problemi più importanti che riguardano la politica economica o la progettazione di un sistema economico efficiente» (L'uso della conoscenza nella società, in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit., p. 279). Certo, la conoscenza scientifica ha oggi un posto cosi preminente nell’immaginazione pubblica che noi «tendiamo a dimenticare che essa non costituisce l’unico tipo di conoscenza rilevante» (Ib., p. 280); ed è anche vero che «oggi suggerire che la conoscenza scientifica non è la somma di tutto il sapere è quasi un’eresia». E, tuttavia, «una breve riflessione può mostrare che esiste senza dubbio un corpo di conoscenze molto importante, ma non organizzate, che non possono essere considerate scientifiche, nel senso di conoscenza di leggi generali: mi riferisco - annota Hayek - alle conoscenze delle circostanze particolari di tempo e di luogo. Proprio rispetto a questo tipo di

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conoscenze praticamente ogni individuo si trova in vantaggio rispetto a tutti gli altri, dal momento che egli possiede informazioni uniche che possono essere utilizzate con profitto, ma solo se le decisioni che dipendono da queste vengono lasciate a lui o sono prese con la sua attiva collaborazione». E qui è sufficiente ricordare «quanto ci resta da imparare in ogni occupazione dopo che abbiamo completato l’addestramento teorico, quanta parte della nostra vita lavorativa è dedicata ad imparare lavori specifici, e quale preziosa risorsa sia, in tutte le professioni, la conoscenza delle persone, delle condizioni locali e delle circostanze particolari. Conoscere e mettere in uso una macchina non pienamente utilizzata o le capacità di qualcuno che potrebbero essere impiegate meglio, o essere a conoscenza dell’esistenza di scorte in eccesso a cui si può attingere durante un’interruzione dei rifornimenti, è socialmente altrettanto utile quanto conoscere tecniche alternative migliori. Lo spedizioniere marittimo che si guadagna da vivere utilizzando viaggi vuoti o mezzipieni di carrette a vapore, o l’agente immobiliare la cui conoscenza si limita quasi esclusivamente a quella di occasioni temporanee, o 1'arbitrageur che trae i suoi guadagni dalle differenze locali dei prezzi delle merci, tutti svolgono funzioni utili basate sulla particolare conoscenza di circostanze legate all’attimo fuggente ed ignote agli altri» (Ib., pp. 280-81).

La realtà è che la pianificazione centralizzata non può certamente pianificare gli sviluppi delle conoscenze future, come non può nemmeno centralizzare una immensa quantità di conoscenze di specifiche circostanze di tempo e di luogo. E, quindi, se siamo d’accordo sul fatto che uno dei problemi di maggiore rilievo riguardanti la politica economica è quello della migliore utilizzazione delle conoscenze disperse tra le varie persone; se riteniamo, inoltre, che «il problema economico della società consiste principalmente nel rapido adattamento ai cambiamenti che intervengono nelle particolari circostanze di tempo e di luogo», ebbene, allora possiamo affermare che «le decisioni finali devono essere lasciate alle persone che conoscono queste circostanze, che hanno conoscenza diretta dei cambiamenti rilevanti e delle circostanze immediatamente disponibili per farvi fronte» (Ib., p. 284). E questo a prescindere dall’altro fatto per cui la centralizzazione delle conoscenze individuali è impraticabile anche per la ragione che esistono conoscenze tacite, immagazzinate all’interno di regole di condotta e delle quali i singoli individui diventano consapevoli allorché qualche circostanza li costringe a scoprirle (Rules, Perception and Intelligibility, 1963, in Studies in Philosophy, Politics and Economics, cit., pp. 43-65; Legge, legislazione e libertà, cit., p. 25 sgg.).

Solo il decentramento può utilizzare al meglio la conoscenza dispersa tra le persone. E «in un sistema in cui la conoscenza di fatti rilevanti si trova dispersa tra molte persone, i prezzi possano servire a coordinare le azioni separate di persone differenti» (L'uso della conoscenza nella società, cit., p. 285; si veda: W.W. Bartley III, Knowledge is a Product not Fully Known to its Producer, in Aa.Vv., The Political Economy of Freedom. Essays in Honor of F.A. Hayek, a cura di Kurt R. Leube e A.H. Zlabinger, Philosophia Verlag, München-Wien, 1985, pp. 30-31). E, in realtà, il sistema dei prezzi è un meccanismo che comunica informazioni (L’uso della conoscenza nella società, cit., p. 285; si veda K.R. Leube, Friedrich August von Hayek. A Biografical Introduction, cit., p. xxm); e «il fatto più significativo in questo sistema è costituito dall’economia di conoscenza con cui esso opera, o in altri termini di quanto poco devono sapere i partecipanti individuali per essere in grado di agire nel modo giusto» (L’uso

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della conoscenza nella società, cit., p. 287). Il sistema di comunicazione dei prezzi è di una portentosa efficienza: comunica l’essenziale agli interessati. «É prodigioso che in un caso come quello della scarsità di una materia prima, senza che sia stato dato un ordine, senza che ci siano più di poche persone, forse, a conoscere le cause, decine di migliaia di persone, la cui identità non potrebbe essere accertata con mezzi di indagine, siano portate ad utilizzare questo materiale o i suoi prodotti con maggiore parsimonia; in altre parole, essi si muovono nella direzione giusta» (Ib.).

1109. Von Hayek: la concorrenza come procedura per la scoperta del nuovo.

Il sistema dei prezzi è, dunque, un sistema che comunica informazioni essenziali in modo rapido. Esso «comunica agli individui che quello che fanno, o possono fare, è diventato più o meno richiesto per qualche motivo di cui non sono responsabili» (La concorrenza come procedura per la scoperta del nuovo, in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit., p. 319). Le informazioni offerte dai prezzi «non riguardano tanto il modo in cui agire, quanto che cosa fare» (Ib.). Ed è «solo grazie al meccanismo di mercato che qualcuno viene indotto ad intervenire e a riempire il vuoto dovuto al fatto che qualcun altro non riesce a soddisfare le aspettative dei suoi simili» (Ib.). Ma, in ogni caso, occorre sempre ricordare che «quali beni siano scarsi, o quali cose siano beni e quanto essi siano scarsi o di valore - questo è precisamente ciò che la concorrenza deve scoprire» (Ib., p. 312). È d’altra parte chiaro che la migliore soluzione dei problemi sociali non deriva dal sapere di un individuo, quanto piuttosto «da un processo interpersonale di scambio delle opinioni, da cui emergerà un sapere migliore» (Liberalismo, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e stona delle idee, cit., p. 164). Ciò perché gli uomini sono fallibili, per cui è dalla discussione e dalla critica di differenti esperienze e delle diverse idee e opinioni che verrà fuori la migliore soluzione dei problemi (Ib.). Ebbene, afferma Hayek, «cosi come per la sfera intellettuale, anche in quella materiale la concorrenza è il mezzo più efficace per scoprire il modo migliore di raggiungere i fini umani. Solo là dove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze e di capacità individuali tali da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci tra queste, un miglioramento costante» (Ib., p. 164).

Da tutto quanto detto discende che il liberalismo è l’unica filosofia politica veramente «scientifica». Scientifico non è il socialismo. Il socialismo è, ad avviso di Hayek, superstizione. «Definisco superstizione - egli dice - ogni sistema in cui gli individui pensano di saperne più di quanto conoscano» (G. Sorman, I veri pensatori del nostro tempo, trad, ital., Longanesi, Milano, 1990, p. 203). I socialisti sono superstiziosi per la ragione che presumono di sapere come programmare la società e, forse, l'intera umanità. Sennonché, precisa Hayek, «nessuno può sapere [...] come va programmata la crescita economica, perché non ne conosciamo esattamente i meccanismi; il mercato mette in gioco decisioni tanto numerose che nessun computer, per potente che sia, riesce a registrare. Di conseguenza credere che il potere politico sia in grado di sostituirsi al mercato è un'assurdità» (Ib., p. 202). La «Grande Società», cioè la società moderna che è una società complessa, può funzionare solo se si affida al mercato, all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza. Il costruttivismo socialista potrebbe andar bene per una arcaica società tribale.

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1110. Von Hayek; critica dello scientismo.

Per «scientismo» e «pregiudizio scientista» Hayek intende «le imitazioni pedantesche del metodo e del linguaggio della Scienza» (L'abuso della ragione, cit., p. 14). Lo «scientismo» è, per Hayek, l’estensione e l’applicazione acritica dei metodi delle scienze naturali alle scienze sociali: «una meccanica e acritica applicazione di certi abiti di pensiero a campi diversi da quelli nei quali si sono formati» (Ib.). E uno degli esiti del pregiudizio scientista sta nel fatto che esso «rischia di ostacolare il progresso delle discipline sociali» (Ib., p. 16).

Già nel 1935, Hayek asseriva che «il tentativo di introdurre a forza gli stessi metodi empirici nelle scienze sociali» era «un tentativo destinato a condurre al disastro» (La natura e la storia del problema, cit., p. 333). Nel 1937, in Economia e conoscenza, Hayek ribadiva che il «dato» nelle scienze sociali è «sinonimo di conosciuto da parte del soggetto in considerazione» (Economia e conoscenza, in Conoscenza, mercato, pianificazione, cit., p. 234). Del 1942, 1943, 1944 sono le tre parti di Scientism and the Study of Society in cui Hayek vede una distanza radicale tra i metodi delle scienze naturali e quelli delle scienze sociali. Successivamente, l’opera di Popper convince Hayek che «le scienze della natura non seguivano affatto il metodo che molti dei loro cultori pur credevano di seguire» (Prefazione all’edizione italiana, de L’abuso della ragione, cit., p. 5). Tuttavia, pur stando le cose in questo modo, Hayek ha sempre insistito su alcune differenze tra scienze naturali e scienze sociali e ha proseguito la sua lotta contro lo scientismo, inteso come l’applicazione nelle scienze sociali del metodo della fisica in vista di una trasformazione intenzionale, programmata e guidata della società. Lo scientismo combattuto da Hayek è il razionalismo costruttivistico.

L’11 dicembre del 1974, in occasione del conferimento del premio Nobel, Hayek pronuncia un discorso dal titolo: The Pretence of Knowledge. Gli economisti devono dire cosa deve fare il mondo per liberarsi dalla seria minaccia di una galoppante inflazione, la quale - afferma Hayek - è stata causata proprio da una politica raccomandata ai governi dagli economisti di fede keynesiana. Ebbene, ad avviso di Hayek, «il fatto che gli economisti non siano riusciti a suggerire una migliore linea di condotta è strettamente legata alla loro tendenza ad imitare il più possibile i metodi seguiti dalle scienze fisiche con tanto successo: un tentativo che nel nostro campo può portare solo all’errore» (La Presunzione di conoscere, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., p. 32).

La conseguenza dell’atteggiamento scientista è che il riformatore sociale se non vuol fare più male che bene deve essere consapevole che nel campo dei fenomeni sociali, «come in tutti gli altri dove prevale una complessità essenziale di un genere organizzato, egli non può acquisire la piena padronanza degli eventi» (Ib., p. 43). Talché - ammonisce Hayek - «egli dovrà usare le conoscenze che gli riuscirà di acquisire, non per piegare ad un proprio modello i risultati, come fa l’artigiano con il proprio lavoro, ma piuttosto per seguire lo sviluppo degli eventi preoccupandosi di fornire l’ambiente appropriato, come fa il giardiniere con le piante» (Ib.). La consapevolezza dei limiti della umana ragione, il riconoscere che esistono limiti insuperabili alla nostra conoscenza, dovrebbe essere per chi studia la società «una lezione di umiltà, che dovrebbe metterlo in guardia dal diventare un complice nella lotta funesta dell’uomo per controllare la società, una lotta che non solo lo rende tiranno dei suoi

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simili, ma gli può fare anche distruggere una civiltà che nessuna mente ha disegnato e che è cresciuta grazie agli sforzi liberi di milioni di individui» (Ib.).

1111. Von Hayek: la presunzione fatale.

Hayek vede nell 'École Polytechnique, con Saint-Simon e Comte, «la fonte della hybris scientista», volta a pianificare secondo criteri «scientifici» la vita nel suo complesso con la conseguente eliminazione di qualsiasi libertà. Sarà Saint-Simon a non mostrare nessuno scrupolo «in merito ai mezzi da impiegare perché trovino attuazione le istruzioni emanate dal suo organo centrale di pianificazione: “ chiunque non obbedisce ai comandi sarà trattato dagli altri come un quadrupede”» (L’abuso della ragione, cit., p. 14). Dal canto suo, Comte sostiene che esistono leggi intelligibili della storia umana, ma anche - più in particolare e come aspetti di quelle - che esistono leggi intelligibili della crescita delle menti individuali e dello sviluppo delle conoscenze dell’intero genere umano. Ciò presuppone che «la mente umana possa, per cosi dire, osservarsi da una posizione sopraelevata e sia in grado di comprendere il proprio funzionamento dal di dentro, ma anche di osservarlo dal di fuori» (L’abuso della ragione, cit., p. 220). La mente umana, pertanto, non solo ha - ad avviso di Comte - il potere di comprendere lo sviluppo della società nella sua totalità, ma anche quello di scoprire il principio in base al quale essa opera e quindi di poter controllare il proprio sviluppo (Ib., p. 221). Questa è un’idea che è a fondamento dell’ideologia totalitaria e del socialismo, sui cui errori Hayek è tornato nell’ultimo suo libro: The Fatal Conceit, libro che ha per sottotitolo The Errors of Socialism.

«Il libro sostiene che la nostra civiltà dipende, non solo nella sua origine ma anche per la sua preservazione, da quello che può con precisione venir descritto unicamente come l’ordine esteso della cooperazione umana, ma che viene più comunemente [...] conosciuto come capitalismo» (The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, Roudedge, London, 1988, p. 6). Noi comprenderemo la nostra civiltà solo quando capiremo che questo ordine - la società di mercato - è sorto non da un progetto intenzionale dell’uomo quanto piuttosto in modo spontaneo. La nostra civiltà nasce da un sistema di regole morali o regole di condotta che si sono evolute spontaneamente e che si sono diffuse tramite selezione evoluzionistica, «con la relativa crescita in popolazione e ricchezza di quei gruppi cui era capitato di seguirle» (Ib.). I socialisti, invece, vedono le cose diversamente: vogliono abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e affidare la direzione di tutta l’attività economica, cioè la gestione di tutte le risorse disponibili, ad una autorità centrale. Questa pretesa, però, è destinata a portare a risultati disastrosi per la ragione che «non c’è nessun altro modo conosciuto, diverso dalla distribuzione dei prodotti in un mercato competitivo, che informi gli individui in quale direzione debbano orientarsi i loro singoli sforzi in maniera da contribuire il meglio possibile al prodotto totale» (Ib., p. 7). Il socialismo è semplicemente il frutto della presunzione della ragione di poter plasmare secondo i propri piani le istituzioni sociali, di dirigerne lo sviluppo e di realizzare sulla faccia della terra la giustizia sociale. Ma Hayek mostra che l’espressione «giustizia sociale» non descrive un possibile stato di cose ed è persino una espressione priva di senso; che la moralità socialista è quella istintiva della tribù; che la pianificazione socialista presuppone una conoscenza di cui nessuna mente umana o nessun comitato può disporre; che i tentativi di realizzare il socialismo portano necessariamente alla distruzione

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della ricchezza e alla privazione della libertà. Il socialismo - dice Hayek - «implica una teoria ingenua e acritica della razionalità, una assoluta e antiscientifica metodologia che io ho altrove chiamato “razionalismo costruttivistico”» (Ib., p. 8).

Giunto a questo punto, Hayek fa presente che, sebbene egli attacchi la presunzione della ragione da parte socialista, le sue argomentazioni non sono dirette contro la ragione propriamente usata. E - egli dice - «con ragione propriamente usata io intendo la ragione che riconosce i propri limiti e che, istruita dalla stessa ragione, affronta le implicazioni di quello straordinario fatto, rivelato dall’economia e dalla biologia, che l’ordine generato senza progetto può sorpassare di molto i piani esplicitamente concepiti dall’uomo» (Ib., p. 8). I socialisti intendono padroneggiare il presente e il futuro tramite i piani razionali. Ma, afferma Hayek, «l'uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l’ignoto e l'imprevisto, dove egli impara nuove cose» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 559).

1112. Von Hayek: processo allo storicismo.

Quando si parla di «storicismo» - annota Hayek - si naviga dentro ad una grande confusione semantica. Per questo, proprio al fine di far luce su tale confusione, Hayek traccia una netta distinzione tra la «Scuola storica» degli inizi del XIX secolo - cioè la grande Scuola dei Niebuhr e dei Ranke - da una parte, e lo storicismo dei Marx, degli Schmoller e dei Sombart dall’altra (L’abuso della ragione, cit., p. 245). E scientismo e collettivismo sono i naturali alleati di quello storicismo stando al quale esistono insiemi sociali, collettivi, la cui osservazione ce ne svela le «leggi» di sviluppo. «Questa convinzione - afferma Hayek - è uno dei tratti più caratteristici di quella storia scientista che, sotto il nome di storicismo, ha cercato di dare un fondamento empirico a una teoria della storia o (usando il termine di filosofia nel suo antico significato di “ teoria ”) a una “ filosofia della storia ” e di fissare l’ordine necessario di successione di ben definiti “ stadi ” o “ fasi ”, “ sistemi ” o “ stili ”, susseguentisi l’un l’altro nel corso della storia» (Ib., p. 86). Una concezione siffatta - fa presente Hayek - si sforza di scoprire delle leggi di sviluppo «proprio là dove, per la natura stessa delle cose, non se ne può trovare, cioè nella successione dei singoli e particolari fenomeni storici» (Ib., pp. 86-87). Questo, da una parte. Dall’altra, essa «nega la possibilità dell’unico genere di storia che ci aiuti a comprendere gli insiemi nella loro unicità, vale a dire la teoria che indica secondo quali modalità diverse si possono combinare gli elementi noti per formare quelle combinazioni unitarie che troviamo nel mondo reale» (Ib., p. 87). Ed è cosi che al posto di un paziente lavoro di ricostruzione delle strutture che incontriamo nel mondo reale - ricostruzione che si fa a partire dagli elementi dei quali si ha conoscenza diretta -, «i fautori di queste pseudo-teorie della storia si pretendono capaci di pervenire, per una specie di scorciatoia mentale, alla intuizione diretta delle leggi secondo le quali si succederebbero questi insiemi considerati oggetto di percezione immediata» (Ib.). E c’è da dire che le filosofie della storia - Hayek scriveva queste cose nel 1944 - sono diventate «il tratto caratterizzante, o, per dirla con L. Brunschwicg, “ il vizio prediletto” del XIX secolo». «Da Hegel a Comte, e soprattutto da Marx, giu giu fino a Sombart e Spengler, queste false teorie sono riuscite a imporsi come rappresentative dei risultati delle scienze sociali e, propagando la credenza che a un dato “ sistema ” debba succedere, per necessità storica, un nuovo e

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diverso “ sistema ”, hanno anche esercitato una profonda influenza sull’evoluzione sociale [... E] benché non sia-che uno dei tanti prodotti del medesimo genere, tipici del xix secolo, il marxismo più di tutti gli altri, è diventato il veicolo per mezzo del quale questi frutti dello scientismo hanno acquistato tanto prestigio che persino molti dei suoi oppositori pensano allo stesso modo dei propugnatori, in termini marxisti» (Ib., p. 88).

Karl R. Popper - grande amico di Hayek - è autore di una analisi dello storicismo intitolata: Miseria dello storicismo. Ed Hayek dichiara di aver poco da aggiungere a questa «magistrale analisi dello storicismo», salvo che «ritengo - egli scrive - che Comte e il positivismo ne portino la responsabilità in misura almeno uguale a Platone e Hegel» (Ib., p. 246). E, in realtà, al di là della superficiale somiglianza per cui in Comte lo sviluppo necessario della storia procede secondo le leggi dei tre stadi, e in Hegel avanza secondo un analogo ritmo triadico, i due sistemi di pensiero sono deterministici e fatalistici: «l’uomo non può cambiare il corso della storia» (Ib., p. 247). Anche gli individui eccezionali non possono fare altro che piegarsi alle ineluttabili leggi della storia. Essi, per Comte, sono semplici “ strumenti ” o “ organi ” di uno sviluppo predeterminato; ed Hegel, ricorda Hayek, vedeva in loro i Geschäftsführer des Weltgeistes, «funzionari dello Spirito del mondo di cui la Ragione astutamente si serve per i propri fini» (Ib.). Sistemi come quello di Comte e di Hegel sono deterministici e fatalistici e pertanto liberticidi.

1113. Von Hayek: la via della schiavitù.

La difesa della libertà individuale e, quindi, la lotta al totalitarismo sono argomenti che attraversano l’intera opera di Hayek. E in questa difesa della libertà individuale e in questa lotta contro il totalitarismo The Road to Serfdom, pubblicato nel 1944, rappresenta forse il punto più alto.

Se si fa una seria ricerca sulle origini del fascismo e del nazismo, allora - afferma Hayek - dobbiamo ammettere, anche se pochi sono disposti a riconoscerlo, che «il sorgere del fascismo e del nazismo non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente ma uno sbocco necessario di quelle tendenze» (Verso la schiavitù, trad, ital., Rizzoli, Milano, 1948, p. 3). La realtà è - puntualizza Hayek - che «per almeno venticinque anni, prima che lo spettro del totalitarismo diventasse una minaccia effettiva, noi ci siamo progressivamente allontanati dalle idee fondamentali sulle quali è stata costruita la nostra civiltà occidentale» (Ib., p. 11). Abbiamo abbandonato - sottolinea Hayek - «quella libertà in materia economica senza la quale non è mai esistita in passato la libertà personale e politica» (Ib.).

I grandi pensatori politici del diciannovesimo secolo, come Tocqueville e Lord Acton, ci avevano ammonito che «socialismo» significa schiavitù, ma noi «abbiamo costantemente camminato nella direzione del socialismo» (Ib.). Abbiamo pensato che quella promessa dal socialismo fosse la via della libertà, mentre era «la via maestra della schiavitù» (Ib., p. 23). Il socialismo è abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione; è «l’organizzazione deliberata delle forze produttive della società per uno scopo sociale definito» (Ib., p. 50). E' ben vero che c’è chi pensa che il controllo delle attività economiche non avrebbe importanza per le altre attività della vita e che il potere esercitato sulla vita economica riguarderebbe cose

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di poca rilevanza. In realtà, però, le cose stanno ben diversamente: «La pianificazione economica non graverebbe soltanto su quelle necessità marginali alle quali pensiamo quando parliamo con disprezzo delle cose puramente economiche.

Essa in realtà significherebbe che non ci sarebbe più consentito di decidere individualmente che cosa consideriamo come marginale» (Ib., p. 81). Chi possiede tutti i mezzi, controlla tutti i fini. Chi controlla tutta l’attività economica, controlla tutti i mezzi per tutti i nostri fini: è lui che decide, dunque, quali di questi fini debbano essere soddisfatti e quali no. E questo - asserisce Hayek - è il punto cruciale della questione: «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo esclusivo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati più alti e quali più bassi; in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi» (Ib.). Leggiamo nel saggio Liberalismo·. «Una qualsiasi forma di controllo economico, che conferisce potere sui mezzi, conferisce al tempo stesso potere sui fini. Non può darsi libertà di stampa quando l’editoria sia soggetta a controllo governativo, o libertà di riunione se lo stesso accade per i locali necessari a realizzarla, o libertà di movimento se i mezzi di trasporto sono monopolio pubblico e cosi via» (Liberalismo, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., pp. 165-66; si veda: E. Butler, Friedrich A. Hayek, cit., pp. 110-12).

«Nessuno [...] più di Friedrich von Hayek - scrive N. Bobbio - ha insistito sulla indissolubilità di libertà economica e di libertà senz’altri aggettivi» (N. Bobbio, Liberalismo e democrazia, Angeli, Milano, 1988, p. 62). E, in realtà, le cose stanno proprio cosi: per Hayek la libertà economica è il presupposto di ogni altra libertà. Ma essa «non può essere quella libertà da ogni cura economica che i socialisti ci promettono e che potrebbe essere ottenuta soltanto sollevando l’individuo nello stesso tempo dalla necessità e dalla facoltà di scelta; dev’essere invece la libertà delle nostre attività economiche, la quale libertà, col diritto di scelta, porta con sé inevitabilmente i rischi e le responsabilità di tale diritto (Verso la schiavitù, cit., p. 89). E' la proprietà privata a costituire «la più importante garanzia della libertà, non solo per coloro che posseggono proprietà, ma anche - e non molto meno -per coloro che non ne posseggono» (Ib., p. 92). Difatti, «solo perché il controllo dei mezzi di produzione è diviso fra molte persone agenti indipendentemente l’una dall’altra, nessuno ha completo potere su di noi e possiamo individualmente decidere che cosa fare. Se tutti i mezzi di produzione fossero riuniti in una sola mano [...], chiunque esercitasse tale controllo avrebbe completo potere su di noi» (Ib.). Ed è certo, commenta Hayek, che «un mondo nel quale il ricco è potente è ancora migliore di un mondo nel quale coloro che sono già potenti possono acquistare la ricchezza» (Ib., p. 93).

Essendo la libertà economica il presupposto di ogni libertà, è proprio questa che i totalitari (fascisti, nazisti, socialisti) cercano subito di sradicare in modo da ottenere un controllo totale: controllo che poi viene assicurato con una possente propaganda intesa a inculcare nella gente un fine unico che prevale su tutto, e intesa pure a far vedere che i mezzi indicati e scelti dagli uomini al potere sono quelli giusti. Ma con ciò diventa chiara anche la fine della verità. Difatti: se si vuole che gli uomini lavorino per il fine comune, bisognerà convincerli che non

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soltanto il fine è quello giusto ma che giusti sono anche i mezzi scelti. E' cosi, allora, che «i fatti e le teorie debbono diventare oggetto di una dottrina ufficiale allo stesso modo delle opinioni circa i valori. E tutta l’organizzazione per la diffusione della cultura, la scuola e la stampa, la radio e il cinema, tutto verrà usato esclusivamente per diffondere quelle opinioni che - vere o false che siano - valgono a rafforzare la fede nella giustizia delle decisioni prese dall’autorità; e tutte le informazioni che possono cagionare dubbi o esitazioni saranno soppresse» {Ib., p. 141). La stessa parola «verità» perde il suo significato; in un regime totalitario è vero ciò che è stabilito dall’autorità (Ib., p. 143). «La scienza per amor della scienza, l’arte per l’arte, sono in odio tanto ai nazisti quanto ai nostri intellettuali socialisti e ai comunisti» (Ib., p. 142). Fu il fisico e premio Nobel Lenard a scrivere in quattro volumi la Fisica tedesca. E c’è stato, ricorda Hayek, chi ha proposto di farla finita una volta per tutte anche con la neutralità degli scacchi.

1114. Von Hayek: la sovranità della legge come garanzia della libertà individuale.

nell'Introduzione a Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Quando Montesquieu e i padri della costituzione americana formularono esplicitamente l’idea di una costituzione come insieme di limiti all’esercizio del potere, in base ad una concezione che si era spontaneamente sviluppata in Inghilterra, fondarono un modello che, da allora in poi, il costituzionalismo liberale ha sempre seguito. Il loro scopo principale era di provvedere delle garanzie istituzionali per la libertà individuale, e lo strumento in cui riposero la loro fiducia fu quello della separazione dei poteri» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 5). Sennonché, prosegue Hayek, «nella forma in cui noi la conosciamo, tale divisione tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata progettata» (Ib.). Difatti, quanto la realtà mostra è che «dovunque, per via di mezzi costituzionali, i governi hanno ottenuto poteri che quei pensatori non intendevano affidare loro»(Ib.). La conseguenza di ciò è che «il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme costituzionali è evidentemente fallito» (Ib.). Ed è fallito perché si è data una interpretazione delle formule del costituzionalismo che le ha conciliate con quell’idea di democrazia, «secondo cui, in ogni particolare materia, la volontà della maggioranza non incontra limite alcuno» (Ib., p. 6). E si è giunti a siffatta concezione, all’idea del potere illimitato della maggioranza, per una serie di ragioni che Hayek elenca nel modo seguente: «la perdita della fede in una giustizia indipendente dagli interessi personali, un conseguente uso della legislazione per autorizzare la coercizione, non solo per prevenire azioni ingiuste, ma per raggiungere particolari risultati a favore di specifici gruppi e persone; e la fusione nelle medesime assemblee legislative dei compiti di proclamare le regole di giusta condotta e di dirigere l’attività di governo» (Ib ).

Tali sono le ragioni che rendono conto del fatto che le democrazie si sono sempre più trasformate in tirannie della maggioranza o di coalizioni di gruppi. E per contrasto si capisce come e perché una società di uomini liberi si basi, ad avviso di Hayek, su tre fondamentali concezioni. La prima di queste concezioni è che «un ordine sociale autogenerantesi o spontaneo, e la struttura ordinata di un’organizzazione, sono due cose molto diverse, e che tale differenza dipende dai due generi molto diversi di regole o leggi che prevalgono al loro interno» (Ib., p. 7). La seconda è che «ciò che oggi viene denominato come giustizia “sociale” o distributiva, ha senso solo all’interno del secondo di questi tipi di struttura

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ordinata - l’organizzazione - e che è invece privo di senso rispetto a, e del tutto incompatibile con, quel tipo di ordine spontaneo che Adam Smith chiamò “ La grande società ”, e Sir Karl Popper denominò “ La società aperta ”» (Ib.). La terza considerazione è che «il modello predominante di istituzioni democratiche liberali, in cui è lo stesso corpo legislativo a porre le regole di giusta condotta e le direttive per l’attività di governo, conduce necessariamente ad una graduale trasformazione dell’ordine spontaneo di una società libera verso un sistema totalitario asservito a qualche coalizione rappresentativa di interessi organizzati» (Ib.).

La democrazia scivola necessariamente verso un sistema totalitario quando essa si configura come governo illimitato. E per guarire da questa malattia, per instaurare una società di uomini liberi, Hayek non vede altra via che la rivalutazione teorica e il ritorno effettivo del dominio della legge, di quel rule of law che la politica non può modificare e al quale essa va soggetta. Scriveva nel 1944 Hayek all’inizio del capitolo VI di Verso la schiavitù: «Ciò che distingue nettamente le condizioni di un paese libero da quelle di un paese sottoposto a un governo arbitrario è il fatto che nel primo si osserva il grande principio denominato l’imperio della legge. Spogliato da ogni tecnicismo, esso significa che il governo, in tutte le sue azioni, è vincolato da regole fisse e annunziate in anticipo, regole che danno la possibilità di prevedere con ragionevole sicurezza in qual modo l’autorità userà i suoi poteri coercitivi in determinate circostanze, e di indirizzare i propri affari individuali sulla base di tale cognizione» (Verso la schiavitù, trad, ital., Rizzoli, Milano, 1948, p. 64).

L’imperio - o dominio o sovranità - della legge ha un unico scopo: «che siano ridotte al minimo possibile le facoltà discrezionali lasciate agli organi esecutivi detentori del potere coercitivo» (Ib.). Questo, però, non si da più nelle democrazie attuali, dove non c’è più distinzione tra legge e legislazione; dove diventa legge ogni atto della legislazione. In realtà, «quando gli effetti singoli sono previsti nel momento in cui un legge è formulata, essa cessa di essere semplicemente uno strumento che tutti possono usare e diventa invece uno strumento usato dal legislatore sugli individui, per i fini del legislatore stesso» (Ib., p. 68). È cosi che «lo Stato cessa di essere un pezzo di un congegno utilitario destinato ad aiutare gli individui a sviluppare pienamente la loro personalità e diventa un’istituzione “ morale ”, dove la parola “ morale ” non è usata in contrapposto a immorale ma indica un’istituzione che impone ai suoi membri le proprie opinioni su tutte le questioni d’indole morale, opinioni che possono essere morali o altamente immorali. In questo senso lo Stato nazista o qualsiasi altro Stato collettivista sono “ morali”, mentre lo Stato liberale non lo è» (Ib.).

Dunque: senza imperio della legge non ci può essere democrazia. Se non esistono limiti alla legislazione, il governo non trova ostacoli sulla via del dispotismo. Eppure, «il concetto di democrazia ha un significato - credo quello vero ed originale - per il quale ritengo, afferma Hayek, valga ben la pena di lavorare» (Dove va la democrazia (1976), in Nuovi Studi di filosofia, politica, economia e stona delle idee, cit., p. 168). Un fatto, tuttavia, è chiaro: «la democrazia non ha dimostrato di essere una sicura difesa contro la tirannia e l’oppressione, come si era sperato» (Ib.). Ma, pur stando le cose in questo modo, «in quanto convenzione che consente a qualsiasi maggioranza di liberarsi di un governo che non le risulta gradito, la democrazia ha un valore inestimabile» (Ib.).

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Quello che, dunque, costituisce - per Hayek - il problema più urgente ed attuale è proprio la questione della democrazia illimitata, della democrazia che è diventata onnipotente, e dinanzi alla quale «tutti i limiti tradizionalmente imposti al potere governativo stanno crollando» (Ib.). E le democrazie che noi conosciamo oggi in Occidente sono, dice Hayek, democrazie più o meno illimitate. Pertanto è bene «ricordare che, se le istituzioni peculiari della democrazia illimitata che abbiamo oggi dovessero alla fine fallire, ciò non significherebbe che la democrazia stessa è stata uno sbaglio, ma solo che l’abbiamo sperimentata nel modo sbagliato» (Ib., p. 169). E' sbagliato distruggere il primato del diritto o il «governo sotto la legge» e sostituirvi un Parlamento «sovrano» che «può fare tutto ciò che i rappresentanti della maggioranza trovano utile per conservare l’appoggio della maggioranza» (Ib.). Sbagliato ed anche abominevole, soggiunge Hayek, è teorizzare ed avallare «una forma di governo in cui qualsiasi maggioranza del momento possa desiderare che qualsiasi materia le piaccia debba essere considerata alla stregua degli “affari comuni” soggetti al suo controllo» (Ib.).

1115. Von Hayek: la libertà poggia sulla nostra ignoranza.

«Male non è il potere come tale - la capacità di realizzare quel che uno vuole - ma solo il potere di esercitare la coercizione, di forzare altri uomini a servire la propria volontà con la minaccia di far loro danno». Questo afferma Hayek ne La società libera (trad, ital., Vallecchi, Firenze, 1969, p. 161), dove anche precisa che «la coercizione è un male perché impedisce a una persona di utilizzare completamente le sue facoltà mentali e di conseguenza gli impedisce di dare alla comunità il maggior contributo di cui è capace. Chi è sottoposto alla coercizione cercherà pur sempre di fare quanto meglio può per se stesso, ma l’unico piano di vasta portata in cui le sue azioni si adattino è quello concepito dalla mente di un altro» (Ib., p. 160). Per contrario libero è, per Hayek, chi ha la possibilità di agire in base alle sue decisioni e ai propri progetti utilizzando le proprie conoscenze, diversamente da chi è soggetto alla volontà di un altro che con una decisione arbitraria può costringerlo ad agire e a non agire in determinati modi (Ib., p. 30). Libero è, insomma, chi è indipendente dall’arbitraria volontà di un altro (Ib., pp. 39-40).

E la libertà dei singoli individui è necessaria per il buon funzionamento del sistema. Difatti, «perché il sistema funzioni, l’essenziale è che ogni individuo possa agire in base alla sua particolare conoscenza, sempre unica, almeno in quanto si applica a circostanze particolari, e che possa utilizzare le sue capacità individuali e le sue occasioni entro i limiti a lui noti e per un suo scopo individuale» (cit., p. 48). La conoscenza è dispersa tra milioni e milioni di uomini, e per questo una società libera, in cui vige la cooperazione nella divisione del lavoro, «può utilizzare molte più conoscenze di quante non ne potrebbe contenere la mente del più saggio dei governanti» (Ib., p.50). Ecco, dunque, dove risiede il valore della libertà individuale: esso «poggia soprattutto sul riconoscimento dell’inevitabile ignoranza di tutti noi nei confronti di un gran numero dei fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi e della nostra sicurezza. Se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà [...]. La libertà è essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come

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abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi. Siccome ogni individuo sa poco, e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo» (Ib., pp. 48-49). Questo - commenta Sergio Ricossa - è il cuore de La società libera: «la vita è concepita come una doppia serie di infinite varietà. Da un lato, l’infinita varietà degli individui, dall’altro, le infinite varietà delle occasioni. La libertà aumenta la probabilità di trovare la migliore combinazione di quelli con queste. Siamo lontanissimi dalla visione semplificata e semplicistica della vita, cara ai costruttori di modelli economici o sociali (spesso null’altro che giocattoli culturali)» (S. Ricossa, Presentazione all’edizione italiana de La società libera, cit., p. 9).

Ebbene, qual è la via che ci conduce alla schiavitù e come evitare questa via? Per evitare la schiavitù - risponde Hayek - occorre abbattere la presunzione della nostra ragione. Dobbiamo ammettere subito che la massima socratica, secondo la quale «il riconoscimento della nostra ignoranza è il principio della saggezza, ha un significato profondo per capire la nostra società» (La società libera, cit., p. 41; si consulti F. Romani, La civiltà fondata sulla conquista dell’ignoranza, in «L’opinione», giugno 1992, p. 13). E noi capiamo la nostra società allorché ci rendiamo conto che la civiltà è si frutto dell’azione umana o meglio «dell’azione di qualche centinaio di generazioni (La società libera, p. 42), ma non è l’esito di disegni umani intenzionali. Scrive Hayek: «La concezione di un uomo già dotato di un intelletto capace di immaginare la costruzione della civiltà e di crearla è tutta fondamentalmente falsa. L’uomo non ha semplicemente imposto al mondo un modello errato del suo intelletto [...]. L’idea di un uomo che deliberatamente costruisce la sua civiltà deriva da un falso intellettualismo che considera la ragione umana come qualcosa al di fuori della natura e provvista di una capacità intellettiva e razionale indipendente dall’esperienza. Ma lo sviluppo della mente umana è parte dello sviluppo della civiltà; e lo stato della civiltà in qualsiasi momento determina la portata e le possibilità di fini e valori umani. La mente non può mai prevedere il proprio progresso» (Ib., pp. 42-43).

1116. Von Hayek: i fondamenti della società libera.

E' esattamente la concezione razional-costruttivistica dell’uomo che Hayek pone all’origine della crisi della civiltà occidentale. La civiltà non sarà travolta se saprà garantire la libertà dei singoli; ma questa sarà possibile solo a patto che all’interno di essa si riesca a mantenere la differenza tra norme astratte o leggi e comandi specifici o particolari. La legge, ripete Hayek con F.C. von Savigny, «è la regola che fissa la linea del confine individuale cui è dato alla vita e all’attività di ciascun individuo una sfera libera e sicura» (Ib., p. 175). La legge - il diritto o l’insieme delle regole generali di condotta - non è o non sono - l’esito di progetti intenzionali. La legge è un insieme di regole di giusta condotta - sorte per via spontanea e alle quali sono sottoposti tutti. La legge, quindi, è il fondamento della libertà. Ed essa, appunto, «non è stata concepita da una mente umana più di quanto non lo siano stati la lingua o il denaro o la maggior parte delle abitudini e delle condizioni su cui la vita è basata» (Ib.).

La legge - scrive Hayek - «si può definire come un comando dato “ una volta per sempre ”, diretto a ignoti e che fa completa astrazione dalle particolari condizioni di tempo e di luogo,

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riferendosi solo a condizioni suscettibili di verificarsi da per tutto in qualsiasi momento» (Ib., 176-77). Un comando, invece, concerne condizioni particolari e fini specifici. Confondere le due cose per giungere ad una identificazione della legge con i comandi, cioè con la legislazione e i provvedimenti amministrativi voluti da una maggioranza parlamentare, significa distruggere le difese della libertà individuale. Le leggi - o norme generali o leggi astratte si applicano «uniformemente a tutti» (Ib., p. 181). E siffatta generalità è il carattere più rilevante della legge «astratta». «Una vera legge come non dovrebbe nominare nulla di particolare, cosi non dovrebbe nemmeno indicare specificamente una persona o un gruppo di persone» (Ib. ). Cosi, per esempio, «la legge vieterà di uccidere un altro individuo o di uccidere salvo in casi particolari (determinati in modo che possono prodursi in ogni tempo o luogo) ma non vieterà l’uccisione di particolari individui» (Ib., pp. 179-80). Leggi astratte e generali sono, per citarne altre, le tre leggi fondamentali di Hume: la stabilità del possesso, la cessione per comune consenso e l'adempimento della promessa. Ma più che sui contenuti, preme ad Hayek insistere sui caratteri che le norme astratte debbono avere in una società libera: il fatto che non riguardino individui particolari o il fatto che non si prefiggano fini specifici, che siano a lungo termine (Ib., p. 240), che siano note e certe (Ib., pp. 240-41), che siano uguali per tutti (Ib., pp. 241-43). E c’è da notare, sempre a proposito delle norme astratte, che «non potendo prevedere quale uso gli interessati faranno delle sue norme, il legislatore può soltanto mirare a renderle benefiche nel loro insieme o nella maggior parte dei casi» (Ib., p. 186).

Ai nostri giorni - ammonisce Hayek sempre ne La società libera - il governo della legge «è stravolto, all’interno delle attuali democrazie, per la ragione che non si sa più che cosa significa legge e per la ragione che si intende per legge qualsiasi atto dell’autorità legislativa». La realtà è che «i nemici della libertà hanno sempre fondato i loro discorsi sulla premessa che l’ordine nelle cose umane esige che qualcuno comandi e che gli altri obbediscano. Gran parte dell’opposizione a un sistema di libertà basata su leggi generali nasce dall’incapacità di concepire un efficace coordinamento delle attività umane senza un’organizzazione stabilita da un’intelligenza che comanda» (Ib., p. 187). Ed è cosi, allora, che «nella pratica corrente viene chiamato “ legge ” tutto quel che è stato deciso in maniera appropriata da una autorità legislativa» (Ib., p. 237). E, tuttavia, prosegue Hayek, «solo una piccolissima parte di esse oggi sono vere leggi, in quanto “ la maggioranza delle cosiddette leggi ” sono piuttosto istruzioni impartite dallo Stato ai propri dipendenti sul modo in cui essi devono dirigere l’apparato di governo e i mezzi che hanno a disposizione» (Ib.).

1117. Von Hayek: cosmos e taxis.

Legge, legislazione e libertà consta di tre volumi. Nel primo volume Regole e ordine (1973) Hayek riprende il tema del contrasto tra costruttivismo ed evoluzionismo, ribadisce «la necessaria e inevitabile ignoranza che ciascuno ha della maggior parte dei fatti particolari che determinano le azioni di tutti gli altri numerosi individui della società umana» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 19); sostiene che «l’esistenza di questa nostra irrimediabile ignoranza della maggior parte dei fatti particolari che determinano i processi sociali è la ragione per cui la maggior parte delle istituzioni hanno assunto la forma che attualmente hanno» (Ib.)·, e fa notare che è grazie a queste istituzioni che «un individuo “civilizzato” può

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essere molto ignorante, più ignorante di molti selvaggi, e tuttavia ricevere benefici molto maggiori, grazie al contesto di civilizzazione in cui vive» (Ib., p. 21).

Centrale nel volume è l’analisi del concetto di ordine. Qui Hayek approfondisce in modo sistematico la distinzione tra ordine spontaneo (o cosmos) e organizzazione (o taxis) (su questa distinzione si veda anche lo scritto del 1968: La confusione del linguaggio nel pensiero politico, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., pp. 84-88). Il primo è un ordine che «si è formato per evoluzione»; è un ordine che «si autogenera o “ endogeno ”». Il secondo è un «ordine costruito», è un «ordine “ esogeno ”, o una sistemazione» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 51). Ebbene, Hayek reputa indispensabile il chiaro possesso di questa distinzione se si vogliono comprendere i processi sociali; e aggiunge che «non sarebbe un’esagerazione dire che la teoria sociale comincia con la - e ha un proprio oggetto solo a causa della - scoperta che esistono strutture ordinate le quali sono il prodotto dell’azione di molti uomini, ma che non sono il risultato di una progettazione umana» (Ib.). E mentre gli ordini costruiti sono semplici, concreti e servono per gli scopi di colui che li ha creati, «nessuna di queste caratteristiche appartiene necessariamente ad un ordine spontaneo, o cosmos. Il suo grado di complessità non è limitato da quanto la mente umana è in grado di padroneggiare. La sua esistenza non ha bisogno di manifestarsi ai nostri sensi, ma può essere fondata su relazioni puramente astratte che noi siamo solo in grado di costruire mentalmente. E non essendo stato deliberatamente creato, non si può legittimamente sostenere che esso ha uno scopo particolare, sebbene la nostra consapevolezza della sua esistenza possa essere estrema-mente importante perché noi possiamo perseguire con successo una grande varietà di scopi differenti» (Ib., p. 53).

Fissata la più ampia cornice evoluzionistica, stabilita la differenza tra ordine spontaneo e organizzazione, Hayek oppone l’idea di diritto come norma astratta, ordine spontaneo, che «è esistito per molte epoche prima che all’uomo venisse in mente di poterlo creare o modificare», all’idea costruttivistica del diritto inteso come legislazione, frutto della volontà del legislatore. Contrario alla fallacia volontaristica tipica del costruttivismo e del positivismo giuridico, Hayek vede il diritto come un complesso di regole di condotta astratte che non mirano ad uno scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, formano un ordine in cui gli individui possono realizzare i loro piani. Essendo frutto di un processo spontaneo di natura culturale, il diritto può venir corretto dai giuristi e dai legislatori in quanto un ordine spontaneo non è buono perché spontaneo (Ib., pp. 114-15). E allora il problema centrale diventa «quali aspettative proteggere al fine di massimizzare la possibilità che in generale le aspettative vengano soddisfatte» (Ib., p. 135). A tal fine occorrerà assicurare a ciascuno un campo di azioni libero dalle interferenze altrui, e per questo «sono necessarie regole che in ogni momento rendono possibile accertare i confini di ciascuna situazione di appartenenza protetta, e pertanto di distinguere tra il meum e il tuum (lb). Buoni steccati fanno buoni vicini: gli uomini - dice Hayek - possono usare la propria conoscenza per raggiungere i loro propri scopi, senza interferire gli uni con gli altri, solo a patto che sia possibile tracciare chiari confini tra le rispettive aree in cui possono agire liberamente. Questo - afferma Hayek - «è il fondamento su cui si sono evolute tutte le civiltà conosciute» (Ib. in La confusione del linguaggio nel pensiero politico, cit., p. 90). E da tutto

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ciò si deduce allora che l’istituto della proprietà - intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali ma anche «la vita, la libertà e i possessi» di ogni individuo - «è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà, sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 136). O, per essere ancora più chiari: la Grande Società o Società Aperta «è resa possibile da un sistema di norme di mera condotta che include quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l’adempimento delle promesse, o - secondo come Leon Duguit riassume il contenuto essenziale di tutti i sistemi contemporanei di diritto privato - libertà di contratto, inviolabilità della proprietà, e il dovere di compensare i terzi per i danni dovuti alla nostra colpa» (Ib., p. 233).

1118.Von Hayek: il miraggio della giustizia sociale e il declino della fede nella democrazia.

L’abolizione della distinzione tra norme astratte (nomos) e regole di organizzazione (thesis) - cosi come è stata, in fondo, teorizzata da H. Kelsen e cosi come è stata e viene praticata dai governi democratici per i quali la legge si identifica con la legislazione e che usano la legislazione per dispensare benefici ai propri elettori (agli elettori dei partiti di maggioranza) - equivale a distruggere i baluardi che sono a difesa della libertà individuale. Tale distruzione ora è praticata da tutti gli anti-liberali, in modo particolare dai socialisti soprattutto per mezzo della loro idea di giustizia sociale. E proprio al miraggio della giustizia sociale - questo è anche il titolo del volume - è dedicato il secondo volume di Legge, legislazione e libertà. La conclusione di questo volume è che «chi usa abitualmente l’espressione “ giustizia sociale ” semplice-mente non comprende quel che essa significa, e l’intende semplicemente come una affermazione che una certa richiesta è giustificata, senza darne una ragione» (op. cit., p. 183).

L’uso dell’espressione «giustizia sociale» - scrive Hayek - è relativamente recente, in quanto non pare risalire più indietro di un secolo fa. E al giorno d’oggi - prosegue Hayek - il senso in cui l’espressione viene generalmente usata e al quale si ricorre nelle discussioni pubbliche «è essenzialmente lo stesso in cui per lungo tempo è stata usata l’espressione “ giustizia distributiva”» (Ib., p. 263).

L’appello alla «giustizia sociale» è il più usato e il più efficace nelle discussioni pubbliche. «Pressoché ogni richiesta di “ azione governativa ” a favore di determinati gruppi è avanzato in suo nome, e se si riesce a far risultare che una certa misura è richiesta dalla “ giustizia sociale ” l’opposizione ad essa si indebolisce rapidamente» (Ib., p. 265). L’impegno verso la «giustizia sociale» è ormai «diventato il principale sfogo emotivo, la caratteristica peculiare dell’uomo buono, e il segno riconosciuto del possesso di una coscienza morale» (Ib., p. 267). Ben diversa, però, è la realtà se la si esamina più in profondità, giacché, in questo caso, si vedrà subito che il concetto di «giustizia sociale», tanto amato dagli intellettuali, «è intellettualmente screditato» (L'atavismo della giustizia sociale, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., p. 68).

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Innanzi tutto dobbiamo notare che all’interno di un ordine economico basato sul mercato, il concetto di «giustizia sociale» non ha alcun significato, è privo di contenuto (si consulti, al riguardo, N. Maccormick, Alcuni problemi dell'ordine spontaneo, in Aa.Vv., Libertà, giustizia e persona nella società tecnologica, a cura di S. Ricossa e G. Di Robilant, Giuffrè, Milano, 1985, p. 60 sgg.). Certo, «l’opinione che in una società di uomini liberi (distinta da ogni organizzazione obbligatoria) il concetto di giustizia sociale sia vuoto e senza senso sembrerà del tutto incredibile alla maggior parte delle persone» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 270). Eppure, se «giustizia sociale» è intesa come sinonimo di «giustizia distributiva», allora c’è da affermare che tale concetto non può avere significato alcuno all’interno di un’economia di mercato. Difatti: «non può esserci alcuna giustizia distributiva dove nessuno distribuisce» (L’atavismo della giustizia sociale, cit., p. 69; si veda anche Libertà economica e governo rappresentativo, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e stona delle idee, cit., p. 125). «La giustizia ha significato solo in quanto norma di condotta umana, e nessuna ipotizzabile norma relativa ad individui che si forniscono l’un l’altro beni e servizi in un’economia di mercato produce una distribuzione tale da poter essere sensatamente descritta come giusta o ingiusta» (L'atavismo della giustizia sociale, cit., p. 69).

L’idea di giustizia sociale è un’idea estremamente confusa tanto che «nessuno ha ancora trovato neppure una sola norma generale da cui potremmo dedurre che cosa sia socialmente giusto in tutti i casi particolari che rientrerebbero in quella data norma [...]» (Ib.). E, d’altra parte, non è possibile mantenere un ordine di mercato imponendo in nome di una «giustizia sociale» un modello di remunerazione «basato su una valutazione dei risultati e dei bisogni dei vari individui o gruppi da parte di un’autorità che abbia il potere di farlo applicare» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 269). La tendenza attuale dei governi a far diventare legge gli interessi dei vari gruppi non può che distruggere la difesa della libertà individuale (si consulti, sull’argomento, J. Gray, Hayek on Liberty, Blackwell, New York, 1984, pp. 71-75).

Ma, allora, perché mai la gente seguita a credere fermamente nella «giustizia sociale»? Come che questo può darsi, quando ormai appare chiaro che «in un società di uomini liberi i cui membri possono usare le proprie conoscenze per il raggiungimento dei propri fini l’espressione “ giustizia sociale ” è completamente priva di significato o contenuto»? (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 302). La ragione di ciò, risponde Hayek, «è che noi tutti abbiamo ereditato, da un precedente diverso tipo di società in cui l’uomo è esistito molto più a lungo che non nell’attuale, alcuni istinti ormai ben radicati che non sono applicabili alla civiltà presente» (L'atavismo della giustizia sociale, cit., p. 70). In realtà, dice Hayek, è negli ultimi 10.000 anni che l’uomo ha sviluppato l’agricoltura, l’abitazione urbana e la «Grande Società». Prima di allora «egli è vissuto per un periodo almeno cento volte più lungo in piccoli gruppi di circa 50 cacciatori che si dividevano il cibo rispettando rigidamente un ordine di dominio all’interno del territorio comune difeso dal gruppo» (Ib.). Nella sua forma primitiva, il piccolo gruppo aveva un fine comune, cioè un obiettivo unitario, e «una deliberata distribuzione dei mezzi secondo una comune valutazione dei meriti individuali» (Ib.). In tale gruppo, l’individuo non ha alcuna libertà: «non c’era alcuna libertà naturale per un animale sociale, [...] la libertà è un prodotto della civiltà» (Ib., p. 71). Nel

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gruppo primitivo «l’individuo [...] non aveva alcuna sfera riconosciuta di azione indipendente: anche il capo della banda poteva aspettarsi obbedienza, sostegno e comprensione dai suoi seguaci solo per attività convenzionali. Fino a quando ciascuno deve rispettare un comune ordinamento di ruoli per tutte le necessità, ed è questo il sogno dell’odierno socialismo, non può esserci alcuna libera sperimentazione da parte dell’individuo» (Ib.). Ebbene, lo sviluppo che ha reso possibile la società aperta è consistito «nella graduale sostituzione dei fini specifici obbligatori con norme astratte di condotta» (lb ). -Sennonché, può accadere che i principi morali acquisiti allora e funzionali per la vita in quei gruppi primitivi non vengano sempre abbandonati nella nuova situazione. Ed è cosi, dunque, che possiamo spiegarci l’attaccamento all’idea - priva di significato in una società di mercato - di «giustizia sociale»: si tratta di una eredità atavica che ceni gruppi si trascinano dietro come un fardello distruttivo.

John Rawls (in Constitutional Liberty and the Concept of Justice, New York, 1963, p. 102) ha scritto: «I principi di giustizia non determinano una distribuzione specifica di beni come giusta, tenendo conto della volontà di determinate persone. Questa funzione è abbandonata perché ritenuta sbagliata di principio e in ogni caso non passibile di una risposta definitiva. I principi di giustizia definiscono piuttosto i vincoli che le istituzioni e le loro attività devono soddisfare se le persone che ne fanno parte non devono avere a lamentarsi. Se questi vincoli sono soddisfatti, la distribuzione che ne risulta, qualunque essa sia, può essere accettata come giusta (o almeno non ingiusta)». Hayek si richiama a questo brano di Rawls - autore non di rado citato a supporto del socialismo - per dire di non avere con Rawls nessuna divergenza su di un punto di tale fondamentale importanza (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 306; si veda anche a p. 185 e p. 231).

In una intervista rilasciata solo pochi anni fa, Hayek ha detto: «La maggioranza ha sostituito la Legge, che a sua volta ha perso il suo significato: inizialmente principio universale, oggi è soltanto una norma mutevole destinata a servire interessi privati [...] in nome della giustizia sociale! E la giustizia sociale, prosegue Hayek, è una favola, una bacchetta magica: nessuno sa in che cosa consista! Grazie a questo termine vago, ogni gruppo si crede in diritto di esigere vantaggi particolari dal governo. In realtà, dietro la “ giustizia sociale vi è semplicemente il seme dell’attesa gettato nella mente degli elettori dalla generosità dei legislatori verso determinati gruppi. I governi sono diventati degli istituti di beneficenza esposti al ricatto degli interessi organizzati. Gli uomini politici cedono tanto volentieri quanto più la distribuzione dei privilegi consente di comperare il voto dei sostenitori» (G. Sorman, I veri pensatori del nostro tempo, trad, ital., Longanesi, Milano, 1970, p. 205. Sulla critica di Hayek all’idea di «giustizia sociale» si consultino: E. Butler, Friedrich A. von Hayek, cit., p. 125 sgg.; J. Gray, Hayek on Liberty, cit., pp. 72-75). E' questa è una delle ragioni più forti del declino della fede nell’ideale della democrazia. Questa fede è declinata - spiega Hayek -perché i parlamenti democratici hanno spezzato tutti i vincoli che imponevano ad essi dei limiti e si sono trasformati in assemblee con potere illimitato, nelle quali il principale obiettivo della maggioranza «diventerà inevitabilmente la spartizione di fondi estorti a qualche gruppo minoritario» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 382). E, in realtà, si chiede Hayek, «chi potrebbe negare che i moderni organi legislativi democratici

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hanno garantito una selva di sussidi speciali, privilegi, ed altri benefici a gruppi di interessi particolari [...]?» (Ib.). Si parla di una volontà della maggioranza, ma questa è una finzione, giacché quello che conta è «il fatto che la maggioranza di governo non mette in atto ciò che la maggioranza vuole, ma solo ciò che ogni gruppo della maggioranza stessa deve concedere agli altri per avere il loro appoggio al fine di ottenere quel che si desidera effettivamente» (Ib., p. 383).

Tutto ciò, ovviamente, «non è l’attributo necessario d’ogni governo rappresentativo o democratico, ma soltanto il prodotto necessario di un governo illimitato o onnipotente, che dipende dall’appoggio di numerosi gruppi» (Ib.). Quindi la disonestà e la corruzione (e l’oppressione delle minoranze da parte della maggioranza) non sono frutto necessario della democrazia o del governo rappresentativo: sono piuttosto frutto di quella particolare istituzione che è un potere legislativo onnipotente. Siffatto tipo di governo sarà «corrotto e allo stesso tempo debole: incapace di resistere alla pressione dei diversi gruppi che lo compongono, deve fare tutto quello che può fare per soddisfare i loro desideri, necessitandone l’appoggio, per quanto dannose queste misure siano per gli altri - almeno fino a quando ciò non sia troppo appariscente o i gruppi sacrificati non siano troppo popolari presso l’opinione pubblica» (Ib., p. 384). Questo fa anche capire perché ci sia stata nel nostro secolo una tendenza a formare associazioni commerciali, sindacali e padronali: la funzione di queste associazioni, annota Hayek, è quella di «dirottare verso i propri membri la maggior quantità possibile di favori governativi» (Ib., p. 386). E fa anche capire perché un gruppetto, che si trova ad essere l’ago della bilancia tra due gruppi opposti, è in grado di «estorcere privilegi speciali per il suo appoggio ad un partito» (Ib., p. 405).

«La teoria classica del governo rappresentativo sosteneva - afferma Hayek - che questo poteva raggiungere i propri fini permettendo una divisione tra legislativo ed esecutivo che coincideva con la separazione tra un’assemblea eletta di deputati, e un organo esecutivo nominato da questa. Ciò falli perché, naturalmente, si voleva sia un governo sia una legislazione democratica, e l’unica assemblea democraticamente eletta pretendeva inevitabilmente il diritto di dirigere il governo e allo stesso tempo il potere di legiferare. Di conseguenza giunsero a combinarsi i poteri della legislazione con quelli del governo. Il risultato fu la rinascita del potere assoluto non limitato da alcuna norma: una mostruosa istituzione» (Ib., pp. 409-10).

Dinanzi alla costatazione di siffatti risultati, ecco il commento di Hayek: «Spero che verrà un giorno in cui la gente considererà con lo stesso orrore l’idea di un insieme di uomini, pur autorizzati dalla maggioranza dei cittadini, dotati del potere di ordinare quanto gli aggrada, come oggi aborrisce molte forme di governo autoritario. Questo porta alla barbarie non perché si sia dato potere ai barbari, ma perché lo si è slegato dai freni delle norme, producendo cosi effetti che sono inevitabili, quali che siano queste persone cui questo potere viene affidato» (Ib., p. 410). E accanto a questo commento Hayek pone la sua protesta: «Sebbene io creda fermamente che, se vogliamo mantenere la pace e la libertà, il governo dovrebbe essere condotto secondo principi approvati dalla maggioranza del popolo, devo ammettere francamente che se democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotata di potere illimitato, io - dice Hayek - non sono democratico, e che considero anzi un

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tale governo pernicioso, e non credo che possa funzionare sul lungo periodo» (Ib., p. 413). E, dopo la protesta, Hayek propone un modello di costituzione ideale.

Il termine «democrazia» deriva dal greco demos (popolo) e kratos, parola che sta per potere (dal verbo kratein). Annota Hayek che «questo verbo, al contrario del verbo alternativo archein (usato nei composti quali monarchia, oligarchia, ecc.), sembra sottolineare la forza bruta, piuttosto che il governare secondo regole» (Ib., pp. 413-14). E' questa è la ragione per cui Hayek propone l’adozione del termine demarchia. «Questo - egli dice - sarebbe il nuovo nome di cui si ha bisogno, se si vuole preservare l’ideale alla sua radice, in un’epoca in cui, dato il crescente abuso del termine democrazia per designare sistemi che tendono alla creazione di nuovi privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, un numero sempre crescente di persone si allontana dal sistema prevalente» (Ib.). Ed infine un ammonimento: «Se tale reazione giustificata contro l’abuso del termine non si vuole che porti a discreditare l’ideale stesso, ed a far accettare alla gente disillusa forme di governo molto meno desiderabili, sembra necessario avere un nuovo termine come demarchia che descriva l’antico ideale con un nome non macchiato da un lungo abuso» (Ib.).

1119. Von Hayek: le funzioni dello Stato e la protezione dei più deboli.

Prima di passare ad esaminare la proposta hayekiana della demarchia, è tuttavia opportuno accennare almeno a quelle che, ad avviso di Hayek, sono le funzioni legittime del governo. É un errore interpretare la proposta di Hayek di un governo limitato come se le funzioni del governo si riducessero a far rispettare la legge e alla difesa contro i nemici esterni. In termini chiari: «lungi dal propugnare “uno stato minimo”, riteniamo indispensabile - afferma Hayek - che in una società avanzata il governo debba usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere fomiti - o non possono esserlo in modo adeguato - dal mercato» (Ib., p. 416). Cosi, per esempio, molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città vengono fomite dal settore pubblico: «la maggior parte delle strade [...], la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi» (Ib., p. 418). Hayek è, tuttavia, persuaso che «il diritto esclusivo di battere moneta e di assicurare il servizio postale non furono stabiliti per servire meglio il pubblico, ma solo per accrescere i poteri del governo» (Ib., p. 431). Il servizio postale pubblico è del tutto inefficiente, dice Hayek, il quale propone inoltre l’abolizione del monopolio monetario statale, monopolio «che è stato usato per defraudare e ingannare i cittadini» (Ib., e anche pp. 432-33; si veda al riguardo F.A. von Hayek, Denationalization of Money. The Argument Refined, Institute of Economic Affairs, 2“ ed., London, 1978; e si consulti A. Martino, La moneta al mercato e la libera concorrenza, in «L’Opinione», giugno 1992, pp. 41-44). D’altro canto, «conferire al governo il monopolio della trasmissione televisiva, come avviene in alcuni paesi, è una delle decisioni politiche più pericolose degli ultimi anni» (Legge, legislazione e libertà, voi. ΠΙ: Il sistema politico di un popolo libero, cit., p. 434). E, per di più, «la tesi che il governo debba finanziare almeno l’istruzione obbligatoria non implica che questa debba anche essere gestita dal governo, e ancor meno che il governo debba averne il monopolio» (Ib., p. 435). E su questo punto Hayek è d’accordo con Milton Friedman (del quale si veda: Capitalism and Freedom, Chicago, 1962), la cui

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proposta «di dare ai genitori buoni con cui pagare l’istruzione generale piuttosto che l’istruzione professionale ad un livello avanzato, sembra avere notevoli vantaggi rispetto al sistema attuale» (Ib.). Con tutto dò, in ogni caso occorre ripetere che Hayek è dell’avviso che la sfera delle attività di governo non vincolate strettamente da leggi di governo è molto vasta. Certo, l’esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni estere sono attività dello Stato. Ma c’è sicuramente di più, poiché «pochi metteranno in dubbio che soltanto questa organizzazione [dotata di poteri coercitivi: lo Stato] può occuparsi delle calamità naturali quali uragani, alluvioni, terremoti, epidemie e cosi via, e realizzare misure atte a prevenire o rimediare ad essi» (Ib., p. 428). Ed è ovvio, allora, «che il governo controlli dei mezzi materiali e sia sostanzialmente libero di usarli a propria discrezione» (Ib.).

Ma vi è - e qui le considerazioni che seguono sono di estrema importanza e smentiscono parecchie interpretazioni affrettate e certamente non documentate del pensiero di Hayek -, «vi è ancora - scrive Hayek - tutta un’altra classe di rischi rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative, dovuta al fatto che, come risultato della dissoluzione dei legami della comunità locale e degli sviluppi di una società aperta e mobile, un numero crescente di persone non è più strettamente legato a gruppi particolari su cui contare in caso di disgrazia. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani - cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare» (Ib., pp. 428, 429; cfr. anche Verso la schiavitù, cit., p. 107).

Ha ben ragione Angelo M. Petroni allora a scrivere che; «Non ci si stancherà mai di ripetere come Hayek sia sempre stato in favore della creazione di una “rete” di sicurezza che permettesse di vivere a coloro che non fossero stati capaci di provvedere al proprio sostentamento all’interno del mercato. Ma ciò deve avvenire fuori dal mercato non come “ correzione ” del mercato medesimo» (A.M. Petroni, L'impossibilità di redistribuire la libertà degli individui, in «L’Opinione», cit., p. 18). E torniamo ad Hayek: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 429; e La confusione del linguaggio nel pensiero politico, cit., p. 102). E, in realtà, «un sistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente, quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 429).

1120. Von Hayek: La proposta della demarchia.

E' impossibile ignorare il fatto che «sempre più gente intelligente e ben intenzionata sta lentamente perdendo fede nell’ideale della democrazia» (Ib., p. 472). Questo si dà per la ragione che la democrazia si è trasformata in una dittatura della maggioranza che si reputa onnipotente, senza limiti nei suoi poteri di legiferazione. Ma la verità è che «la sovranità della

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legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili» (Ib., p. 476). Un Parlamento onnipotente «significa la morte della libertà individuale» (Ib.). E il guaio è che ormai ai nostri giorni una costituzione libera non significa più libertà dell’individuo, significa piuttosto «una licenza data alla maggioranza parlamentare di agire arbitrariamente» (Ib., p. 477). Ma una cosa - asserisce Hayek - deve essere qui chiara: «Possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero».

Ed esattamente al fine di garantire e preservare la libertà personale Hayek propone il suo modello di costituzione, sulla base della convinzione che «la libertà personale richiede che qualsiasi autorità sia limitata da principi durevoli, sostenuti da una approvazione generale» (lbsi veda E. Butler, Friedrich A. Hayek, cit., pp. 184-87). Ebbene, sul presupposto della fondamentale distinzione tra ordine spontaneo e ordine costruito e più precisamente nel nostro caso tra legge e legislazione, vale a dire tra nomos e thesis, Hayek delinea «un modello costituzionale che assicuri una vera separazione di poteri tra due organismi rappresentativi distinti, cosi che l’emanare leggi in senso stretto ed il governare in senso proprio sarebbero si condotti democraticamente, ma da due organismi diversi e reciprocamente indipendenti» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 481; si vedano anche su questo punto: La confusione del linguaggio nel pensiero politico, cit., pp. 102-7; Libertà economica e governo rappresentativo, cit., pp. 129-33).

Il primo di questi due organismi è quello che Hayek chiama Assemblea legislativa, la quale soltanto può modificare quell’insieme di norme riconosciute ed accettate di mera condotta capaci di proteggere la libertà individuale (Legge, legislazione e libertà, p. 483; si veda, a proposito, D. Da Empoli. Hayek e l’evoluzione costituzionale organizzata, in «L’Opinione», giugno 1992, p. 63, dove l’autore esplicita alcune critiche di J. Buchanan ad Hayek). L’Assemblea legislativa, insomma, non deve occuparsi delle esigenze particolari di gruppi particolari; ma deve piuttosto occuparsi «dei principi permanenti generali sulla base dei quali regolare le attività della comunità» (Libertà economica e governo rappresentativo, cit., p. 131). E i diritti fondamentali sono intesi a «proteggere semplicemente la libertà individuale, cioè l’assenza di coercizione arbitraria. Ciò implica che la coercizione sia usata soltanto per fare osservare le norme universali di mera condotta che proteggono la sfera individuale e raccogliere i mezzi per sostenere i servizi resi dal governo» (Legge, legislazione e libertà, p. 485).

Il secondo organismo previsto nel modello di Hayek è ΓAssemblea governativa, assemblea che corrisponde a quelli che oggi sono i parlamenti esistenti, eletti periodicamente - ma non secondo la proporzionale, per ragioni di governabilità - su linee di partito e i cui affari vengono condotti da un comitato esecutivo della maggioranza (Ib., p. 492).

C’è, tuttavia, da sottolineare - dice Hayek - che le due assemblee, avendo compiti diversi, dovranno rappresentare in modi diversi le opinioni degli elettori. Certo, per il governo devono trovare espressione i desideri concreti dei cittadini, i loro interessi particolari, e quindi è ovvio che ci si dovrà organizzare in partiti i quali dovranno poi esprimere una maggioranza in grado di governare. Ben diversa è, invece, la situazione per l’altra Assemblea, quella legislativa. E ciò per la ragione che «la legislazione propriamente detta non dovrebbe essere governata dagli interessi, ma dalle opinioni, cioè da idee su che tipo di azione sia

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giusto o sbagliato - non come strumento per raggiungere fini particolari ma come norma permanente e che non tenga conto degli effetti su gruppi o individui particolari» (Ib., p. 486). In realtà - osserva acutamente Hayek - «per scegliere qualcuno in grado di badare effettivamente ai suoi interessi particolari, oppure persone fidate per far rispettare imparzialmente la giustizia, il popolo eleggerebbe persone molto diverse. Infatti l’efficacia nel primo tipo di incarichi richiede qualità ben diverse da probità, saggezza e giudizio, di primaria importanza nella seconda» (Ib.). Per tutto ciò all’Assemblea legislativa necessitano «uomini e donne relativamente maturi, eletti per periodi abbastanza lunghi, ad esempio quindici anni, cosicché non debbano preoccuparsi di essere rieletti, e dopo quel periodo, per rendersi completamente indipendenti dalla disciplina di partito, non dovrebbero essere rieleggibili né obbligati a ritornare a guadagnarsi da vivere sul mercato, ma avere assicurato un impiego pubblico continuativo in posizioni onorifiche ma neutre, tipo “ giudici laici ”, cosicché durante la loro carica di legislatori non dipendano dall’appoggio del partito, né si preoccupino del loro futuro personale» (Ib., pp. 486-87). Ebbene, «per assicurare tutto questo - prosegue Hayek - dovrebbe essere eletta soltanto gente che ha dimostrato il proprio valore nella vita privata e professionale, e, per evitare allo stesso tempo che l’Assemblea contenga una proporzione troppo elevata di persone anziane, sembrerebbe saggio basarsi sull’antica esperienza secondo la quale i coetanei di una persona sono i suoi giudici più giusti, e richiedere che ogni gruppo di persone della stessa età una volta nella vita, ad esempio quando si compiono i 45 anni, scelgano tra di esse i rappresentanti destinati a restare in carica per 15 anni» (Ib., p. 487; si veda anche: La costituzione di uno Stato liberale, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, cit., pp. 115-18). L’esito di siffatta proposta sarebbe «un’assemblea legislativa di uomini e donne tra i 45 e i 60, un quindicesimo dei quali è sostituito ogni anno. L’insieme rispecchierebbe quindi quella parte della popolazione che si è arricchita d’esperienza e ha avuto l’opportunità di farsi una reputazione, ma che è ancora negli anni migliori» (Legge, legislazione e libertà, cit., p. 487). Questa Assemblea dovrà occuparsi della revisione del diritto privato, compreso quello commerciale e penale, di tutte le norme di condotta sanzionabili legalmente, dei principi della tassazione, di quelle norme di sicurezza e di igiene, comprese le regolamentazioni per la produzione, che devono essere fatte applicare nell’interesse generale e dovrebbero essere emanate sotto forma di norme generali; dovrà ancora occuparsi, tra l’altro, pure del non indifferente problema di creare un quadro di riferimento adeguato per il funzionamento di un mercato concorrenziale (Ib., p. 488).

CAPITOLO XX.

LA RIABILITAZIONE DELLA FILOSOFIA PRATICA IN GERMANIA E IL DIBATTITO FRA «NEO ARISTOTELICI» E «POSTKANTIANI»

di Giovanni Fornero

1121. LA tradizione della filosofia pratica e la sua crisi.

Parlare di «filosofia pratica» significa richiamare, in qualche modo, la concezione

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aristotelica del sapere. Com’è noto, lo Stagirita, classificando le diverse forme di razionalità (cfr. Top., VI, 6, 145 a 16-20; Met., VI, 1, 1025 b 25-28) aveva distinto il campo dello scibile in scienze teoretiche, pratiche e poietiche, fissando, per ognuna di esse, un autonomo statuto epistemologico (§ 72). Dopo la morte del filosofo, tale ordinamento era caduto in un lungo oblio, destinato a durare, al di là di qualche limitata eccezione, per circa un millennio e mezzo.

Al posto della classificazione aristotelica subentrò ben presto quella di tipo stoico-epicurea, già presente ai tempi dello Stagirita e fondata sulla tripartizione in logica, fisica ed etica. In seguito, a partire dall’età ellenistica ed imperiale, si impose quella delle cosiddette «arti liberali», distinte dalle «arti meccaniche» o servili. Arti che Marco Terenzio Varrone (§ 110) identificò con la grammatica, la retorica, la dialettica, l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, la musica, l’architettura e la medicina. Più tardi. Marziano Capella, nelle Nozze di Mercurio e della Filologia (iv-v secolo), le ridusse a sette, tre di tipo umanistico (grammatica, retorica e dialettica) e quattro di tipo scientifico (aritmetica, geometria, astronomia e musica), eliminando, in tal modo, quelle che gli sembravano non necessarie ad un essere spirituale, cioè l’architettura e la medicina. Per alludere alle quattro discipline scientifiche Boezio usò il termine quadrivium. La classificazione di Capella venne ripresa nel Medioevo latino, dove, in età carolingia, si ebbe la distinzione - divenuta poi canonica - fra arti del «trivio» (coniato sull’esempio del boeziano quadrivium) e del «quadrivio» (per i particolari di questa vicenda cfr. H.-I. Marrou, Les arts libéraux dans l'antiquité classique, in Arts libéraux et philosophie au moyen âge. Actes du quatrième congrès international de philosophie médiévale, Montréal-Paris 1969, pp. 5-27).

Come si può notare, nella classificazione medioevale delle arti liberali non trova posto l’etica, intesa come disciplina autonoma. Anzi, quest’ultimo concetto, come ricorda Enrico Berti, appare «del tutto assurdo in età cristiana, dove le norme del comportamento morale sono ricavate direttamente dalla rivelazione e quindi l’etica fa parte non della filosofia, ma della teologia» (Le forme del sapere nel passaggio dal premodemo al moderno, in AA. VV., La razionalità pratica. Modelli e problemi, Marietti, Genova 1989, pp. 15-41, p. 25). Altrettanto assurda appare ai cristiani l’identificazione di etica e politica. Infatti, all’interno del cristianesimo, il baricentro del discorso pratico cessa di essere la politica e diviene la cosiddetta ethica solitaria o monastica - a dimostrazione del fatto che per la «salvezza» in senso cristiano non occorrono l’economia o la politica, ma la semplice virtù individuale. Accanto al modello dominante, nella tarda antichità troviamo anche la classificazione aristotelica, la quale fu attiva, sia pure in modo parziale e a titolo di filone minoritario, non solo presso autori di orientamento peripatetico (ad esempio Aspasio e Alessandro di Afrodisia), ma anche presso studiosi di tendenza platonica (Albino) o neoplatomca (Porfirio, Proclo, Ammonio). Da questi ultimi la riprese Boezio, il quale divise la filosofia in due parti, rappresentandola, nella celebre De consolatione phibsophiae (§ 172), come un’augusta matrona sulla cui tunica sono impresse le lettere theta (da theoria) e pi (da praxis).

Dopo Boezio, nell’Occidente latino l’enciclopedia artistotelica dello scibile venne completamente dimenticata. Essa sopravvisse invece in Oriente (sia arabo che bizantino) tramite cui, nel secolo XII, venne nuovamente riscoperta dagli occidentali. Con la rinascita

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dell’enciclopedia aristotelica si impose nuovamente, anche in virtù della mediazione di Domenico Gundisalvi (§ 252), la distinzione fra teoria e prassi. Inoltre comparve l’etica come disciplina distinta dalla teologia. Tant’è vero, come attestano studi recenti, che nella facoltà parigina delle artes, l’etica veniva insegnata come disciplina autonoma sin dal 1215 (cfr. G. WIELAND, Ethica - Scientia practica. Die Anfänge der philosophischen Ethik im 13. Jahrhundert, Aschendorff, Münster, 1981). Secondo uno schema che, a rigore, rappresenta una novità rispetto alla lettera del testo aristotelico - il quale si era limitato a distinguere le varie forme della phronesis in relazione all’individuo, all’amministrazione familiare (oikos) e alla polis (cfr. Et. Nie., VI, 8, 1141 b 31-33) - la philosophia practica venne articolata a sua volta in etica, economia e politica. Infatti, nelle Università, oltre alla cattedra di logica, affidata all'organicus (che insegnava logica secondo i libri dell'Organon), a quella di fisica, affidata al philosophus naturalis e a quella di metafisica, affidata al metaphysicus, vi era la cattedra dell’ethicus, che trattava l’etica, la politica e l’economia (cfr. H. Maier, Die Lehre der Politik an den älteren deutschen Universitäten, 1962, in Politische Wissenschaft in Deutschland. Lehre und Wirkung, 1969, n.e. Piper, München-Zürich 1985). Dall’economia si svilupperanno più tardi le cosiddette «scienze camerali», ossia le scienze facenti capo alla camera régis e vertenti intorno all’amministrazione del patrimonio del signore (cfr. Id., Aeltere deutsche Staatslehre und westliche politische Tradition, in Recht und Staat in Geschichte und Gegenwart, Mohr, Tübingen 1966, pp. 3-28).

Consolidatosi nella cultura scolastica delle enciclopedie e nella organizzazione disciplinare delle Università tedesche, questo modello della philosophia practica - di lontana e formale discendenza aristotelica, ma sempre più distante dai contenuti originari dell’aristotelismo - resistette a lungo, soprattutto in Germania, anche in età moderna e trovò un ultimo momento di splendore nella Philosophia practica universalis methodo scientifica pertractata (2 voli., 1738-39) di Christian Wolff.

Lo scossone decisivo a tale tradizione provenne da Kant. Infatti, se nei corsi di etica del periodo precritico il filosofo di Königsberg, sotto l’influenza di Wolff e Baumgarten, si rifaceva ancora all’antico modello, intitolando le sue lezioni Philosophia practica universalis una cum Ethica, nella Critica della ragion pratica e nella Introduzione alla Critica del Giudizio egli sanciva inequivocabilmente il distacco da esso («non devono essere considerati come filosofia pratica l’economia domestica, l’agricoltura, la politica, l’arte del condursi in società, i precetti della dietetica, e neppure la dottrina generale della felicità...»), giungendo a scorporare l’etica dal sistema delle discipline tradizionalmente attinenti alla filosofia pratica e ad assegnarle lo spazio occupato un tempo dall’etica solitaria o monastica (cfr. J. Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Surhkamp, Frankfurt a.M. 1969, trad, ital., Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 50-93 e 162-87). Tant’è vero, come ricorda Franco Volpi in un saggio che ha fatto scuola, che «Per l’influenza di Kant e del kantismo, la filosofìa pratica come oggetto di insegnamento ufficiale scomparve progressivamente dalle università tedesche a cominciare proprio da Königsberg, anche se, almeno formalmente, essa influenzò ancora gran parte della pubblicistica filosofica fino a, e addirittura dopo, Hegel. Con quest’ultimo, tuttavia, in particolare con l’assunzione a livello filosofico della separazione di società civile (bürgerliche Gesellschaft) e stato [...] e con la definitiva

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emigrazione dell’etica [...] nell’ambito dell’interiorità, la dissoluzione della filosofia pratica è da considerarsi ormai compiuta» (La rinascita della filosofia pratica in Germania, in Aa. Vv., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisco, Abano-Padova 1980, pp. 15-16).

Condizione concomitante di questo processo storico di dissoluzione della filosofia pratica è stato l’avvento di particolari saperi autonomi - come la scienza economica, la scienza del diritto, la scienza della politica - i quali hanno singolarmente sostituito, senza connessione sistematica reciproca, le discipline ormai dissanguate della filosofia pratica (Ib.). In questo contesto, un ruolo determinante è stato svolto dall’economia politica, e, più tardi, dalla sociologia, dalla psicologia e dall’antropologia culturale. Tutte scienze che hanno finito non solo per suggellare il definitivo tramonto della philosophia practica, ma anche per espropriare il sapere filosofico delle sue tradizionali funzioni conoscitive e normative in merito allo studio e all’orientamento della prassi umana.

1122. La riabilitazione della filosofia pratica: caratteri e presupposti generali.

L’espressione «Rehabilitierung der praktischen Philosophie» è stata coniata da Karl-Heinz Ilting (Hegels Auseinandersetzung mit der aristotelischen Politik, «Philosophisches Jahrbuch, LXXI, 1963-64, pp. 38-58; Hobbes und die praktische Philosophie der Neuzeit, Ib., LXXII, 1964-65, pp. 84-102) ed è stata ripresa nel titolo di una voluminosa antologia in due volumi curata da Manfred Riedel (Rehabilitierung der praktischen Philosophie, Rombach, Freiburg i.Br. 1972-74). Con essa si intende alludere a quell’ampio ed articolato dibattito che si è sviluppato nell’area culturale tedesca a partire dagli anni Sessanta e che ha avuto come tema qualificante la rinascita dell'interesse filosofico per la sfera dell’agire pratico e per i grandi temi della morale, del diritto e della politica. Interesse che inizialmente ha coinciso con una ripresa del modello aristotelico e, in seguito, di quello kantiano.

Questo movimento di «riabilitazione», anche quando si è manifestato nel rilancio di una struttura epistemica da tempo dimenticata e ormai compieta- mente in disuso, come la philosophia practica di matrice aristotelica, non si è tuttavia concretizzato in un semplice «recupero» del già detto ma nella ripresa creativa di una serie di tematiche del passato rivissute attraverso i problemi del presente. Tant’è che Rüdiger Bubner (§ 1124), per evitare che tale riabilitazione potesse venir intesa in modo riduttivo ed errato, ossia alla stregua di una semplice riesumazione dell’antico, ha proposto di sostituire «Rehabilitierung» con «Renaissance» (Eine Renaissance der praktischen Philosophie, in «Philosophische Rundschau», XXII, 1975, pp. 1-34; v. soprattutto le pp. 1-5 e 33-34). Tuttavia, se teniamo presente che il termine Rehabilitierung è ormai entrato nel linguaggio filosofico intemazionale e che esso non implica necessariamente un significato limitativo, in quanto può anche fungere da sinonimo di «rinascita» - nel senso dinamico di «ripresa rinnovante» - risulta preferibile mantenere la denominazione originaria e già consolidata.

Ogni movimento che persegua lo scopo di riabilitare o di far rinascere una tradizione interrotta sottintende quasi sempre un atto più o meno esplicito di contestazione della tradizione vigente. In altri termini, come testimonia la storia del pensiero, il riferimento al passato funge per lo più da arma critica nei confronti del presente. Ciò accade anche a

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proposito del movimento di riabilitazione della filosofia pratica, che, al di là delle sue differenziazioni interne, ha come motivo comune l’insofferenza nei confronti del paradigma moderno del sapere. Com’è noto, perseguendo l’obiettivo di una matematizzazione universale del sapere, la cultura moderna ha finito per identificare la razionalità con la razionalità scientifica, pervenendo all’equazione fra scientia e theoria, ovvero all’ideale di un sapere oggettivo metodicamente strutturato e controllato. Da ciò il tentativo di ricondurre entro l’orizzonte del sapere metodico quelle tipiche esperienze extrametodiche di verità (per usare un’espressione di Gadamer) che sono l’arte e la morale. Questo sforzo di scientificizzazione del settore pratico, che agli esordi della modernità ha condotto pensatori come Hobbes (per la politica) e Spinoza (per l’etica) ad elaborare un sistema assiomatico-deduttivo capace di spiegare more geometrico la realtà umana, ha successivamente messo capo alla trasformazione delle moral sciences nelle Geisteswissenschaften (scienze dello spirito) e all’avvento delle scienze umane, ossia a forme di sapere ispirate al modello epistemologico di una conoscenza universale ed oggettiva.

Questo processo ha poi trovato un’emblematica sanzione nella teoria weberiana dell’«avalutatività» ( Wertfreiheit) delle scienze sociali (§ 746). Infatti, se la razionalità si identifica con la scienza e la scienza si identifica con un sapere descrittivo e neutrale, ne segue, per Weber, che non si possono «formulare norme vincolanti e ideali, per derivarne direttive per la prassi» (L'«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, trad. ital. in M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 58). In altri termini, distinguendo fra la descrizione di ciò che è e la valutazione di ciò che deve essere, Weber difende la strutturale «libertà dai valori» (Wert-freiheit) delle scienze storico-sociali, che, al pari di quelle naturali, concernono soltanto la tecnica dei mezzi e non già la valutazione degli scopi: «Una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò che gli può e - in determinate circostanze - ciò che egli vuole» (Ib., p. 61). Ma proclamare l’incompetenza delle scienze in merito ai valori significa abbandonare queste ultime a delle opzioni fideistiche o metafisiche: «Giudicare la validità di tali valori è [...] una questione di fede, ed è [...] forse un compito della considerazione speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo [...] ma non è sicuramente oggetto di una scienza empirica» (Ib., p. 62). Da ciò il derisioni- smo e Γirrazionalismo che hanno finito per accompagnare, al pari di un’ombra, lo scientismo moderno. Per dirla con Habermas, il prezzo della riduzione della scienza a pura tecnica dei mezzi «è un decisionismo scatenato nella scelta dei fini ultimi», il quale sottintende «una massa di irrazionalità nell’ambito della prassi stessa» (Dogmatismo, ragione e decisione. Teoria e prassi nella civiltà scientificuzzata, trad. ital. in J. HABERMAS, Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 387-420, p. 401).

L’insofferenza verso l’ideale oggettivistico del sapere si accompagna al rifiuto della separazione moderna di etica e politica, accusata di aver provocato una morale astratta ed individualistica da un lato ed una politica puramente tecnica e pragmatica dall’altro. Infatti, nello stesso momento in cui il principio etico esce dal contesto di diritto, società e Stato ed emigra, kantianamente, nell’intimo della soggettività, la politica, secondo i teorici della «riabilitazione», cessa di essere una prassi aristotelicamente indirizzata verso la virtù e la

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giustizia dei cittadini, per divenire un’azione strategico-strumentale volta alla pura «amministrazione» dello Stato. In altri termini, a partire da Machiavelli, la politica cessa di essere una disciplina avente per scopo la «buona» condotta dei cittadini, per divenire una disciplina avente per oggetto i mezzi indispensabili all’esercizio e al mantenimento del potere. Questa impostazione «sociotecnica» coincide a propria volta con l’assimilazione e riduzione della politica ad una forma di poiesis, ossia con l’abbattimento della linea divisoria che, secondo gli antichi, separava l’agire pratico-politico da quello pratico-poietico: «Machiavelli e Moro hanno rotto la barriera tra praxis e poiesis, invalicabile nella filosofia classica» (J. HABERMAS, Dottrina politica classica e filosofia sociale moderna, trad. ital. in op. cit., pp. 77-125, p. 99). In sintesi, al paradigma epistemologico della modernità e all’ideale weberiano della Wertfreiheit corrisponde, sul piano pratico, una tecno-scientifizzazione della politica basata sulla progressiva disattenzione verso i fini e sul predominante interesse verso i mezzi.

Reagendo a questi esiti «negativi» della modernità, i fautori della Rehabilitierung sono andati alla ricerca di un modello di razionalità alternativo a quello scientifico-tecnico. In particolare, proponendosi di uscire dagli ingorghi di un tipo di sapere neutrale e neutralizzante, incapace di prendere posizione di fronte ai fini dell’agire e ai guasti dell’odierna tecnicizzazione della politica, essi si sono proposti di garantire: 1) l’originalità e l’autonomia della prassi rispetto alla teoria; 2) la specificità epistemologica e metodologica della filosofia pratica; 3) la funzione orientatrice della ragione, in campo etico; 4) la ricomposizione della frattura fra ragione e decisione, fatti e valori, mezzi e fini; 5) la portata critico-normativa e non semplicemente empirico-descrittiva del filosofare pratico; 6) il rinnovato incontro fra etica e politica, o, più in generale, fra moralità ed eticità. Come vedremo, questi tratti formali generali hanno trovato, nelle varie correnti del dibattito, differenti e talora antitetiche concretizzazioni ed interpretazioni. Ciò non toglie che essi rappresentino lo spazio teorico e problematico all’interno di cui si collocano le molteplici posizioni e soluzioni.

Questo processo di riabilitazione della filosofia pratica si è accompagnato ad «una riabilitazione della filosofia in quanto filosofia» (H. KUHN, 1st praktische Philosophie eine Tautologie? in M. RIEDEL, op. cit., vol. I, pp. 57-78). Infatti, in seguito allo smembramento della philosophia practica in varie discipline autonome, sembrava che l’area dell’agire fosse ormai di esclusiva competenza del sapere scientifico. Invece, l’evento della Rehabilitierung, suscitando nuovamente le classiche questioni dell’agire bene (eu prattein) e del vivere bene (eu zen), ha dato luogo ad un rinnovato impulso al discorso filosofico, il quale è tornato ad avanzare, per esprimerci con le parole usate da Riedel nella presentazione dell’antologia del ’72, gli interrogativi concernenti le norme dell’agire («che cosa dobbiamo fare» - «was wir tun sollen») e gli scopi del comportamento («come possiamo vivere» - «wie wir leben können) (op. dt., vol. I, Vorwort, p. 11). In altri termini, con la rinascita della filosofia pratica, che prima dell’aggettivo «pratica» presuppone il sostantivo «filosofia», il pensiero filosofico è tornato a legittimare se stesso e ad avanzare la pretesa di possedere una propria competenza specifica circa una serie di ambiti - a cominciare da quello delle «scelte di vita» - che fuoriescono programmaticamente dal territorio della scienza e dall’area della ragione ma-

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tematizzante.

Come si è già accennato, il dibattito sulla filosofia pratica si presenta come un movimento variegato, che ospita, al proprio interno, metodi e finalità di ricerca profondamente differenti, manifestamente irriducibili ad un quadro unitario (cfr. R. BUBNER, Eine Renaissance der praktischen Philosophie, cit., pp. 1-34). Da un punto di vista storico possiamo tuttavia distinguere, per quanto riguarda la genesi e lo sviluppo del dibattito, due momenti principali (cfr. F. VOLPI, Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti sulla «riabilitazione della filosofia pratica», in Aa. Vv., Teorie etiche contemporanee, a cura di C.A. Viano, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 130). Un primo momento, che trova la sua fase preparatoria negli scritti di alcuni filosofi della politica emigrati negli Stati Uniti - come Leo Strauss (§ 1123), Eric Voegelin (§ 1123) ed Hannah Arendt (§ 1123) - è maturato essenzialmente nel corso degli anni Sessanta, soprattutto in seguito all’influenza di scritti come Vita activa (1958, 1960) della Arendt, Wahrheit und Methode (1960) di Hans- Georg Gadamer (§ 1123), Politik und praktische Philosophie (1963, 1977) di Wilhelm Hennis (§ 1123) e Metaphysik und Politik (1969) di Joachim Ritter (§ 1123). Tale momento è stato caratterizzato inizialmente dalla riscoperta del- l’Aristotele pratico e, in seguito, dalla riconsiderazione del pensiero etico, giuridico e politico di Kant (§ 1125).

Il secondo momento, maturato nel corso degli anni Settanta e a partire, grosso modo, dal IX Congresso tedesco di filosofìa (1969), si è concretato, come ricorda ancora Volpi, «in una discussione corale in merito all’attualità dei problemi della razionalità pratica, nella quale hanno preso la parola più o meno tutte le principali scuole filosofiche tedesche, avanzando le loro rispettive proposte teoriche: la vecchia scuola di Francoforte di ispirazione hegelo- marxista (Theodor W. Adorno e il giovane Jürgen Habermas); il razionalismo critico (Hans Albert, Hans Lenk e in certa misura anche Ernst Topitsch); l’ermeneutica filosofica, sostenuta in pnmis da Hans-Georg Gadamer e dai suoi allievi diretti (Rüdiger Bubner, Jürgen Eckhardt Pleines), poi, in congiunzione con una teorizzazione esplicita del valore delle scienze dello spirito e con una filosofia dell 'ethos concreto, da Joachim Ritter e dalla sua scuola (Hermann Lübbe, Odo Marquard, Willi Oelmüller, Günther Bien, Rienhart Maurer), infine anche da un pensatore versatile come Manfred Riedel; il costruttivismo della cosiddetta scuola di Erlangen (fondata da Paul Lorenzen, sviluppata da Friedrich Kombartel, Jürgen Mittelstrass e Oswald Schwem- mer, poi però disunitasi); [...] la nuova scuola di Francoforte di Karl Otto Apel e dell’ultimo Habermas con il progetto di un’etica del discorso (o della comunicazione) fondata su una pragmatica trascendentale (o universale). Nel dibattito complesso che si è sviluppato [...] sono stati indotti a prendervi parte e posizione anche pensatori attivi in campi disciplinari non propriamente filosofici, come ad esempio l’etologo Konrad Lorenz (il quale, più che intervenire, fu in realtà chiamato in causa specialmente per il suo celebre saggio Das sogenannte Böse e per la sua teoria della genesi biologica delle norme morali quali residuati di regole istintuali), oppure Arnold Gehlen (per la sua fondazione antropobiologica delle istituzioni) o, ancora, il sociologo Niklas Luhmann (per la sua critica della categoria di “fine” e del paradigma di pensiero teleologico)» (op. at., p. 131).

All’interno di questo proteiforme dibattito, che ha trovato risonanza anche al di fuori della cultura tedesca, sono emersi due nuclei o filoni caratterizzanti: il primo è quello del

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cosiddetto «neoaristotelismo», il secondo è quello del cosiddetto «postkantismo».

1123. Il neoaristotelismo pratico.

Come si è visto, il dibattito sulla filosofia pratica è stato originariamente caratterizzato dalla riscoperta dell’attualità del pensiero etico e politico di Aristotele e dal correlativo farsi strada di posizioni neoaristoteliche.

Per «neoaristotelismo pratico» non si intende una scuola in senso stretto, ma piuttosto una corrente, o meglio, un’«atmosfera» di pensiero, avente come motivo comune la ripresa, in ambito etico-pratico, di posizioni aristoteliche. Tale «ripresa» non coincide affatto con una semplice riproposizione dell’Aristotele storico. Anzi, contro ogni possibile confusione fra neoaristotelismo ed aristotelismo è bene far presente sin d’ora che i neoaristotelici hanno liberamente e creativamente attinto da Aristotele - al di là di ogni passivo ossequio al sistema, e, talora, persino con qualche inesattezza o forzatura filologica nei suoi confronti - quei nuclei di pensiero che a loro stavano a cuore (cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 186-245). In particolare, oltre alla prospettazione dell’uomo nella sua triplice dimensione di teoresi, prassi e poiesi, essi hanno derivato dallo Stagirita la tesi dell’autonomia della praxis e la connessa persuasione di un autonomo statuto epistemologico dèi'episteme praktike rispetto all’episteme poietike. In altri termini, facendo leva sulla nota idea aristotelica secondo cui il sapere si dice in modi diversi, a seconda dello scopo e del genere di problemi esaminati, i neoaristotelici, in antitesi al modello unitario di ragione che ispira la cultura moderna, hanno insistito sulla pluralità e contestualità delle forme di razionalità e sulla loro congruenza con i differenti settori dello scibile: «il pensiero contemporaneo riscopre la considerazione aristotelica della prassi, perché di essa Aristotele, pur negando la possibilità di una scienza, riconosce la possibilità di un discorso razionale. E' proprio questa scoperta di una particolare razionalità, insita nella prassi, autonoma da quella razionalità teoretica, di cui, più o meno coerentemente, le scienze empiriche moderne si considerano eredi, a riportare di attualità la filosofia pratica aristotelica...» (L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi. Una analisi del dibattito sulla filosofia pratica aristotelica in Germania, Jouvence, Roma 1987, p. 10).

Da ciò la speciale attenzione che i neoaristotelici hanno dedicato alla phronesis, ossia a quella forma di sapere pratico - irriducibile alla platonica scienza del bene e all’equazione fra virtù e scienza - che si identifica con la coscienza morale stessa nel suo concreto e circostanziato esercizio. Sapere che non si riferisce solo al comportamento individuale, ma anche a quello collettivo. Infatti, ciò che qualifica l’uomo politico e lo rende capace delle scelte più appropriate al bene di tutti non è la scienza, bensì la prudenza o la saggezza, ovvero il sapere frenetico. Donde l’intreccio, tipicamente aristotelico, fra moralità ed eticità, fra etica e politica. Intreccio che i neoaristotelici, come avremo modo di constatare, fanno valere contro la morale coscienzialistica ed individualistica dei moderni, nella convinzione che il «luogo» proprio dello esser-uomini sia la polis o l’ethos.

Più che nel campo della filosofia generale, la rinascita aristotelica è avvenuta inizialmente in quel settore disciplinare specifico che è la teoria politica. E ciò in virtù di LEO STRAUSS

(1899-1973) ed ERIC VOEGELIN (1901-1985), due studiosi tedeschi emigrati in America, i cui

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scritti, apparsi dapprima negli Stati Uniti, sono stati recepiti in seguito anche in Germania. Prospettando l’esigenza di un chiarimento metodologico all’interno delle scienze sociali, Strauss - in opere come Natural Right and History (1953), What is Political Philosophy? (1960), The City and Man (1964) - arriva a mettere in discussione lo stature epistemologico della moderna teoria politica, la quale, nutrita di storicismo e positivismo, pretende essere l’unica forma di sapere legittimo. Egli polemizza soprattutto con Weber e con i contemporanei scientists della politica, biasimandoli per aver rinunciato ad interrogarsi sui fini e sui valori cui devono ispirarsi le comunità ed accusandoli di aver incoraggiato la pericolosa inclinazione a fare «irresponsabili asserzioni circa il giusto e l’ingiusto, il bene e il male» (Che cos’è la filosofia politica?, trad, ital., Argalia, Urbino 1977, p. 49; cfr. pure il secondo capitolo di Diritto naturale, storia, trad, ital., Boria, Torino 1968). A questi esiti del pensiero novecentesco Strauss contrappone una rinnovata esigenza fondativa e il bisogno di raggiungere uno spazio epistemico più vicino alla tradizione della filosofia politica classica, ossia in grado di salvaguardare la radicalità del discorso politico e la sua attitudine a discutere in modo confacente del proprio oggetto. Anche Voegelin, in The New Science of the Politics (1952), in Order and Hystory (1956-74) e in Anamnesis (1966), insiste sulla urgenza di un ritorno al modello incarnato dalla filosofia politica degli antichi e da Aristotele in primis. Anche Voegelin, in antitesi alla ratio storicistica e positivistica dei moderni, di cui egli stigmatizza gli esiti relativistici e nichilistici, avanza la necessità di procedere oltre la weberiana opposizione di fatti e valori. Anche Voegelin - il quale osserva che «Quando l'episteme è distrutta, gli uomini non cessano di parlare di politica, ma sono costretti ad esprimersi nei modi della doxa» (La nuova scienza politica, trad, ital., Boria, Torino 1968, p. 61) - si adopera a favore di una politicai philosophy che abbia la profondità di sguardo e la ricchezza di contenuto dell’antico sapere. Tante vero che egli giunge a parlare di «restaurazione», intendendo, con questo termine, non «un puro e semplice ritorno» a Platone e ad Aristotele (da lui approfonditi in Order and History III), ma un recupero della «consapevolezza dei principi» (Ib., pp. 48-49).

Accanto a Strauss e Voegelin, un’altra figura di political theorist o politicai thinker (come lei stessa si definisce) che ha contribuito in modo rimarchevole alla diffusione di posizioni neoaristoteliche è quella di HANNAH ARENDT. Come si è visto (§ 1081) in uno dei suoi scritti più noti - apparso originariamente in inglese con il titolo The Human Condition (1958) e poi in traduzione tedesca con il titolo definitivo Vita activa oder vom tätigen Leben (1960) - Arendt individua nell’«attività lavorativa», nell’«operare» e nel1’«agire» le tre fondamentali attività umane (trad, ital., Bompiani, Milano 1964, p. 13), osservando come il mondo moderno abbia focalizzato soprattutto il lavoro (ossia l’attività della mera conservazione e riproduzione della vita) e l’operare (ossia l’attività tecnica tramite cui l’uomo produce un mondo «artificiale» di cose e strumenti), trascurando invece la dimensione dell’agire (ovvero l’attività propriamente umana, che nasce dalla pluralità e dalla coesistenza degli individui). Da ciò l’urgenza di una riabilitazione del concetto aristotelico di praxis (ossia dell’agire in quanto attività distinta dalla sfera della poiesis) e l’ideale di un rinnovato equilibrio fra le attività umane, in grado di procedere oltre i limiti dello stesso concetto marxista di prassi (inficiato dall’enfatizzazione del lavoro) e di pervenire ad una adeguata elaborazione della categoria del «Politico».

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Un’altra tappa fondamentale - la più decisiva ed autorevole - del processo di riscoperta dell’«attualità» di Aristotele è quella di HANS GEORG GADAMER (§§ 960-973). In un capitolo di Verità e metodo (trad, ital., cit., pp. 363-76), Gadamer assegna alla concezione aristotelica del sapere pratico un ruolo di «modello» per la soluzione del problema ermeneutico del- Γ«applicazione» (§ 967), ossia di quel fenomeno per cui l’interprete può accostarsi all’universale (il testo) solo sulla base della propria situazione particolare (Ib., p. 376). Nell’ambito del suo denso e sfaccettato discorso, Gadamer focalizza molteplici aspetti dell’aristotelismo pratico. Innanzitutto, egli celebra il filosofo greco - presentato come «il fondatore dell’etica in quanto disciplina autonoma rispetto alla metafisica» (Ib., p. 363) - per avere respinto l’intellettualismo platonico e per aver insistito sulla differenza tra il sapere morale della phronesis e il sapere teoretico del('episteme. In secondo luogo, esalta Aristotele per aver messo in luce come il bene si presenti sempre «nella concretezza particolare delle singole situazioni» (Ib., p. 364) e per aver tracciato una rigida linea di demarcazione fra praxis e poiesis, fra sapere pratico-morale e sapere pratico-tecnico. Questi due tipi di sapere, osserva Gadamer, hanno come caratteristica comune quella di guidare l’azione. Si dirà allora che «l’uomo si progetta in base a un eidos [a un modello] di sé, allo stesso modo che l’artigiano porta in sé l'eidos di ciò che vuole fare e sa imprimerlo al materiale?» (Ib., p. 366). A questo interrogativo Gadamer risponde che l’uomo non dispone affatto di se stesso come l’artigiano dispone della materia su cui lavora (Ib., p. 367). Per cui, il sapere che l’uomo ha «di sé» e «per sé» dovrà essere un sapere che si distingue nettamente dal sapere che guida la produzione di oggetti.

Tale differenza scaturisce dal fatto che il sapere morale, pur essendo connaturato con l’uomo, non rappresenta un patrimonio «che si possiede già di per sé e che si debba solo applicare alle situazioni concrete» (Ib., pp. 368-69). Infatti, mentre le immagini-guida dell’agire tecnico sono qualcosa di determinato e di rigido, le immagini-guida dell’agire morale (i concetti di giusto, di decoro, di coraggio, di dignità, di solidarietà ecc.) hanno in sé qualcosa di indeterminato e di flessibile, ossia di costitutivamente problematico: «Ciò che è giusto, per esempio, non è pienamente determinabile in modo indipendente dalla situazione in cui io devo operare giustamente, mentre invece l'eidos di ciò che un artigiano vuol produrre è tutto già perfettamente determinato, e ciò in base all’uso a cui deve servire» (Ib., p. 369). Di conseguenza, il sapere morale non può mai avere il carattere di un sapere insegnabile e già tutto compiuto prima dell’applicazione. Infatti, esso, a differenza di quello tecnico, non può presupporre come già dati, né i fini né i mezzi, ma deve in qualche modo cercare o inventare, tramite il «lavorio» della deliberazione, sia i fini, sia i mezzi, sia il loro reciproco e circostanziato adattamento. Tant’è vero, osserva significativamente Gadamer, che nessun ampliamento del sapere tecnico potrà mai «eliminare» la necessità della deliberazione che è propria del sapere frenetico o prudenziale (Ib., p. 373). In conclusione, il sapere morale «abbraccia in una peculiarissima sintesi fini e mezzi» (Ib., p. 374) e, pur non avendo fini particolari, in quanto concerne «la vita giusta nel suo insieme», raggiunge la sua perfezione solo nel particolare: «Il saper-si di cui Aristotele parla si definisce appunto per il fatto che comporta la piena applicazione e dispiega il proprio sapere nella immediatezza della situazione data» (Ib., p. 374). Questo recupero gadameriano di Aristotele, che ha finito per influire sulle opere successive del pensatore tedesco (§ 973) e su di una vasta area della

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filosofia contemporanea, ha le sue radici remote nell’interpretazione di Aristotele abbozzata dal giovane Heidegger nei corsi universitari di Friburgo (1919-23) e di Marburgo (1923-28). Per cui, «si potrebbe dire addirittura che questi ultimi rappresentano la “preistoria” in cui sono state poste le condizioni per la recente “riabilitazione della filosofia pratica” (non a caso i pensatori che l’hanno avviata hanno seguito direttamente i corsi universitari di Heidegger o hanno avuto modo di conoscerli). Oggi sappiamo anche che le idee contenute nel capitolo di Wahrheit und Methode che illustra l’attualità dell’etica aristotelica erano già state elaborate dallo stesso Gadamer in un saggio, scritto nel 1930 ma pubblicato solo di recente, dal titolo Praktisches Wissen, nel quale è compendiata e sviluppata l’interpretazione dell’Etica nicomachea appresa nelle lezioni del giovane Heidegger» (F. VOLPI, Tra Aristotele e Kant ecc., cit., p. 138).

Fra gli «ascoltatori» di Heidegger, oltre alla Arendt e a Gadamer, vi è stato anche JOACHIM

RITTER (1903-74), che, in una serie di studi raccolti successivamente nel già citato Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel (1969), ha fornito importanti contributi sia allo studio di Aristotele sia alla ricostruzione delle vicende storiche della filosofia pratica. In questi lavori - come in Zur Grundlegung der praktischen Philosphie bei Aristoteles ( 1960, ora in Aa.Vv., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit., voi. Π, pp. 479-500) - Ritter ha posto le basi per una riabilitazione dell’idea aristotelica di ethos. Riabilitazione che rappresenta uno dei punti qualificanti dell’intero movimento neoaristotelico. L’ethos, osserva Ritter, è originariamente lo spazio abituale in cui vivono sia l’uomo che gli animali. Ciò che per il cavallo è il pascolo, per il pesce è l’acqua, per l’uomo è la città. Al tempo di Aristotele questo significato originario si era ampliato sino a comprendere non solo gli usi, i costumi, le consuetudini, ma anche le istituzioni che li sorreggono: «la casa, il culto degli dèi, i sodalizi di amici, le comunità di guerra, di festa, di sepoltura» (Metafisica e politica, cit., p. 98). L’originalità di Aristotele consiste appunto nell’aver radicato la vita morale su questo humus storico-concreto. Infatti, a differenza di Platone, che edificava la sua ideale repubblica su principi «che non hanno alcuna connessione con le consuetudini della città» e a differenza dei moderni, che sradicano la morale dalle istituzioni concrete della società, Aristotele avrebbe il merito di ricordarci, secondo Ritter, che la ragion pratica vive solo all’interno di un mondo di consuetudini già date. La sua filosofia funzionerebbe quindi come una sorta di salutare antidoto al ripiegamento moderno sulla soggettività.

Un’altra voce determinante del fronte neoaristotelico è stata quella di WILHELM HENNIS (n. 1923). In Politik und praktische Philosophie, che nell’edizione originaria (1963) porta come sottotitolo Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft, Hennis si propone di «ricostruire» lo statuto epistemologico della politologia, mediante l’individuazione della sua logica specifica. Logica che egli individua nel metodo topico-dialettico (topisch-dialektisches Verfahren) già teorizzato da Aristotele (Politik ecc., Luchterhand, Neuwied am Rhein und Berlin 1963, p. 88 sgg.). Partendo dall’idea che è «proprio di un uomo colto ricercare la precisione in ciascun genere nella misura in cui lo consente la natura della ricerca» (Et. Nie., I, 1094 b 23-25), Aristotele, ricorda il nostro autore, aveva sostenuto che le scienze pratiche, le quali si occupano del dominio del possibile, comportano un minor grado di precisione

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rispetto alle scienze teoretiche, le quali si occupano del necessario. Da ciò il carattere contingente, non-rigoroso e probabile che, secondo Hennis, accomuna la politica con la topica e la dialettica. Infatti, poiché le scienze pratiche «si muovono nell’ambito del contingente, esse ammettono una misura minore di acribia e sono “scientifiche” in misura minore delle scienze teoretiche. Le deduzioni che si possono operare in questo settore non scaturiscono da premesse necessarie ma [...] soltanto da premesse probabili, verosimili, plausibili» (Politik ecc., cit., p. 94). In altri termini, se le scienze teoretiche procedono in modo apodittico-deduttivo e muovono da principi o premesse indiscutibili, le scienze pratiche procedono in modo topico-retorico e muovono da premesse presumibili, ovvero da quelle opinioni o da quei giudizi - i cosiddetti endoxa - che, secondo il dettato aristotelico, «appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sapienti» (Top., I, 100 b 21-22). Prendendo l’avvio dal verosimile e sviluppandosi mediante un confronto fra le differenti opinioni, la topica si avvicina quindi alla dialettica socratica e alla sua mobile e mai conclusa struttura dia- logico-argomentativa.

Il privilegiamento del metodo dialettico fa si che Hennis polemizzi aspramente contro la teoria politica moderna, colpevole di aver smarrito, in virtù del suo ideale cartesiano di scienza «esatta», la peculiare razionalità delle discipline pratiche. Infatti, partendo dal presupposto che il sapere scientifico si identifichi con il paradigma del sapere in generale, i filosofi moderni sono stati costretti o a estromettere la politica dal campo della theorta vera e propria o a trattare la politica secondo quella camicia di forza che è il metodo more geometrico. La prima alternativa è rappresentata da Bacone, per il quale la politica si basa «sull’autorità, il consenso, la fama o l’opinione» e quindi fuoriesce dal quadro del sapere dimostrativo e scientifico (Politik ecc., cit., pp. 96-97). La seconda è rappresentata da Hobbes, che applicando alle scienze del comportamento il rigore delle scienze della natura e facendo dello Stato un meccanismo artificiale, mette fuori gioco la logica topico-dia- lettica, sostituendola con una logica deduttiva di tipo matematico. Da ciò l’irrinunciabile esigenza di una «riabilitazione» della filosofia pratica in grado di riproporre il nesso originario fra politica e dialettica (nel senso etimologico di «arte del dialogo») e di far tornare alla ribalta quella tradizione topico-retorica di cui sono stati solitari custodi ed interpreti figure come Vico o Burke.

L’interpretazione della topica come logica propria delle discipline pratiche e politiche ha suscitato, in Germania, un vivo interesse e ha trovato numerosi consensi (ad esempio da parte di H. Maier e G. Bien). Nello stesso tempo, ha sollevato talune perplessità critiche, di cui si è fatto portavoce di spicco HELMUT KUHN in Aristoteles und die Methode der politischen Wissenschaft (apparso originariamente sulla «Leitschrift für Politik», XII, 1965, 2 e poi nel secondo volume di Aa. Vv., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit., pp. 261-90). Kuhn polemizza con Hennis, in quanto ritiene che il metodo topico-dialettico non sia una sufficiente garanzia di scientificità, nemmeno per le scienze pratiche. Infatti, il dominio specifico della topica è il vero-simile, circa il quale non può esserci alcun genere di scienza, neppure di secondo grado. Tant’è vero che Hennis, osserva Kuhn, è riuscito a conferire una parvenza di scientificità alla dialettica, solo a patto di confondere la probabilità in senso proprio, scaturiente dalla configurazione mutevole dell'oggetto, e la probabilità come

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verosimiglianza, scaturiente dall’incapacità del soggetto a cogliere il vero in seguito al suo inevitabile aggirarsi nello spazio di opinioni contrastanti: «La probabilità in quanto probabilitas viene determinata a partire dall’oggetto [...]. La probabilità in quanto verisimilitude è invece determinata a partire dal soggetto conoscente...» (op. cit., p. 270).

Ora, mentre del probabile in senso proprio può esserci scienza (come accade nella moderna teoria della probabilità), la stessa cosa non capita del probabile in quanto verosimile: «La verosimiglianza nel significato dell’endoxon è incompatibile con la scienza. Per questo, secondo Aristotele, la dialettica non è una scienza» (Ib.). Per cui, se si vuole rimanere fedeli ad Aristotele e garantisce la scientificità della filosofia pratica non ci si deve rifare al metodo topico-retorico (al quale Kuhn assegna una funzione pedagogica e politica di secondo ordine) bensì al metodo della probabilità (Wahrscheinlichkeitsmethode). In altri termini, quando lo Stagirita afferma che nel dominio pratico la verità si manifesta «in maniera approssimativa e a grandi linee» (Et. Nie., I, 1094 b 19-21) non intende legittimare una presunta scienza del verosimile, ma soltanto una scienza di ciò che avviene «per lo più» (epi to poly), ossia di dò che, per sua stessa struttura, sta a metà fra ciò che non può essere altrimenti da come (ta me endechomena allos) e ciò che accade secondo il caso (apo tyches). Come si può notare, con questa analisi, che muove da una maggior aderenza filologica al pensiero di Aristotele, Kuhn non ha inteso rinnegare l’esigenza - posta da Hennis - di riconoscere alla filosofia pratica una specifica forma di scientificità. Ciò che egli ha voluto mettere in forse è soltanto la pretesa di rintracciare tale modello di scientificità nella topica.

Una diversa valorizzazione della topica troviamo invece in OTFRIED HÖFFE, il quale ha cercato di mostrare, in alternativa a Kuhn, che il procedimento to- pico-dialettico non implica un abbandono del piano della scienza, ma si configura piuttosto come una logica euristica, ossia come una sorta di logica della scoperta scientifica, attiva non solo nelle scienze pratiche, ma anche nelle scienze teoretiche, in particolare nella fisica e nella metafisica. Höffe è importante soprattutto per aver prospettato la possibilità di un incontro fra Aristotele e Kant. Tenendo presente la filosofia analitica, in Praktische Philosophie. Das Modell des Aristoteles (Pustet, München-Salzburg 1971), egli distingue tre livelli del sapere pratico. Il primo è il sapere morale concreto, che accompagna l’agire stesso e che si concretizza nei sittliche Urteile. Il secondo è il sapere etico-filosofico, che studia i principi dell’agire e del sapere morale, concretizzandosi negli ethische Urteile. Il terzo è il sapere metaetico, che indaga la struttura e il linguaggio delle dottrine etiche. In altri termini, il primo tipo di sapere produce i giudizi morali, il secondo analizza tali giudizi e il terzo analizza tale analisi (op. cit., p. 15). Questa distinzione serve ad Höffe per stabilire come in Aristotele si trovi sia il livello del sapere morale concreto (impersonato dalla phronesis) sia il livello del sapere etico-universale (impersonato dalla filosofia). Per quanto concerne questo secondo livello, il pensiero aristotelico assumerebbe l’aspetto di una Grundriss-Wissenschaft, ossia di un sapere tipologico volto ad individuare 1 tratti generali o schematici dell’agire, in relazione al bene e alla felicità. Sapere che, al limite, tende a configurarsi nei termini di una scienza «trascendentale» in senso kantiano. Da ciò l’ipotesi-guida di una convergenza;di fondo fra i due massimi sistemi di filosofia morale: «L’etica kantiana e l’etica aristotelica sono sotto

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questo profilo delle etiche non in concorrenza ma in corrispondenza» (Ib., p. 42).

La teoria dei vari livelli del sapere pratico è utilizzata da Höffe anche per intendere i rapporti fra ethos e filosofia. In Ethik als praktische Philosophie. Die Begründung durch Aristoteles (1972) Höffe torna sulla differenza fra il piano morale-concreto della phronesis e il piano etico-universale della filosofia, affermando che mentre la prima si muove all’interno dei costumi e dei valori della polis, limitandosi ad adattarsi ad essi, la seconda, pur non potendo prescindere dall'ethos effettivo, ha la capacità di sollevarsi, in qualche modo, al di sopra di esso e di interrogarsi criticamente sui principi dell’agire: «Il sapere, la razionalità sono diventati un criterio e perciò età, usanza e costumi dei padri hanno come tali perso la loro forza come unica ed ultima legittimazione. Il potenziamento del sapere che, al primo sguardo, appare solo come un di più teoretico, possiede dunque al tempo stesso un significato pratico» (op. cit., ora in Ethik und Politik. Grundmodelle und -problème der praktischen Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979, pp. 38-83, p. 55; cfr. L. CORTELLA, op. cit., p.64). Tutto ciò significa che la filosofia, a differenza di quanto ritiene Bubner (§ 1124), non è poi cosi impotente verso la prassi. Infatti, secondo Höffe, un atteggiamento non pratico come quello filosofico può avere, alla lunga, delle conseguenze pratiche e mettere capo ad una parziale rettifica della prassi stessa.

Al di fuori della Germania, Γinteresse per l’aristotelismo pratico è rappresentato soprattutto, per quanto riguarda l’area angloamericana, da un autore come MacIntyre (§ 1052). Anche in Jonas e nel suo programma di una fondazione metafisica dell’etica (§ 1195) sono rinvenibili suggestioni aristoteliche e neoaristoteliche (cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, cit., p 225 sgg.).

1124. Bubner: azione, ethos e filosofia.

Il maggior erede della riabilitazione della filosofia pratica dello Stagirita, ovvero il più radicale teorizzatore e difensore delle istanze dell’aristotelismo pratico nell’ambito della filosofia tedesca contemporanea è Rüdiger Bubner.

Nato a Lüdenscheid nel 1941, RÜDIGER BUBNER ha insegnato all’Università di Francoforte (dal 1973 al 1978) e di Tubinga (dal 1979). Discepolo di Gadamer e seguace del pensiero ermeneutico, si è interessato soprattutto dei problemi attinenti all’agire e al rapporto teoria-prassi. Fra le sue opere ricordiamo: Theorie und Praxis: eine nachhegelsche Abstraktion (Teoria e prassi: un’astrazione posthegeliana, 1971), Dialektik und Wissenschaft (Dialettica e scienza, 1973), Handlung, Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischen Philosophie (Azione, linguaggio e ragione. I concetti fondamentali della filosofia pratica, 1976), Zur Sache der Dialektik (La questione della dialettica, 1976), Geschichtsprozesse und Handlungsnormen. Untersuchungen zur praktischen Philosophie (Processi storici e norme di azione. Indagini sulla filosofia pratica, 1984).

Oggetto della filosofia pratica, osserva Bubner nella Prefazione all’opera del ’76, è, evidentemente, la prassi o l’agire. Eppure, nell’ambito della tradizione filosofica l’agire è rimasto uno dei concetti più oscuri: «Di rado ci si è chiesti cosa esso in verità è, mentre ogni premura andava al più onorevole compito di diffondere la ragione nella prassi» (Azione,

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ragione e linguaggio, trad. ital., Il Mulino, Bologna 1985, p. 5). Questo spiega perché il concetto di azione abbia finito per trovare la sua sede privilegiata in campo sociologico, dove è stato ridotto al concetto di «senso», lungo un variegato percorso analitico che va dalla metodologia delle scienze della cultura di Max Weber alla fenomenologia dei vissuti di Alfred Schütz, dal funzionalismo di Talcott Parsons alla teoria dei sistemi di Niklas Luhmann, dalla dottrina del-

l’agire comunicativo di Jürgen Habermas alla teoria dell’agire-lavoro di Alain Touraine. Per evitare i riduzionismi e le unilateralità disciplinari della sociologia e per prospettare in modo categorialmente corretto il significato della prassi Bubner si rifa invece alla filosofia classica e alle odierne teorie linguistiche ed ermeneutiche. Da Aristotele deriva la tesi del carattere teleologico dell’agire (che è sempre orientato ad un fine) e la distinzione fra poiesis e praxis, scaturiente dal fatto che, nel primo caso, i fini sono rappresentati da opere o da prodotti e, nel secondo caso, dall’attività stessa: «La poiesis è orientata a prodotti oggettivi che essa fabbrica, cosicché alla fine del processo produttivo esistono cose nel mondo, che sono originate dall’attività ma sussistono autonomamente rispetto ad essa. La prassi si concentra interamente sul compimento in sé, realizzando il proprio fine nell’atto. Il raggiungimento di fini pratici coincide con il compimento dell’azione, cosicché quando la prassi è conclusa non resta alcun oggetto prodotto» (Ib., pp. 61-62).

Da Aristotele Bubner trae anche il basilare concetto di phronesis, che egli considera come l’unico vero modello di razionalità pratica e di cui evidenzia la funzione mediatrice di punto di cerniera fra l’astratta universalità della regola e la contingenza dell’accadere storico: «Phronesis è la ragione che si convalida nel pratico, che media l’universalità dell’orientamento a uno scopo dell’agire con la varietà dei casi nelle situazioni mutevoli. Nell’agire la phronesis è già da sempre all’opera, e il compito della filosofia pratica è di rintracciare e diffondere nella vita vissuta questa base di razionalità» (Ib., p. 240). La manifestazione logica di questa razionalità è rappresentata dal sillogismo pratico, ovvero da un tipo di sillogismo nel quale la premessa maggiore è data dal- l’esplicitazione del fine, la premessa minore dall’individuazione dei mezzi e la conclusione dall’azione stessa (Ib., pp. 216-29 e pp. 238-42).

Dalla filosofia del linguaggio e dall’ermeneutica Bubner assimila la tesi della connessione fra parlare ed agire istituita dalla teoria dei «giochi linguistici» di Wittgenstein e sviluppata da autori come Austin e Searle. Connessione che egli, tuttavia, non supera nell’unità indifferenziata di un’identità strutturale, ma che mantiene nella dualità dei termini eterogenei che la compongono: «Solo se si tien ferma la differenza di logos e praxis diventa possibile determinare la loro connessione. Altrimenti non si chiariscono i rapporti ma si denomina un’unità indifferenziata con due nomi sonori» (Ib., p. 183).

Nell’ambito di questo discorso, che si snoda tramite una composita serie di riferimenti polemici, il risultato più importante cui perviene Bubner è la tesi dell’autonomia della prassi, ovvero la teoria secondo cui quest’ultima non dipende da criteri razionali esterni, ma da un ordine che è intrinseco alla prassi stessa e che si identifica con la sua razionalità immanente. In altre parole, secondo Bubner, le norme etiche non piovono da qualche cielo ideale o da una presunta conoscenza filosofica del bene, ma scaturiscono dalla realtà vissuta della prassi: «è

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verosimile che ogni società esistente, prima di qualsiasi intervento della filosofia, abbia già elaborato norme e sia vissuta con norme. Storicamente cioè la ragione arriva sempre troppo tardi, perché c’è sempre una rappresentazione prefilosofica del bene» (Ib., p. 184). Infatti, ribadisce Bubner in Geschicbtsprozesse und Handlungsnormen - che insiste sui nessi che intercorrono fra «processi storici» e «norme d’azione» e che fa ά(Ά’ethos il concetto centrale della filosofia pratica - il complesso delle regole in cui si incarna l’eticità concreta costituisce «un fatto sociale e storico anteriore ad ogni riflessione filosofica. Esso non è il risultato di un’etica filosofica, bensì, all’opposto, l’etica filosofica deve riconnettersi al precedente fatto dell’ethos» (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984, p. 181). Di conseguenza, ogni progetto di contrapporre la razionalità filosofica all’eticità esistente - come pretende una tradizione di pensiero che va dal platonismo all’illuminismo, dalla Sinistra hegeliana alla Scuola di Francoforte - è destinato, secondo Bubner, allo scacco e all’impotenza. Tant’è vero che nella figura utopica del filosofo-reggente, cioè dell’intellettuale impegnato a «tradurre» nella realtà una sapienza nascosta ai più, egli scorge soltanto un rovinoso ed antidemocratico pregiudizio del passato: «nelle questioni pratiche viene posta fine alla sac- cenza filosofica delegando il giudizio agli interessati. I re-filosofi non hanno più governo grazie al sapere ideale; i loro moderni successori non regnano più in nome delle comunità razionali dei ricercatori, cosi come non regnano più neppure coloro che hanno il monopolio della critica...» (Razionalità, forma di vita e storia, trad, ital., in AA. Vv., Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova 1990, p. 180).

Altrettanto improponibile appare a Bubner l’ipotesi di «un contesto di accecamento universale e ininterrotto», ossia l’idea illuministica, ripresa in chiave neomarxista dai francofortesi, di un totale «oscuramento» e di una totale «reificazione» della storia sinora trascorsa. Infatti, questo preteso «incantesimo» universale costringe la dottrina che lo manifesta ad un mortifero dilemma: «O la sua enunciazione è plausibile e quindi è esclusa la pene- trazione dell’onnipotente accecamento, e allora viene anche a mancare ogni possibilità di formulare la tesi stessa. Oppure la tesi dell’universale contesto di accecamento si può effettivamente formulare con una pretesa di verità, e allora il contesto di accecamento non può essere cosi totale come la tesi sostiene. La tesi stessa marca una delle lacune dell’accecamento e quindi, facendosi avanti, confuta se stessa» (Azione, ragione e linguaggio, cit., p. 244).

In quanto autonoma, la prassi è autonormativa e non accetta imposizioni esterne di nessun tipo, tanto meno quelle avanzate dal punto di vista della «pura» ragione. In altri termini, secondo Bubner, la prassi si prassifica tramite l’azione di chi la vive concretamente dall'interno e non tramite la speculazione di chi la giudica astrattamente dall’esterno: «Laddove si tratta di prassi il teorico non possiede assolutamente più nulla che sia superiore al soggetto agente» (Razionalità, forma di vita e storia, cit., p. 180). Questo significa che la ragion pratica non ha, dinanzi a sé, altri criteri se non quelli «palpabilmente» presenti nella prassi vissuta di coloro che meglio la incarnano: «Se si vuol sapere su cosa si misura la fattiva applicazione della ragione al- l’agire, non si vedono altri criteri se non quelli palpabilmente presenti nell’applicazione effettivamente esercitata. Questi criteri sono esemplarmente rappresentati da coloro che per convincimento generale agiscono

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razionalmente, e cioè: vivono giustamente», «La phronesis si orienta su Phronimos, vale a dire: su colui che esercita la ragione pratica» (Azione, ragione e linguaggio, cit., p. 244 e 228). Di conseguenza, Bubner si fa portavoce di una sorta di circolo pratico basato sulla tesi secondo cui «le ambizioni pratiche della ragione si devono orientare sulla ragione già divenuta pratica» (Ib., p.245; corsivo nostro). Circolo che alla mentalità ermeneutica di Bubner non appare affatto deprecabile o insensato, ma inevitabile e produttivo, soprattutto se confrontato con le «immodestie» di certa ragion pratica di matrice illuministica.

Con tutto ciò, Bubner non intende ridurre la filosofia pratica ad una passiva registrazione dell’eticità esistente. Egli prospetta infatti, alla riflessione pratica, una mansione specifica, consistente sia nella chiarificazione e nel rafforzamento delle norme etiche date (che vengono difese contro i tentativi di metterle in forse); sia nell’eliminazione delle loro contraddizioni interne; sia nell’aggiunta di altre norme, coerenti con quelle date. In ogni caso, la filosofìa pratica non porta ad una trasformazione del sistema globale dell’eticità sussistente, ma solo ad una sua consapevolizzazione ed invigorimento, ovvero, come afferma Bubner, ad una «traduzione» delle norme in massime. Traduzione mediante cui «l’individuo agente assume in prova con piena coscienza una norma a cui egli è già da tempo fattualmente sottoposto» (Geschichtsprozesse und Handlungsnormen, cit., p. 290), «Con la traduzione delle norme in massime il soggetto sperimenta modi di comportamento ai quali il singolo deve essere educato all’interno delle forme di vita [...] quest’ultimo le esperimenta poi come forme che possono essere accettate da tutti, sulla base della ragione a lui disponibile» (Razionalità, forma di vita e storia, cit., p. 179). Nonostante queste puntualizzazioni, Bubner è stato accusato, da parte dei postkantiani, di conformismo nei confronti dell’esistente (§ 1125).

1125. Il postkantismo e la disputa fra contestuale ed universalisti.

In seguito alla riabilitazione di Aristotele, e in parziale alternativa ad essa, si è avuta, nell’area culturale tedesca, una parallela riabilitazione di Kant, la quale ha dato luogo ad una serie di studi specifici da parte di autori disparati (Manfred Riedel, Karl-Heinz Ilting, Ernst Vollrath, Günther Patzig, Annemarie Pieper, Oswald Schwemmer, Otfried Höffe ecc.). Prospettando Kant come paradigma di una razionalità pratica avente ancor oggi un suo potenziale valore (sia in antitesi ad Aristotele, sia in combinazione con esso), tali studiosi, al di là delle diverse prospettive critiche e metodologiche, si sono trovati d’accordo nel sottolineare alcune posizioni tipiche del suo pensiero, quali: 1) la tesi dell’autonomia della dimensione pratica nei confronti di quella teoretica e il rifiuto di porre, alla base dell’etica, una determinata concezione metafisica del mondo; 2) il programma di una scienza pratica normativa e controfattuale, contraria alla riduzione dell’etica a semplice registrazione empirico-descrittiva delle norme storicamente presenti in una determinata società; 3) il privilegiamento dell’etica deontologica (o del dovere) a scapito dell’etica teleologica (o dei fini) della tradizione eudemonistica classica.

Sul piano teoretico, il risultato più rilevante di questa «riscoperta» di Kant - che si è accompagnata anche alla «riscoperta» del giudizio riflettente e della sua capacità di fungere da organo appropriato della scienza politica (secondo una tesi condivisa dall’ultima Arendt e

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da autori come E. Vollrath e J.E. Pleines) - è stato il «postkantismo» di Habermas (§ 1050) e Apel (§ 1130). Facendosi paladini di «un’etica kantiana riformata», tali autori si sono proposti di recuperare le istanze del criticismo all’interno di una prospettiva teorica - la cosiddetta pragmatica universale o trascendentale - basata non più sulla coscienza singola, come avveniva nel modello ancora individualistico-interioristico di Kant, bensì sui discorsi pratici intersoggettivi: «l’etica del discorso supera l’impostazione puramente interiore, monologica, di Kant, che conta sul fatto che ogni singolo intraprenda in “foro interno” (“nella solitaria vita dell’anima”, come diceva Husserl) la verifica delle sue massime d’azione [...]. Di contro, l’etica del discorso si aspetta un’intesa sulla universabilità degli interessi solo come “risultato” di un discorso pubblico condotto intersoggettiva- mente» (J. Habermas, Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, trad, ital., in Aa. Vv., Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova 1990, p. 67). Inoltre, pur muovendo da un’ottica deontologico-normativa, impegnata a sottolineare le procedure formali del discorso rispetto alle questioni sostanziali della «vita buona», essi si sono sforzati di contrapporre, all’etica kantiana dell’intenzione, un’etica critica della responsabilità (cfr., su questi temi, il capitolo su Habermas e soprattutto quello su Apel, in particolare il § 1130).

Nel quadro della filosofia odierna, neoaristotelici e postkantiani si sono fatti portavoce di esigenze contrapposte, che hanno finito per assumere la forma generale di uno scontro fra «contestualisti» ed «universalisti». I contestualisti, come si è visto (§ 1123), hanno insistito sul carattere storico, e quindi «prospettico» e «locale», della ragione, la quale, come insegna l’ermeneutica, non esiste mai allo stato «puro» ed «universale», ma solo nelle constatabili «impurità» e «particolarità» delle varie tradizioni sociali e linguistiche. Gli universalisti hanno insistito invece sulle potenzialità «decontestualizzanti» e «deprospettivizzanti» implicite nella comunicazione linguistica e quindi sulla capacità, da parte della ragione, di elevarsi al di sopra dei condizionamenti situazionali: «La strategia dell’etica del discorso, di ricavare i contenuti di una morale universalistica dai presupposti universali dell’argomentazione, è promettente proprio per il fatto che il discorso costituisce una forma di comunicazione più esigente, che travalica le concrete forme di vita, e in cui le presupposizioni di un agire orientato all’intesa vengono universalizzate, astratte e sottratte alle limitazioni, cioè estese ad una comunità di comunicazione ideale, che include tutti i soggetti capaci di parlare e di agire» (J. HABERMAS, op. cit., p. 65). In altri termini, invece di partire dall’eticità fattuale di determinate forme di vita - siano esse della polis, dello Stato o di una particolare comunità nazionale o religiosa - gli universalisti difendono la necessità di un’etica ideale e normativa che «non esprime soltanto le intuizioni di una determinata cultura o di una determinata epoca, ma vale universalmente» (Ib., p. 61). In conclusione, i contestualisti, facendo leva su Aristotele e su Hegel, tendono a privilegiare la dimensione del Sein, scorgendo nell’Ethos o nella Sittlichkeit il modo tipico o fondamentale di stare al mondo da parte degli individui, mentre gli universalisti, facendo leva sull’illuminismo e su Kant, tendono a privilegiare la dimensione del Sollen, ovvero della ragione critica e delle sue istanze normative ed emancipatrici.

Niente da stupirsi, poste queste premesse, che i contestualisti abbiano tacciato gli

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universalisti di astrattismo, formalismo e proceduralismo, ovvero di rifarsi ad un tipo di ragione incapace di cogliere la concretezza e storicità della prassi, e che gli universalisti abbiano bollato i contestualisti di relativismo e di abbandono del momento critico e fondativo del filosofare, a favore di un modello puramente constatativo e giustificativo. Da ciò l’imputazione complessiva di «conservatorismo» rivolta ai neoaristotelici. Infatti, pur riconoscendo le valenze democratiche implicite nel rifiuto di un «elitario sapere degli esperti» di marca platonica o tecnocratica, gli universalisti hanno accusato i contestualisti di venir meno ad uno dei compiti primari dell’etica - ossia la problematizzazione di diritto delle norme di fatto - e di assumere come criterio di comportamento l’ordine sociopolitico vigente e quindi i valori comunemente accettati nella varie comunità storiche. In particolare, sulla scia della polemica sollevata da Habermas contro la nuova ondata oscurantistica e conservatrice (die neue Unübersichtlichkeit), Herbet Schnädelbach ha stigmatizzato gli esiti potenzialmente reazionari di un movimento di pensiero, il quale, partendo dalla persuasione che «il bene è già nel mondo e non attende di esservi immesso da noi», finisce non solo per appiattire Aristotele su Hegel, ma anche per rinunciare a qualsiasi fondazione della morale e a qualsiasi messa in discussione dell’esistente: «Il conservatorismo di base di un tale programma etico si manifesta nei due più importanti sviluppi polemici di questo programma: nella critica dell’utopia e nel rigetto d’una fondazione ultima dell’etica» (Was ist Neoaristotelismus?, «Information Philosophie», XVI, 1986, pp. 6-25, ora in AA. Vv., Moralität und Sittlichkeit. Das Problem Hegels und die Diskursethik, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1986, pp. 38-63, p. 50).

Come si può notare, la contrapposizione è chiara ed inequivocabile (cfr. A. Da Re, L’etica tra felicità e dovere, Dehoniane, Bologna 1986). Ciò non toglie che, soprattutto in questi ultimi tempi, si sia sempre più accentuato il bisogno di cercare, fra queste due correnti del pensiero contemporaneo, dei possibili punti di incontro, capaci di attutire taluni dei loro contrasti e di conciliare talune delle loro istanze. In altri termini, come nel settore più strettamente storiografico si sono avuti dei tentativi di avvicinamento fra i due maggiori maestri della filosofia pratica - che hanno dato luogo a delle letture aristoteliche di Kant e a delle letture kantianeggianti di Aristotele (v. Höffe) - cosi, nel campo della filosofia generale, è andato sempre più imponendosi il problema di una possibile mediazione fra logos ed ethos, all’insegna di nuove prospettive di pensiero - capaci di collocarsi al di là della rigida alternativa fra le pretese forti della ragione universalistica e fondante di tipo postkantiano e le premesse deboli della ragione contestualistica e frenetica di tipo neoaristotelico ed ermeneutico. Ma questa è una vicenda tuttora in atto, sia in ambito tedesco che intemazionale.

CAPITOLO XXI.

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APEL: L’ETICA DELLA COMUNICAZIONEE LA FONDAZIONE RAZIONALE DI UNA MACROETICA

UNIVERSALISTICA DELLA CO-RESPONSABILITÀ

di Giovanni Fornero

6. Vita e opere.

L’odierna «etica del discorso» (Diskurs-Ethik) o della comunicazione trova in Apel, oltre che in Habermas, uno dei rappresentanti più significativi ed influenti sul piano internazionale.

KARL OTTO ÀPEL nasce a Düsseldorf il 15 marzo 1922. Quasi diciottenne, allo scoppio della seconda guerra mondiale presta servizio militare volontario per tutta la durata del conflitto. Dal ’45 al ’50, dopo aver ripudiato il proprio passato - «Era tutto falso ciò per cui ci eravamo impegnati», scriverà in Diskurs und Verantwortung (Suhrkamp, Frankfurt 1988, p. 374) - studia filosofia, germanistica e storia a Bonn. Alla ricerca di nuovi valori, si dice nel contempo consapevole che la modernità ha reso fragile i concetti stessi di valore e di fondamento. Il travaglio della Russia staliniana e le vicende di alcuni comunisti eterodossi, da Arthur Koestler a Milovas Djilas, lo disilludono intorno ad una prospettiva comunista. Influenzato da Rothacker e da Heidegger, nel ’50 consegue il dottorato in filosofia all’Università di Saarbrücken, con una dissertazione sul pensiero heideggeriano. Nel ’61 ottiene l’abilitazione a Mainz, con un ampio studio sull’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo italiano. Influenzato dall’ermeneutica, ma vicino alle posizioni del neomarxismo di stampo francofortese, si schiera con Habermas, contro Gadamer, a favore della «critica dell’ideologia» (§ 978). Docente all’Università di Kiel (dal ’62 al ’69) e di Saarbrücken (dal ’69 al ’72) assume nei confronti della rivolta sessantottesca un atteggiamento di moderata simpatia, non disgiunta da critiche e riserve. Infatti, se da un lato scorge nel movimento studentesco «il tempo del risveglio politico-emancipativo» (Diskurs und Verantwortung, cit., p. 378), dall’altro gli rimprovera l’intolleranza e lo scarso spirito liberal-democratico. Insistendo sul tema della intersoggettività e cercando in tale direzione un fondamento per la filosofia, Apel scopre Peirce, al quale dedicherà un intero volume, Der Denkweg von Charles Sanders Peirce (1975). Intanto, l’interesse crescente per lo stile della filosofia anglosassone lo spinge a perseguire l’ideale di una integrazione fra la tradizione ermeneutica tedesca e quella analitica di lingua inglese. Dal ’73 tiene i suoi corsi alla Goethe Universität di Francoforte e, sempre nello stesso anno, è tra i protagonisti del dibattito filosofico tedesco con il volume Transformation der Philosophie, che si basa sul convincimento dell’universalità del medio linguistico e sulla presenza di affinità essenziali tra le posizioni dell’ultimo Heidegger e quelle di Wittgenstein. Contemporaneamente porta avanti un’ampia ricerca sulle scienze sociali, in collaborazione con altri studiosi giovani e meno giovani: non solo Habermas, ma anche Wolfgang Kuhlmann, Axel Honneth, Klaus Günther, Bernard Peters e altri ancora. Nel ’76 intrattiene un’aspra, celebre polemica con Hans Albert sul problema della fondazione. Universalmente riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del nostro tempo, svolge la sua attività anche come visiting professor in numerosi atenei ed in prestigiose istituzioni internazionali, dalla New School for Social

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Research di New York alla Yale University, dal Collège International de Philosophie di Parigi all’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Nel ’90 è nominato Professore emerito a Francoforte, dove continua a portare avanti il progetto «Etica del discorso» (finanziato dalla «Deutsche Forschungsgemeinschaft»).

La produzione di Apel ammonta attualmente a quasi centocinquanta titoli fra libri, articoli e studi in volumi collettivi. Fra i suoi scritti principali (alcuni dei quali sono raccolte di saggi già pubblicati) ricordiamo: Die Idee der Sprache in der Tradition des Humanismus von Dante bis Vico (L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, 1963), Transformation der Philosophie (Trasformazione della filosofia, 1973), Die Erklären Verstehen-Kontroverse in transzendental-pragmatischer Sicht (La controversia spiegazione-com- prensione nell’ottica trascendental-pragmatica, 1979), Diskurs und Verantwortung. Das Problem des Obergangs zur postkonventionellen Moral (Discorso e responsabilità. Il problema della transizione ad una morale postconvenzionale, 1988). Per altri lavori (per lo più articoli) cfr. la Nota bibliografica.

1127.Il motivo della «fondazione ultima» e la polemica contro le tendenze antifondative della filosofia contemporanea.

Il motivo conduttore che sta alla base del pensiero di Apel e che ha caratterizzato in modo sempre più vistoso le sue ricerche è quello di una «fondazione ultima» (Letztbegründung) capace di battere in breccia le tendenze antifondative della filosofia odierna. Tendenze che egli vede paradigmatica- mente incarnate, a livello epistemologico, dalle posizioni del popperiano Hans Albert. Secondo quest’ultimo, la ricerca di un «fondamento», ovvero di un «punto d’appoggio archimedico» della conoscenza porterebbe ad una situazione aporetica, che egli, con un ironico richiamo alle peripezie del noto barone, denomina «trilemma di Münchhausen». Ecco le tre possibilità elencate da Albert:

«1. un regresso all’infinito, reso necessario dal fatto di dover risalire sempre più indietro nella ricerca dei fondamenti, ma che è in pratica irrealizzabile e non offre di conseguenza nessuna base sicura;

2. un circolo logico nella deduzione, che ha luogo per il fatto che nel processo di fondazione ci si rifa ad enunciati a loro volta da fondare, e che, essendo logicamente scorretto, non può in nessun caso condurre a fondamenti sicuri;

3. l’interruzione del procedimento a un certo punto, che in linea di principio è praticabile, ma che implicherebbe una sospensione arbitraria del principio di ragion sufficiente» (Traktat über Kritische Vernunft, Mohr, Tübingen 1969, trad, ital., in Per un razionalismo critico. Il Mulino, Bologna 1973, p. 23).

Poiché tanto un regresso all’infinito quanto un circolo logico, prosegue Albert, risultano inaccettabili, i filosofi propendono, in genere, per l’interruzione della procedura, grazie ad un principio che viene presentato come auto- evidente. In altri termini, «Si sceglie arbitrariamente un’opinione o un asserto che non sia esso stesso da giustificare, ma che, essendo posto come sicuro [...] serva a fondare tutti gli altri» (Ib., pp. 23-24). Ma una simile

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autofondazione, osserva Albert, «è propriamente un dogma» (Ib., p. 24), poiché secondo il razionalismo critico «nessuna convinzione risulta, in linea di principio, indubitabile» (Transzendentale Träumereien. Karl-Otto Apels Sprachspiele und sein hermeneutischer Gott [Fantasticherie trascendentali. Il gioco linguistico di Karl-Otto Apel e il suo Dio ermeneutico], Hoffmann und Campe, Hamburg 1975, p. 122). In conclusione, se tutto può essere revocato in dubbio e se qualsiasi affermazione é potenzialmente falsificabile, ogni pretesa fondazione «ultima» appare, filosoficamente parlando, impossibile.

Ma è proprio vero, controbatte Apel, mettendo in discussione il paradigma fallibilista, che non esistono evidenze innegabili e che di ogni presunta verità si possa, anzi si debba, criticamente dubitare? La risposta del nostro autore a questo interrogativo è rimasta costante da un capo all’altro della sua opera; evidenze ultime esistono e si identificano con quelle affermazioni che sono presupposte da ogni affermazione e che non possono venir negate senza cadere in una sorta di suicidio logico. Tali sono le evidenze connesse al fatto stesso di argomentare. Infatti, chiarisce Apel con un tipo di ragionamento che ricorda quello fatto da Aristotele a proposito del principio di noncontraddizione, chiunque argomenta seriamente ha «già da sempre» accettato l’esistenza della situazione argomentativa e di tutto ciò che essa comporta (a cominciare dall’esistenza stessa di un soggetto argomentante e del linguaggio).

Rifacendosi alla teoria degli atti linguistici (speech acts) di Austin e Searle, che egli ritiene dotata di una «rivoluzionaria rilevanza filosofica» (Il logos distintivo della lingua umana, Guida, Napoli 1989, p. 54), Apel insiste sulla tesi di una Doppelstruktur der Rede, ossia di una doppia struttura del discorso, il quale sarebbe costituito da una parte performativa (l'atto o la performance che si esegue enunciando una certa proposizione) e da una parte proposizionale (il contenuto o la proposizione enunciata). Alla luce di questa doppia struttura del linguaggio alcune proposizioni risultano chiaramente insostenibili. Chi dicesse, ad esempio, che noi dobbiamo necessariamente ammettere che noi non possiamo giungere a verità indubitabili, cadrebbe in una manifesta «autocontraddizione performativa», poiché nel primo noi affermerebbe ciò che nega nel secondo (Transzendentale Semiotik und die Paradigmen der «prima philosophia», in AA. VV., Integrale Linguistik, John Benjamins B.V., Amsterdam 1979, pp. 101-38; cfr. «Philosophie Exchange», n. 4, 1978, pp. 3-22). Analogamente, chi tentasse di negare argomentativamente l’esistenza e le regole (§ 1129) della situazione argomentativa, cadrebbe anche lui in una autocontraddizione performativa, in quanto negherebbe nella parte proposizionale ciò che nella parte performativa, ossia nell'atto argomentativo, necessariamente ammette o presuppone. Lo stesso accadrebbe a chi volesse negare la propria esistenza (cartesianamente presupposta dall’atto stesso di negarla) o quella del linguaggio (necessariamente presupposto dall’atto discorsivo con cui si tenta di metterlo in dubbio). In altri termini, le condizioni dell’argomentazione «sono come tali non aggirabili, e in questo incontestabili, per “chiunque” argomenti. La loro affermazione è “infallibile”» (Limiti dell’etica del discorso? Tentativo di un bilancio intermedio, 1987, trad, ital., in AA. VV., Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova 1990, pp. 28-58, p. 34). Tant’è che se «uno rifiuta per principio l’argomentazione [...] egli non può affatto argomentare. Egli è, come si è espresso Aristotele, “come una pianta”; ciò significa che il suo rifiuto dell’argomentazione è irrilevante per la problematica della possibilità o

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impossibilità della fondazione ultima» (Il problema della fondazione di un’etica della responsabilità nell’epoca della scienza, trad, ital., in AA. Vv., Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura di E. Berti, Marietti, Genova 1988, pp. 15-45, p. 23).

Ma se la situazione argomentativa implica l’esistenza di verità «incontestabili» e di credenze «apodittiche», vuol dire che una fondazione ultima risulta filosoficamente possibile, a patto che per fondazione non si intenda «la deduzione nel quadro di un sistema assiomatico», bensì un approccio di tipo trascendentale: «Quando nel contesto d’una discussione filosofica sui fondamenti stabiliamo che qualcosa non può per principio esser fondato perché è la condizione di possibilità di ogni fondazione, noi non abbiamo stabilito esclusivamente un’aporia nel procedimento della deduzione, bensì abbiamo conseguito un'idea nel senso della riflessione trascendentale (L’Apriori della comunità della comunicazione e i fondamenti dell’etica. Il problema d'una fondazione razionale dell’etica nell'epoca della scienza, in Transformation der Philosophie, trad. ital. parz., in Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, pp. 205-68, p. 244). In altre parole, grazie al metodo trascendentale, noi siamo in grado, secondo Apel, di pervenire «al “sapere del sapere”, certo non inteso hegelianamente come “sapere assoluto”, ma solo nel senso di un “punto archimedico” al quale il filosofo può tornare in ogni momento come al punto di partenza non oltrepassabile del suo pensiero» (Il problema dell’evidenza fenomenologica alla luce di una semiotica trascendentale, 1986, trad, ital., in Aa. Vv., Filosofia '88, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 40).

Da ciò il progetto apeliano di una riflessione «sulle condizioni, per noi già sempre presupposte, della possibilità dell’argomentazione» (L’Apriori della comunità della comunicazione ecc., cit., p. 244), ovvero di una semiotica trascendentale, intesa come studio dei presupposti a priori, universali e necessari, di ogni significare e di ogni argomentare. La costruzione di tale semiotica si accompagna ad una polemica incessante contro gli aspetti relativistici, scettici e nichilistici del pensiero contemporaneo e ad un rifiuto delle odierne prospettive di indebolimento della ragione. Prospettive alle quali Apel ha inteso contrapporre una rinnovata «fondazione della razionalità nei suoi aspetti teoretici, etici ed epistemologici» (S. PETRUCCIANI, Etica dell'argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti, Genova 1988, pp. 10 e 11). Infatti, contro coloro per i quali non vi sono pretese di validità «ma solo narrazioni o conversazioni o qualcosa del genere», Apel sentenzia che «la pretesa universale di validità è per il filosofo, come aveva visto corretta- mente Hegel, una condanna inevitabile» (Il problema dell’evidenza fenomeno- logica ecc., cit., p. 24). Del resto, le stesse tesi antifondative «continuano ad essere sostenute come tesi che rientrano nel contesto del discorso argomentativo, vengono cioè sostenute con un’esigenza universale di validità, esigenza che però dal punto di vista performativo è contraddittoria» (Ib.).

Analogamente, contro il fallibilismo, Apel sostiene l’opportunità di stabilire una differenza di principio tra le ipotesi che risultano soggette alla falsificazione e i criteri non falsificabili che stanno alla base della falsificazione stessa - pena la dissoluzione del popperismo nell’anarchismo metodologico di un Feyerabend: «il pensiero centrale del tardo popperismo ancora condiviso da Feyerabend - l’idea quasi darwiniana della proliferazione

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delle teorie e della selezione nel conflitto di teorie concorrenti - non può che perdere il suo senso positivo quando non ci siano criteri di verità e misure normativo-procedurali per la valutazione razionale delle teorie, criteri e misure, in ultima analisi, non fallibili. Se i criteri con cui si esaminano e si valutano le teorie devono avere anch’essi solo il carattere di ipotesi fallibili e quindi di ipotesi in concorrenza, allora bisogna concludere che non esiste alcun criterio per una scienza razionale, e il concetto di scienza razionale come formazione di ipotesi e verifica metodica di ipotesi, concetto già sempre presupposto dal fallibilismo in quanto migliorismo, non può che perdere, in ultima analisi, ogni senso. In questo modo, però, va perduta anche la distinzione concettuale della scienza dall’arte, ossia delle teorie scientifiche dai miti e dalle favole» (Ib., pp. 19-20). Chiarito il filo conduttore di quella «ri-trascendentalizzazione della filosofia» che sta a monte del pensiero di Apel - e che ha dato i suoi frutti più rilevanti in campo etico - seguiamone adesso le essenziali linee di sviluppo, dagli inizi della sua produzione teorica sino agli esiti più recenti.

1128.La «trasformazione semiotica del kantismo» e l’incontro fra la tra dizione anglosassone e quella continentale.

Apel si è formato nell’ambito della scuola di Rothacker e della sua riflessione «gnoseoantropologica» sulle scienze dello spirito, subendo ben presto l’influenza dell’esistenzialismo di Heidegger e dell’ermeneutica di Gadamer. Il punto focale delle sue prime ricerche è stato il tentativo di ripensare il problema kantiano (e neokantiano) delle condizioni universali del conoscere alla luce dei risultati della filosofia dell’esistenza e della raggiunta convinzione della strutturale hnguisticità della nostra comprensione del mondo (Dasein und Erkennen. Eine erkenntnistheoretische Interpretation der Philosophie Martin Heideggers, 1950; Das «Verstehen», 1955).

Questo interesse per l’apriori linguistico (Sprachapriori) si è poi tradotto, sul piano più propriamente storiografico, in un’ampia indagine sulle vicende della nozione di lingua nella tradizione umanistica europea (L'idea di lingua in Nicola Cusano, 1955; L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, 1963).

Il tema del linguaggio e della filosofia del linguaggio, intesa come una nuova prima philosophta incentrata sulle condizioni di possibilità del comprendere intersoggettivamente valido, sta anche alla base dei saggi che sono confluiti nel primo importante lavoro teorico di Apel: Transformation der Philosophie (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, trad. ital. parz., in Comunità e comunicazione, cit.). La trama di quest’opera, nella quale risultano manifesti anche i nessi con Habermas e con il neomarxismo, ruota attorno all’idea-programma di una «trasformazione» della filosofia da attuarsi tramite un «incontro» fra la tradizione europeo-continentale e quella anglo-americana, o meglio, fra quei due «poli» emblematici della cultura novecentesca che sarebbero la «filosofia analitica» (termine con cui Apel riassume il filone anglo- sassone che va da Wittgenstein a Peirce) e «l’esistenzialismo» (termine con cui egli intende non solo l’esistenzialismo in senso stretto, ma anche la fenomenologia e l’ermeneutica).

Il «luogo» di incontro fra queste due tradizioni viene individuato in una «trasformazione

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semiotica del kantismo» (già avviata da Peirce) in grado di accoglierne e sintetizzarne le rispettive istanze. Vediamo in che senso. Secondo Apel, che è stato uno dei primi autori ad insistere su questa tesi fortunata, tra la filosofia analitica e quella esistenzialistico-ermeneutica, esisterebbero dei sostanziali punti di accordo, costituiti sia dal comune rifiuto dell’impianto soggettivistico-coscienzialistico della filosofia moderna, sia dal comune privilegiamento del linguaggio, inteso non solo come ambito specifico della riflessione filosofica, ma come un nuovo paradigma all’interno del quale riformulare le questioni decisive della filosofìa. Dall’altro lato, fra i due indirizzi esisterebbero delle strutturali divergenze, esemplificate dall’istanza «trascendentale» per quanto riguarda la filosofia europea e dall’istanza «pragmatica» - nel senso della connessione fra linguaggio e forme di vita - per quanto concerne la filosofia angloamericana. Da ciò l’esigenza di coniugare l’istanza trascendentale con quella pragmatica, alla luce di una sorta di «terza via» coincidente con la sopraccitata idea della trasformazione semiotica del kantismo. Con quest’ultima si intende il fatto che, se resta vero, con Kant, che il mondo degli oggetti è costituito nelle sue strutture reggenti dall’attività trascendentale del soggetto, «questa costituzione dell’oggetto come oggetto, cioè di “qualcosa in quanto qualcosa", non avviene se non attraverso l’uso di segni, e cioè con la mediazione del linguaggio» (G. VATTIMO, introduzione a Comunità e comunicazione, cit., p. xxi).

Il passaggio dall’io trascendentale al linguaggio non accade, ovviamente, senza profonde conseguenze per il modo di concepire il soggetto trascendentale stesso, il quale non si identifica più con una qualche realtà coscienziale ma con quell’intersoggettività vivente («umano-sociale-storica») che è la comunità dei parlanti. Infatti, se il pensiero non esiste se non in quanto segnicamente espresso e la realtà se non in quanto simbolicamente interpretata, il soggetto trascendentale, a sua volta, non esiste se non sotto forma di Gespräch, ovvero di un dialogo pubblico interpersonale (essendo persuaso, con Wittgenstein, che non si possa giocare un gioco linguistico da soli, Apel polemizza continuamente con il «solipsismo metodico» della linea di pensiero che va da Cartesio ad Husserl e rifiuta in modo categorico l’ipotesi di un io «isolato»). In tal modo, il soggetto trascendentale acquista quella specifica «corposità» (o storicità) che in Kant mancava e che ad Apel è suggerita dalla lezione congiunta dell’esistenzialismo, della fenomenologia e dell’ermeneutica. Lezione che egli integra con quella proveniente dal marxismo, parlando di «una mediazione dell’idealismo trascendentale di Kant con un realismo e [...] materialismo storico della società di fatto già sempre presupposta» e di una concezione dialettica «al di qua di idealismo e materialismo storico» (La comunità della comunicazione come presupposto trascendentale delle scienze sociali, in Comunità e comunicazione, cit., pp. 171-72).

Questa linea di pensiero, che dà luogo ad una sorta di pragmatizzazione del trascendentale e di trascendentalizzazione del pragmatico (come la si potrebbe definire) trova un originale approdo nel concetto di «gioco linguistico trascendentale della comunità illimitata della comunicazione» (Ib., p. 172). Apel fa emergere il significato di tale principio tramite un confronto ravvicinato con Wittgenstein e Peirce. Rifacendosi a Charles W. Morris, egli sostiene che «nello sviluppo della filosofia analitica del linguaggio il centro di gravità si è spostato successivamente dalla sintattica, passando per la semantica, alla

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pragmatica» (Scientismo o ermeneutica trascendentale? Il problema del soggetto dell'interpretazione dei segni nella semiotica del pragmatismo, trad, ital., in Comunità e comunicazione, cit., p. 133). In altre parole, all’iniziale interesse per la relazione (sintattica) dei segni tra di loro e per la relazione (semantica) tra i segni e gli stati di cose sarebbe subentrato l’interesse per la relazione (pragmatica) dei segni con il loro interprete. La stessa cosa sarebbe avvenuta in sede epistemologica, nella quale si sarebbe verificata una progressiva accentuazione dei presupposti pratico-sociali della scienza.

Questa «svolta pragmatica» (pragmatic turn) della filosofia analitica sarebbe tuttavia caratterizzata, secondo Apel, da una radicale «ambiguità», poiché l’interesse per l’uomo in quanto «soggetto» della scienza e della funzione segnica avrebbe ceduto il passo ad una scientistica riduzione dell’uomo a «oggetto» del sapere, con la relativa prevalenza (si pensi alla psicologia, alla semiotica e alle scienze sociali americane) di schemi e metodologie fisicalistico-behavioristiche. Secondo Apel il fondamento di tale scientismo behavio- ristico, che andrebbe a parare in una paradossale «eliminazione del soggetto della scienza» (Ib., p. 136), sarebbe la proposizione 5.631 del Tractatus di Wittgenstein, secondo cui «Il soggetto che pensa, immagina, non si dà». Tuttavia, lo stesso Tractatus, affermando, proprio nella proposizione successiva, che «Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo» (5.632) fornirebbe anche lo spunto per uno sviluppo di tipo filosofìco-trascendentale alternativo a quello scientistico-behavioristico.

Questo possibile esito sarebbe presente, al di là delle perduranti ambiguità e resistenze di Wittgenstein, anche nella seconda fase del suo pensiero. Come noto (cfr. § 809), a partire dai cosiddetti Blue e Brown Books, e soprattutto nelle Ricerche filosofiche, lo studioso viennese, abbandonando la precedente teoria del linguaggio come «raffigurazione», è giunto a formulare la tesi secondo cui il significato degli enunciati risiede nel ruolo effettivo che essi rivestono nell’ambito di determinati «giochi linguistici» (dove la parola «gioco» serve ad evidenziare come il linguaggio faccia parte di determinate attività o «forme di vita» e sia governato da un insieme di regole che non hanno altre legittimazioni all’infuori di se stesse). E poiché ogni gioco, nel proprio ambito, possiede la sua legittimità, la filosofia (almeno secondo una certa lettura di Wittgenstein) non ha il compito di valutare o «trasformare» i giochi, ma solo di «descriverli», correggendo gli equivoci che sorgono dalla loro confusione. In tal modo, osserva polemicamente Apel, si finisce per imboccare la strada di un «behaviorismo metodico» che riduce i giochi, nella loro datità fattuale, a semplici «oggetti della scienza empirico-analitica» (Ib., p. 191). In realtà, prosegue il nostro autore, in quanto dati che risultano esclusivamente da osservare e da descrivere, i vari giochi presuppongono un gioco linguistico «nel cui contesto possano venire identificati e descritti» (Ib.). Quest’ultimo, se dovesse venir descritto anch’esso alla stregua di un dato oggettivo, presupporrebbe a sua volta un gioco linguistico non dato e cosi via all’infinito. In altri termini, l’esistenza di giochi linguistici empiricamente dati, postula, a monte, quella sorta di gioco di tutti i giochi che è il gioco linguistico trascendentale (Transformation der Philosophie, cit., voi. Π, pp. 162-63).

D’altra parte, insiste Apel, la filosofia deve essere capace, per principio, di una «partecipazione comprendente» a tutti i giochi linguistici dati ed essere in grado di fare un

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paragone fra essi. Ma ciò sottintende «una unità trascendentale dei diversi orizzonti regolativi» (Ib., p. 197). Unità che non può essere data, ma che nondimeno stabilisce a priori un rapporto di comunicazione tra i differenti giochi linguistici: «il filosofo e anche lo scienziato sociale comprendente deve in certo modo partecipare a tutti i giochi linguistici o forme di vita a lui “dati”, non librarsi solo al di sopra di essi e osservarli; al tempo stesso, egli deve però essere nella condizione di tenere una distanza critica nei confronti di tutti i giochi linguistici o forme di vita, affinché possa paragonarli in quanto “dati” nel mondo e non si abbandoni per cosi dire ad uno solo di essi» (Ib., p. 198). Ma ciò può avvenire soltanto in virtù di un gioco linguistico trascendentalmente presupposto «in tutti i giochi linguistici dati» (Ib.). Gioco che il filosofo viennese, incapace di prestare attenzione al proprio rapporto con i giochi che descriveva, ovvero di distinguere fra il proprio gioco linguistico filosofico e i giochi linguistici suscettibili di venir aggettivati per via descrittiva, non sarebbe stato in grado di individuare: «Wittgenstein - ha ribadito ancora recentemente Apel - non ha mai riflettuto sulla differenza di principio tra le forme di vita (poste sempre come plurali e quindi già relativizzate in quanto contingenti) e il gioco linguistico discorsivo della filosofia, al cui interno risulta possibile relativizzare le varie forme di vita contingenti e le loro certezze paradigmatiche - né ha mai rilevato questa differenza» (Autocritica o autoeliminazione della filosofia?, 1991, trad, it., in Aa. Vv., Filosofia ’91, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 48). Tutto ciò spiega le conclusioni storicistiche e relativistiche della sua filosofia del linguaggio, che si incrociano di fatto con le conclusioni dell’ultimo Heidegger, ovvero con la sua storicizzazione e relativizzazione del logos filosofico alle varie Lichtungen epocali che costituiscono la storia dell’essere (Ib., pp. 36 e 50).

Se a Wittgenstein spetta, in ogni caso, il merito di aver elaborato la nozione di «gioco linguistico», a Peirce spetta il merito di aver individuato il soggetto di tale gioco. Infatti, il filosofo americano, secondo Apel, avrebbe avuto il merito di stabilire: 1) che «non c’è conoscenza alcuna di qualcosa “come qualcosa” senza una mediazione reale dei segni sulla base di veicoli segnici materiali»·, 2) che «non c’è funzione rappresentativa alcuna del segno per una coscienza senza un mondo reale, che si deve per principio pensare come rappresentabile, cioè come conoscibile»·, 3) che «non c’è rappresentazione alcuna di qualcosa come qualcosa attraverso un segno senza interpretazione da parte d'un interprete reale» (Saentismo o ermeneutica trascendentale?, cit., pp. 141-42). In sintesi (almeno secondo il nostro autore, che di fatto integra Peirce con Royce) il triangolo semiotico teorizzato dal pragmatista americano implicherebbe l’esistenza: 1 ) dei segni; 2) di una realtà non-segnica cui essi si riferiscono; 3) di un interprete dei segni.

Tuttavia, secondo Peirce - e questa sarebbe, dal punto di vista di Apel, la sua scoperta decisiva - tale interprete non si identifica soltanto con la comunità reale, storicamente data, dei ricercatori e degli interpreti, ma anche con la comunità ideale che ogni ricercatore o interprete non può fare a meno di

presupporre come possibile soggetto della conoscenza e del consenso alla verità. In altre parole, con il suo principio del «socialismo logico», implicante un «autosacrificio» (self-surrender) dell’individuo alla collettività degli studiosi, Peirce avrebbe avuto l’acutezza di stabilire che chiunque conosce o argomenta, avanza, sia pure all’interno di una comunità

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reale, una pretesa di verità che può avere il suo compimento solo nell’ambito di un processo di ricerca perseguito all’interno di una comunità ideale priva di limiti prestabiliti e dinanzi a cui non si prospettano cose in sé inconoscibili, ma solo entità conosciute o conoscibili in the long run.

Comunità che Peirce chiama indefinite Community of Investigators e Apel comunità illimitata della comunicazione o dell’interpretazione, sottolineando come essa, in virtù del postulato d’una «persuasione ultima» garante dell’oggettività della conoscenza prenda il posto dell’io penso di Kant: «Certo si postula come soggetto una comunità reale e la conoscenza non viene intesa esclusivamente come funzione della coscienza, bensì primariamente come processo interpretativo reale, storico; tuttavia la definizione, nella direzione della critica del senso, della realtà e della verità, cosi come la fondazione della validità necessaria del procedimento argomentativo sintetico del processo di ricerca, non avviene attraverso un richiamo alla funzione effettiva, descrivibile empiricamente, della conoscenza nella comunità effettiva, bensì in riferimento alla convergenza, da postulare normativamente, dei processi argomentativi e interpretativi nella comunità illimitata. Il consensus postulato nella prospettiva della critica del senso è il garante dell'oggettività della conoscenza, che prende il posto della kantiana, trascendentale “coscienza in generale”...» {Scientismo o ermeneutica trascendentale?, cit., p. 144).

1129. La semiotica trascendentale e i presupposti dell'argomentazione.

Con il concetto del «gioco linguistico trascendentale della comunità illimitata della comunicazione» - e con quello equivalente dell’«Apriori della comunità della comunicazione» - Apel ha posto le basi per una semiotica trascendentale nel cui ambito (in virtù delle equazioni: significare = parlare = interpretare = comunicare socialmente) si sintetizzano, alla luce del motivo della «fondazione ultima», sia la svolta linguistica, sia la svolta ermeneutica, sia la svolta pragmatica della filosofia contemporanea. Tant’è vero che egli parla, indifferentemente, di «semiotica trascendentale», di «semiotica prag-matico-trascendentale» e di «ermeneutica trascendentale».

La trascendentalità del gioco linguistico apeliano risiede nel fatto che esso non rappresenta qualcosa in cui si entra con una scelta, ma qualcosa in cui esistiamo da sempre. In altri termini, il gioco linguistico trascendentale si identifica con quella struttura a priori nella quale noi tutti, in quanto esseri pensanti-parlanti-interpretanti «già sempre siamo» e grazie alla quale soltanto possiamo rapportarci al mondo e progredire nella conoscenza (cfr. Transformation der Philosophie, cit., vol. I, p. 25). Di conseguenza, tale gioco, che funziona da «metaistituzione di tutte le istituzioni», non può venir giustificato né su base induttiva né su base deduttiva, ma soltanto tramite una riflessione trascendentale in grado di portare alla luce le sue condizioni di possibilità e di validità. Condizioni che si identificano con le condizioni stesse dell’argomentazione. Infatti, in virtù della struttura semiotica della conoscenza, il parlare, ovvero il significare e l’interpretare, fanno tutt’uno con l’argomentare. Per cui, la semiotica trascendentale di Apel finisce per concretizzarsi in una teoria dell’argomentazione o dell’agire comunicativo parallela a quella sviluppata da Habermas. Teoria che si presenta a sua volta nelle vesti di una pragmatica trascendentale che - a

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differenza della pragmatica empirica, la quale si limita a chiarire le condizioni entro cui avviene fattualmente la comunicazione fra soggetti - si rivolge invece alle strutture immutabili ed universali di ogni discorso significante.

Secondo tale dottrina, chiunque argomenta in modo sensato, presuppone implicitamente alcune «pretese di validità» (Geltungsansprüche) che Habermas, come scrive Apel, ha «formulato per primo» (Limiti dell’etica del discorso?, cit., p. 33), raccogliendole nelle quattro fondamentali regole della «comprensibilità» (Verständlichkeit), «verità» (Wahrheit), «veracità» (Wahrhaftigkeit) e «giustezza» (Richtigkeit), presentandole come condizioni universali del discorso umano (cfr. J. Habermas, Che cosa significa pragmatica universale?, in Aa. Vv., Sprachpragmatik und Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1976, pp. 174-272; Id., Teoria dell’agire comunicativo, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981, 2 voli., trad, ital., Il Mulino, Bologna 1986, in particolare i capp. 1 e 3 del vol. I).

Rifacendosi sostanzialmente allo schema di Habermas, anche Apel ritiene che ogni atto argomentativo implichi un patrimonio minimale di regole, ovvero: 1) una pretesa di senso o di comprensibilità, derivante dal fatto che ogni argomentante risulta obbligato a dare un significato intersoggettiva- mente comprensibile a ciò che sostiene; 2) una pretesa di venta, derivante dal fatto che chiunque argomenta non può fare a meno di presupporre «la verità intersoggettivamente valida delle proposizioni» che usa; 3) una pretesa di veracità o sincerità, derivante dal fatto che chiunque argomenta in modo serio, accetta, per ciò stesso, di essere persuaso di ciò che dice; 4) una pretesa di giustezza o correttezza normativa, derivante dal fatto che ogni atto argomentativo è tenuto a rispettare le norme che governano l’interazione comunicativa tra partners (ad esempio, ogni argomentante è tenuto ad ascoltare l’assenso o il dissenso degli altri argomentanti e a ritirare la sua tesi ove ne venga dimostrata la falsità).

Queste «necessarie» pretese di validità (che possono venir disposte anche secondo un diverso ordine di successione) si richiamano a vicenda e risultano tutte quante indispensabili, anche se la prima, concernendo «la validità di senso intersoggettivamente identica», manifesta «una pretesa di validità ancor più fondamentale», configurandosi come «condizione di possibilità delle altre» (Il logos distintivo della lingua umana, cit., pp. 72-73). Infatti, il linguaggio poggia sulla premessa istituzionale della «validità intersoggettiva di significati atemporali», che è stata scoperta, anche se miticamente e metafisicamente ipostatizzata, da Platone (Si lascia distinguere la ragione etica dalla razionalità strategica verso lo scopo?, «Archivio di Filosofia», 51/1-3, 1983, pp. 375-434, p. 403).

Queste regole, che sono inscritte nell’atto stesso del parlare e che fungono da metaregole di tutte le regole fissabili convenzionalmente, implicano, a loro volta, una serie di postulati trascendentali che funzionano da «passato prossimo aprioristico» di ogni e qualsiasi argomentazione. Tali sono i postulati ai quali abbiamo già avuto modo di accennare (§ 1127), come ad esempio l’esistenza di un gioco linguistico pubblico (e quindi l’esistenza di altri soggetti argomentanti e di un mondo reale conoscibile)·, la possibilità di pervenire ad un accordo sul senso e la validità degli enunciati nello spazio di una comunità illimitata della comunicazione idealmente aperta a tutti i parlanti e scevra di condizionamenti materiali e ideologici; la pariteticità dei soggetti argomentanti, che devono essere considerati come aventi eguali diritti e doveri·. «nella comunità dell’argomentazione si presuppone il

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riconoscimento reciproco di tutti i membri come partners di eguale diritto alla discussione [...] Detto altrimenti: tutti gli esseri capaci di comunicazione linguistica debbono essere riconosciuti come persone, poiché essi sono, in tune le loro azioni e manifestazioni, partners virtuali della discussione» (L’Apriori della comunità della comunicazione ecc., cit., p. 239). Da ciò la portata strutturalmente etica e democratica della teoria dell’argomentazione - sulla quale Apel è venuto insistendo in modo sempre più marcato nell’ultimo periodo del suo pensiero.

1130. Dalle morali tradizionali alla «macroetica planetaria».

Apel è persuaso che l’umanità di questa nostra «unificata civiltà planetaria» si trovi dinanzi ad una situazione paradossale, derivante dal fatto che mai come ora si è avvertita la necessità di una «macroetica planetaria» e mai come ora si è constatata la sua assenza. Infatti, osserva il nostro autore, se si distingue fra un microambito (famiglia, matrimonio, vicinato), un mesoambito (il piano della politica nazionale) ed un macroambito (il destino complessivo dell’umanità), si può facilmente rilevare che le norme morali attualmente efficaci presso tutti i popoli sono ancora sempre concentrate nel microambito, mentre il macroambito degli interessi vitali sembra affidato a pochi iniziati (cfr. L'Apriori della comunità ecc., cit., pp. 206-7). Inoltre, per quanto riguarda le morali tradizionali, esse appaiono connesse a particolari visioni metafisico-religiose del mondo e risultano ancorate a specifici contesti geogra- fico-culturali, al punto da configurarsi come altrettante «morali di gruppo», prive di universalità effettiva e in tendenziale conflitto tra di loro (cfr. Può il punto di vista postkantiano sulla moralità venir «superato» ancora una volta nell’eticità sostanziale?, in AA. VV., Moralität und Sittlichkeit, Suhr- kamp, Frankfurt 1986, pp. 217-64, in particolare p. 224).

Assente di fatto, l’auspicata etica universale sembra anche compromessa di diritto dalle tendenze di pensiero che si ispirano al paradigma della razionalità scientifica. In altri termini, quella stessa scienza che, in virtù delle sue conseguenze tecnologiche, pone l’esigenza di una «macroetica planetaria» atta a regolare i rapporti umani al di là delle varie culture e visioni del mondo, sembra anche decretare l’impossibilità di un’etica razionale intersoggettivamente valida. Infatti, partendo dal presupposto che la scienza tratta esclusivamente di fatti e che, secondo la legge di Hume, non si possono ricavare norme dai fatti, la filosofia analitica giunge alla conclusione che «non è possibile la fondazione scientifica di uri etica normativa» e che le proposizioni morali si debbono ricondurre «a reazioni irrazionali, emotive, o a decisioni arbitrarie parimenti irrazionali» (L'Apriori della comunità ecc., cit., p. 208). Per cui, razionalmente fondabili, appaiono non le norme etiche stesse, ma soltanto le loro descrizioni avalutative. In altre parole, all’etica filosofica tradizionale di tipo prescrittivo finisce per subentrare, a titolo di unica via legittimamente percorribile, una «metaetica analitica» che considera se stessa come «una descrizione epistemologica avalutativa dell’uso linguistico o delle regole logiche del cosiddetto “discorso morale”» (Ib., p. 208). A loro volta, le scienze umane, aggiungendo una specie di argomento supplementare «empirico» a favore della postulata soggettività ed irrazionalità del fatto etico, sembrano pervenire alla conclusione che «le norme morali riconosciute o seguite praticamente dagli uomini sono in ampia misura

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relative alla cultura o alle epoche, cioè, di nuovo [...] soggettive» (Ib.).

Niente da stupirsi, poste queste premesse, che in Occidente si sia prodotta una sorta di «divisione del lavoro» tra filosofia analitica (cui spetta il campo della conoscenza oggettivo-scientifica) ed esistenzialismo (cui spetta l’ambito delle scelte etico-religiose). Divisione che si configura come il riflesso filosofico-ideologico della spaccatura moderna fra ambito pubblico ed ambito privato. Reagendo a questa situazione, che ha finito per favorire la diffusione di forme generalizzate di relativismo e di nichilismo (di cui sarebbero espressione anche i teorici del post-moderno e i fautori della cosiddetta «de-trascendentalizzazione della filosofia»), Apel, conformemente al metodo della fondazione ultima (§ 1127) e ai risultati della semiotica trascendentale (§§ 1128-1129), persegue invece l’obiettivo di una giustificazione razionale ed universale dei principi dell’agire, in grado di fungere da «confutazione dello scetticismo e del relativismo etico» e da legittimazione del «moral point of view» (Limiti dell’etica del discorso?, cit., p. 31).

L’argomento apparentemente più forte della filosofia contemporanea contro la possibilità di una fondazione razionale ultima, osserva Apel, risiede nella tesi secondo cui, non potendosi fondare razionalmente la ragione, in quanto ciò implicherebbe un «circolo logico», si dovrebbe ricorrere (v. Popper), ad un act of faith nel criticist frame, ovvero ad una pre-razionale, e quindi irrazionale, «decisione ultima» a favore della ragione e del suo esercizio. In realtà, incalza Apel, noi non ci troviamo a decidere pre-razionalmente fra ragione e non-ragione, fra argomentazione e non-argomentazione, poiché vivendo immersi nel gioco linguistico trascendentale ci muoviamo sin dall’inizio, e in linea di principio, nell’ambito del lògos e delle sue regole. In altri termini, chiunque argomenti, anzi chiunque dica semplicemente qualcosa di sensato, «questi ha necessariamente già accettato il punto di vista della ragione» (Il problema della fondazione di un'etica della responsabilità ecc., cit., p. 23), ovvero «le norme della ragione argomentativa» (Limiti dell’etica del discorso?, cit., p. 38). Certo, ammette il nostro autore, ognuno di noi ha il potere, tramite una decisione «oscurantista», di abdicare di fatto alla propria ragione e alla propria competenza comunicativo-argomentativa. Ma in questa maniera finiamo per auto-annullarci come uomini, riducendoci alla stregua della «pianta» di aristotelica memoria o ad un caso di psicopatologia clinica: «A parlare in concetti speculativo-teologici, afferma Apel con un singolare paragone, si potrebbe dire che il diavolo [l’oscurantista] può diventare indipendente da Dio [dal gioco linguistico trascendentale] solo attraverso un atto di autodistruzione» (L’Apriori della comunità ecc., cit., p. 251). In sintesi, secondo Apel, la scelta della razionalità non si gioca al di fuori della razionalità - come se noi ci trovassimo originariamente in una «buridanica» situazione di scelta fra la ragione e il suo contrario - ma all’interno della razionalità stessa, ossia nei termini di una ratifica cosciente, o di una convalida volontaria, di ciò che, in quanto esseri pensanti-parlanti-comunicanti, cioè in quanto uomini, siamo da sempre.

La possibilità di una fondazione razionale della ragione e della situazione argomentativa fa tutt’uno, in Apel, con la possibilità di una fondazione razionale dell’etica. Infatti, le regole a priori dell’argomentazione (si pensi ad esempio ai principi della veracità e della giustizia) non hanno soltanto una portata logico-linguistica, ma anche un valore potenzialmente etico-normativo. In particolare, la regola che prescrive la necessità di risolvere, mediante un

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confronto argomentativo di tipo dialogico, tutti i possibili conflitti d’interesse fra gli esseri umani assume la forma di una norma etica fondamentale (ethische Grundnorm) in grado di fungere da principio di legittimazione e da criterio di verifica di tutte le norme: «Il senso dell’argomentazione morale si potrebbe esprimere senz’altro nel principio - non proprio nuovo - secondo cui tutti i bisogni degli uomini - in quanto pretese virtuali - devono trasformarsi in richieste della comunità dell’argomentazione, che si possono armonizzare, per il tramite dell’argomentazione, con i bisogni di tutti gli altri. Mi sembra che cosi si sia indicato il principio fondamentale di un’etica della comunicazione, principio che rappresenta al tempo stesso il fondamento - inizialmente mancante - di un’etica della formazione democratica della volontà mediante accordo (“convenzione”). La norma fondamentale indicata [...] obbliga tutti coloro che, attraverso il principio di socializzazione, hanno conseguito la “competenza comunicativa” a ricercare, in ogni occasione che investa gli interessi (le pretese virtuali) degli altri, un accordo, allo scopo d’una solidale formazione del volere...» (Ib., p. 260). Tale norma presuppone evidentemente che tutti gli individui abbiano gli stessi diritti alla discussione, ovvero il già menzionato principio della pariteticità degli argomentanti.

Ma poiché, a livello concreto, questo non accade, o accade in modo insoddisfacente, il principio della comunità illimitata della comunicazione - o, per dirla nei termini di Habermas, la «situazione discorsiva ideale» - assume il valore di un principio regolativo in senso kantiano e blochiano, ovvero di un polo positivo ideale «controfattualmente» opposto al polo negativo reale della comunicazione quotidiana. Da ciò la tendenza democratica ed «emancipative» dell’etica del discorso, che si integra con la «critica dell’ideologia» (cfr. § 978), ossia con lo smascheramento degli interessi materiali che si oppongono al perfetto «intendersi» fra gli individui, generando forme distorte di coscienza sociale. Smascheramento che, come testimonia il caso della psicanalisi e del marxismo, procede ponendo la «spiegazione» al servizio della «comprensione, ossia passando attraverso un’integrazione organica fra le due metodologie contrapposte dell'Erklären e del Verstehen (per un approfondimento del punto di vista di Apel, che contesta sia l’ideale neopositivistico di una «scienza unificata», sia la prospettiva di un’antitesi pura e semplice fra le due metodologie, cfr. S. PETRUCCIANI, op. cit., pp. 112-46).

All’interno di questa strategia critica, Apel si propone, da un lato, di assicurare la «sopravvivenza del genere umano come sopravvivenza della comunità reale» e, dall’altro, di realizzare la comunità ideale «entro quella reale», con la precisazione che se la prima «è la condizione necessaria della seconda», quest’ultima «dà alla prima il suo senso» (L’Apriori della comunità ecc., cit., p. 265). In altre parole, l’appello alla comunità ideale tende a colorirsi, almeno per quanto concerne una prima fase del pensiero di Apel, di tinte inequivocabilmente neomarxiste·, «il nostro approccio, è [...] in grado di accordare una funzione eticamente fondata alla strategia di un marxismo, o meglio neomarxismo, non ortodosso, non già dogmaticamente deterministico, bensì umanistico-emancipativo e, per cosi dire, ipotetico-sperimen- tale. Infatti, è chiaro che il compito della realizzazione della comunità ideale della comunicazione implica anche il superamento della società divisa in classi, implica, detto nei termini della teoria della comunicazione, l’eliminazione di tutte le

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asimmetrie, socialmente condizionate, del dialogo interpersonale» (Ib., pp. 265-66).

Questo, in sintesi, il discorso svolto da Apel in Transformation der Philosophie (1973). Negli scritti successivi, egli è andato ulteriormente approfondendo la sua proposta, sia mediante una maggior precisazione dell’identità filosofica della propria teoria, sia mediante uno sviluppo dell’etica comunicativa in direzione di un’etica della responsabilità, sensibile non solo alla «parte A» dell’etica (quella relativa ai principi e alla fondazione ultima) ma anche alla «parte B» (quella relativa ai criteri dell’applicazione storico-concreta). Il punto di arrivo di queste ricerche è il poderoso volume Diskurs und Verantwortung (Discorso e responsabilità, 1988), in cui sono raccolti i principali interventi degli ultimi anni (alcuni dei quali sono tradotti anche in italiano).

In questi lavori, Apel tematizza l’etica comunicativa mediante una serie di connotazioni categoriali interconnesse. Innanzitutto, l’etica della comunicazione è di natura cognitiva, poiché, opponendosi ad ogni forma di decisionismo, ritiene che i giudizi morali non si limitino ad esprimere disposizioni sentimentali o irrazionali, ma posseggano un contenuto di verità suscettibile di valutazione intellettiva. In secondo luogo, l’etica della comunicazione è di natura formale, poiché non stabilisce delle norme materiali e situazionali, ma soltanto il principio procedurale del discorso paritetico e della mediazione razionale degli interessi. In terzo luogo, l’etica della comunicazione è di natura universale e postconvenzionale, poiché non intende rappresentare il punto di vista o le convenzioni di un determinato gruppo etnico o sociale (ad esempio quello della borghesia dell’Occidente), ma pretende valere per tutti gli esseri ragionevoli. In quarto luogo, l’etica della comunicazione è di natura postkantiana, poiché, pur accettando l’impostazione trascendentale ed universalistica della morale critica e pur facendone valere le istanze nell’ambito del pensiero odierno, si distingue da quella del filosofo di Königsberg sia per l’assenza di ogni indicazione metafisica (come la teoria dei postulati e dei due mondi) sia per una serie di motivi interconnessi.

Kant, che si muove ancora nell’ambito del paradigma coscienzialista, affida al singolo individuo il compito di «dedurre» - tramite il principio di universalità incarnato dall’«imperativo categorico» - le norme materiali relative alla situazione. Apel, che si muove invece all’interno del paradigma semiotico e comunicativo, ritiene che la fissazione delle norme concrete e il giudizio circa la loro conformità o meno al principio etico fondamentale non siano delle questioni che il singolo individuo possa risolvere da solo, nell’ambito della propria riflessione interiore, bensì delle incombenze che esigono di essere affrontate all’interno dei «discorsi pratici» intersoggettivi, ossia in maniera democratico-consensuale. Infatti, precisa Apel, l’etica comunicativa, a differenza dell’etica «monologico-formale» del criticismo, è in grado di fornire una mediazione tra il principio formale di universalità e la fondazione di norme materiali, perché, a differenza di Kant: «non pone primariamente al singolo [...] il compito di accertare in esperimento di pensiero quali delle sue massime sono appropriate [...] L’etica del discorso indirizza piuttosto il singolo sin dall’inizio alla “partecipazione ai discorsi reali” in cui può essere raggiunta la migliore “intesa” possibile sugli “interessi reali”» (Limiti dell'etica del discorso?, cit., p. 43). Proprio per questo «essa non può e non vuole fondare direttamente norme riferite a situazioni o addirittura concrete direttive d’azione, ma vuole delegarne la fondazione ai discorsi dei soggetti coinvolti (o ai

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loro rappresentanti)» (Ib., p. 32).

In tal modo, Apel distingue due livelli di fondazione delle norme morali: uno è quello di primo grado, costituito dal principio formale-procedurale della Grundnorm, la quale postula la possibilità di un dialogo paritario e di una composizione discorsiva degli interessi, grazie ad individui disposti a ragionare in modo imparziale e a non riconoscere altra forza se non a quella, razionalmente motivante, dell’argomento «migliore»; l’altro è quello di secondo grado, che si realizza concretamente tra i soggetti coinvolti nell’argomentazione. Per cui, come osserva Roberto Mancini, in Apel le convenzioni e gli accordi fissati socialmente risultano «ridimensionati e valorizzati ad un tempo. Ridimensionati, perché la fondazione ultima dell’etica resta com-

pito del riconoscimento riflessivo del principio della comunità della comunicazione come norma incontrovertibile e non deducibile da accordi contingenti; valorizzati, perché ad accordi e convenzioni spetta il rango di una fondazione di secondo grado, visto che la valutazione e la decisione delle norme concrete da adottare può emergere solo dal contesto discorsivo che si configura di volta in volta. L’importante è che la discussione intersoggettiva si sviluppi in conformità alla norma procedurale dell’etica comunicativa» (Linguaggio e etica. La semiotica trascendentale di Karl Otto Apel, Marietti, Genova 1988, p. 159).

All’interno del secondo livello di fondazione, Apel - preoccupato di salvaguardare «il raggio d’azione più vasto possibile alla correggibilità dell’esperienza umana» - recupera anche le istanze del fallibilismo (respinto nel primo livello di fondazione), affermando che le norme proposte nell’ambito dei «discorsi pratici», a differenza del principio formale-procedurale che serve alla loro legittimazione («il quale non può essere esso stesso fallibile»), sono sempre fallibili e correggibili (cfr. Limiti dell'etica del discorso?, cit., pp. 32-33; Fallibilismo, teoria consensuale della verità e fondazione ultima in AA. VV., Philosophie und Begründung, Suhrkamp, Frankfurt 1987, pp. 116-211). L’etica del discorso si differenzia da quella criticistica anche perché, a differenza dell'etica kantiana dell’imperativo categorico, non si riduce ad un’etica della «volontà buona» o dell’«intenzione» (nel senso di Max Weber), ma si pone anche, esplicitamente, come «un’etica della responsabilità rispetto alle conseguenze». Infatti, puntando ad una trasformazione dell’etica trascendentale capace di tener conto della critica al «formalismo» e all’«astrattismo» kantiano operata da Hegel, dall’utilitarismo anglosassone e, da ultimo, da Hans Jonas (§ 1195), Apel insiste sull’opportunità di riformulare l’imperativo categorico secondo i parametri di un’etica della responsabilità capace di tener conto dei fini e delle conseguenze dell’azione. Partendo dal principio di universalizza- zione (U) proposto da Habermas («Ogni norma valida deve adempiere la condizione che le conseguenze e gli effetti secondari che derivano presumibilmente dalla sua “universale” osservanza per il soddisfacimento degli interessi di “ogni” singolo, possano venir accettati senza coercizione da “tutti” i soggetti coinvolti»), Apel perviene al seguente principio: «Agisci solo secondo la massima di cui tu puoi postulare, in esperimento di pensiero, che le conseguenze e gli effetti secondari che derivano presumibilmente dalla sua universale osservanza per la soddisfazione degli interessi di ogni singolo soggetto coinvolto, possano venire accettati senza coercizione in un discorso reale - se potesse venir condotto insieme ai soggetti coinvolti - “da parte di tutti i soggetti

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coinvolti”» (Limiti dell'etica del discorso?, cit., p. 44).

In concomitanza con l’elaborazione di questa etica della responsabilità, Apel si è mostrato sempre più sensibile al problema (tuttora al centro delle sue riflessioni) dei rapporti fra l’agire strategico-strumentale proprio del mondo della vita (in cui il soggetto tende ad applicare la propria razionalità strumentale ad altri soggetti e a far valere, secondo l’assunto del Trasimaco platonico, «il diritto del più forte o del più furbo») e l’agire comunicativo-morale. Problema che egli ha cercato di risolvere mediante il cosiddetto principio E, cioè con il principio di integrazione (Ergänzungsprinzip), il quale stabilisce il dovere di individuare un possibile punto di incontro fra agire strategico e agire morale, in modo da porre il secondo al servizio del primo (cfr. Può il punto di vista postkantiano sulla moralità ecc., cit., p. 248).

All’interno di questo percorso teorico, Apel, pur continuando ad essere fautore di un pensiero progressista e riformatore, ha finito sia per prendere le distanze dalle posizioni utopiste e neomarxiste degli anni ’60 e 70, sia per accentuare il proprio interesse verso la democrazia politica e le sue norme procedurali. Infatti, conformemente all’indirizzo formalistico della propria dottrina, egli ha precisato che l’etica del discorso «non può e non vuole [...] come Platone e tutti gli autori di utopie dopo di lui, prescrivere agli uomini una forma totale di vita, nel senso dell’unità di giustizia, virtù e felicità, oppure, come Hegel, concepirla come necessaria “realtà dell’eticità sostanziale”» (Limiti dell’etica ecc., cit., p. 30; Può il punto di vista postkantiano ecc., cit., p. 252). In altri termini, l’etica del discorso, secondo Apel, non ha il compito di stabilire una utopia «sostanziale» di società futura, ma soltanto un quadro «formale» nel cui ambito le diverse teorie circa la «vita buona» e la «vita felice» hanno modo di confrontarsi in modo pluralistico e dialogico. Quadro che coincide, in definitiva, con le istituzioni dello Stato democratico di diritto, il quale, pur con tutte le sue imperfezioni funzionali, costituisce la migliore «approssimazione» ai requisiti normativi della comunità illimitata della comunicazione, cioè all’ideale regolativo di una società in grado di risolvere in modo razionale e pacifico, tramite la pubblica discussione, i conflitti di interesse fra i suoi membri.

Come si vede, il pensiero di Apel presenta, rispetto a quello di Habermas, delle constatabili «affinità», che non implicano tuttavia delle «dipendenze» a senso unico, ma, semmai, dei reciproci e fecondi influssi. Tant’è vero che Habermas, nella prefazione a Moralbewußtsein und Kommunikative Handel (1983), scrive che «fra tutti i filosofi viventi, nessuno ha determinato l’orien- tamento delle mie idee in modo più persistente che Karl-Otto Apel» (trad, ital., Elica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 3). Ciò non toglie che fra le prospettive dei due filosofi esistano delle profonde differenze. Infatti, pur insistendo sul nesso linguaggio-etica, che rappresenta il presupposto comune dell’etica del discorso, la quale muove dalla persuasione che al linguaggio sia immanente il telos dell’intesa, i due studiosi si diversificano tra di loro - oltre che per la tendenza di Apel di passare dalla «parte A» alla «parte B» della morale - per la dissimile interpretazione filosofica di tale nesso. Apel, come sappiamo, lo interpreta nei termini di una «fondazione ultima» di tipo riflessivo-trascendentale. Habermas, invece, sempre sospettoso nei confronti delle pretese «fondative» della filosofia e delle varie forme di «deduzione trascendentale», lo interpreta alla stregua di un’ipotesi scientifica ad alto livello di generalizzazione. Da ciò la differente qualifica delle

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rispettive dottrine: pragmatica trascendentale in Apel, pragmatica universale in Habermas.

Come si può notare, si tratta di un’alternativa netta. Infatti, il tentativo di erigere l’edificio dell’etica comunicativa sul terreno mobile delle «generalizzazioni empiriche» - anziché su quello granitico delle «certezze a priori» rischia di far franare, a giudizio di Apel, tutta la costruzione, o, per lo meno, di renderla estremamente vulnerabile agli assalti di quel relativismo culturale e morale contro cui essa ha voluto erigersi a solido baluardo: «trovo nel mio amico Habermas una “falsa” modestia, che di fronte allo scetticismo e relativismo predominanti è si comprensibile, ma proprio nei loro confronti inutile e non opportuna» (Limiti dell’etica del discorso?, cit., p. 32). In conclusione, se l’etica del discorso è l’etica di quella particolare forma di comunicazione che è 1’«argomentazione», essa ha senso, secondo Apel, solo all’interno di una prospettiva trascendentale strutturata nei termini di una razionalità forte.

CAPITOLO XXII.

LÉVINAS: DAL MEDESIMO ALL’ALTRO.L’ETICA COME FILOSOFIA PRIMA

di Giovanni Fornero

1131. Vita e opere.

La tradizione culturale ebraica e le tematiche della relazione e dell'alterità, già attive in Rosenzweig e Buber, danno luogo, in Lévinas, ad una nuova e pregnante sintesi teorica.

EMMANUEL LÉVINAS (o LEVINAS, come preferiscono scrivere taluni) nasce il 30 dicembre 1905 a Kaunas, in Lituania, da genitori della piccola borghesia ebraica. Nel 1917, in Ucraina, è raggiunto dai bagliori della Rivoluzione d’Ot- tobre. Nel 1923 emigra in Francia insieme alla famiglia e inizia gli studi di filosofia nell’Università di Strasburgo. Nel 1928-29 soggiorna a Friburgo, dove ha modo di avvicinare Husserl e Heidegger, che egli sarà fra i primi ad introdurre in Francia. Nel 1930 passa alla Sorbona di Parigi, laureandosi con Jean Wahl. Chiamato alle armi nel 1939, viene fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento, soffrendo in prima persona «l’orrore nazista» e la passione del popolo ebreo. Tornato in Francia, collabora al Collège Philosophique di Wahl, ma (sorta di anti-Sartre) non si lascia coinvolgere dalle mode filosofiche e politiche del momento, né dall’esistenzialismo, né dal marxismo, né dal movimento comunista («rimanere non comunista significa conservare la propria libertà di giudizio in uno scontro di forze»), né dallo strutturalismo («l’ateismo moderno non è la negazione di Dio, è l’indifferentismo assoluto di Tristi Tropici: penso che questo sia il libro più ateo scritto ai nostri giorni, il libro assolutamente più disorientato e il più disorientante») né dalla contestazione («Nel 1968, avevo l’impressione che tutti i valori fossero messi in forse come borghesi. Era impressionante. Eccetto uno: Altri»). Lontano dagli umori e dai rumori del tempo, aspetta pazientemente la sua ora, che verrà soltanto negli anni Settanta-Ottanta. Intanto continua la sua instancabile attività di studioso e di docente. Direttore della Scuola Normale Israelita

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Orientale (1946-61), insegna poi nelle Università di Poitiers (1964- 67), di Paris-Nanterre (1967-73) e alla Sorbona (1973-76). Dottore honoris causa in parecchi atenei, membro delTInstitut International de Philosophie, Lévinas è attualmente uno degli autori più letti e tradotti del mondo e può essere considerato, a buon diritto, come «uno dei filosofi essenziali di questa fine del secolo ventesimo» (S. Malka).

Fra le sue opere ricordiamo: La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (La teoria dell’intuizione nella fenomelogia di Husserl, 1930), De l’évasion (L’evasione, 1935-36), De l’existence à l'existant (Dall’esistenza all’esistente, 1947), Le temps et l’autre (Π tempo e l’altro, 1948), En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, 1949, 2* ed. ampliata 1967), Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité (Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, 1961), Difficile liberté. Essais sur le judaïsme (Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, 1963 , 2‘ ed. ampliata 1976), Quatre Lectures Talmudiques (Quattro letture talmudiche, 1968), Humanisme de l'autre homme (Umanesimo dell’altro uomo, 1972), Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, 1974), Nomes propres (Nomi propri, 1975), L’au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques (L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, 1982), De Dieu qui vient à l’idée (Di Dio che viene all’idea, 1982), Éthique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo (Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, 1982), Transcendance et intelligibilité (Trascendenza e intelligibilità, 1984), Hors Sujet (Fuori dal Soggetto, 1987).

1132. Verso la filosofia dell'alterità.

Alla base del pensiero di Lévinas, come egli stesso ha riconosciuto in più occasioni, vi è una serie di influssi disparati, che vanno dalla Bibbia («Il Libro dei libri, dove si dicono le cose prime, quelle che dovevano essere dette perché la vita umana avesse un senso») ai grandi scrittori russi («Puskin, Lermontov, Gogol, Turgeniev, Dostoevskij e Tolstoi»); da Shakespeare («mi sembra talvolta che tutta la filosofia non sia altro che una meditazione di Shakespeare») ai molteplici filosofi avuti o eletti a «maestri» e compagni di ricerca. Fra questi ultimi, oltre ai professori di Strasburgo, o a nomi come Durkheim, Bergson, Wahl, Merleau-Ponty, de Waelhens, Jankélévitch, Marcel, Buber, Rosenzweig ecc., campeggiano inizialmente le figure di Husserl e Heidegger (Etica e infinito, trad, ital., Città Nuova, Roma, 1984, pp. 44-45 sgg.; cfr. Fuori dal Soggetto, trad, ital., Marietti, Genova, 1992).

A proposito di Husserl, divenuto ben presto oggetto di studio - come testimoniano La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (1930) e i saggi raccolti in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger - Lévinas scrive: «Con Husserl, scoprii il senso concreto della possibilità stessa di “lavorare in filosofia”, senza trovarsi immediatamente rinchiusi in un sistema di dogmi, ma al tempo stesso senza correre il rischio di procedere per intuizioni caotiche» (Etica e infinito, cit., pp. 51-52). E in effetti, al di là di ogni ortodossia di scuola e di sistema, Lévinas ha continuato a scorgere, nella fenomenologia, un modello di teoresi radicale e di tensione verso il concreto. Tant’è vero che in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), cioè oltre quarantanni dopo la prima pubblicazione su Husserl, egli ha tenuto a ribadire la propria fedeltà allo «spirito» del suo insegnamento:

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«Le nostre analisi rivendicano lo spirito della filosofia husserliana di cui la lettera è stato il richiamo, nella nostra epoca, della fenomenologia permanente come metodo di ogni filosofia» (trad, ital., Jaca Book, Milano, 1983, p. 226). Spirito che egli ha sostanzialmente interpretato come un «richiamo alle intenzioni oscure del pensiero», ossia come un’attività di demistificazione dell’apparentemente ovvio, volta a riflettere su tutto ciò che è stato nascosto, dimenticato, dissimulato, sottinteso o frainteso: «Presenza del filosofo accanto alle cose, senza illusione, senza retorica, nel loro vero statuto, presenza che illumina appunto questo statuto, il senso della loro oggettività» (Etica e infinito, cit., p. 53). Di Husserl Lévinas critica invece gli aspetti essenzialistici e trascendentalistici, che egli ha cercato di correggere, sin dall’inizio, mediante la lezione di Heidegger: «Per usare un linguaggio da turista [...] sono andato da Husserl e ho trovato Heidegger».

Di quest’ultimo Lévinas apprezza soprattutto Essere e tempo, che egli non esita a considerare «uno dei libri più belli della storia della filosofia» (Etica e infinito, cit., p. 57), denso di «analisi meravigliose» che testimoniano ciò che può dare la fenomenologia, allorché si applica allo studio dell’esistenza concreta dell’uomo, e di quei suoi modi d’essere che sono l’angoscia, la cura e l’essere-per-la-morte (Colloquio con Emmanuel Levinas, in S. MALKA, Leggere Lévinas, trad, ital., Queriniana, Brescia, 1986, p. 115). Di Heidegger Lévinas apprezza pure la distinzione fra Sein (essere) e Seiendes (ente). Distinzione che arriva a definire come «la cosa più profonda di Sein und Zeit (Il tempo e l’altro, trad, ital., il melangolo, Genova, 1987, p. 21), attribuendo, a merito del filosofo tedesco, il rifiuto della riduzione sostanzialistica dell’essere all’ente e la tesi secondo cui l’essere non è un sostantivo, ovvero una statica presenza, bensì un verbo, ossia un dinamico accadere: «Si parla di solito della parola essere come se fosse un sostantivo, benché sia verbo per eccellenza. In francese, si dice l’essere o un essere. Con Heidegger, si è risvegliata nella parola essere la sua “verbalità”, ciò che in esso è evento, l’“accadere” dell’essere. Come se le cose e tutto ciò che è “conducessero un treno d’essere”, “facessero un mestiere di essere”» (Etica e infinito, cit., p. 58; circa la concezione «verbale» e «transitiva» dell’essere cfr. le osservazioni contenute in P.A. Rovatti, Intorno a Lévinas, con contributi di autori vari, Unicopli, Milano, 1987, pp. 23-48). Questi riconoscimenti si accompagnano ad aspre critiche. Infatti, Lévinas giunge a contestare Heidegger non solo per la compromissione politica con il nazismo («si può essere stati tutto, meno che hitleriani») ma anche per gli esiti della sua ontologia, ossia, come vedremo (§ 1133), per il progressivo assorbimento del Dasein all’interno di una struttura di pensiero che «subordina l’umano ai giochi anonimi dell’essere» (Difficile libertà, trad. ital. parz., La Scuola, Brescia, 1986, p. 136). Allo Heidegger della Kehre egli rimprovera inoltre «la scomparsa della fenomenologia propriamente detta» e la fuga verso un modo di filosofare «meno controllabile», perché incentrato intorno all’analisi della poesia di Hölderlin e delle etimologie (Etica e infinito, cit., p. 63).

Dopo i saggi husserliani e heideggeriani, i quali, pur muovendo dalla fenomenologia, prospettano la necessità di un approdo all’ontologia, Lévinas perviene ad una prima definizione del suo pensiero autonomo in De l’existence à l’existant (1947) e Le temps et l'autre (1948). Questi lavori sono preceduti da un breve saggio sul concetto di evasione (De l’évasion, 1935-36, rist. Fata Morgana, Montpellier, 1982, trad, ital., Elitropia, Reggio

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Emilia, 1984), in cui il nostro autore, dopo essersi soffermato sul bisogno, e al tempo stesso sulle difficoltà, di sfuggire al peso o all’«incatenamento» dell’essere, conclude la propria trattazione insistendo sulla necessità di «uscire» dall’essere attraverso una «nuova via», a rischio di rovesciare certe nozioni che per il senso comune e per la saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti.

Il tema dell’«uscita» dall’essere torna anche, in maniera più definita e articolata, nei due lavori seguenti. Esplicitandone egli stesso il filo conduttore e l’adeguata chiave di lettura Lévinas scrive: «Nel piccolo libro del 1947 [...] come pure quello che lo segui con il titolo Le temps et l’autre del 1948, le idee a cui oggi tengo si cercano ancora, si presentano molte intuizioni che indicano un percorso piuttosto che un arrivo. L’esigenza che si è presentata è quella di un tentativo di uscire dall’ “il y a”, uscire dal non senso» (Etica e infinito, cit., p. 70). In De l’existence à l'existant, pur prendendo le mosse dalla coppia heideggeriana esistenza-esistente, il nostro autore perviene ad esiti speculativi ben diversi da quelli di Sein und Zeit. Per «esistenza» egli intende l’evento o l’atto di esistere, cioè «l’essere in generale», colto a prescindere dall’esistente concreto (trad, ital., Marietti, Casale Monferrato, 1986, p. 12) e considerato nei suoi aspetti di pienezza indeterminata e impersonale, ossia di entità opaca e resistente, che richiama il «neutro» di Blanchot e, per certi versi, la «vischiosità» nauseabonda dell’in sé di Sartre. Per descrivere questo essere senza esistente, che coincide con il puro fatto dell’esistere e che si dà fenomenologicamente come «desertico, ossessivo e orribile» (Ib., p. 5), Lévinas usa il caratteristico termine «il y a» (forma impersonale equivalente all’italiano «c’è»), precisando che esso, a differenza dello es gibt heideggeriano e delle sue connotazioni di abbondanza e generosità, allude alla corrente anonima dell’essere·. «Indicheremo questa “consumazione” impersonale [...] ma inestinguibile dell’essere, che mormora al fondo del nulla stesso, con il termine di il y a. Nel suo rifiuto di assumere una forma personale, 177 y a è “l’essere in generale”», «Il y a, forma impersonale come “piove” o “fa caldo”. Anonimato essenziale» (Ib., pp. 50-51). Come si vede, 177 y a, in quanto «ronzio caotico di un esistere anonimo» che ci incatena nostro malgrado (Difficile libertà, cit., p. 44) non si identifica affatto con il «nulla» di cui parla Essere e tempo. Tant e vero che, al posto dell’angoscia, in Lévinas troviamo, quali Stimmungen o tonalità emotive «rivelatrici», esperienze come Γinsonnia («L’il y a ... ci riporta a una di quelle strane ossessioni dell’infanzia che conserviamo in noi e che riappaiono nell’insonnia quando il silenzio risuona e il vuoto resta pieno»), la lassitudine, la pigrizia, la fatica, lo sforzo ecc.

Se l’esistenza, in quanto il y a, fa tutt’uno con il gioco impersonale dell’essere, l’esistente collima con il coagularsi dell’esistenza in un ente (= l’io) capace di disporre del proprio essere. Ente che Lévinas denomina ipostasi e che connette al concetto di istante·. «Attraverso l’ipostasi l’essere anonimo perde il suo carattere di il y a. L’essente [...] è il soggetto del verbo essere e, di conseguenza, esercita una padronanza sulla fatalità dell’essere che è divenuto il suo attributo. Esiste qualcuno che assume l’essere, il quale è ormai il suo essere» (Ib., p. 75), «L’istante rompe l’anonimato dell’essere in generale. Esso è quell’evento grazie a cui nel gioco dell’essere che si gioca senza giocatori, sorgono i giocatori» (Ib., p. 90). Ma questo esistente o essente, che, in quanto soggetto libero e consapevole, si configura come «un’alba di chiarezza nell’orrore dell’“il y a”» (Etica e infinito, cit., p. 71) è destinato,

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secondo Lévinas, a trovare il proprio senso solo «con l’Altro e di fronte all’Altro», ossia nell’orizzonte temporale di un rapporto interumano che, al posto del «dialogo silenzioso dell’anima con se stessa», prevede l’esperienza della «alterità d’“altri”» (Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 86).

Ciò significa che l’agognata «evasione» dall’essere, di cui parlava il primo saggio, in questo secondo lavoro comincia a prendere la forma «positiva» di una traiettoria che va dall’esistenza all’esistente e dall’esistente all’Altro: «fin da quest’epoca, ci informa Lévinas, la responsabilità per altri, l’essere-per-l’altro mi è sembrata capace di far cessare il brusio anonimo e senza senso dell’“il y a”» (Etica e infinito, cit., p. 72). La marcia di avvicinamento alla tematica dell’Altro - che rappresenterà il fulcro delle opere maggiori - risulta ancora più accentuata in Le temps e l’autre, che raccoglie quattro conferenze incentrate «sulla relazione con altri in quanto questa ha per elemento il tempo; come se il tempo fosse la trascendenza, l’apertura per eccellenza su altri e sull’Altro» (Ib., p. 74). Vediamo in che senso. Come ha osservato Ph. Lawton, Lévinas ci offre un’articolazione tripartita della realtà: «Le tre dimensioni o livelli [...] sono quelli dell’il y a, dell’“ipostatico” evento della separazione [l’io] e dell’incontro con l’Altro» (Lévinas notion of «there is», «Tijdschrift voor filosofie», 1975, pp. 477-89, p. 477; cfr. S. PETROSINO, La fenomenologia dell’unico. Le tesi di Lévinas, intr. alla trad. ital. di Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. xx).

Ognuna di queste dimensioni sottintende uno specifico rapporto essere- tempo. Il tempo dell’essere, in quanto il y a, è, propriamente l’assenza del tempo, ossia l’eternità, intesa come ciclico ritorno dell'uguale e come impossibilità di un inizio e di una fine: «se si dovesse cercare una somiglianza fra la nozione dell’il y a ed un grande tema della filosofia classica, penserei ad Eraclito. Non al mito del fiume in cui non è possibile bagnarsi due volte, ma alla sua versione del Cratilo, di un fiume in cui non ci si bagna neppure una volta sola» (Il tempo e l'altro, cit., pp. 23-24). Eternità di cui l’atemporalità estetica sarebbe l’espressione figurata: «All’interno della vita o piuttosto della morte della statua, l’istante dura infinitamente; in eterno Laocoonte sarà preso nella stretta dei serpenti, in eterno la Gioconda sorriderà. In eterno l’avvenire che si annuncia nei muscoli tesi di Laocoonte non riuscirà a diventare presente. In eterno il sorriso della Gioconda, che sta per sbocciare, non sboccerà...» (Nomi propri, trad, ital., Marietti, Casale Monferrato, 1984, pp. 183-84).

Il tempo proprio dell’io, in quanto ipostasi, è invece il presente. Infatti, poiché l’io (come puntualizzerà Totalità e infinito, che a tale argomento dedica parecchie pagine) si auto-costituisce in virtù del godimento e del possesso, esso risulta destinato a vivere, insieme al suo mondo, in un evanescente presente felice, dai tratti egoistici. La temporalizzazione autentica del tempo, ovvero l’apertura verso un passato ed un futuro veramente altri dal presente, avviene solo tramite l’incontro con l’Altro. Già in Dall'esistenza all’esistente si legge: «Come potrebbe [...] generarsi il tempo in un soggetto solo? Il soggetto solo non può negarsi, non ha il nulla. L’alterità assoluta dell’altro istante - se il tempo non è l’illusione di una stasi - non può trovarsi nel soggetto che è definitivamente se stesso. Questa alterità può derivarmi solo da altri [...] La dialettica del tempo è la dialettica stessa della relazione con altri» (op. cit., p. 85).

In II tempo e l’altro, dove queste tesi sono riprese ed ampliate, la tematica dell’alterità si

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arricchisce anche di una significativa analisi del!eroi e della relazione di filialità. In polemica con l’immagine platonica dell’amore come ricongiungimento delle due metà dell’anima anelanti a ridiventare una cosa sola (immagine che finisce per ridurre l’eros ad una specie di «incesto») e in antitesi alla falsa idea romantica, secondo cui l’amore sarebbe una «fusione» di esseri, Lévinas afferma che il patetico della relazione amorosa è il fatto di essere due e che l’altro, in essa, gioca il ruolo di una realtà irriducibile. In altri termini, il rapporto d’amore, a cui il nostro autore riconosce un posto «eccezionale» all’interno delle relazioni umane, non neutralizza, ipso facto, l’alterità, ma la conserva, poiché l’altro, lungi dal ridursi ad un nostro possesso, permane nel «mistero» e nell’«avvenire» della sua alterità. Analogamente, la filialità, o meglio la paternità, realizza un rapporto con altri, dove altri è radicalmente altro, e dove, tuttavia, è in qualche modo noi stessi. Infatti, la paternità non è semplicemente un rinnovamento del padre nel figlio e la sua confusione con lui. Essa è anche l’esteriorità del genitore rispetto al figlio ed esprime quindi, come scrive Lévinas, un «modo di esistere pluralistico» (trad, ital., cit., p. 60; per un approfondimento complessivo cfr. F. CIGLIA, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Cedam, Padova, 1988).

1133. Totalità e infinito. Dall’ontologia alletica.

La filosofia dell’Altro abbozzata nei primi lavori trova in Totalità e infinito - vera e propria summa del pensiero di Lévinas - la sua espressione organica e teoreticamente decisiva.

Alla base di questo scritto, che porta come sottotitolo Saggio sull’esteriorità (= sull’alterità), vi è una serrata polemica nei confronti della tradizione filosofica, accusata di «imperialismo del Medesimo» (op. cit.. p. 37). Con questa espressione, Lévinas allude al tentativo, messo in atto dalla riflessione occidentale sull’essere, di «ingabbiare» il molteplice e il diverso nell'ambito di una Totalità unitaria soffocatrice di ogni alterità e trascendenza: «la filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia.· una riduzione dell’Altro al Medesimo» (Ib., p. 41). In altri termini, intendendo il conoscere alla stregua di una neutralizzazione sistematica del diverso, i filosofi hanno praticato la filosofia alla stregua di un autocentrico sforzo di ridurre ogni cosa a se stessi: «La possibilità di possedere, cioè di sospendere proprio l’alterità di ciò che è altro solo a prima vista ed altro rispetto a me - è il modo del Medesimo» (Ib., p. 36).

Manifestazioni emblematiche di questo tentativo di non riconoscere altra realtà o verità al di fuori di sé sono l’ontologia parmenidea dell’Uno e la dottrina socratica della maieutica: «Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate. Non ricevere nulla da Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io possedessi ciò che mi viene dal di fuori» (Ib., p. 41). Altre manifestazioni di rilievo sono la filosofia di Hegel e quella di Heidegger. Il primo, perché rappresenta il teorico di una totalità che «inghiotte» gli uomini, gli Stati, le civiltà e i pensatori all’interno di una Ragione assoluta (cfr. Difficile libertà, cit., p. 102). Il secondo perché subordina l’ente a quella struttura impersonale che è «l’Essere», pervenendo ad una ontologia del Neutro in cui Lévinas ravvisa una forma di materialismo: «Il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neutro. Situare il Neutro dell’essere al di sopra dell’ente che questo essere

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determinerebbe in qualche modo a sua insaputa, situare i fatti essenziali all’insaputa degli enti - significa professare il materialismo. L’ultima filosofia di Heidegger diventa questo materialismo vergognoso» (Totalità e infinito, cit., p. 307). Un materialismo che, agli occhi del nostro autore, ha in sé qualcosa di «disumano».

Configurandosi, in tutte le sue forme, come una fagocitazione dell’Altro, e come una «prevaricazione» dell’essere nei confronti degli enti, l’ontologia si palesa quindi come una filosofia della potenza («“Io penso” equivale a “io posso”») che porta, inevitabilmente, al dominio e alla sopraffazione del prossimo. In altre parole, osserva Lévinas - sempre attento a cogliere i nessi fra totalità e totalitarismo - alla violenza teorica dell’approccio ontologico corrisponde, sul piano pratico, la violenza sull’uomo e l’intolleranza verso il «diverso» (emblematicamente incarnato dall’ebreo). Tant’è vero che fin da Eraclito, cioè sin dall’inizio della storia della filosofia, «l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra» (Ib., p. 19) e l’ontologia, giunta al culmine del suo sviluppo, non fa nessuna fatica, come mostra il caso di Heidegger, a coniugarsi con il nazismo.

Appurato che la violenza ontologica prende corpo nel concetto di totalità e che «la storia della filosofia occidentale è stata una distruzione della trascendenza» (Di Dio che viene all'idea, trad, ita!, Jaca Book, Milano, 1983, p. 79), si tratta, per Lévinas, di rompere con la totalità e con il pensiero dell’Identico. Impresa che egli vede sostanzialmente anticipata in Der Stem der Erlösung (La Stella della redenzione, 1921) di Franz Rosenzweig, verso cui Lévinas non esita a riconoscere, in piò luoghi, il proprio debito speculativo: «Nella storia della filosofia ci sono state poche proteste contro questa totalizzazione. Per quanto mi riguarda, io ho incontrato per la prima volta una critica radicale della totalità nella filosofia di Franz Rosenzweig» (Etica e infinito, cit., pp. 91-92; cfr. Totalità e infinito, cit., p. 26; Difficile libertà, cit., pp. 93-119; Fuori dal Soggetto, cit., pp. 53-68). Ma in che modo avviene questa disgregazione della totalità, che Rosenzweig, come si è visto (§ 1065), affidava all’angoscia della morte, intesa come spia rivelatrice di una totalità incapace di «totalizzare» completamente l’individuo? Come può il Medesimo, che si produce come egoismo, entrare in relazione con un Altro, senza privarlo immediatamente della sua alterità? Come può, il Medesimo, accostarsi alla trascendenza senza ricondurla immediatamente all’immanenza}

Lévinas risponde che la rottura della totalità «non è un’operazione di pensiero» che si gioca a livello di conoscenza o di rappresentazione - poiché in tal caso ci troveremmo ancora una volta all’interno del soggettivismo imperialista dell’io trascendentale - ma un’esperienza esistenziale che si realizza nell’incontro concreto con l’altro: «L’Altro in quanto altro è Altri», «L’assolutamente Altro è Altri» (Labsolument Autre, c’est Autrui) (Totalità e infinito, cit., pp. 69 e 37). In altre parole, l’incontro con l’Altro, ben lungi dal consumarsi nel cerchio magico dell’interiorità - quasi che l’altro fosse una sorta di noema correlativo ad una noesi oppure una sorta di alter ego in senso fenomenologico - implica uno squarcio dirompente sull’esteriorità e si configura come una novità assoluta irriducibile a qualsivoglia dialettica dello Stesso. Ciò significa, a sua volta, che il superamento della totalità e delle barriere dell’immanenza non avviene nella sintesi teorica e conciliatrice della filosofia, ma nel non-sintetizzabile evento pratico del faccia a faccia degli uomini: «La vera unione, o il vero insieme, non è un insieme di sintesi, ma un insieme di faccia a faccia» (Etica e infinito, cit.,

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p. 94). Il concreto manifestarsi dell’assoluta alterità d’altri viene chiamato, da Lévinas, volto: «noi chiamiamo volto (visage) il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me» (Totalità e infinito, cit., p. 48).

La caratteristica fondamentale del volto, che il nostro autore descrive mediante una molteplicità variopinta di metafore (espressività, nudità, povertà, noumenicità, unicità, astrattezza ecc.) è l'autosignificanza. Il volto è autosignificante perché non è un segno che rinvia ad altro, ma una presenza viva che si auto-presenta e auto-impone «di per sé» (Kath’autò), cioè indipendentemente da ogni soggettiva attribuzione di senso (Sinngebung) e da ogni contesto ambientale o sociologico: «La nudità del volto non è ciò che si offre a me perché lo sveli - e che, perciò, verrebbe ad essere offerto a me, al mio potere, ai miei occhi, alle mie percezioni, in una luce ad esso esterna. Il volto si è rivolto a me - e questa, appunto, è la sua nudità. È per se stesso e non in riferimento ad un sistema» (Ib., p. 73), «Gli Altri sono presenti in un complesso culturale dal quale hanno lume, come un testo dal suo contesto [...] Ma l’epifania degli Altri comporta una significanza sua propria, indipendente da questo significato ricevuto dal mondo. Gli Altri, non ci vengono soltanto incontro dal contesto, ma [...] significano per se stessi» (Umanesimo dell’altro uomo, trad, ital., il melangolo, Genova, 1985, pp. 69-70). Di conseguenza, «rifiutandosi» a qualsiasi comprensione e «sfondando» qualsiasi ordine che voglia inglobarlo, l’Altro, in quanto Straniero, esiste prima di ogni nostra iniziativa o potere. Anzi, ben lontano dal ridursi ad un essere trascendentalmente «posto» dall’io, l’Altro è tale da mettere radicalmente in discussione il nostro stesso potere sul mondo: «L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere» (Totalità e infinito, cit., p. 203).

In virtù di queste prerogative, il volto appare come l’assolutamente trascendente. Ma la trascendenza, per il fatto di essere tale, cioè per il suo porsi al di là di ogni totalità immanente, richiama l’infinito, o meglio rappresenta la maniera con cui l’infinità dell’infinito (Lévinas parla di «infinizione») ci viene incontro e si rivela come tale: «L’infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro» (Ib., p. 47). In sintesi, se la totalità è l’essere immanente ed inglobante della tradizione ontologica, l’infinito è quella realtà trascendente e non totalizzabile che è l’Altro in quanto volto. Il volto, che si dà originariamente come linguaggio e discorso («Volto e discorso sono legati. Il volto parla») e che vive biblicamente nel povero, nello straniero, nella vedova e nell’orfano, possiede, per Lévinas, una esplicita valenza etica, anzi rappresenta la struttura di ogni eticità possibile: «L’epifania del volto è etica» (Ib., p. 204), «la relazione al volto è immediatamente etica. Il volto è ciò che non si può uccidere: o almeno, [è] ciò il cui senso consiste nel dire: “tu non ucciderai”» (Etica e infinito, cit., p. 101). Tan- t’è vero che i racconti di guerra, come osserva Philippe Nemo, ci dicono che è difficile uccidere qualcuno quando ci guarda in faccia (Ib., p. 100). Certo, ammette il nostro autore, le relazioni umane si svolgono spesso, dal punto di vista statistico o di fatto, all’insegna dell’odio e della violenza. Ciò non esclude però che la guerra presupponga, di diritto, la pace e l’incontro con il comandamento impresso sul volto dell’Altro (Totalità e infinito, cit., p. 205).

Da quanto si è detto sinora, emerge come la filosofia, per Lévinas, non sia una egologia

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volta a ridurre l’esistente ad un tautologico gioco del Medesimo, bensì un'eterologia impegnata a fare del rapporto con l’Altro la struttura stessa della realtà: «L’essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e in Altro. Questa è la sua struttura ultima. E' società e, quindi, tempo. Cosi usciamo dalla filosofia dell’essere parmenideo» (Ib., p. 277).

Questa relazione con l’Altro, che coincide con la «rottura» dell’ipseità autosufficiente del Medesimo e con l’apertura verso la trascendenza e l’infinito, fa tutt’uno con la «metafisica». Infatti, se l’ontologia allude alla dissoluzione del diverso nell’Identico, la metafisica allude al «trauma» dell’incontro con l’Altro, ovvero a quell’evento assoluto per cui «il Medesimo, raccolto nella sua ipseità di “io” - di ente particolare unico ed autoctono - esce da sé» (Ib., p. 37). L’orizzonte della metafisica si annuncia con l'idea deli infinito, cioè con l’unica idea che, secondo l’insegnamento di Cartesio, implica un’eccedenza del contenuto rispetto al contenente e che perciò non può essere generata dal nostro spirito. Infatti, tale idea - vero e proprio «scoppio del “più nel meno”» - non proviene «dal nostro fondo a priori», ma è ricevuta in concomitanza con l’esperienza dell’Altro e rappresenta un «prodigio» tale da provocare uno «sconvolgimento» all’interno dell’io. Sconvolgimento che si identifica con il Desiderio.

Lévinas distingue accuratamente fra bisogno e Desiderio. Il bisogno esprime un’indigenza del soggetto, che appetisce interessatamente qualcosa che gli manca e che, una volta ottenuto, gli procura soddisfazione. Il Desiderio esprime invece la traiettoria di un soggetto che, anziché rimanere egoisticamente chiuso all’interno della sfera dei propri appetiti e dei propri appagamenti, muove verso l’Altro. Detto altrimenti, il Desiderio, a differenza del bisogno, non nasce da una necessità egoistica, ma dallo slancio altruistico di un essere che, di per sé, non manca di nulla. Inoltre, esso, a differenza del bisogno, è destinato a rimanere insoddisfatto e a nutrirsi della propria insoddisfazione: «E' questo il Desiderio: ardere di tutt’altro fuoco che il bisogno, il quale, saziato, si spegne» (Umanesimo dell'altro uomo, cit., p. 74), «Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati, la metafisica desidera l’Altro al di là delle soddisfazioni...» (Totalità e infinito, cit., p. 32). Questo Desiderio disinteressato e insaziabile, che tende verso la realtà dell’«altrimenti che essere» (§ 1134), ha come polo d’attrazione sia il prossimo, sia Dio (§ 1135). Per quanto concerne la relazione con il prossimo, esso prende la forma di una generosità che non è mai sazia di se stessa: «A un soggetto rivolto verso se stesso [...] a un soggetto che si definisce cosi per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il Desiderio dell’Altro che proviene da un essere già interamente pago [...]. Bisogno di colui che non ha più bisogni, esso si riconosce nel bisogno di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio nemico (come in Hobbes e Hegel) né il mio “complemento”, come sono ancora nella Repubblica di Platone, la quale si costituisce perché mancherebbe qualcosa alla sussistenza di ciascun individuo. Il Desiderio degli Altri - la socialità - nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che potrebbe mancargli o appagarlo [...] Che cos’è il Desiderio degli Altri: appetito o generosità? Il desiderabile non sazia il mio Desiderio, anzi gli dà un languore, cibandomi, in certo qual modo, di sempre nuove fami. Il Desiderio si rivela bontà. C’è in Delitto e Castigo di Dostoevskij una scena nella quale, a proposito di Sonja Marmeladova che guarda

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Raskolnikov nella sua disperazione, Dostoevskij parla di una “insaziabile compassione” [...] Come se la compassione che Sonja porta a Raskolnikov fosse una fame che la presenza di Raskolnikov nutriva al di là di ogni saturazione possibile, accrescendo, all’infinito, quella fame» (Umanesimo dell’altro uomo, cit., pp. 67-68).

Posta l’identità fra la metafisica e il rapporto con l’Altro, ne segue, per Lévinas, l’identità fra la metafisica e l’etica. In altri termini, Lévinas scorge nell’etica il luogo stesso della verità metafisica, ovvero lo spazio concreto in cui essa vive: «La metafisica entra in gioco là dove entra in gioco la relazione sociale - nei nostri rapporti con gli uomini» (Totalità e infittito, cit., p. 76). In altre parole ancora, l’etica, come ripete più volte il nostro autore, è «un’ottica», in quanto è soltanto dalla prospettiva morale che acquistano senso e significato i concetti fondamentali della filosofia: «La morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima» (Ib., p. 313). La rivendicazione di questa supremazia dell’etica non significa che Lévinas si sia prefisso, come scopo primario, di delineare una nuova etica: «Il mio compito - egli scrive - non consiste nel costruire un’etica; tento soltanto di cercarne il senso [...] Si può senza dubbio costruire un’etica in funzione di ciò che ho detto, ma non è questo il mio tema specifico» (Etica e infinito, cit., p. 105). Per cui, come osserva Gaspare Mura, Lévinas può essere considerato uno dei più grandi moralisti del secolo «non perché abbia elaborato una qualche filosofia morale, ma perché ha evidenziato quelli che si potrebbero chiamare i “principi primi” dell’etica, i principi che rendono etica ogni etica, che sono propri, in modo categorico, dell’etica in quanto tale» (La 'provocazione etica’ di Emmanuel Lévinas, introd. a Etica e infinito, cit., pp. 5-6).

1134. La «responsabilità» per altri, la «giustizia» e «l’altrimenti che essere».

La curvatura etica - nel senso chiarito - del pensiero di Lévinas si è ulteriormente accentuata in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), che rappresenta il secondo capolavoro di Lévinas e, in qualche modo, la parola definitiva del suo pensiero.

In questa ricerca, sviluppata secondo moduli espressivi altamente elaborati e complessi, Lévinas «più che apportare cambiamenti alle tesi sviluppate da Totalità e infinito, conduce alle estreme conseguenze il discorso della prima grande opera, approfondendone ed ampliandone alcuni motivi e lasciandone cadere altri o, comunque, collocandoli sullo sfondo. Nel complesso essa fa risuonare corde ed accenti nuovi, con un effetto di insieme di grande novità e diversità che implica, tra l’altro, uno sforzo di reinvenzione del linguaggio e delle sue categorie espressive». Per cui, la diversità tra l’opera del ’61 e quella del ’74 può essere ricondotta soprattutto allo sforzo «di liberare il linguaggio ed il sistema concettuale che lo informa, dalle categorie, palesi ed occulte, che lo rendono solidale con l’ontologia» (G. SANSONETTI, L’Altro e il tempo. La temporalità nel pensiero di Emmanuel Lévinas, Cappelli, Bologna, 1985, pp. 81 e 103). Il tema che campeggia in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence - come già in Humanisme de l’autre homme (1972) e nei Raccourcis aggiunti alle successive edizioni di En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (1967, 1974) - è quello della responsabilità.

Secondo Lévinas, la responsabilità non rappresenta un possibile attributo della

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soggettività, come se questa esistesse già in sé prima della relazione etica, ma il suo modo d’essere essenziale e strutturale. In altri termini, la soggettività non è, originariamente, un pour soi, bensì un pour autre, che vive nell’orizzonte della prossimità e in virtù della prossimità: «La soggettività non precede la prossimità per poi impegnarsi successivamente in essa. È, al contrario, nella prossimità... che si annoda ogni impegno» (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad, ital., Jaca Book, Milano, 1983, p. 106). Gli altri, insiste Lévinas, mi «ossessionano», cioè mi inquietano e mi mettono in discussione, obbligandomi, sin dall’inizio, ad assumere una responsabilità nei loro confronti: «Il volto mi chiede e mi ordina» (Etica e infinito, cit., p. Ili), «La prossimità non è uno stato, una quiete, ma, precisamente, inquietudine» (Altrimenti che essere, cit., p. 102). Ossessionato dagli altri, io risulto immediatamente responsabile di tutto ciò che può loro accadere, sino a sentirmi obbligato a mettermi al posto degli altri, sino alla «sostituzione» di altri. E poiché la relazione intersoggettiva, come aveva già chiarito Totalità e infinito, è una relazione disinteressata e «asimmetrica», io sono responsabile dell’altro indipendentemente dal fatto che anche l’altro lo sia nei miei confronti («l’inverso è afifar suo»). In altri termini, in quanto responsabilità che arriva sino alla sostituzione, io risulto «ostaggio» degli altri, ovvero un’ipseità completamente e fraternamente dedita al prossimo: «La parola Io significa eccomi (Me voici), rispondente di tutto e di tutti» (Ib., p. 143), «Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo» (Etica e infinito, cit., p. 110).

Implicando un esser chiamati a rispondere di .... la responsabilità presuppone che l’io si trovi in una sorta di «passività» di base, intendendo, con questa espressione-chiave del filosofare di Lévinas, non una qualche contrapposizione astratta all’idea di attività, ma il fatto concreto per cui l’io è non in quanto si pone, ma in quanto si de-pone, ossia in quanto abdica alla propria «sovranità» egoistica e alla propria soggettività «astiosa e imperialista». Questa re-interpretazione del soggetto in termini di passività implica il rifiuto di ogni forma di trascendentalismo che scorga nell’attività autocreatrice la prerogativa strutturale dell’uomo. Infatti, dal punto di vista di Lévinas, l’uomo non è un essere che crea idealisticamente se stesso, ma un essere che si trova originariamente «assegnato» all’alterità e alla responsabilità, prima di ogni eventuale accettazione o rifiuto. Come tale, la responsabilità precede la libertà e risulta anteriore ad ogni soggetto husserlianamente costituito e costituente, identificandosi con l’evento stesso della soggettività, in quanto apertura primordiale verso il prossimo. Questa passività che nessuna libertà ha mai scelto, questa responsabilità che nessun presente ha mai incontrato, questa pre-situazione di ogni possibile situazione assume la forma temporale di un «passato immemorabile» sottraentesi ad ogni nostra iniziativa o consapevolezza: «Ci fu un tempo irriducibile alla presenza, passato assoluto, irrapresentabile» (Altrimenti che essere, cit., p. 154), «Nella prossimità si ode un comandamento venuto da un passato immemorabile: che non fu mai presente, che non è cominciato in alcuna libertà» (Ib., p. 110).

La teoria di una responsabilità «anteriore ad ogni anteriorità rappresentabile» - di cui Altrimenti che essere, com’è stato osservato, non è che l’incessante e quasi ossessiva riaffermazione e riproposizione, nelle forme di una scrittura compiaciutamente impegnata a

riscrivere se stessa, sino all’esito dell’iperbole linguistica - finisce quindi per confluire

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nell’alveo anticoscienzialista ed antisoggettivista di tanta parte della filosofia contemporanea. Qualche studioso ha parlato anche di «antiumanismo». In realtà, Lévinas può essere considerato antiumanista solo a patto che per antiumanismo si intenda un postmoderno rifiuto della concezione dell’uomo come «padrone» dell’essere: «la soggettività di un soggetto arrivato tardi in un mondo che non' è nato dai suoi progetti, non consiste [...] nel trattare questo mondo come proprio progetto» (Ib., p. 154). Viceversa, egli non può venir considerato antiumanista se per antiumanismo si intende una qualche teoria della «morte» dell’uomo. Infatti, l’originalità di Lévinas non consiste nell’aver fatto «sparire» il soggetto, ma nell’aver pensato in modo diverso il soggetto stesso, ovvero nell’aver concepito l’uomo in termini di passività (sia nel senso della soggezione agli altri, sia nel senso della dipendenza da quel «passato immemorabile» che fa di lui non un cominciamento assoluto, bensì, per usare una pregnante espressione pareysoniana, una iniziativa iniziata).

Passività che non esclude, ma fonda, l’impegno, in quanto il soggetto, come chiarisce Lévinas, se da un lato è «l’assoggettato», dall'altro è il «sub-jectum», cioè il supporto su cui grava l’universo: «Il Sé è Sub-jectum: è sotto il peso dell’universo - responsabile di tutto» (Ib., p. 145), «La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare. Questo peso è una suprema dignità dell’unico. Io non inter-cambia- bile, sono io nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto. E' in questo senso preciso che Dostoevskij dice: “Noi stamno tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli altri"» (Etica e infinito, cit., p. 115). In conclusione, Lévinas non nega l’uomo, ma solo il soggetto egoista ed autocentrico della tradizione ontologica. Tant’è vero che la sua proposta filosofica mette capo all'idea di un umanesimo dell’altro uomo, cioè ad un umanesimo incentrato su di una concezione dell’umano in termini di alterità e trascendenza.

Sinora abbiamo parlato del rapporto io-tu e del nesso asimmetrico che li unisce. Nesso che obbliga l’io a darsi completamente al tu, indipendentemente da ogni corrispondenza o reciprocità (nel senso di Buber). Ma il problema si complica quando il «duo iniziale» diventa «trio», ossia quando entra in scena il Terzo uomo (Altrimenti che essere, cit., p. 199). Infatti, il mondo non si riduce ad un unico faccia a faccia, ma esiste un terzo che è sia il mio prossimo, sia il prossimo dell’Altro che mi è venuto incontro. 11 che significa che dietro la singolarità di due individui si staglia la società, la quale implica una «correzione» dell’asimmetria a favore della reciprocità (Ib., p. 198). In altri termini, come ha chiarito ancora recentemente Lévinas in un’intervista con Barbara Spinelli, «Nel momento in cui sopraggiunge il terzo - chiamiamolo la persona C, accanto alla persona B - non posso far altro che chiedermi, pur amando incondizionatamente sia B, sia C: qual è in realtà il loro rapporto reciproco? Forse B ha derubato C? Forse C ha offeso o minacciato mortalmente B? A partire dal momento in cui siamo tre occorre soppesare, paragonare, giudicare, e non più solo amare incondizionatamente. A partire dal momento in cui siamo più di due occorre la giustizia, occorre uno stato che ci aiuti a uscire dal faccia a faccia iniziale e che imponga limiti rigorosi al privilegio che abbiamo accordato al “primo venuto”. L’epifania del terzo instaura, subito, un ordine che ha i suoi vincoli, le sue costrizioni, le sue violenze. Che non è mai buono come

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l’infinita bontà che caratterizza l’incontro primordiale. Ma solo a questo prezzo si può restare fedeli al senso di responsabilità totale che abbiamo sentito prima nei confronti dell’Altro, poi nei confronti del terzo» («La Stampa», 6 maggio 1992, p. 15). Ma se la necessità di portare ordine nelle relazioni interumane genera la giustizia, quest’ultima, essendo esercitata dalle istituzioni sociali, deve sempre venir «controllata» dalla relazione interpersonale originaria. Infatti, continua il nostro autore, «L’appello iscritto nel volto dell’Altro non è dimenticabile. Giustizia va fatta, prioritariamente, ma sempre nel rimorso, nella cattiva coscienza [...] C’è un apologo, nel Talmud, che spiega molto bene come deve funzionare la giustizia. Un saggio dice, basandosi sul versetto 10-17 del Deuteronomio: il giudice non guarderà il volto di chi giudica, durante il processo. Al che un altro saggio replica, basandosi su Numeri 6-25: niente affatto! Occorre invece guardare in faccia. Interviene allora il rabbino Aquiba, che saggiamente concilia le due esigenze: “Prima del verdetto non guarderai il volto, ma una volta pronunciato il giudizio guarderai”. Cioè ti ricorderai dell’appello iscritto nel volto dell’Altro, addolcirai il castigo con la misericordia, attenuerai i rigori della Legge, senza sospenderla. E avrai il rimorso, sapendo che la giustizia - pur improrogabile - non è mai perfetta» (lb).

La teoria della responsabilità e la tesi del primato dell’Altro rispetto all’io fa si che l’etica di Lévinas tenda a configurarsi, nel suo complesso, come un 'etica della santità: «Santità difficile - ammonisce il nostro autore - perché naturalmente siamo tutti portati a passare prima degli altri. Ma santità possibile, ideale d’eccellenza che abita ciascun uomo. Le stesse forme di cortesia sono sempre prese in prestito dall’ideale di santità: non è sempre l’Altro che ha la precedenza su di me? Non diciamo continuamente - nel servire un pasto, nel ricevere una visita -: “Dopo di Lei?”» (Ib.). Tutto ciò spiega perché Lévinas abbia intitolato il suo secondo capolavoro Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. L’essere o l’essenza, cioè il processo o l’evento dell’essere, si identifica con Xinteresse («Esse è interesse»), ovvero con il conatus essendi degli enti. Conatus che fa tutt’uno con la conflittualità infernale degli egoismi: «L’interessamento dell’essere si drammatizza negli egoismi in lotta gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, nella molteplicità di egoismi allergici che sono in guerra gli uni contro gli altri...» (Altrimenti che essere, cit., p. 7). L’altrimenti che essere o l’al di là dell’essenza si identifica con il trascendimento dell’essere egoistico e conflittuale in direzione dell’alterità e della fraternità: «L’umanità ... è l’essere che si disfa della sua condizione d’essere: il dis-inter-esse. E ciò che vuol dire il titolo del libro: “Autrement qu’être". La condizione ontologica si disfa o è disfatta, nella condizione o l’incondizione umana. Essere umano significa: vivere come se non si fosse un essere tra gli esseri. Come se per la spiritualità umana si rovesciassero le categorie dell’essere in un “altrimenti che essere”. Non soltanto un “essere altrimenti”; essere altrimenti è ancora essere» (Etica e infinito, cit., p. 114). Questa distinzione fa si che il discorso, secondo Lévinas, tenda a strutturarsi su due piani: uno è costituito dal piano del Detto, cioè dell’essere, l’altro dal piano del Dire, ossia dell’altrimenti che essere.

Il luogo di questo trascendente «altrimenti che essere» - il quale fa si che la vita non sia, secondo l’espressione di Pascal, la pura «usurpazione d’un posto al sole» - si identifica a sua volta con l’orizzonte di Dio e della religione. Infatti, è proprio in virtù della «trans-

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ascendenza» umana, cioè del fatto che l’io non è un semplice essere-nel-mondo, ma anche un essere-per- ΓAltro, che si ha «l’irruzione di Dio nell’essere o l’esplosione dell’essere verso Dio» (L'aldilà del versetto. Guida, Napoli, 1986, p. 227).

1135. Etica e religione. L’ideale di una fede aperta al prossimo e liberata dai miti.

Come si è visto, l’etica è, per Lévinas, rapporto con l’Altro. Ma l'Autre, considerato in generale, cioè in contrapposizione al Même (lo thateron platonico distinto dal tauton) è non solo l’altro uomo (Autrui), ma anche Dio (Dieu), cioè l’Infinito nella sua assolutezza.

Lévinas parla di Dio con grande cautela e misura, non solo in ottemperanza all’antico comandamento che impedisce di nominare la divinità invano, ma anche perché ritiene che il filosofo debba avvicinarsi al Supremo evitando di ridurlo ad un sapere che lo assimili o inglobi: «Ci si domanda se è possibile parlare legittimamente di Dio, senza attentare all’assolutezza che quel termine sembra significare. Aver preso coscienza di Dio non è forse averlo inglobato in un sapere che assimila, in un’esperienza che rimane - quali che ne siano le modalità - un apprendere o un afferrare?» (Di Dio che viene all’idea, cit., p. 10). Secondo il pensatore lituano-francese Xunico luogo di incontro fra l’uomo e l’Assoluto è costituito dal prossimo. Dio non si manifesta in qualche Gelassenheit di tipo mistico-quietistico, ma nella concrétude della relazione etica fra il Moi e XAutre e «viene all’idea» solo nel volto altrui. In altre parole, il movimento che conduce verso Dio passa attraverso il movimento che conduce verso gli altri. Lévinas lo ripete più volte e con inequivocabile chiarezza: «tramite la mia relazione con altri, io sono in rapporto con Dio» (Difficile libertà, cit., p. 73), «La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano» (Totalità e infinito, cit., p. 76), «Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini» (Ib., pp. 76-77), «l’idea-dell’-Infinito-in-me - o la mia relazione a Dio - mi accade nella concretezza della mia relazione all’altro uomo, nella socialità che è la mia responsabilità per il prossimo» (Di Dio che viene all’idea, cit., p. 12).

In virtù di questo schema, la sopraccitata identità fra metafisica ed etica (§ 1133) si rivela, più profondamente, come l’aspetto parziale di un’equazione che, nella sua interezza, comprende anche la religione. In sintesi, in Lévinas metafisica, etica e religione finiscono per fare tutt’uno, poiché rappresentano tre maniere diverse di alludere a quell’unico rapporto con il «dissimile» che si esplica sotto forma di un incontro extra-teoretico con l’Altro: «Noi proponiamo di chiamare religione il legame che si stabilisce tra il Medesimo e l’Altro» (Totalità e infinito, cit., p. 38), «Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispensabile al mio rapporto con Dio» (Ib., p. 77). L'intera problematica del volto finisce quindi per risolversi, in Lévinas, in una problematica religiosa. Tale problematica presenta tuttavia una fisionomia peculiare, su cui è bene soffermarsi, anche per evitare possibili equivoci o confusioni.

Come si è accennato, il volto di cui parla Lévinas «significa» l’Infinito e si configura come la traccia o la presenza etica del vero Dio, il quale «mi guarda tramite gli occhi dell’altro». Tuttavia, pur essendo supremamente presente, Dio risulta anche, e nello stesso tempo, supremamente assente, in quanto la traccia che Egli ha lasciato sul volto altrui è una

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traccia cancellata che «non ci indica» e «non ci dà nulla» del Suo mistero, e che anzi mette fuori gioco ogni presunto «sapere», sia pure soltanto «analogico», circa l'En-Sof (l’Infinito). Ebreo per fede e cultura, Lévinas deriva dalla religione dei suoi padri un monoteismo rigoroso, che sottolinea la radicale «trascendenza», «invisibilità», «inoggettivabilità» e, al limite, «indicibilità» dell’Assoluto. Tante che il suo Dio, pur non essendo completamente sottratto all’esperienza dell’uomo, si configura pur sempre come un Volto coperto da un fitto velo, cioè come una sorta di Dio nascosto che vive nel segreto del suo enigma. Ben lontano dal lasciarsi irretire nelle maglie della dialettica filosofica, tale Dio «resiste», per propria natura, ad ogni «presa» concettuale e ad ogni «curiosità» speculativa, risultando da sempre, e per sempre, strappato «aU’oggettività, alla presenza e all’essere» (Di Dio che viene all’idea, cit., p. 93). In termini biblici, è il Dio che nell’Esodo dice a Mosè: «Tu non potrai vedere il mio volto, poiché nessuno può vedermi e restare vivo...» (33, 20-23). Infatti, uno dei nuclei caratterizzanti del pensiero di Lévinas consiste proprio nello sforzo di ri-pensare e di ri-dire, mediante il linguaggio universale ed ellenico della filosofia (la quale «si parla in greco»), quella trascendenza assoluta di Dio che la Bibbia e il Talmud fissano in modo prefilosofico.

Perseguendo la distruzione filosofica del concetto «numinoso» del Sacro - che implicando una specie di «partecipazione» o di «fusione» dell’uomo con la divinità, finisce per smarrire la trascendenza di Dio e l’autonomia dell’uomo - Lévinas insiste sul fatto che la fede monoteistica implica, come condizione necessaria, l’esperienza del «disincanto del mondo», ovvero quella separazione fra uomo e Dio che, sola, risulta capace di salvaguardare l’infinita distanza del Creatore e la libertà della creatura. Detto altrimenti, il Dio biblico in cui crede Lévinas non vuol essere una «sopravvivenza degli dèi mitici», e quindi una nuova figura idolatrica, ma quel Dio unico e vero che presuppone, dietro di sé, la rottura con la visione sacrale del mondo e la consapevolezza che ogni forma di partecipazione si risolve in «una smentita inflitta al divino» (Totalità e infinito, cit., p. 76). Da ciò l’aperta polemica con le religioni positive e la loro concezione «inadeguata» di Dio (polemica che mette fuori gioco ogni «uso» riduttivamente apologetico o confessionale della sua filosofia). Da ciò l’ideale di una religione «senza miti» e l’aperta valorizzazione dell’ateismo, inteso come momento di passaggio per una fede autentica, capace di esprimere il meglio dell’Occidente e dell’umanità: «Questo noumeno - scrive Lévinas parlando dell’Assoluto - si distingue dal concetto di Dio che possiedono i credenti delle religioni positive, mal liberati dai legami della partecipazione e che credono, come se vi fossero immersi a loro insaputa, in un mito. Ma la fede epurata dai miti, la fede monoteistica, presuppone, a sua volta, l’ateismo metafisico» (Ib., p. 75), «È grande gloria del Creatore aver costituito un essere che lo afferma dopo averlo contestato e negato nelle illusioni del mito e dell’entusiasmo; è grande gloria di Dio aver creato un essere capace di cercarlo e di capirlo da lontano, partendo dalla separazione, dall’ateismo» (Difficile libertà, cit., p. 70), «Il monoteismo oltrepassa e include in sé l’ateismo, ma non è accessibile a chi non ha raggiunto l’età del dubbio, della solitudine e della rivolta. La difficile via del monoteismo si congiunge con la strada dell’Occidente. Ci si può chiedere infatti se lo spirito occidentale, se la filosofia, non sia in ultima analisi l’affermarsi di un’umanità che accetta il rischio dell’ateismo, che va corso e superato, come prezzo della sua maggiore età» (Ib., pp. 70-71). In sintesi, è proprio in vista di una possibile «religione da adulti» che Lévinas, pur parlandoci del volto come «traccia» di Dio, ci conduce

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alla fine, come ha notato Jean Wahl, verso quell’Uno che non ha volto e che si presenta come il Santo e il Separato.

Ciò non toglie che questo Dio inaccessibile rappresenti il perno di tutta la sua etica, la quale, in antitesi alle varie filosofie moderne del Medesimo e alle loro chiusure antropologistiche ed immanentistiche, torna a fondare la morale su un Altro che esiste prima e al di sopra dell’uomo: «affermiamo che l’autonomia umana poggia su una suprema eteronomia e che la forza che produce tanti meravigliosi effetti, la forza che fonda la forza, la forza civilizzatrice, si chiama Dio» (Ib., p. 64). Infatti, se è vero che è attraverso il prossimo che incontriamo Dio, è altrettanto vero che è attraverso Dio che incontriamo il prossimo. In altri termini, il rapporto io-altri si palesa, nel nostro autore, come un rapporto io-Egli-altri, ossia come un tipo di relazione in cui Dio funge da «Terzo e supremo termine del rapporto» (G. Mura, La «provocazione» etica di Emmanuel Lévinas, cit., p. 31). Più profondamente, Dio si identifica con quel «passato immemorabile» (§ 1134) che sta alla base della responsabilità, cioè con quell’Egli ipostatizzato (l'llleité o Eglità) che ci ha scelti o «eletti» prima di ogni nostra scelta. Detto altrimenti, Dio è quel Bene che, anteriormente ad ogni nostro progetto, ci ha indirizzati verso il bene della responsabilità, senza, per questo, renderci schiavi: «L’impossibilità della scelta, qui, non è l’effetto della violenza - fatalità o determinismo - ma dell’elezione irrecusabile da parte del Bene...» (Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 108).

Questo significa che l’uomo è originariamente l’ascolto di una Parola che proviene da un non-luogo e da un non-tempo assoluti e che il suo rapporto creaturale con Dio fonda la morale, anzi si risolve nella morale stessa, intesa come «glorificazione della gloria stessa dell’infinito». Glorificazione che si identifica con la pratica della giustizia e con l’avvento dell’«altrimenti che essere» (§ 1134), ossia con quelle realtà senza di cui la preghiera e la liturgia non avrebbero senso, in quanto «Dio nulla può ricevere da mani che hanno commesso violenza» (Difficile libertà, cit., p. 74). Questa idea di un’obbedienza a Dio destinata ad incrociare le strade della società e della storia, questo concetto di una divinità che anziché venir «tematizzata» richiede di essere «testimoniata», coincide, secondo Lévinas, con l’insegnamento più alto della Bibbia, che egli interpreta sostanzialmente in termini di kerygma etico·. «l’etica è il modello a misura della trascendenza e la Bibbia è rivelazione in quanto kerygma etico» (L’aldilà del versetto, cit., p. 233), «Il fatto che il rapporto col divino si incroci col rapporto verso gli uomini e coincida con la giustizia sociale, ecco lo spirito totale della Bibbia giudaica. Mosè e i profeti non si dan pena dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero» (Difficile libertà, cit., p. 76), «l’etica non è il semplice corollario del religioso, ma è, di per sé, l’elemento nel quale la trascendenza religiosa riceve il suo senso originale» (L'aldilà del versetto, cit., p. 187).

All’interno di questo orizzonte di pensiero - che privilegia le «durezze» dell’etica al di sopra di ogni altro valore e che, secondo la specifica maniera ebraica di rapportarsi alla realtà, insiste sulle «opere» più che sugli «entusiasmi interiori» - si spiega perché Lévinas, anziché in termini di «amore» (vocabolo sempre «sospetto»), preferisca parlare in termini di «responsabilità» (vocabolo che gli sembra «tradurre più severamente il significato dell’amore per il prossimo»). E si spiega pure la sua opposizione alla prassi odierna del perdono

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generalizzato. Prassi che trova consensi soprattutto nel mondo cristiano: «La confusione nasce dal fatto che si tende a separare l’atto della giustizia da quello della misericordia, del perdono. Il primo è presentato come un’alternativa al secondo, e viceversa. I due imperativi morali sarebbero antagonisti. Invece è il contrario! E' la stessa misericordia che esige, inevitabilmente, che a un certo punto sia fatta giustizia. E' in nome dell’amore del prossimo che si fanno i processi, che abbiamo bisogno di ricorrere al giudice, che diventa necessario lo Stato, in quanto garante della giustizia» («La Stampa», cit.).

In conclusione, da qualsiasi punto consideriamo il pensiero di Lévinas, non facciamo che imbatterci in quella tesi del primato dell’etica - in quanto ottica - che costituisce la sostanza e l’originalità del suo filosofare. Un’etica, si badi bene, che ben lontana da ridursi a politica - secondo la mentalità pan-politicistica di tutto un filone del pensiero novecentesco - si pone, ad ogni passo, come criterio di misura della politica stessa: «La politica deve poter essere sempre controllata e criticata a partire dall’etica» (Etica e infinito, cit., p. 98).

CAPITOLO XXIII.

CHAIM PERELMAN E LA NUOVA RETORICA

di Dario Antiseri

1136.Vita e opere.

CHAIM PERELMAN è nato a Varsavia il 20 maggio del 1912. Dal 1925 vive in Belgio, dove compie gli studi secondari ad Anversa e quelli universitari a Bruxelles. Si laurea in legge nel 1934 e in filosofia nel 1938. Ha perfezionato i suoi studi di logica a Varsavia; è stato sin dal 1939 professore incaricato presso l’Università libera di Bruxelles. Dal 1944 è professore ordinario presso la stessa Università. Perelman ha fondato la Société belge de logique et de philosophie des sciences e il Centre national belge de recherches de logique che pubblica la rivista «Logique et Analyse». Membro dell’Accademia Reale del Belgio, Perelman ha ottenuto il premio decennale (1958-67) di filosofia per le sue opere sulla teoria dell’argomentazione.

Del 1945 è il libro De la justice (trad. ital. La giustizia, Giappichelli, Torino, 1959). Questa è «un’opera di non comune interesse, una delle rare opere nella letteratura contemporanea che dia un serio contributo all’approfondimento della nozione di giustizia» (N. BOBBIO, Prefazione a Ch. PEREL MAN, La giustizia, cit., p. 6). Nel 1952 Perelman pubblica, insieme a L. Olbrechts-Tyteca, la raccolta di saggi Rhétorique et Philosophie (trad. ital. Retorica e filosofia. De Donato, Bari, 1959). Ed è proprio all’inizio di questo libro che Perelman si autodefinisce come uno studioso la cui «preoccupazione motrice era stata quella del logico alle prese con la realtà del sociale». Ed è sempre Bobbio a scrivere che «è anzi da credere che questo interesse per il mondo del diritto e della società lo abbia a poco a poco portato ad affrontare lo studio della cosiddetta logica dei valori, e di qui alla scoperta - diventata poi la molla della sua attività maggiore e di maggiore risonanza - che questa logica dei valori non è altro che la teoria dell’argomentazione ovvero delle varie

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tecniche della persuasione (distinta dalla dimostrazione che è propria della logica), non è altro - per dirla con una parola ridiventata familiare

in questi anni ai nostri studi proprio per opera del Perelman - che la retorica distinta dalla logica» (N. BOBBIO, Prefazione, cit., pp. 9-10).

Nel 1958, ancora in collaborazione con Lucie Olbrechts-Tyteca, Perelman pubblica la sua opera maggiore: il Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique (trad. ital. Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino, 1966). Sin dall’inizio i due autori sono persuasi che la pubblicazione di un trattato dedicato all’argomentazione e che riprende una antica tradizione - quella della retorica e dalla dialettica greche - costituisce «una rottura rispetto a una concezione della ragione e del ragionamento, nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 3). Certo, la capacità di deliberare e argomentare è una caratteristica tipica dell’essere ragionevole; ma quello che è avvenuto è che «lo studio dei mezzi di prova utilizzati per ottenere l’adesione è stato completamente trascurato, negli ultimi tre secoli, dai logici e dai teorici della conoscenza» (Ib.). E questo è potuto accadere sotto la pressione dell’idea secondo cui «la ragione è del tutto incompetente nei campi che sfuggono al calcolo, e che là dove né l’esperienza né la deduzione logica possono fornirci la soluzione di un problema, non resta più che abbandonarsi alle forze irrazionali, ai nostri istinti, alla suggestione o alla violenza» (Ib., p. 5). Ebbene, una concezione siffatta della ragione è, per i due autori del Trattato dell’argomentazione, «una limitazione indebita e del tutto ingiustificata del campo in cui interviene la nostra facoltà di ragionare e di provare» (Ib.). Non per niente, infatti, Aristotele aveva fatto oggetto di indagine le prove dialettiche (concernenti il verosimile) accanto a quelle analitiche (concernenti il necessario). Ed è per questo, affermano Perelman e la Olbrechts-Tyteca, che «il nostro trattato si rifà soprattutto al pensiero rinascimentale e, al di là di questo, a quello degli autori greci e latini che hanno studiato l’arte di persuadere e di convincere, la tecnica della deliberazione e della discussione» (Ib., p. 7). Da ciò ben si capisce perché il trattato è presentato come una nuova retorica. «La nostra analisi - dicono ancora i due autori del Trattato dell’argomentazione - concerne le prove che Aristotele chiama dialettiche, prove che egli esamina nei Topici e di cui mostra l’impiego nella Retorica» (Ib.).

Del 1968 è il volume: Droit, morale et philosophie (trad. ital. Diritto, morale, filosofia. Guida, Napoli, 1973). Si tratta di un volume in cui Perelman ha raccolto tutta una serie di importanti suoi saggi, come ad esempio: Cinque lezioni sulla giustizia·, Si possono fondare i diritti dell'uomo?·, La specificità della prova giuridica-. Il ragionamento giuridico-, La teoria pura del diritto e l’argomentazione-, Retorica e filosofia-, Disaccordo e razionalità delle decisioni-. Il diritto e la morale di fronte all'eutanasia·. Quel che il filosofo può imparare da una riflessione sul diritto·, Quel che una riflessione sul diritto può offrire al filosofo. In realtà, Perelman si è dedicato allo studio dei presupposti e degli aspetti filosofici della «nuova retorica», ma col tempo la sua attenzione si è rivolta con impegno al «ragionamento giuridico», e attorno a lui si è sviluppata la più recente Scuola belga di filosofia del diritto, i cui esponenti più noti sono: A. Bayrat, P. Foriers, J. Miedzianagora, M.Th. Motte, L. Silance (vedasi, al riguardo, G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980, pp.

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89-90). Né dobbiamo dimenticare che, nell’ambito delle attività del Centre national de recherches de logique, l’interesse per l'anatisi dei procedimenti effettivi del ragionamento giuridico è stato intenso, come testimoniano studi quali: Le fait et le droit, 1961; Les antinomies en droit (1965); Le problème des lacunes en droit (1968); La règle de droit (1971); La motivation des décisions de justice (1978); Etudes de logique juridique -una lunga serie di volumi a cominciare dal 1966; e il più recente volume: Le raisonnable et le déraisonnable en droit (Librairie generale de droit et de jurisprudence, Paris).

Le Champ de l’argumentation è apparso nel 1970 (e nel 1979 in trad. ital. presso Pratiche Editrice di Parma con il titolo: Il campo dell’argomentazione. Nuova retorica e scienze umane). E' anch’esso una raccolta di saggi tra i quali vanno segnalati: Opinioni e verità-. L’evidenza in metafisica; La filosofia del pluralismo-. Considerazioni sulla ragione pratica-. Diritto, logica ed epistemologia-, Obiettività e intelligibilità nella conoscenza storica.

Logique juridique. Nouvelle Rhétorique è del 1976 (trad. ital. Logica giuridica. Nuova retorica, Giuffrè, Milano, 1979). Del 1977 è L’empire rhétorique. Rhétorique et argumentation (trad. ital. Il dominio retorico. Retorica e argomentazione, Einaudi, Torino, 1981). Del 1984 è la già citata raccolta di saggi Le raisonnable et le déraisonnable en droit. Del 1990 è l’utilissima raccolta di scritti di Perelman - raccolta curata da A. Lempereur: Ethique et droit (Edition de l’Université de Bruxelles).

1137.L’oratore e il suo uditorio.

Una argomentazione non è una dimostrazione (si veda al riguardo il saggio del 1971: Diritto, filosofia e argomentazione, in II campo dell’argomentazione, cit., p. 195 sgg.). Difatti, innanzi tutto, «mentre la dimostrazione, nella sua forma più perfetta, è una sfilata di strutture e di forme il cui concatenamento non potrebbe essere respinto, l’argomentazione ha un carattere non costrittivo: essa lascia all’ascoltatore l’esitazione, il dubbio, la libertà di scelta; anche quando propone delle soluzioni razionali, nessuna prevale a colpo sicuro» (La temporalità come carattere dell’argomentazione, saggio pubblicato nel 1958 in collaborazione con L. OLBRECHTS-TYTECA e ora ristampato in 11 campo dell’argomentazione, cit., p. 22). Nella logica contemporanea i sistemi formali non si fondano su assiomi evidenti, autoevidenti o razionalmente evidenti. Spetta al logico - annota Perelman - «decidere quali siano gli assiomi, cioè le espressioni che senza prova sono considerate valide nel suo sistema e di dire quali siano le regole di trasformazione che egli introduce e che permettono di dedurre da espressioni valide altre espressioni ugualmente valide nel sistema» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 15; si veda anche La specificità della prova giuridica, 1959, rist. in Diritto, morale e filosofia, cit., p. 126). In un sistema formale, una proposizione è dimostrata quando è possibile «indicare in base a quali procedimenti essa possa essere ottenuta come ultima espressione di un seguito di deduzioni, i cui primi elementi sono fomiti da chi ha costruito il sistema assiomatico all’interno del quale la dimostrazione viene effettuata» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 16). Da dove questi primi elementi provengano, se essi siano verità del tutto impersonali, se siano teorie frutto di esperienze o persino pensieri divini è una questione che il logico considera estranea alla propria disciplina. Ma - fa presente Perelman - «quando invece si tratta di argomentare, di influire cioè per

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mezzo del discorso sull’intensità dell’adesione di un uditorio a determinate tesi, non è più possibile trascurare completamente, considerandole irrilevanti, le condizioni psichiche e sociali in mancanza delle quali l’argomentazione rimarrebbe senza oggetto e senza risultati. Ogni argomentazione mira infatti all’adesione delle menti e presuppone perciò l’esistenza di un contatto intellettuale» (Ib., e vedasi anche il saggio del 1972: La giustificazione delle norme, rist. in II campo dell’argomentazione, cit., p. 184). La realtà è che lo scopo di un’argomentazione non consiste nel dedurre conseguenze da premesse; esso, piuttosto, consiste nel «suscitare o accrescere l’adesione di un uditorio alle tesi che si presentano alla sua approvazione» (Il dominio retorico, cit., p. 21 e p. 6; si veda anche il saggio Una teoria filosofica dell’argomentazione, in II campo dell’argomentazione, cit., p. 9). Ed è proprio per questa ragione che una argomentazione «non si svolge mai nel vuoto, ma presuppone un contatto delle menti fra l’oratore e il suo uditorio: è necessario che un discorso venga ascoltato, che un libro venga letto, poiché altrimenti la loro azione sarebbe nulla. Persino quando si tratta di una deliberazione intima, quando colui che fa valere delle ragioni e colui cui esse sono destinate costituiscono un’unica persona, il contatto delle menti è indispensabile» (Il dominio retorico, cit., p.21; e anche Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 16-19).

L’argomentazione mira ad ottenere l’adesione di coloro ai quali essa si rivolge. Per questo - scrive Perelman - essa è, nel suo insieme, relativa all’uditorio sul quale vuole influire (Retorica e filosofia, cit., pp. 225-26). E

Auditorio, in campo retorico, è al meglio definibile «come l’insieme di coloro sui quali l'oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione. Ogni oratore pensa, in modo più o meno cosciente, a coloro che egli cerca di persuadere e che costituiscono l’uditorio al quale i suoi discorsi sono rivolti» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 21; e Logica giuridica. Nuova retorica, cit., pp. 165-67).

Ebbene, qual è la natura di questo uditorio cui l’argomentazione viene rivolta? «Le possibilità - risponde Perelman - sono molteplici ed esso può comprendere l’oratore stesso, nel caso di una deliberazione intima, quando si tratta di prendere una decisione in una situazione delicata, fino ad abbracciare l’umanità intera, o almeno quelli fra i suoi membri che sono competenti e ragionevoli e che io definisco uditorio universale, passando per un’infinita varietà di uditori particolari» (Il dominio retorico, cit., pp. 25-26; vedasi anche il Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 33-47).

L’oratore argomenta davanti ad un uditorio per influire su di esso, per persuaderlo, per suscitare o accrescere in esso l’adesione a determinate tesi. Ma se vuole conseguire il suo scopo, se vuole agire efficacemente attraverso il suo discorso, l’oratore non ha altra via che quella di adattarsi al suo uditorio. L’adattamento dell’oratore all’uditorio rappresenta «una esigenza specifica dell’argomentazione» e consiste «fondamentalmente nel fatto che l’oratore può scegliere come punto di partenza del suo ragionamento solo tesi ammesse da coloro a cui si rivolge» (Il dominio retorico, cit., p. 33; e anche p. 35; e Logica giuridica. Nuova retorica, cit., p. 168).

1138. Fatti, verità e presunzioni.

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Fra gli oggetti di accordo, che l’oratore sceglierà come premesse dell’argomentazione in quanto tesi ammesse dal suo uditorio, Perelman distingue quelli che interessano il reale (vale a dire: i fatti, le verità e le presunzioni) e quelli che interessano il preferibile (e cioè: i valori, le gerarchie e i luoghi del preferibile).

Dal punto di vista argomentativo, sostiene Perelman, siamo in presenza di un fatto «soltanto se possiamo postulare per esso un accordo universale, non controverso» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 71). Tuttavia, si affretta egli a dire, «non esiste enunciato che possa godere, in forma definitiva, di tale condizione, poiché l’accordo può sempre essere rimesso in questione e una delle parti può sempre rifiutare la qualità di fatto a ciò che l’avversario afferma» (Ib.). Dunque: non siamo in possesso di un criterio che ci ponga in grado di stabilire una volta per tutte e indipendentemente dagli altri che qualcosa è un fatto. Un fatto, afferma Perelman, può venir squalificato mostrandone l’incompatibilità con altri fatti o con altre verità più forti e consolidate. In ogni caso, occorre riconoscere che esistono condizioni adatte a favorire l’accordo su di un fatto e che fanno si che un «fatto» venga difeso contro la diffidenza o la cattiva volontà di un avversario: «ciò accadrà particolarmente quando si disporrà di un accordo sulle condizioni di verifica; tuttavia, dal momento in cui dobbiamo fare effettivamente intervenire questo accordo, siamo in piena argomentazione. Il fatto come premessa è un fatto non controverso» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 72).

Quello che è stato detto sui fatti, Perelman lo applica a quelle che si chiamano verità, cioè sistemi relativi a legami tra fatti, «si tratti di teorie scientifiche o di concezioni filosofiche o religiose che trascendono l’esperienza» (Ib., p. 73). Anche queste concezioni possono venir squalificate mettendole in contrasto con fatti e verità che non si è disposti a lasciar cadere. E in questo confronto possono aver luogo rivoluzioni intellettuali di natura scientifica, filosofica o religiosa. Ma può anche accadere che «un confronto di questo tipo non dia un risultato decisivo e che ognuno rimanga sulle proprie posizioni: questa possibilità è abbastanza rara nell’ambito delle scienze, ma si verifica spesso nei dibattiti di natura filosofica o religiosa» (Il dominio retorico, cit., p. 36). Lo statuto di fatto o di verità non è, dunque, mai assicurato in modo definitivo e una volta per tutte (Ib., p. 35). E, comunque, va chiarito che dal momento che un fatto o una verità vengono fatti oggetto di contestazione da parte dell’uditorio, «l’oratore non può più valersene, a meno di non dimostrare che chi vi si oppone si sbaglia o a meno che non vi sia modo di non tener conto del suo parere, vale a dire squalificandolo, privandolo della sua qualità di interlocutore competente e ragionevole» (Ib.).

Oltre che sui fatti e sulle verità, l’argomentazione si fonda spesso su presunzioni le quali - pur essendo meno forti dei fatti e delle verità - «forniscono tuttavia una base sufficiente per instaurare una convinzione ragionevole». Di solito, scrive sempre Perelman, «le presunzioni sono associate a ciò che si verifica normalmente e su cui è ragionevole fare assegnamento» (Ib., p. 36). Ecco qui di seguito qualche presunzione di uso corrente: «la presunzione che la qualità di un atto manifesti quella della persona che l’ha compiuto; la presunzione di naturale credulità, per la quale di primo acchito accogliamo come vero ciò che ci viene detto, e che viene ammesso finché e nella misura in cui non abbiamo ragione di diffidare; la presunzione di interesse, in base alla quale concludiamo che ogni enunciato portato a nostra conoscenza ci interessi; la presunzione riguardante il carattere sensato di ogni

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azione umana» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 75).

1139.Valori, gerarchie, luoghi del preferibile.

Per i fatti, le verità e le presunzioni si esige l’accordo dell’uditorio universale. Esistono, tuttavia, altri oggetti di accordo, per i quali l’adesione è solo quella di gruppi particolari: si tratta dei valori, delle gerarchie e dei luoghi del preferibile.

«L’accordo a proposito di un valore - afferma Perelman - consiste nel- l’ammettere che un oggetto, essere concreto o ideale, deve esercitare sull’azione e sulle disposizioni all’azione una determinata influenza, della quale si può fare uso in una argomentazione, senza per questo ritenere che il corrispondente punto di vista si imponga a tutti» (Ib., p. 79). E in realtà «resistenza dei valori come oggetti di accordo che permettano una comunione su particolari modi di agire, è legata all’idea della molteplicità dei gruppi» (Ib., p. 81). Certo, ci sono valori che vengono considerati come valori universali: il Vero, il Bene, il Bello, l'Assoluto. Ma, fa presente Perelman, «la pretesa dell’accordo universale per ciò che li concerne ci sembra risultare soltanto dalla loro genericità; non si possono considerare valevoli per un uditorio universale, che a condizione di non specificarne il contenuto. Non appena tentiamo di precisarli, troviamo soltanto l’adesione di uditori particolari» (Ib., p. 81). E' una distinzione importante, all’interno dell’analisi dell’argomentazione sui valori, è la distinzione, il più delle volte trascurata, tra quelli che sono valori astratti (ad esempio: la bellezza e la giustizia) e quelli che sono i valori concreti (come: la Francia e la Chiesa) (Ib., p. 82 sgg.; e II dominio retorico, cit., p. 39). In ogni caso, quel che occorre qui sottolineare è che «i valori intervengono a un dato momento in tutte le argomentazioni» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 79). Respinti all’origine della formazione dei concetti di un sistema scientifico, il quale mira al valore della verità, «nei campi giuridico, politico, filosofico, i valori intervengono come base di argomentazione in tutto il corso del ragionamento; si fa appello ad essi per impegnare l’uditore a una scelta piuttosto che a un’altra e soprattutto per giustificarle in modo da renderle accettabili e approvate da altri» (Ib., p. 80). In una discussione - fa presente Perelman - i valori non possono venir cancellati con una semplice negazione. Quando si nega un fatto, è necessario portare le ragioni di tale negazione. E, parimenti, «quando si tratta di un valore si può svalutarlo, subordinarlo ad altri, interpretarlo, ma non è possibile respingere tutti i valori in blocco: si sarebbe allora nel campo della forza, non più in quello della discussione» (Ib.). E, difatti, «il gangster, che pone dinanzi a tutto la propria sicurezza personale, può farlo senza spiegazione se si limita al dominio dell’azione, ma se vuole giustificare davanti ad altri o a se stesso il proprio atteggiamento, egli deve riconoscere, per poterli combattere, gli altri valori che gli vengono opposti» (Ib.). In questo senso, se un interlocutore propone dei valori, allora «occorre argomentare per liberarsene, sotto pena di rifiutare la discussione; generalmente l’argomento comporterà l’ammissione di altri valori» (Ib.).

Oltre che sui valori, l’argomentazione si appoggia su gerarchie. Cosi, per esempio, «parecchi ragionamenti prendono le mosse dall’idea che gli uomini sono superiori agli animali, e gli dei agli uomini» (Il dominio retorico, cit., p. 40; si veda il Trattato dell’argomentazione, cit., p. 85 sgg.). E, accanto a gerarchie concrete come queste, esistono

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gerarchie di valori astratti, «come quella che esprime la superiorità del giusto sull’utile» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 85). Un principio astratto, quale è quello che afferma la superiorità della causa sull’effetto, «può dar luogo ad una gerarchia fra un gran numero di realtà concrete. La superiorità dell’uno sul molteplice sottende tutta l’ontologia di Plotino» (Il dominio retorico, cit., p. 40).

Nell’ambito dei valori e delle gerarchie, risalendo verso quanto c’è di più generale, giungiamo a quelli che sono i luoghi del preferibile. «I luoghi comuni sono delle affermazioni generalissime relative a ciò che si reputa abbia maggior valore, in qualsiasi ambito, mentre i luoghi specifici concernono ciò che è preferibile in ambiti particolari» (Ib., p. 41). Questa è la distinzione che Aristotele aveva tracciato nei Topici (1, Vili, cap. 14, 163b). Nei Topici Aristotele analizza ogni specie di luogo capace di servire come premessa di sillogismi dialettici (distinti da quelli analitici, che sono dimostrativi e impersonali). E classifica questi luoghi, in base alla struttura di fondo della sua filosofia, in luoghi dell’accidente, del genere, della proprietà, della definizione, dell’identità. Da parte sua, Perelman non intende legarsi ad una specifica metafisica e chiama luoghi «solo le premesse di ordine generale che permettono di dare un fondamento ai valori e alle gerarchie e che Aristotele studia tra i luoghi dell’accidente» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 90). Questi luoghi costituiscono «le premesse più generali, spesso sottintese, che intervengono a giustificare la maggior parte delle nostre scelte» (Ib.). Cosi, usiamo il luogo della quantità quando diciamo che è preferibile ciò che è vantaggioso per i più piuttosto che ciò che va a vantaggio di una minoranza, o che è preferibile ciò che è più duraturo ed è utile nelle situazioni più diverse a ciò che è più fragile o serve soltanto in situazioni particolari (Ib., pp. 91-94). Si enuncia, invece, un luogo della qualità quando, contestando «la virtù del numero» (Ib., p. 94), si porta come ragione per preferire qualcosa «il fatto che è unico e raro, insostituibile, che è un’occasione che non si ripresenterà più: carpe diem» (Il dominio retorico, cit., p. 41; si veda al riguardo il Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 94-98). E, accanto ai luoghi della quantità e della qualità, nelle argomentazioni che intessono i discorsi della storia della nostra cultura si fa anche ricorso ai luoghi dell’ordine, i quali «affermano la superiorità dell’anteriore sul posteriore, vuoi della causa, dei principi, vuoi della fine o dello scopo» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 99); a quelli dell’esistente, i quali sanciscono «la superiorità di quanto esiste, di quanto è attuale, di quanto è reale sul possibile, l’eventuale, l’impossibile» (Ib.); a quelli dell 'essenza, che sono luoghi i quali «accordano una superiorità agli individui che meglio rappresentano l’essenza del genere» (Il dominio retorico, cit., p. 42); e a quelli della persona, i quali «implicano la superiorità di ciò che è legato alla dignità e all’autonomia della persona» (Ib.).

1140.Scelta, presenza e adattamento dei dati nel discorso argomentativo.

L’oratore che argomenta dovrà attingere le sue premesse da un insieme vasto, fluido e sempre aperto di dati, di cui sinora abbiamo indicato elementi importanti. E, tale essendo la situazione, è chiaro che «ogni argomentazione implica una selezione preventiva, selezione dei fatti e dei valori, la loro discussione condotta in un modo particolare, in un certo linguaggio e con una insistenza che varia a seconda dell’importanza ad essi accordata» (Ib., p. 46). E il fatto stesso che alcuni elementi vengano selezionati e presentati all’uditorio, sta a

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significare la loro importanza e la loro pertinenza. Questi elementi, ritenuti validi e presentati nel discorso, li si pone «in primo piano nella coscienza» e ciò «conferisce loro una presenza che vieta di trascurarli» (Ib., p. 47).

Quello che intende con tale idea di presenza, Perelman lo illustra tramite un significativo racconto cinese, riportato da Mencio: «Un re vede passare un bove che deve essere sacrificato. Ne ha pietà ed ordina che sia ad esso sostituito un montone. Confessa che ciò è avvenuto perché egli vedeva il bove mentre non vedeva il montone». La presenza - commenta Perelman - «agisce in modo diretto sulla nostra sensibilità» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 123; Il dominio retorico, cit., p. 47). E, in effetti - egli aggiunge - la presentazione di un oggetto, quale la tunica insanguinata di Cesare agitata da Antonio, o la vista dei figli della vittima o dell’imputato possono commuovere gli ascoltatori o i membri di una giuria. L’oggetto reale e concreto, tuttavia, «può presentare caratteri sfavorevoli che sarebbe difficile nascondere allo spettatore», e inoltre «potrebbe distrarre l’attenzione dell’ascoltatore in una direzione diversa da quella che interessa all’oratore» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 124). E qui sta la ragione per cui non vanno sempre seguiti i consigli di quei maestri di retorica che consigliano il ricorso a cose corporee e concrete per commuovere l’uditorio e accaparrarsene il consenso. L’importante - afferma Perelman - è, allora, «non identificare la presenza, quale noi la intendiamo, con una presenza effettiva» (Il dominio retorico, cit., p. 47). Per cui una delle preoccupazioni di maggior peso sarà per l’oratore quella «di rendere presente, solo grazie alla magia della sua parola, ciò che in realtà è assente e che egli considera importante per la sua argomentazione, oppure di valorizzare, rendendoli più presenti, alcuni degli elementi che sono effettivamente offerti alla coscienza» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 124). L’oratore con sue parole porta al centro della nostra attenzione - e quindi alla presenza della coscienza - avvenimenti che, altrimenti, verrebbero trascurati e sarebbero, per cosi dire, inesistenti. Si crea la presenza, insistendo a lungo anche su elementi che non sono affatto dubbi: «prolungando l’attenzione loro dedicata, si aumenta [...] la loro presenza nella coscienza degli ascoltatori» (Il dominio retorico, cit., p. 49). Per ottenere l’effetto della presenza, i maestri di retorica - ricorda Perelman - hanno raccomandato diverse tecniche. «L’insistenza può risultare dalla ripetizione, dall’accumulo dei particolari, dall’accentuazione di certi passaggi. Si tratterà un argomento dapprima in modo sintetico, poi enumerandone le parti» (Ib.). Quest’ultima è quella tecnica che, nella teoria retorica, si chiama amplificazione·. «una figura che utilizza, al fine di creare la presenza, la divisione di un tutto nelle sue parti»; «in un’altra figura, la congerie, si comincia con l’enumerare le parti e si termina con una sintesi» (ecco un esempio ripreso da Delle instituzioni oratorie di Vico: «Codesti occhi tuoi sono formati alla impudenza, il volto all’audacia, la lingua agli spergiuri, le mani alle rapine, il ventre all’ingordigia... i piedi alla fuga: dunque sei tutto malvagità»); «analogamente, nella sinonimia o metabole, viene ripetuta la stessa idea con parole diverse, che paiono correggere il pensiero in un senso determinato, come nel seguente passo del Cid di Corneille: “Va’, corri, vola e vendicaci”» (Ib.). E, nella Retorica ad Erennio (IV, 68), l'ipotiposi viene definita come quella figura che «espone le cose in modo tale che la vicenda sembri svolgersi e la cosa accadere sotto i nostri occhi». E' qui è forse opportuno ricordare, sebbene solo di passaggio, che «perché si tratti di una figura, bisogna che ci si trovi di fronte a un modo di parlare

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diverso da quello comune e la cui forma è individuabile attraverso una struttura particolare. Cosi la ripetizione costituirà una figura nella misura in cui essa non è richiesta dal fatto che il nostro interlocutore non ci ha sentito; l’interrogazione sarà una figura quando è puramente oratoria, in quanto l’oratore conosce già la risposta alla domanda. Analogamente la prolessi è una figura utile quando l’oratore presenta delle obiezioni cui si accinge immediatamente a rispondere» (Il dominio retorico, cit., p. 50). Una figura retorica, inoltre, è argomentativa se il suo uso nel discorso riesce a determinare un mutamento di prospettiva; se, invece, il discorso non provoca l’adesione dell’ascoltatore, la figura, allora, «verrà percepita come ornamento, come figura di stile, e rimane inefficace in quanto mezzo di persuasione» (Ib.).

1141. L’interpretazione dei dati.

Ogni argomentazione è, dunque, selettiva: essa sceglie gli elementi e costruisce pure la maniera in cui renderli presenti. Ma c’è di più, poiché «lo studio dell’argomentazione ci obbliga [...] a tener conto non soltanto della selezione dei dati, ma anche del modo di interpretarli, del significato che si vuole loro attribuire» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 127; vedasi, a questo proposito, il denso saggio La concezione della ricerca scientifica di Michael Polanyi, in II campo dell'argomentazione, cit., p. 243 sgg.). Uno stesso procedimento può venir descritto in svariati modi: «come il fatto di stringere un bullone, di congegnare un veicolo, di guadagnarsi la vita, di favorire la corrente delle esportazioni». Un atto può venir interpretato «come simbolo, come mezzo, come precedente, come punto di riferimento in una direzione» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 128). Le diverse interpretazioni di uno stesso fatto o evento o azione non sono sempre incompatibili; ma «il fatto di presentarne una respinge le altre nell’ombra» (Il dominio retorico, cit., pp. 53-54); ciò nel senso che «l’evidenza attribuita ad una di esse, il posto di rilievo che essa occupa nella coscienza, respinge le altre nell’ombra. L’essenziale di un gran numero di argomentazioni risulta da questo gioco di interpretazioni innumerevoli e dalla lotta per imporne alcune e scartarne altre» (Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 128-29).

La consapevolezza della molteplicità di interpretazioni possibili di un fatto o di un’azione è la stessa consapevolezza che si ha a proposito dell’interpretazione di un testo. Un testo appare chiaro quando il suo senso sembra univoco, quando cioè se ne vede o conosce una sola interpretazione sensata. Tuttavia, questa presunta chiarezza - che pare una qualità del testo -, «può derivare - scrive Perelman - dall’ignoranza o da mancanza di immaginazione» (Il dominio retorico, cit., p. 54). E, a sostegno di questa sua considerazione, egli richiama un pensiero di Locke: «Parecchi uomini che erano piuttosto soddisfatti di aver capito, ad una prima lettura, il significato di un testo della Sacra Scrittura o di una clausola del codice, consultando i commentatori, ne hanno del tutto perduto il senso e queste delucidazioni hanno dato origine a dubbi o li hanno fatti aumentare, coprendo di oscurità il passo» (trad. ital. Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino, 1971, p. 558)

1142.Ampiezza e forza degli argomenti.

Il problema dell'ampiezza è una questione tipica dell’argomentazione. Una dimostrazione logica o matematica più è sintetica più è elegante, in quanto e nel senso che si è giunti al

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risultato voluto - e valido per tutti - con meno sforzi. In ogni caso, scrive Perelman, «il valore della dimostrazione [...] è affatto indipendente dalla sua lunghezza, ciò che invece non può dirsi per un discorso argomentativo» (Il dominio retorico, cit., p. 150). Di primo acchito, si è portati a pensare che - dal momento che in una argomentazione nessun argomento è vincolante, mentre ognuno di tali argomenti pare contribuire a rinforzare l’argomentazione nel suo insieme - l’efficacia del discorso dipenda dal numero degli argomenti che un oratore è in grado di produrre. Le cose però - si affretta a precisare Perelman - non sono cosi facili. A parte altre ragioni (Ib., pp. 150-51), è chiaro che per quanto si voglia moltiplicare la quantità degli argomenti, esistono «limiti psicologici, sociali o economici che impediscono di ampliare incontrollabilmente il discorso» (Ib., p. 151). Cosi, per esempio, un manoscritto troppo grosso rischia di non trovare un editore; un libro troppo voluminoso può scoraggiare anche il più interessato lettore; un discorso troppo lungo spazientisce gli ascoltatori; in un dibattito il tempo di ciascun oratore è sempre limitato dal tempo degli altri oratori. Ecco, allora, che - a motivo del fatto che il numero degli argomenti è a priori indefinito e che in un discorso effettivo non è moltiplicabile a volontà - è necessario procedere ad una scelta: ad «una scelta fondata sull’idea che ci si fa della forza degli argomenti» (Ib.). Ma: in che cosa consiste la forza di un argomento? Consiste nella sua efficacia o nella sua validità? Si chiede Perelman: «L’argomento forte è quello che persuade effettivamente o quello che dovrebbe convincere qualsiasi essere ragionevole?» (Ib.). Ebbene, risponde Perelman, «poiché l’efficacia di un argomento è relativa all’uditorio, è impossibile valutarla senza far riferimento all’uditorio cui esso viene presentato» (Ib.). La validità, invece, è relativa ad un uditorio competente e, in generale, Auditorio universale. La forza di un argomento, dunque, «dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle» (Ib., pp. 151-52). In ogni caso è certo che, se parecchi argomenti distinti arrivano alla medesima conclusione, «il valore accordato alla conclusione e a ognuno degli argomenti isolati ne sarà accresciuto, perché sembra poco verosimile che parecchi ragionamenti del tutto erronei portino a uno stesso risultato» (Trattato dell'argomentazione, cit., p. 493). Parimenti, «se parecchie testimonianze, indipendentemente l’una dall’altra, coincidono sull’essenziale, il valore di ognuna si trova rafforzato» (lì dominio retorico, cit., p. 154). Ciò anche se una concordanza eccessiva delle testimonianze ne rende sospetta la loro indipendenza.

L’ampiezza di una argomentazione può talvolta dipendere dal fatto che non si conoscono le tesi abbracciate dall’uditorio, per cui vengono presentate parecchie argomentazioni, sperando nell’efficacia di qualcuna di esse. Cosi è nella doppia difesa, di fatto e di diritto: «nel primo caso si negano i fatti di cui si è accusati; nel secondo, si cerca di dimostrare che i fatti invocati non sono contrari né al diritto né alla morale» (Ib., p. 155; Trattato dell’argomentazione, cit., pp. 478-99). Può anche accadere che l’ampiezza origini non dalla presentazione di argomenti diversi quanto piuttosto dalla ripetizione o dalla amplificazione di un solo argomento. Una siffatta insistenza rende presente l’argomento, ma non sempre essa è utile, giacché rischia di stancare l’uditorio (Il dominio retorico, cit., p. 155). L’ampiezza di un discorso argomentativo può venir ridotta rinunciando ad un qualche argomento. Una concessione del genere fatta all’avversario «è una prova di buona volontà, della

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sovrabbondanza di argomenti di cui si dispone ma che non si utilizzano, tanto appare solida la causa che si difende» (Ib., p. 156). Un’altra concessione consiste nel riprendere punto per punto il discorso dell’avversario; e questo vien fatto per rincarare la dose dell’attacco ridicolizzando in tal modo l’avversario. Perelman adduce una esemplificazione dal De institutione oratoria (VI, 12.74) di Quintiliano: «Lamentandosi Domizia che Giunio Basso aveva detto di lei che, per avarizia, soleva vendere le sue scarpe vecchie, questi le rispose: - Per Ercole, non ho mai detto una cosa simile: ho detto invece che tu sei solita comprarne».

1143. La teoria dell'argomentazione: tra la presunta verità assoluta dei dogmatici e la non verità degù scettici.

Nella Conclusione del Trattato dell’argomentazione Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca scrivono: «Noi speriamo che il nostro trattato provocherà una reazione salutare, e che il fatto solo che sia stato scritto impedisca in futuro di ridurre tutte le tecniche di prova alla logica formale e di vedere nella ragione solo una ragione calcolatrice» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 533). In realtà, questa reazione salutare c’è stata, qualora si pensi all’interesse che, a partire proprio dalla pubblicazione del Trattato dell’argomentazione, ha suscitato la nuova retorica. Nel 1961 la «Revue internationale de philosophie», nel 1964 le riviste «Logique et Analyse» e «The Monist» propongono ciascuna un numero tematico sulla teoria dell’argomentazione. E poi ci sono, tra tanti altri, i lavori di S.E. TOULMIN (The Uses of Argument, 1958; trad, it., Gli usi dell’argomentazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1975), di H.W. JOHNSTONE (Philosophy and Argument, 1959), di JOHNSTONE e M. NATANSON

(Philosophy, Rhetoric and Argumentation, 1965), di W.J. BRANDT (The Rhetoric of Argumentation, 1970), di A. GIULIANI (La controversia. Contributo alla logica giuridica, 1966). E' notevole, inoltre, è stata la ripresa degli studi sulla storia della retorica: M. EISENHUT, Einführung in die antike Rhetorik und ihre Geschichte, 1974; K. ERIKSON, Aristotle’s Rhetoric. Five Centuries of Philological Research, 1975; A. HELLWIG, Untersuchungen zur Theorie der Rhetorik hei Platon und Aristoteles, 1973; G. KENNEDY, The Art of Rhetoric in the Roman World, 1972; J. MARTIN, Antike Rhetorik. Technik und Methode, 1974; E. SEIGEL, Rethoric and Philosophy in Renaissance Humanism, 1971; C.A. VIANO, Retorica, magia e natura in Platone, saggio quest’ultimo pubblicato nel 1965. Tuttavia, nel passato, nella storia del pensiero occidentale, il destino della retorica è stato il più delle volte un destino segnato negativamente da pretese come quelle di Platone o di Cartesio. Esistono anche altre ragioni del declino della retorica (Retorica e filosofia, 1968, in Diritto, morale e filosofia, cit., pp. 222-23), ma è certo che diversamente da Gorgia o da Pitagora, Platone sostiene che dovere primo del filosofo è quello del perseguimento della verità che, una volta afferrata, il filosofo comunicherà tramite tecniche retoriche al suo uditorio. Talché la retorica degna di un filosofo è, per Platone (Fedro, 273), quella che sarà in grado di persuadere gli stessi dèi, in quanto si ha a che fare con la verità e non con semplici opinioni. Da pane sua, Canesio volle costruire un sistema filosofico che, passando da evidenza in evidenza, non lasciasse spazio alcuno ad opinioni controverse. Ed è ovvio che la pretesa di poter costruire una filosofia le cui tesi siano tutte evidenti o dimostrate in maniera costrittiva e vincolante elimina dall’ambito del discorso filosofico ogni forma di argomentazione e rifiuta la retorica quale strumento della filosofia (si vedano, su questo

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punto, Il metodo dialettico e il ruolo dell'interlocutore nel dialogo, 1955; e Dialettica e dialogo, 1970, ora in II campo dell’argomentazione, cit., rispettivamente pp. 71-78 e pp. 81-92).

Ebbene, è proprio contro una tale pretesa e contro tutti i progetti di «razionalità» che da essa si sono sviluppati, che è volta la proposta della teoria dell’argomentazione di Perelman. Ecco il suo intento di fondo: «Se una concezione ristretta della prova e della logica ha portato a una concezione assai misera della ragione, l’allargamento della nozione di prova e l’arricchimento della logica che ne risulta non possono che reagire a loro volta sul modo in cui è concepita la nostra facoltà di ragionare» (Trattalo dell’argomentazione, cit., p. 534; anche Retorica e filosofia, cit., p. 152). Ma il perseguimento di questo intento, l’ampliamento dell’idea di ragione, presuppone il deciso rifiuto delle «esorbitanti pretese» delle concezioni filosofiche «definitive e immutabili» che proclamano la loro incontrovertibilità e di possedere verità eterne fondate su dati stabiliti una volta per sempre, chiari, intoccabili, uguali per tutti, indipendenti dalle condizioni sociali e dalle situazioni storiche (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 534). «Noi - affermano i due autori del Trattato dell’argomentazione - combattiamo le opposizioni filosofiche, nette e irriducibili, che ci vengono presentate dagli assolutismi di ogni specie: dualismo della ragione e dell’immaginazione, della scienza e dell’opinione, dell’evidenza innegabile e della volontà ingannatrice, dell’obiettività universalmente ammessa e della soggettività incomunicabile, della realtà che si impone a tutti e dei valori puramente individuali» (Ib.).

Perelman dichiara di non credere affatto a «rivelazioni definitive ed immutabili» (Ib.); critica l’idea di evidenza irrefragabile e fa vedere come l’evidenza svanisca non appena si voglia andare al di là dell’intuizione soggettiva (Evidence et preuve, in «Dialettica», XI, 1-2, 1957, p. 22 sgg.; L'evidenza in metafisica, in II campo dell’argomentazione, cit., pp. 93-108); afferma che «il rifiuto dell’assolutismo è, prima di tutto, il rifiuto del criterio dell’evidenza [...], e, nello stesso tempo, la riabilitazione dell’opinione» (Opinioni e verità, 1959, rist. in 11 campo dell’argomentazione, cit., p. 67); sostiene che l’idea di una dimostrazione rigorosa della verità - idea proposta e accettata come unico degno e praticabile compito del filosofo - ha distolto i filosofi e i logici dallo studio dell’argomentazione, «ritenuta indegna della loro attenzione e lasciata agli specialisti della pubblicità e della propaganda, di cui le caratteristiche principali sarebbero la mancanza di scrupoli e la costante opposizione alla ricerca della verità» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 535); e, invece di fondarsi su verità definitive e incontrovertibili, egli parte dal fatto che «gli uomini e i gruppi di uomini aderiscono a ogni specie di opinione con una intensità variabile» (Ib.). In realtà, l’ideale cartesiano di ragione e di prova e di discorso al riparo dalla discussione, ha subito più di un devastante terremoto, basti pensare alle geometrie non-euclidee. E Karl Popper - dice Perelman - «ha difeso abilmente la concezione moderna secondo cui ogni teoria scientifica non è che un’ipotesi umana che, per essere feconda, oltrepassa necessariamente i dati dell’esperienza e non è né evidente né infallibile» (Il dominio retorico, cit., p. 169). Ma - commenta Perelman - «in mancanza di un’evidenza che si imponga a tutti, l’ipotesi, per essere ammessa, deve essere fondata su buone ragioni, riconosciute tali da altri uomini, membri della stessa comunità scientifica. Lo statuto della conoscenza cessa di essere

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impersonale, in quanto ogni pensiero scientifico diviene un pensiero umano, fallibile, situato in un contesto e soggetto a discussione» (Ib.). Dunque: contrariamente a Cartesio che pensava di edificare tutto il sapere su evidenze indiscutibili, occorre far vedere «quanto sia eccezionale l’accordo degli scienziati e dovuto a ragioni specifiche» (Ib., p. 170). Comunque, nella scienza nulla vi è di definitivo, anche quando vi è accordo su leggi, esperimenti e protocolli. E se questo vale nella scienza, in tutti gli altri ambiti, che si tratti di religione o di filosofia, di morale o di diritto, il pluralismo - ad avviso di Perelman - è la regola. Tali ambiti, egli afferma, «traggono la loro razionalità dal sistema dell’argomentazione, dalle buone ragioni che si possono avanzare a favore e contro ogni tesi in questione» (Ib.). Dopo Hegel, fa presente Perelman, è difficile negare che ogni filosofia sia sempre, al tempo stesso, una filosofia situata e controversa, ed è noto che quello dei valori è per eccellenza l’ambito dell’argomentazione, della dialettica e della retorica. La realtà è che problemi essenziali - questioni morali, sociali o politiche, filosofiche o religiose - sfuggono «proprio per la loro natura ai metodi delle scienze matematiche e naturali», e per questo «non sembra ragionevole scartare con disprezzo tutte le tecniche di ragionamento proprie alla deliberazione, alla discussione, in una parola, all’argomentazione» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 536). Se si pretende che quanto non è oggettivamente e indiscutibilmente valido, è arbitrario, si riducono indebitamente le modalità della ragione umana e si traccia una linea sbagliata di demarcazione tra razionale e irrazionale. Ma non si insisterà mai abbastanza sul fatto che «solo l’esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario, dà un senso alla libertà umana, condizione per l’esercizio di una scelta ragionevole. Se la libertà fosse solo adesione necessaria a un ordine naturale dato precedentemente, esso escluderebbe ogni possibilità di scelta: se l’esercizio della libertà non fosse fondato su delle ragioni, ogni scelta sarebbe irrazionale e si ridurrebbe a una decisione arbitraria che agirebbe in un vuoto intellettuale» (Ib., p. 538; Una teoria filosofica dell’argomentazione, in II campo dell’argomentazione, cit., pp. 20-21). E' solo grazie alla possibilità dell’argomentazione - la quale fornisce ragioni non costrittive per una tesi o l’altra - è possibile sfuggire al dilemma tipico di gran parte del pensiero occidentale: «adesione a una verità obiettivamente e universalmente valida, o ricorso alla suggestione e alla violenza per far accettare le proprie opinioni e decisioni» (Trattato dell’argomentazione, cit., p. 538).

La teoria dell’argomentazione interessa un territorio vastissimo: «Occupa il campo di ogni forma di discorso persuasivo, dalla predica all’arringa, dall’orazione alla concione, ovunque la ragione, intesa come facoltà di escogitare argomenti pro o contro una tesi, è adoperata per sostenere una causa, per ottenere un consenso, per guidare una scelta, per giustificare o determinare una decisione» (N. Bobbio, Prefazione a Ch. Perelman, Trattato dell'argomentazione, cit., p. xm). Interessa i discorsi dei filosofi (esemplare a questo riguardo è il saggio del 1972: Filosofia, retorica, luoghi comuni, rist. in II campo dell’argomentazione, cit., pp. 109-22), i contrasti etici (si vedano i capitoli 2, 3, 4, 18 e 19 del volume Diritto, morale e filosofia, cit., pp. 83-121; e il capitolo intitolato Morale del volume II campo dell’argomentazione, cit., pp. 153-82), la controversia giudiziaria (Logica giuridica. Nuova retorica, cit.; i capitoli 5,6,7, 8, 9 del volume Diritto, morale e filosofia, cit., pp. 125-94; Diritto, filosofia e argomentazione e Diritto, logica ed epistemologia, in II campo dell’argomentazione, cit., rispettivamente pp. 195-215 e pp. 216-32). Essa è «lo studio

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metodico delle “buone ragioni” con cui gli uomini parlano e discutono di scelte che implicano il riferimento a valori quando hanno rinunciato ad imporle con la violenza o a strapparle con la coazione psicologica, cioè alla sopraffazione e aU’indottrinamento» (N. Bobbio, Prefazione, cit., pp. xm xiv). Contro il fanatismo dogmatico di chi si crede in possesso della verità ultima, e contro lo scetticismo di chi nega qualsiasi verità, la teoria dell’argomentazione «mostra che tra la verità assoluta e la non-verità c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercé la tecnica dell’addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza» (Ib., p. xix).

Occorre dire che parallela alla «nuova retorica» è - come ha notato G. Tarello - «una vicenda culturale che, negli stessi anni, si è svolta nell’area culturale anglosassone nel campo della ricerca filosofica». Qui, infatti, da un lato si è studiata (si pensi a H.W. JOHNSTONE, Philosophy and Argument, cit.) «l’argomentazione persuasiva come si manifesta in settori non aperti alla ingerenza logica, per esempio l’argomentazione filosofica»; dall’altro lato si è tentata (si pensi a S.E. TOULMIN, The Uses of Argument, Cambridge University Press, Cambridge, 1958; trad. ital. cit.) «una teoria generale del ragionamento, comprensiva sia del ragionamento logico-matematico che del ragionamento morale e giuridico, assumendo come modello generale di ragionamento l’argomentazione giuridica, e procedendo poi a distinguere - nell’ambito del “genere” ragionamento - diversi settori caratterizzati rispettivamente da diversi gradi di “ resistenza ” delle premesse e delle regole di derivazione» (G. TARELLO, L’interpretazione della legge, cit., pp. 90-91).

CAPITOLO XXIV.

NELSON GOODMAN: IL «NUOVO ENIGMA» DELL’INDUZIONE

E L’ARTE COME CONOSCENZA

di Dario Antiseri

1144. Vita e opere.

NELSON GOODMAN è nato a Sommerville (Massachusetts) nel 1906. Ha studiato presso l’Università di Harvard, dove nel 1941 ha conseguito il Ph. D. Ha insegnato prima al Tuli College, 1945-46; poi, dal 1946 al 1964, alla Pennsylvania University e dal 1964 al 1967 alla Brandeis University; e, infine, dal 1968 al 1977 ha insegnato ad Harvard, e attualmente è professor emeritus di questa Università. Ha tenuto corsi di lezioni in molte altre Università, tra cui quelle di Oxford, Princeton e Londra. Nel 1967 ha fondato - e poi diretto per dieci anni - presso la Harvard Graduate School of Educadon il Project Zero: un programma di ricerca di base sulla pedagogia delle arti.

Goodman ha diretto, a Boston, una galleria d’arte ed è, tra i filosofi americani di orientamento analitico, un’eccezione per l’eccellente conoscenza delle diverse arti e dei problemi estetici. Il suo pensiero «spazia dalla logica all’epistemologia, alla scienza e

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all’arte», in esso c’è «una profonda continuità», e lo si può considerare come «una teoria coerente, ancorché complessa, del conoscere e dell’agire umano», ed è un pensiero di «grande rilevanza [...] per i filosofi, gli scienziati e gli studiosi di scienze umane» (R.S. Cohen-M.W. Wartofsky, Premessa a N. Goodman, La struttura dell’apparenza, trad, ital., Il Mulino, Bologna, 1985, p. 5; ma si veda anche M. Boudot, Goodman Nelson, in Dictionnaire des philosophes, Presses Universitaires de France, Paris, 1984, vol. A-J., p. 1065). Di sé stesso Goodman ha scritto: «Tutta la mia vita l’ho vissuta tra le arti e la filosofia, ma fu solo molto tardi, nel 1968, che io scrissi qualcosa collegando insieme i due ambiti. Divenni sempre più consapevole che la rivelazione che riceviamo dalla scienza [...] e la rivelazione che riceviamo dall’arte sono molto simili [...]. Che l’illuminazione della scienza e quella dell’arte fossero simili è una realtà che è stata oscurata unicamente dall’assurdo errore di chi ha sostenuto e sostiene che l’arte è puro gioco» (Conversation with F. Boenders and Mia Gosselin, in Of Mind and Other Matters, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1984, p. 192).

Del 1951 è The Structure of Appearance (Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1951; The Bobbs-Merril, Indianapolis, 1966; Reidel, Dordrecht-Boston, 1977; trad, ital., La struttura dell’apparenza, cit.). Tale lavoro scaturisce dalla tesi di dottorato A Study of Qualities (1941); e, sebbene faccia riferimento al Logischer Aufbau der Welt (1928) di Carnap e si inserisca nella tradizione empiristica, esso è un libro che su non pochi e decisivi punti si distacca dalle tesi di Carnap e dell’empirismo. In realtà, come ha osservato Geoffrey Heilman, «per quanto riguarda gli sviluppi epistemologici, constatiamo con ironia che, forse a causa della fama che la vuole associata con l'Aufbau di Carnap, gli stretti legami tra la Struttura ed alcuni dei filoni più importanti della recente filosofia del linguaggio e della scienza sono passati quasi completamente inosservati. Infatti, nonostante la Struttura abbia un evidente debito [...] nei confronti dell’empirismo logico per ciò che riguarda le questioni di metodo, l’epistemologia della Struttura fa corpo unico con le critiche moderne più significative a quella tradizione e con la svolta rispetto ad essa» (G. Hellman, Introduzione a N. Goodman, La struttura dell’apparenza, cit., pp. 42-43). Cosi è per «il rifiuto del dato, di qualsiasi teoria e piano osservazionale neutrale rispetto ai dati culturali» che intenda porsi come fondamento della conoscenza (Ib.). Tale posizione avvicina Goodman, per esempio, a Kuhn. Altre sue idee, afferma ancora Hellman, potrebbero venir raffrontate con alcuni aspetti delle opere di N.R. Hanson e P.K. Feyerabend. E nei più recenti scritti di Goodman «emerge la relatività essenziale alle pratiche di una comunità scientifica» (Ib., p. 43).

Fact, Fiction, and Forecast appare in prima edizione nel 1954 (Athlone Press, London; e poi nel 1955, 1979 e 1983 presso la Harvard University Press, Cambridge, Mass.; trad, ital., Fatti, ipotesi e previsioni, Laterza, Roma- Bari, 1985). Questo libro - ha scritto H. Putnam - «ha ormai conseguito lo statuto paradossale di un classico contemporaneo. E' un classico perché uno dei pochi libri che chiunque si occupi seriamente di filosofia ai nostri giorni deve aver letto; è contemporaneo non solo per essere l’opera di un filosofo del nostro tempo, ma perché testimonia di problemi e risultati che sono tuttora dibattuti in filosofia» (H. Putnam, Prefazione alla quarta edizione di N. Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. v). In Fatti, ipotesi e previsioni Goodman «riforma totalmente il tradizionale problema

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dell’induzione» (Ib.). 

The Languages of Art è del 1968 (The Bobbs-Merrill, Indianapolis; trad, ital., I linguaggi dell'arte, Il Saggiatore, Milano, 1976). Il libro trae origine dalle John Locke Lectures tenute da Goodman nel 1962 ad Oxford. Scrive Goodman che «una ricerca sistematica sulla varietà e sulle funzioni.dei simboli è stata raramente intrapresa» e che lo scopo del suo libro è esattamente quello di «impostare una teoria generale dei simboli» (Introduzione a I linguaggi dell’arte, cit., p. 3). E la cosa davvero interessante è che, «a differenza di quasi tutti i tentativi analoghi, questa teoria generale dei simboli è costruita su un fondamento logico-epistemologico» (F. Brioschi, Introduzione all'edizione italiana de I linguaggi dell’arte, cit., p. X). Di notevole rilievo sono lo sgretolamento che Goodman effettua della «dispotica dicotomia» fra cognitivo ed emotivo (I linguaggi dell’arte, cit., specialmente il cap. VI dal titolo Arte e intelletto) e la riproposizione della concezione stando alla quale l’esperienza estetica e quella scientifica hanno entrambe «un carattere fondamentalmente cognitivo» (Ib., p. 206).

Nel 1972 Goodman dà alla stampa Problems and Projects (The Bobbs- Merrill, Indianapolis-New York). È questo un libro di oltre 450 pagine in cui l’autore ha raccolto la maggior parte dei suoi saggi pubblicati in precedenza, brani tratti dai suoi tre primi libri e una mezza dozzina di pezzi non pubblicati prima di allora. I saggi sono stati, a seconda della materia trattata, accorpati in capitoli come, per esempio, quello concernente la Filosofia o l’altro riguardante l’Arte, o quello dedicato agli Individui o quelli che rispettivamente trattano dell ’Induzione, del Significato, o della Semplicità.

Del 1978 è il volume Ways of World-making (Hackett Publishing Company, Indianapolis-Cambridge; trad, ita!., Vedere e costruire il mondo, Laterza, Roma- Bari, 1988). R.S. Cohen e M.W. Wartofsky hanno detto che Goodman morde senza abbaiare. E, difatti, in questo libro di «orientamento scettico, analitico e costruzionalista» (Ib., p. 1), Goodman porta a maturazione l’inquietante tesi «che il mondo non abbia, in se stesso, una struttura anziché un’altra [...]. La sua struttura dipende dai modi in cui lo consideriamo, e da ciò che facciamo». E «ciò che facciamo, in quanto esseri umani, è parlare e pensare, costruire, agire e interagire. In realtà, noi costituiamo i nostri mondi costruendoli, in un modo o nell’altro» (R.S. Cohen e M.W. Wartofsky, Premessa, cit., p. 5).

Of Mind and Other Matters è stato pubblicato, come già visto, nel 1984. Si tratta di un libro che raccoglie scritti apparsi nei dieci anni precedenti e alcuni saggi mai pubblicati prima del 1984. Nell’intenzione di Goodman, esso doveva dare l’idea di unità di uno sviluppo di pensiero che «spazia dalla politica della scienza alla critica della danza, dalla teoria letteraria alla psicologia cognitiva, dal linguaggio alle funzioni dei musei, e dalla pedagogia 

al costruire mondi» (Ib., Preface). In collaborazione con Katherine Elgin, Goodman ha pubblicato nel 1988 il volume Reconceptions in Philosophy and Other Arts and Sdences (Hackett, Indianapolis), dove, in un confronto tra filosofia, arti, scienze e mondo della vita quotidiana, Goodman ripensa il suo tentativo di «una migliore comprensione» di questi mondi simbolici.

Di Goodman ha scritto Hilary Putnam: «Per lo più i filosofi sono persone che hanno qualche

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tesi da difendere; Goodman è un uomo che ha metodi e concetti da vendere [...] Riflettendo su Goodman, tomo a insistere sul suo ottimismo, o forse dovrei dire sulla sua energia. Egli non crede nel progresso in un senso che implichi che le cose vanno sempre meglio, o che debbano andare meglio in futuro. Egli crede, però, che il nuovo può essere emozionante e benefico, ma anche deprimente e nocivo; e ritiene che costruire e creare sia un’emozione e una sfida. In breve, egli pensa che ci sia molto, molto da fare, e preferisce progressi concreti e parziali a grandiose visioni, in definitiva vuote» (H. Putnam, Prefazione alla quarta edizione di N. Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni, cit., pp. XIV- XV).

1145. Sistemi «costruzionali» fondabili su molte basi.

Nonostante i suoi errori, l'Aufbau di Carnap «porta alla filosofìa la potente tecnica della logica moderna, insieme con degli standards senza precedenti di chiarezza esplicita, coerenza e rigore. Essa applica ai problemi filosofici di base i nuovi metodi e principi che soltanto qualche anno prima avevano gettato una luce fresca e brillante sulla matematica. La potenziale importanza per la filosofia è paragonabile all’importanza dell’introduzione del metodo deduttivo euclideo in geometria» (Significato di «Der logische Aufbau der Welt», in AA. VV., La filosofia di Rudolf Carnap, a cura di P.A. Schilpp, trad, ital., Il Saggiatore, Milano, 1963, vol. 1, p. 542). Questo sincero e giustificato apprezzamento che Goodman offre dell'Aufbau di Carnap non deve in ogni caso far dimenticare quanto sia profonda la rottura che Goodman già con La struttura dell’apparenza (1951) opera con tesi tipiche della tradizione empiristica, tesi difese da Carnap ma anche da Russell e da C.I. Lewis. E siffatta rottura basterebbero a testimoniarla sia il relativismo ontologico sia il nominalismo metodologico, due proposte elaborate con tutta chiarezza ne La struttura dell’apparenza. Di contro alla concezione fondazionalista di Carnap - il cui Konstitutionssystem privilegiava gli Elementarerlebnisse attribuendo ad essi una erkenntnissmässige Primarität (priorità epistemologica) - Goodman afferma: «i sistemi di filosofia logica», che egli chiama «costruzionali» per distinguerli dai sistemi formali non interpretati e dal discorso filosofico amorfo, «si possono fondare su molte basi differenti e costruire in modi diversi» (La struttura dell’apparenza, cit., p. 63). Non c’è un «dato» che possa costituire una base extra-logica indiscutibile di un sistema costruzionale, una base libera da qualsiasi concettualizzazione e tale che a partire da essa sia possibile costruire o ricostruire l’intero edificio della conoscenza. La realtà è che «tutta la percezione è penetrata dalla selezione e dalla classificazione, che a loro volta si sono determinate attraverso un complesso di eredità, abitudini, preferenze, predisposizioni e pregiudizi. Perfino gli asserti fenomenici che intendono descrivere, tra le sensazioni grezze, le più grezze, non sono né liberi da influenze formative di questo tipo né incorreggibili» (G. Hellman, Introduzione a N. Goodman, La struttura dell’apparenza, cit., p. 22).

Per tutto ciò, scrive Goodman, sistemi di tipi diversi - come per esempio, quelli fisicalisti e quelli fenomenisti - «anche se possono essere il risultato di predisposizioni o convinzioni filosofiche opposte, non sono necessariamente in conflitto tra loro, ma possono essere visti come risposte a problemi diversi» (La struttura dell’apparenza, cit., p. 200). E se Goodman si interessa particolarmente di sistemi fenomenisti, egli non lo fa perché questi sarebbero in grado di esibire sicuri requisiti fondazionalistici o perché sarebbero capaci di completezza

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ontologica. Egli lo fa per la ragione che con essi e in essi alla preoccupazione concernente «dati» inalterabili e la fondazione della conoscenza su basi inattaccabili si sostituiscono interrogativi e soluzioni che gettano luce su problematiche come quella classica della percezione o che si intessono con prospettive attuali quali quella del cognitivismo (si vedano le considerazioni di Notes from the Underground, in Of Mind and Other Matters, cit., pp. 146-47; ma anche Bruner-C. Fleisher Feldman, Under Construction, in «The New York Review», 27 marzo 1986; e ancora Bruner, Processes of Cognitive Growth, Clark University Press, 1968). In breve: «la metafora fondazionalista viene sostituita dalla “trama delle credenze” di Quine» (G. Hellman, Introduzione, cit., p. 23): una trama di credenze che nel sistema di Goodman si basa su qualia. E tanto per avere l’idea di quale·. «Se suddividiamo il flusso d’esperienza nelle sue parti concrete piti piccole, e poi suddividiamo questi concreta in qualia sensoriali, arriviamo a entità che possono fungere da atomi in un sistema realista. Un concretimi visivo si potrebbe suddividere, per esempio, in tre parti costitutive: un tempo, un luogo nel campo visivo, ed un colore» (La struttura dell’apparenza, dt., p. 247). Il flusso dei fenomeni si può analizzare completamente suddividendolo in questi, ed altri, qualia, o anche in Elementarerlebnisse. «Certamente possono essere presenti altre entità, sia qualitative che concrete; ma vanno tutte spiegate in termini del sistema dato» (Ib.). 

1146. IL nominalismo metodologico.

Insieme all’anti-fondazionalismo, un altro tratto che allontana La struttura dell'apparenza di Goodman da La costruzione logica del mondo (dove si fa uso della logica delle classi) di Carnap è il nominalismo, concezione questa che Goodman abbraccia in modo molto deciso e che lo porta al rifiuto di una ontologia delle classi. «L’uso del calcolo delle classi, una volta che abbiamo ammesso un qualsiasi individuo, apre la porta a tutte le classi, classi di classi, ecc., di tali individui, e può quindi introdurre, oltre gli individui che abbiamo ammesso di proposito con la nostra scelta dei primitivi specifici, una infinita moltitudine di altre entità che non sono individui. In questo modo, quel dispositivo apparentemente innocente può rendersi responsabile di un’ontologia che va al di là dei primitivi specifici schiettamente “empirici” (Ib., p. 99). E' questa la posizione anti-platonista di Goodman, il quale ammette come entità solo individui e quali relazioni tra essi - relazioni costituenti il calcolo degli individui - quelle di somma e di sovrapposizione. Per il platonista dalla classe K costituita dagli elementi a, b, c, d, f si possono costruire la classe K' composta dagli elementi la, b, c) e |d, f), la classe K" costituita dagli elementi (a, b! e (c, d, f}, la classe K'" cosi composta la) e {b, c, d, f), ecc.; per il platonista le classi K, K', K", K'" sono classi differenti; per Goodman, invece, esse sono la stessa classe: il nominalista, infatti, «non riconosce alcuna distinzione tra entità senza una distinzione di contenuto» (Ib., p. 100). E, dice Goodman, «rendersi conto di questo fatto procurerà sollievo a chi considera i concetti di classe e di altri non-individui essenzialmente incomprensibili» (Ib., p. 99). Il nominalista non pretende di mostrare che esistono solo individui: «egli evita semplicemente di impegnarsi nei confronti dell’esistenza di qualcos’altro» (Ib., p. 100).

Il nominalismo, dunque, «consiste nel rifiuto di ammettere entità che non siano individui» (Ib.). Da parte sua, «il platonismo riconosce almeno qualche non-individuo» (Ib.). C’è ne La struttura dell'apparenza una correzione rispetto a quanto Goodman aveva detto

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insieme a Quine solo qualche anno prima nel saggio Steps Toward a Constructive Nominalism (in «Journal of Symbolic Logic», XII, 1947; list, in Problems and Projects, cit., p. 175; trad, ital., Verso un nominalismo costruttivo, in AA. VV., La filosofia della matematica, a cura di C. Cellucci, Laterza, Bari, 1969, p. 269); qui i due autori scrivevano che il nominalismo rinuncia a tutte le entità astratte; ma ne La struttura dell’apparenza Goodman preferisce caratterizzare il nominalismo dicendo che esso rinuncia a tutti i non-individui (Ib., pp. 100-1, n. 4). Ed evitare qualsiasi dipendenza dalle classi o da altri non-individui - questo annota Goodman - «presenta il vantaggio che le costruzioni risultanti dovrebbero essere accettabili tanto per i nominalisti quanto per i platonisti» (Ib., p. 100).

A questo punto, tuttavia, occorre introdurre una importante considerazione, quella per cui deve essere chiaro che «la decisione di non riconoscere altro che individui non precisa, in quanto tale, che cosa debba considerarsi un individuo [...] In altri termini, il nominalista ammette solo individui, ma può considerare qualsiasi cosa come individuo. Che un sistema sia nominalista non dipende dal fatto che le entità ammesse siano realmente individui (qualsiasi cosa ciò possa significare) ma dal fatto che queste entità siano costruite nel sistema come individui - vale a dire, che il sistema identifichi sempre fra loro le entità che esso genera a partire esattamente dalla stessa selezione tra quelle entità ammesse che esso non genera da altre» (Ib., p. 102). E' esattamente in questo senso che Goodman può affermare che il suo mondo «è un mondo di individui» (A World of Individuals, in Aa. VV., The Problem of Universal, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indianapolis, 1956; trad, ital., Un mondo di individui, in Aa. VV., La filosofia della matematica, cit., p. 299). Il nominalista rifiuta le classi poiché le ritiene incomprensibili, «ma può considerare qualsiasi cosa come un individuo» (Ib., p. 301). Di conseguenza, il nominalismo di Goodman (e qui Goodman non parla per Quine) «non comporta l’esclusione di entità astratte, spiriti, presagi di immortalità o altre cose del genere; esige soltanto che tutto ciò che si ammette come un’entità venga considerato come un individuo» (Ib.). Il nominalista è impegnato a descrivere il mondo come composto di individui. E «per spiegare il nominalismo non dobbiamo spiegare che cosa sono gli individui, ma piuttosto che cosa significa descrivere il mondo come composto di individui» (Ib., p. 305). E descrivere il mondo come composto di individui «equivale a descriverlo come costituito di entità tali che due qualsiasi di essi non si scompongono mai esattamente nella stessa entità» (Ib.). In conclusione: per Goodman «il nominalismo è una condizione necessaria per rendere accettabile un sistema filosofico» (Ib., p. 311).

1147. Il «grande problema» dei controfattuali.

Scrive Goodman all’inizio di Fatti, ipotesi e previsioni: «L’analisi dei condizionali controfattuali non è un modesto esercizio grammaticale un po’ pedante. In mancanza, infatti, di strumenti per l’interpretazione dei condizionali controfattuali, ben difficilmente possiamo pretendere di avere una filosofia della scienza adeguata» (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. 5). In realtà, prosegue Goodman, «una definizione soddisfacente di legge scientifica, cosi come una teoria soddisfacente della conferma o dei termini disposizionali (ivi inclusi non solo i predicati che finiscono in “ibile” o in “abile”, ma quasi tutti i predicati cosali, come “è rosso”), risolverebbero in gran parte il problema dei controfattuali» (Ib.). E, viceversa, «una soluzione del problema dei controfattuali ci fornirebbe la risposta da dare a quesiti critici

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riguardo alle leggi, alla conferma e al significato della potenzialtà» (Ib.).

Stando cosi le cose, l’interrogativo che subito sorge è il seguente: qual è il problema dei condizionali controfattuali? Ebbene, il problema dei condizionali controfattuali è che essi sono refrattari ad una analisi di tipo estensionale, situazione questa che porta ad indesiderati risultati controintuitivi. (Si veda, al riguardo, anche l’importante saggio del 1946 di R.M. Chisholm, Il condizionale controfattuale, trad. ital. in AA. Vv., Leggi di natura, modalità, ipotesi, a cura di C. Pizzi, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 100-1). Consideriamo condizionali controfattuali che hanno l’antecedente e il conseguente chiaramente falsi: è questo il caso quando, di un pezzo di burro che è stato mangiato ieri e non è stato mai riscaldato, si dice che «Se quel pezzo di burro fosse stato riscaldato a 65 gradi, si sarebbe sciolto». Ora, commenta Goodman, considerati come composti vero-funzionali, tutti i controfattuali sono veri, visto che hanno antecedenti falsi. E, pertanto, risulterebbe a sua volta vero anche il seguente condizionale: «Se quel pezzo di burro fosse stato riscaldato a 65 gradi, non si sarebbe sciolto» (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. 6). E' del tutto ovvio che non è questo quanto si vuol dire con un contro- fattuale. Talché, il problema, qua giunti, sta nel «definire le circostanze nelle quali se è vero un certo controfattuale non lo è, invece, il condizionale opposto il cui conseguente contraddice quello del primo» (Ib.\ e pp. 42-43). In breve, in un controfattuale si intende affermare l’esistenza di una connessione tra l’antecedente e il conseguente, ed è per questo allora che «il compito rimane quello di scoprire le condizioni necessarie e sufficienti alle quali un controfattuale, che coniuga un antecedente e un conseguente, è garantito» (Ib., p. 43).

E, dunque, di che tipo sarà il nesso che lega antecedente e conseguente di un controfattuale vero? Innanzitutto, è raro - scrive Goodman - «che il conseguente segua dall’antecedente su basi puramente logiche» (Ib., p. 10); ciò nel preciso senso che «la relazione tra gli enunciati che compongono un controfattuale vero raramente consiste in un’implicazione logica» (Ib., p. 43). Cosi, per esemplificare, l’enunciato «Il fiammifero f si è acceso al tempo t» non segue sulla base dei comuni principi della logica dall’enunciato «Il fiammifero f fu sfregato al tempo t» (Ib.). In realtà, allorché diciamo «Se quel fiammifero fosse stato sfregato, si sarebbe acceso», noi presupponiamo e sottointendiamo la «presenza di condizioni tali - cioè il fiammifero è ben fatto, è sufficientemente secco, è presente ossigeno a sufficienza, ecc. - che “Quel fiammifero si accende” può essere inferito da “Quel fiammifero viene sfregato”. La situazione allora è che la connessione affermata collega al conseguente la congiunzione dell’antecedente con altre asserzioni vere che descrivono condizioni rilevanti» (Ib., p. 11). Ed è cosi, pertanto, che diventa un problema di fondo «quello di definire le condizioni rilevanti e di specificare quali enunciati è sottinteso che sono congiunti con un antecedente a costituire una base per inferire il conseguente» (Ib., pp. 12-21). In ogni caso - insiste sempre Goodman -, anche dopo che siano state specificate le condizioni rilevanti, la connessione stabilita tra protasi e apodosi del controfattuale «di solito non sarà puramente logica» (Ib., p. 11). E, difatti, il principio che consente di inferire l’asserto «Quel fiammifero si accende» dalla congiunzione di asserti: «Quel fiammifero viene sfregato. Quel fiammifero è sufficientemente secco. E' presente ossigeno a sufficienza, ecc.» non è - precisa Goodman - una legge logica, esso è piuttosto ciò che si dice una legge naturale o fisica o causale (Ib.).

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1148. Controfattuali, leggi causali e fatti casuali.

Sono, dunque, asserzioni generali quelle che ci pongono in grado di inferire il conseguente sulla base dell’antecedente e degli enunciati che descrivono le condizioni rilevanti (Ib., p. 21) - e ciò nella consapevolezza che «la distinzione tra questi principi che hanno funzione di connessione e le condizioni rilevanti è imprecisa e arbitraria» (Ib.). Tornando al nostro esempio, vediamo che il controfattuale «Se il fiammifero fosse stato sfregato, si sarebbe acceso» è sostenuto dal seguente principio con funzione di connessione: «Ogni fiammifero che viene sfregato, è ben fatto, è sufficientemente asciutto, ha abbastanza ossigeno, ecc., si accende». Tuttavia, fa subito notare Goodman, «non ogni controfattuale è effettivamente sostenuto da un principio come quello enunciato, anche se il principio è vero» (Ib., p. 22). Ed ecco come Goodman chiarifica la questione: supponiamo che tutto ciò che avevo nella mia tasca il giorno del primo atterraggio dell’uomo sulla luna fosse una manciata di monete d’argento. Ebbene, in circostanze normali, noi non affermeremmo, riguardo ad una certa moneta M, per esempio da 100 lire, che «Se M fosse stata nella mia tasca il giorno del primo atterraggio lunare, M sarebbe stata d’argento» (Ib., pp. 22-23). Perché mai questa differenza? Perché il principio concernente i fiammiferi regge e rende vero un condizionale

controfattuale, mentre il principio riguardante la manciata di monete d’argento nella tasca di Goodman - pur essendo generale e vero - non è in grado di fare altrettanto? La ragione di siffatta differenza - risponde Goodman - sta nel fatto che il principio concernente i fiammiferi è una generalizzazione di tipo nemico o legiforme, è cioè una legge naturale; mentre l’asserto riguardante la manciata di monete, sebbene «sia davvero generale e sia vero, e forse anche confermato appieno dall’osservazione di tutti i suoi singoli casi di instanziazione, non è in grado di sostenere un controfattuale perché rimane una descrizione di un fatto accidentale, non una legge» (Ib., p. 23). Da tutto ciò si vede, di conseguenza, che «la verità di un condizionale controfattuale sembra cosi dipendere dal fatto che l’enunciato generale necessario per l’inferenza sia una legge oppure no» (Ib., pp. 23-24; e A. Pap, Introduzione alla filosofia della scienza, trad, ital., il Mulino, Bologna, 1967, p. 431 sgg.). E dunque: quand’è che un enunciato generale è una legge naturale, e quando è che esso è la descrizione di un fatto accidentale? La distinzione tra leggi e non-leggi - annota Goodman - è stata troppo spesso ingiustamente trascurata; ma come è, appunto, che è possibile distinguere tra leggi causali e fatti casuali? In altri termini: «C’è modo di operare una tale distinzione tra leggi e non-leggi nell’ambito degli enunciati veri del tipo in questione, cosi che una legge sia un principio che sostiene un condizionale controfattuale»? (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. 24). Che cosa, insomma, distingue una legge come «Tutti i pezzi di burro si sciolgono a 65 gradi» da una non-legge vera e generale come «Tutte le monete nella mia tasca sono d’argento»?

La risposta offerta da Goodman è che una legge «viene accettata come vera anche se restano da determinare molti dei suoi esempi, e si prevede che quelli non ancora esaminati che si presenteranno saranno ad essa conformi» (Ib., p. 25). Nel caso, invece, di una non-legge si ha che l’enunciato relativo «è accettato come una descrizione di un fatto contingente dopo che tutti i suoi casi di istanziazione sono stati determinati; e non costituisce una base per la loro previsione» (Ib.). La proposta di Goodman si basa dunque sull’idea che «il principio che impieghiamo per decidere i casi controfattuali è un principio al quale siamo disposti ad

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affidarci nel decidere i casi non ancora verificatisi e tuttavia suscettibili di essere direttamente osservati» (Ib.).

Per dirla in altri termini, una legge o asserzione generale legiforme viene accettata come vera prima «che siano stati determinati tutti i suoi casi di istanziazione» (Ib., p. 27), prima cioè che siano stati esaminati tutti i casi che la esemplificano, e di conseguenza essa può venir usata a scopi di predizione; dal canto suo, una non-legge (es.: «Tutti gli inquilini del palazzo hanno una statura tra m 1,65 e 1,80») è un enunciato che viene accettato come vero dopo che sono stati determinati tutti i suoi casi di istanziazione, esso è un resoconto di un fatto contingente, e non può, pertanto, venir posto a base di previsioni.

1149. IL «nuovo enigma» dell'induzione.

Una legge viene accettata come vera prima che siano stati determinati tutti i casi che la esemplificano. Ma: su che cosa si fonda l’accettabilità come vero di un enunciato generale i cui casi di istanziazione non sono stati tutti esaminati? Dove sono reperibili garanzie adeguate per effettuare la proiezione da casi manifesti ad altri che non lo sono, o per passare dal noto all’ignoto, o dal passato al futuro? Con ciò siamo davanti ad «uno degli amici, ma anche dei nemici, più antichi dei filosofi: il problema dell’induzione» (Ib., pp. 67-68), il problema cioè del «passaggio da un dato insieme di casi ad uno più ampio» (Ib., p. 68). E i punti critici della questione sono - scrive Goodman - sempre gli stessi: «quando, in che modo, perché sono legittimi i passaggi o le espansioni di questo tipo?» (Ib.). Quand’è, in breve, che la validità di una asserzione può venir estesa al di là dei casi esaminati?, come e perché ci è possibile proiettare tale validità dal passato al futuro?

Un’ipotesi - ad avviso di Goodman - è proiettata se essa è sostenuta, se è inviolata, e se è non esaurita·, se è sostenuta da istanziazioni positive che la confermano; se non è violata da casi negativi; se è non esaurita, cioè se ha casi indeterminati, vale a dire istanziazioni non ancora determinate e che si pensa confermino l’ipotesi proiettata. «Facendo uso dei termini or ora definiti, l’adozione di una ipotesi - annota Goodman — costituisce una proiezione effettiva se nel momento in questione l’ipotesi ha casi indeterminati e casi positivi, e non ha casi negativi. In sostanza, non dirò che un’ipotesi è effettivamente proiettata in un dato momento qualunque se essa è esaurita, non sostenuta, o violata» (Ib., p. 104). Con tutto ciò, in ogni caso, resta ancora da vedere attraverso quali criteri un’ipotesi venga proiettata.

Goodman è ben persuaso del fallimento dei tentativi tradizionali di giustificare l’induzione: tali tipici tentativi insistono sulla necessità di giustificare le previsioni, sostengono poi che a questo scopo occorre «una qualche altisonante legge universale dell’Uniformità della Natura», e infine ci si pone l’interrogativo «su come questo stesso principio universale sia giustificabile» (Ib., p. 72). Un’impresa quest’ultima, che difficilmente potrà portare a risultati soddisfacenti. «E l’orientamento più comodo, consistente nell’accettare un’assunzione non convalidata e perfino dubbia, molto più impegnativa delle previsioni che facciamo, sembra un modo strano e poco economico di giustificarle» db). 

La soluzione del problema dell’induzione Goodman la va a cercare, com’egli dice, «più in prossimità della superficie» (Ib., p. 74). Per Goodman «i principi di inferenza deduttiva sono giustificati in base alla loro conformità alla pratica deduttiva accettata» (Ib.). Parimenti, a suo

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avviso, «anche un’inferenza induttiva è giustificata in base alla sua conformità alle regole generali, e una regola generale in base alla sua conformità alle inferenze induttive accettate» (Ib., p. 75). In questa direzione, si ottiene già il risultato per cui smettiamo «di tormentarci con certe false domande sull’induzione. Non richiediamo più spiegazioni di garanzie che non abbiamo, né cerchiamo più chiavi di accesso a conoscenze che non possiamo raggiungere» (Ib.). Tuttavia, se dalla pratica delle inferenze deduttive accettate si sono ricavate «le familiari leggi della logica, che si trovano a un alto livello di sviluppo, non sono invece disponibili principi di inferenza induttiva fissati con altrettanta precisione e largamente accettati» (Ib., p. 76).

In una situazione del genere, Goodman introduce quello che egli chiama «il nuovo enigma dell’induzione». Ed è a partire da tale enigma che egli da una parte mostra la debolezza delle soluzioni sintattiche che dell’induzione hanno dato R. Carnap e C.G. Hempel (si vedano, in particolare, i due saggi di Goodman: A Query on Confirmation e On Infirmities of Confirmation Theory, rispettivamente alle pp. 363-66 e 367-70 di Problems and Projects, cit.; e la replica di Carnap a quest’ultimo scritto di Goodman: Reply to Nelson Goodman, in «Philosophy and Phenomenological Research», VIII, 1947, pp. 461-62), e dall’altra riesce a proporre un criterio pragmatico in grado di demarcare le ipotesi proiettabili da quelle che invece proiettabili non sono. La realtà, fa presente Goodman, è che, se prendiamo in considerazione le definizioni di conferma di una ipotesi - conferma ottenibile tramite i casi osservati -, si avrà il seguente sconcertante risultato: data una qualsiasi ipotesi universale confermata da certe testimonianze disponibili, è sempre possibile costruire un’ipotesi incompatibile con la prima, controintuitiva, ma ugualmente ben confermata in base alle stesse testimonianze (o evidenza o fatti) disponibili; e tra le due ipotesi non è possibile decidere attraverso strumenti puramente sintattici.

Ed ecco l’enigma di Goodman (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. 85 sgg.). Supponiamo che tutti gli smeraldi presi in esame prima di un certo momento t siano verdi. Va da sé, allora, che le nostre osservazioni o, meglio, gli enunciati di attestazione di cui disponiamo («lo smeraldo a è verde»; «lo smeraldo b è verde»; ecc.) confermano l’ipotesi generale che «tutti gli smeraldi sono verdi». Introduciamo ora un predicato meno familiare di «verde»; si tratta del predicato «blerde», il quale si applica a tutte le cose esaminate prima di t solo nel caso che esse siano verdi, ma ad altri oggetti solo nel caso che siano blu. Forse in modo più chiaro «blerde» può venir cosi definito: «esaminato prima di / e verde oppure non esaminato prima di t e blu». Ebbene, che cosa capita, una volta fatte queste precisazioni? Capita che «al momento t abbiamo, per ogni enunciato di attestazione che asserisce che un dato smeraldo è verde, un corrispondente enunciato di attestazione il quale asserisce che tale smeraldo è blerde. E se prendiamo i vari enunciati i quali asseriscono, rispettivamente, che lo smeraldo a è blerde, che lo smeraldo b è blerde, e cosi via, ognuno di essi confermerà l’ipotesi generale che tutti gli smeraldi sono blerdi. Perciò, sulla base della nostra definizione sono egualmente confermate, dagli enunciati di attestazione che descrivono le medesime osservazioni, a proposito di tutti gli smeraldi esaminati in un tempo successivo sia la previsione che essi saranno verdi sia quella che essi saranno blerdi. Ma se uno smeraldo esaminato in un momento successivo è blerde, esso è blu e quindi non è verde. Cosi, anche se sappiamo bene

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quale delle due previsioni tra loro incompatibili è autenticamente confermata, sulla base della definizione che abbiamo dato esse sono in fatto di conferma proprio sullo stesso piano» (Ib., p. 86). In termini ancor più semplici: supponiamo che tutti gli smeraldi osservati prima del momento t siano risultati verdi; introduciamo il predicato «blerde» definito come «esaminato prima del momento t e verde o non esaminato prima di t e blu»; al momento t avremo allora due ipotesi legittimamente proiettabili ma incompatibili: l’osservazione per cui tutti gli smeraldi esaminati prima del momento t sono risultati verdi conferma ovviamente l’ipotesi del tutto plausibile che «tutti gli smeraldi sono verdi», ma conferma anche l’ipotesi nient’affatto plausibile che «tutti gli smeraldi esaminati prima del momento t sono verdi e tutti gli altri smeraldi sono blu», conferma cioè anche l’ipotesi che «tutti gli smeraldi sono blerdi» - la quale prevede che gli smeraldi saranno blu e non verdi. E ciò sta a dirci che due ipotesi ugualmente ben confermate e sostenute dagli stessi enunciati di attestazione (e quindi non discriminabili su basi sintattiche) conducono a previsioni incompatibili circa gli smeraldi non ancora osservati: la prima ipotesi prevede che il prossimo smeraldo sarà verde e la seconda che il prossimo smeraldo sarà blu.

1150. Proiettabilità dei predicati trincerati.

Quanto precede ci fa capire che «dal momento che solitamente sono considerate confermate e accettate nella scienza ipotesi come “tutti gli smeraldi sono verdi”, piuttosto che ipotesi come quella che contiene “blerdi”, le definizioni usuali della conferma non sono soddisfacenti come “ricostruzioni razionali” di ciò che intuitivamente si considera come induzione valida. Per di più esse conducono ad ipotesi e previsioni incompatibili e quindi non esplicano alcun concetto utile di conferma» (A. Meotti, Sviluppi dell'empirismo logico, in AA. Vv„ Storia del pensiero filosofico e scientifico, a cura di L. Geymonat, voi. VIII - Il Novecento 1 -, Garzanti, Milano, 1977, p. 253). Ma, qua giunti, diventa improrogabile il seguente interrogativo: per quale ragione, in base a quale criterio la pratica scientifica accetta come credibili ipotesi quali «tutti gli smeraldi sono verdi» e invece respinge ipotesi quali «tutti gli smeraldi sono blerdi»? Perché si proietta il predicato «verde» e non il predicato «blerde»? Ebbene, per risolvere tale problema, Goodman sostiene che «si debba consultare la documentazione relativa alle proiezioni dei due predicati effettuate in passato» (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., p. 108). E da questa analisi è facile rilevare che: «il predicato “verde” - da quel veterano che è in fatto di proiezioni, essendo quelle che lo riguardano ben più antiche e numerose di quelle che riguardano “blerde” - ha una biografia vistosamente più solenne. Possiamo allora dire che “verde” è trincerato assai meglio del predicato “blerde”» (Ib., pp. 108-9). Quando, dunque, proiettiamo un predicato noi guardiamo alla sua storia passata, alla pratica passata che lo ha visto già proiettato, e ciò che ci spinge alla proiezione sono esattamente i successi delle precedenti proiezioni (Ib., p. 109; si veda I. Scheffler, Anatomia della ricerca, trad, ital., Il Saggiatore, Milano, 1972, p. 320 sgg.). Per converso, diventa evidente che un principio capace di eliminare le proiezioni non proiettabili è «quello per cui una proiezione viene esclusa se entra in conflitto con la proiezione di un predicato che è trincerato molto meglio» (Fatti, ipotesi e previsioni, cit., pp. 110-11).

Il concetto di «trinceramento» è, quindi, un concetto pragmatico. L’ipotesi «tutti gli smeraldi sono verdi» viene scelta di contro all’ipotesi «tutti gli smeraldi sono blerdi» per la ragione

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che il predicato «verde» è meglio trincerato nel linguaggio di quanto lo sia il predicato «blerde»; «il trinceramento deriva dall’uso del linguaggio» (Ib., p. 110). E siamo in grado di prendere una decisione del genere «solo perché partiamo dalla testimonianza delle proiezioni effettuate in passato» (Ib., p. 109). In effetti, l’ipotesi degli smeraldi blerdi contrasterebbe con tutto un passato e tutta una pratica che si sono mostrati favorevoli alla proiezione del predicato «verde» e che quindi sostengono le nostre attuali proiezioni del predicato «verde». La conseguenza che da tutto ciò Goodman trae è che «è nell’uso che facciamo del linguaggio che devono essere rintracciate le radici della validità induttiva» (Ib., p. 139). L’induzione, insomma, è per Goodman «una funzione delle nostre pratiche linguistiche» (Ib.). Ed è cosi, allora, che «la linea di demarcazione tra previsioni (o induzioni o proiezioni) valide e invalide viene tracciata in base a come il mondo è, ed è stato, descritto e previsto in parole» (Ib.). Si guarda, dunque, all’uso del linguaggio. Talché alla domanda su che cosa distingue quegli aspetti ricorrenti dell’esperienza sui quali si basano le proiezioni valide da quelli che non lo sono, Goodman propone di rispondere: «i primi sono quegli aspetti per i quali abbiamo adottato dei predicati da noi abitualmente proiettati» (Ib., p. 112; per le repliche di Goodman alle varie critiche rivolte al suo libro Fatti, ipotesi e previsioni, si veda il suo saggio Replies to Comments on «Fact, Fiction and Forecast», in Problems and Projects, cit., pp. 398-412; particolarmente interessanti le repliche a R.C. Jeffrey, J.J. Thomson e J.R. Wallace, alle pp. 405-10).

1151. Qual è il modo di essere del mondo?

Le precedenti considerazioni immergono il problema dell’induzione e la trasformazione e la soluzione che Goodman ne offre in una specie di «olismo linguistico». E se da una parte siffatto olismo linguistico avvicina la posizione di Goodman alla prospettiva del secondo Wittgenstein, dall’altra esso «rappresenta uno dei risultati più importanti di tutta la riflessione goodma- niana: la presenza di uno sfondo di conoscenze, di pratiche, di informazioni che guiderebbero le decisioni relative alle ipotesi induttivamente valide è stata infatti estesa da Goodman fino a fame una caratteristica epistemologica generale, privando di qualsiasi fondamento l’idea empiristica di una base osservativa “pura” o di un “dato” su cui si erigerebbe la conoscenza» (A. Rainone, Nelson Goodman, in AA. Vv., Novecento filosofico e scientifico. I Protagonisti, a cura di A. Negri, Marzorati Editore, Milano, 1991, vol. II, p. 899). E se l’idea di base osservativa «pura» viene mostrata priva di fondamento, se «i fatti, dopo tutto, sono qualcosa di chiaramente artificiale» (Vedere e costruire il mondo, cit., p. 109), è chiaro che si impone una ridiscussione dei rapporti esistenti tra descrizione e realtà. Da qui Goodman perviene ad «impostare una teoria generale dei simboli» (I linguaggi dell’arte, cit., p. 3; e anche Reconceptions in Philosophy and Other Arts and Sdences, cit., p. 4 sgg.), tramite una indagine che tocca la percezione, la vita pratica, l’arte, la scienza e la tecnica, tramite cioè «una ricerca sistematica sulle varietà e sulle funzioni dei simboli», comprendendo sotto la parola «simbolo» cose come «lettere, parole, testi, quadri, diagrammi, mappe, modelli, e cosi via» (I linguaggi dell'arte, cit., p. 3).

Ebbene: qual è, dunque, il modo di essere del mondo? «A volte - scrive Goodman - i filosofi confondono le caratteristiche del discorso con le caratteristiche dell’oggetto del discorso». E, sempre a suo avviso, «nessuna teoria avanzata negli ultimi anni da eminenti filosofi sembra

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più ovviamente erronea della teoria raffigurativa del linguaggio» (The Ways the World Is, in «Review of Metaphysics», 14, 1960, pp. 48-56; list, in Problems and Projects, The Bobbs-Merrill, Indianapolis & New York, 1972, pp. 24-32; trad. ital. in A. Rainone, Nelson Goodman, cit., p. 907). D mondo ci è dato dentro a determinate concezioni del dato (monismo, atomismo, ecc.): e quale è mai la corretta concezione del dato? (Ib., pp. 908-9); né ci è possibile scoprire molto sul modo di essere del mondo «chiedendoci quale sia il migliore o il più fedele o il più realistico modo di vederlo o raffigurarlo, dal momento che vi sono innumerevoli e disparati modi di vederlo e raffigurarlo» e nessuno di essi «può rivendicare per sé il diritto di essere il modo di vedere o rappresentare il mondo cosi come esso è» (Ib., p. 911); e «neanche la descrizione più vera arriva mai a riprodurre fedelmente il modo di essere del mondo» (Ib.), e ciò appare del tutto plausibile qualora si pensi che «anche il più realistico stile pittorico non è che un tipo di convenzionalismo» (Ib., p. 912). Ecco, allora, che «né il modo in cui il mondo è dato né qualsiasi modo di vederlo, raffigurarlo o descriverlo ci restituisce il modo di essere del mondo» (Ib.). E dunque: non c'è il modo di essere del mondo? A tale interrogativo Goodman risponde: «Se mi si chiedesse quale è il cibo dell’uomo risponderei “nessuno”, perché vi sono tanti cibi. E se mi si chiedesse qual è il modo di essere del mondo, risponderei allo stesso modo perché vi sono molti modi di essere del mondo» (Ib., pp. 912-13). «Per me - prosegue Goodman - non c’è alcun modo che sia il modo di essere del mondo, e perciò nessuna descrizione, ovviamente, potrà coglierlo. Vi sono invece tanti modi di essere del mondo, e ogni descrizione vera ne coglie uno» (Ib., p. 913). E' qui che troviamo le ragioni di quello che Goodman chiama «radicale relativismo sotto rigorose restrizioni» (Vedere e costruire il mondo, cit., p. Ili), del suo anti-assolutismo (della sua avversione, cioè, all’idea che c’è una sola verità), del suo antiriduzionismo e del suo pluralismo: «D pluralista, ben lontano dall’essere contro la scienza, accetta le scienze nel loro pieno valore. Il suo tipico avversario è il materialista o fìsicalista che pretende a un monopolio, col sostenere che un sistema, quello fisico, è preminente e onnicomprensivo, per cui ogni sistema deve in ultima istanza essere ridotto ad esso oppure respinto in quanto falso o privo di significato» (Ib., p. 5). Il pluralista, insomma, è uno che si chiede che cosa sia mai il mondo se si prescinde completamente dalle sue versioni; è uno per il quale «l’essenza non è essenziale, e la sostanza non è sostanziale», e il quale pensa che sia «meglio concentrarsi sulle versioni che non sui mondi» (Ib., p. 113). Certo, potrà suonare un oltraggio «parlare di mondi in quanto costituiti da versioni», anche perché ciò pare essere un attentato a quello che Goodman ha chiamato «l’imperturbabile qualcosa che sta sotto». Ma Goodman, diversamente da Quine, non si inginocchia davanti alla versione che del mondo dà la fisica e dà valore al mondo del fenomenista (il cui mondo è un mondo di percezioni) come a quello del fisico, e a questo come a quello dell’arte e a quello dell’uomo della strada (Ib., pp. 22-23). Quanto Goodman sottolinea è che «la nostra passione nei confronti di un mondo è soddisfatta, in occasione e per scopi differenti, in molti modi diversi» (Ib., p. 23). Per lui «il mondo ha tanti modi di essere quanti sono i modi in cui può essere fedelmente descritto, visto, dipinto, ecc. e [...] non esiste qualcosa che si possa dire come il modo di essere del mondo» (I linguaggi dell’arte, cit., p. 12).

1152. Fabbricare Mondi.

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L’assolutista pensa che ci sia un mondo, e che ci sia una teoria vera che lo descrive. Egli crede che al di là delle nostre versioni dei dati e del mondo ci sia qualcosa di imperturbabile «che sta sotto» (Vedere e costruire il mondo, cit., p. 7). Contro questa concezione - peraltro intuitiva e diffusa (Ib., p. 107) - Goodman fa presente che non c’è affatto bisogno di riaprire il processo senza appello - intentato da pensatori come Berkeley, Kant, Cassirer, Gombrich e Bruner - «alla percezione priva di concettualizzazione, al puro dato, all’assoluta immediatezza, all’occhio innocente, alla sostanza come sostrato» (Ib.). E' proprio richiamandosi ad Ernst Gombrich (Arte e illusione, trad, ital., Einaudi, Torino, 1965; si veda di N. Goodman, Review of Gombrich’s «Art and Illusion», in Problems and Projects, cit., pp. 141-45) - anche se non solo a lui (ma pure ai lavori di R.L. Gregory, di Marshall H. Segali, Donald Campbell e Melville J. Herskovits) -, Goodman scrive che: «non esiste occhio innocente. Quando si pone al lavoro, l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che gli vengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello. Esso funziona non come uno strumento isolato e dotato di potere autonomo, ma come membro obbediente di un organismo complesso e capriccioso. Non solo come, ma ciò che vede è regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce. Non tanto rispecchia, quanto raccoglie ed elabora; e ciò che raccoglie ed elabora, esso non lo vede spoglio, come una serie di elementi senza attributi, ma come cose, cibo, gente, nemici, stelle, armi» (I linguaggi dell’arte, cit., pp. 12-13). La realtà è - puntualizza Goodman - che «i miti dell’occhio innocente e del dato assoluto sono temibili alleati. Entrambi derivano, e insieme rincoraggiano, dall’idea della conoscenza come elaborazione di materiale grezzo ricevuto dai sensi, e di questo materiale grezzo come qualcosa che possa essere disvelato attraverso riti di purificazione o spogliandolo sistematicamente di ogni interpretazione. Ma la ricezione e l’interpretazione non sono attività separabili; esse sono del tutto interdipendenti» (Ib., p. 13). Qui Goodman sente riecheggiare la massima di Kant e afferma che: «l’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota» (Ib.). Quanto, in breve, occorre dire è che: «l’occhio più neutrale e quello più prevenuto sono semplicemente sofisticati in modo diverso. La visione più ascetica e quella più prodiga, come il sobrio ritratto e la caricatura al vetriolo, non differiscono nella quantità di interpretazione ma solo nel modo in cui interpretano» (Ib., p. 14; si veda G.D. Romanos, Quine and Analytic Philosophy, The MIT Press, Cambridge Mass.- London, 1983, pp. 29-31).

I «fatti» vengono fabbricati, costruiti da e in versioni dei fatti, versioni del mondo. Mondi a non finire fabbricati con l’uso dei simboli: cosi - dice Goodman - si potrebbe riassumere l’opera di Cassirer. «Gli stessi temi - la molteplicità dei mondi, l’apparenza del “dato”, il potere creativo dell’intelligenza, la varietà e la funzione formativa dei simboli - sono, afferma Goodman, parte integrante anche del mio modo di vedere» (Vedere e costruire il mondo, cit., p. 1). Se qualcuno ci interroga sul mondo, si può rispondere alla sua domanda dicendo come il mondo è sulla base di una o più strutture di riferimento; ma se ci si chiede come esso è indipendentemente da tutte queste strutture di riferimento, noi non potremmo più rispondere. «Il nostro orizzonte è costituito dai modi di descrivere tutto ciò che viene descritto. Il nostro universo consiste, per cosi dire, di questi modi piuttosto che di un mondo o di mondi» (Ib., p. 3). E svariate sono le versioni e visioni che si hanno nelle differenti scienze, nei quadri dei

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pittori, nelle opere degli scrittori, nelle nostre percezioni. E questi mondi - si pensi, per esempio, ai mondi costruiti dai Presocratici (Ib., pp. 114-17) - vengono costruiti non dal nulla, ma a partire da altri mondi. «Π fabbricare mondi, come noi lo conosciamo, è sempre partire da mondi già a disposizione; il fare è un rifare» (Ib., p. 7). L’antropologia e la psicologia evolutiva - annota Goodman - ci hanno fatto vedere storie sociali e individuali di questo costruire mondi. La ricerca di «un cominciamento universale e necessario» Goodman la lascia alla teologia. Quanto a lui sta, invece, a cuore di sottolineare è che noi «partiamo, in ogni occasione, da qualcosa che abbiamo per le mani, una vecchia versione, un vecchio mondo, cui restiamo ben inchiodati finché non abbiamo la determinazione, e la capacità, di fabbricarne di nuovi. Non poco di quel che sentiamo di granitico nei fatti è la stretta dell’abitudine: i nostri saldi fondamenti non sono, in fondo, che imperturbabilità. Il fabbricare mondi inizia con una versione e finisce con un’altra» (Ib., p. 114). E noi fabbrichiamo mondi, costruendone versioni con materiali come: «numeri, immagini, suoni o con altri simboli di qualunque tipo realizzati con i più diversi materiali» (Ib., p. 110). E su questo materiale noi esercitiamo la nostra libertà di dividere, combinare, accentuare, ordinare, eliminare, inserire e ingrandire, e anche distorcere (Ib., p. 19; ma anche e soprattutto le pp. 8-18): sono questi alcuni dei modi che vengono usati per costruire mondi.

L’indagine comparata delle versioni del mondo e del loro farsi Goodman la chiama «una critica del costruire mondi» (Ib., p. 111). E in essa egli dichiara di difendere i molteplici mondi che sono «i mondi reali costituiti da - e corrispondenti a - versioni vere o corrette»; e «i mondi possibili o impossibili che si suppone corrispondano a versioni false non trovano proprio posto - conclude Goodman - nella mia filosofia» (Ib.).

Per le versioni verbali si potrebbe parlare di verità. Ma Goodman non concepisce le cose à la Tarski, la cui proposta è piuttosto «nebulosa» (Ib., p. 19; e si veda sull’argomento L. Handjaras, Problemi e progetti del costruzioni- smo, Angeli, Milano, 1991, p. 116 sgg.). Egli considera vera una versione quando essa «non infrange nessuna di quelle che in un dato momento sono credenze sostanziali (per es.: riflessioni di lunga durata sulle leggi della logica, o di breve durata su osservazioni recenti) e non infrange nessuno dei suoi stessi precetti (Vedere e costruire il mondo, cit., p. 19). Tutto ciò riconduce Goodman - come già accaduto nel caso dell’induzione - alla valorizzazione della tradizione in evoluzione, alle pratiche che hanno avuto successo e all’abitudine. Ed è per questo che egli allora parla di correttezxa delle versioni del mondo: si tratti di descrizioni scientifiche o di raffigurazioni artistiche (Ib., p. 21 e p. 151 sgg.). In breve: «che un quadro raffiguri correttamente e un enunciato descriva correttamente lo si scopre mediante il loro adattamento a credenze, categorizzazioni e pratiche “trincerate”» (A. Rainone, Nelson Goodman, cit., pp. 903-4). Questo non equivale alla proibizione di nuove categorizzazioni che «instaurano nuove pratiche, nuove “proiezioni” e continui adattamenti» (Ib., p. 904). Entrano in funzione «metaprincipi “di sfondo” trincerati» per regolare l’evoluzione delle svariate versioni del mondo, cioè della cultura umana, la quale avanza in un adattamento reciproco e in un continuo aggiustamento tra 1’«inerzia» della tradizione, la spinta delle invenzioni e l’urgenza di coerenza (vedasi L. Handjaras, Problemi e progetti del costruzionismo, cit., p. 151 sgg.).

1153. Arte come conoscenza.

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I molteplici mondi che Goodman difende nella sua «critica del costruire mondi» sono i mondi reali costituiti da - e corrispondenti a - versioni vere e corrette. I mondi possibili e impossibili non trovano posto nella filosofia di Goodman. Ma, allora, che ne è dei mondi creati dagli artisti? Che posto hanno essi all’interno del pensiero di Goodman? Goodman al riguardo sostiene con molta risolutezza che «le arti devono essere prese in considerazione non meno seriamente delle scienze in quanto modalità di scoperta, di creazione, di ampliamento della conoscenza nel senso largo di progresso nel comprendere, e quindi che la filosofia dell'arte dovrebbe essere concepita come una parte integrante della metafisica e dell’epistemologia» (Vedere e costruire mondi, cit., pp. 120-21). La realizzazione di questo scopo ha portato Goodman ad «impostare una teoria generale dei simboli» che si configura come «una ricerca sistematica sulle varietà e sulle funzioni dei simboli» (I linguaggi dell’arte, cit., p. 3; R. Wollheim, Nelson Goodman’s Languages of Art, in «The Journal of Philosophy», vol. LXVII, n. 16, 1970, p. 531).

Se noi consideriamo le versioni visive - versioni che raffigurano e non descrivono -, non tarderemo ad accorgerci che «le immagini sono in grado di produrre e presentare fatti» e che «la nostra [...] immagine del mondo è il prodotto congiunto di un descriverci e di un dipingerci il mondo» (Vedere e costruire il mondo, cit., p. 121). Ci sono, certo, raffigurazioni e descrizioni - come ad esempio un ritratto pittorico o verbale di Don Chisciotte - che, dato che Don Chisciotte non esiste, non denotano proprio niente. E, pur stando le cose in questo modo, Goodman afferma che «opere di finzione in letteratura, e opere analoghe nelle altre arti, giocano un ruolo assoluta- mente dominante nel nostro fabbricare mondi; i mondi che abbiamo li ereditiamo dagli scienziati, dai biografi o dagli storici quanto dai narratori, dai drammaturghi o dai pittori» (Ib., pp. 121-22). Ma, di nuovo, come è possibile che versioni che non riguardano qualcosa di reale partecipano nella costruzione di mondi reali? A tale interrogativo Goodman risponde «“Don Chisciotte”, preso letteralmente non si applica a nessuno, ma preso in modo figurato si applica a molti di noi, a me, ad esempio, quando combatto contro i mulini a vento della linguistica contemporanea. A molti altri il termine non si applica né letteralmente né metaforicamente. La falsità letterale, o l’inapplicabilità, è del tutto compatibile con la verità metaforica» (Ib., p. 122). Tutto ciò per dire che un certo parlare di «cose possibili» può essere «felicemente reinterpretato nei termini di un discorso su cose reali» (Ib., p. 175). E, di conseguenza, chiedersi se una persona è un Don Chisciotte o un Don Gio-vanni è - scrive Goodman - «una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica, ed è anche piuttosto facile dare ad essa una risposta» (Ib., p. 122).

La metafora, pertanto, «non è affatto un semplice orpello retorico» (Ib.), e «la finzione [...], non importa se letteraria, pittorica o teatrale, non ha davvero come suoi riferenti il nulla o dei mondi possibili assolutamente trasparenti ma, per quanto metaforicamente, i mondi reali» (Ib., p. 123). In altre parole: «la finzione opera in mondi reali né più né meno come quel che finzione non è. Cervantes, Bosch e Goya, né più né meno di Boswell, Newton e Darwin, ereditano, disfano, rifanno, replicano mondi reali, rimaneggiandoli in modi importanti e a volte anche oscuri ma alla fin fine riconoscibili - cioè proprio ri-conoscibili» (Ib.).

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E, riferendosi a quadri «completamente astratti» o ad opere «che non hanno soggetto, che non si applicano assolutamente a niente né letteralmente né metaforicamente», Goodman scrive che «dopo nemmeno un’ora di visita a una mostra di pittura astratta, ogni cosa tende a configurarsi in regolarità geometriche o a vorticare in forme circolari o a intrecciarsi in tessiture arabescate, a contrastare come un bianco e nero o a vibrare di nuove consonanze e dissonanze di colore» (Ib., pp. 123-24).

1154. Perché non regge la «dispotica dicotomia» tra cognitivo ed emotivo.

L’arte è poliglotta. E, difatti, «le risorse dell’artista - modi di riferimento, letterali e non letterali, linguistici e non linguistici, denotazionali e non deno- tazionali, realizzati ricorrendo ai mezzi più diversi - appaiono molto più varie e gravide di conseguenze di quelle dello scienziato» (Ib., p. 125). E, pur tuttavia, si è in genere inclini a dare molto più peso alla scienza che all’arte, perché la scienza ci darebbe la verità e l’arte ci darebbe, invece, solo emozioni. Goodman respinge tale posizione, persuaso che «la verità è spesso inapplicabile, ben di rado è sufficiente, e deve a volte lasciare la strada a criteri concorrenti» (Ib., p. 126).

In effetti, molte delle difficoltà della teoria estetica sono imputabili ad una idea troppo rattrappita di conoscenza e soprattutto alla «dispotica dicotomia» fra cognitivo ed emotivo. Scrive Goodman: «Da una parte mettiamo sensazione, percezione, inferenza, congettura, ogni ricerca e investigazione inerte, fatti e verità; dall’altra parte, piacere, pena, interesse, soddisfazione, disappunto, ogni risposta affettiva senza la partecipazione del cervello, apprezzamento e disgusto» (1 linguaggi dell’arte, cit., p. 208). Tale dicotomia non regge (cfr. 

L. handjaras, Problemi e progetti del costruzionismo, cit., p. 97 sgg.). Non è, per esempio, vero che si possa distinguere l’estetico in termini di piacere immediato; e ciò in quanto «non è affatto chiaro se un quadro o una poesia forniscano maggiore piacere di una dimostrazione matematica» (I linguaggi dell’arte, cit., p. 204). E, per altro verso, la proposta che l’esperienza estetica si distingue non per il piacere ma per l’emozione estetica che dà è tale da «essere lasciata cadere nella lunga serie delle spiegazioni sul tipo della “vir- tus dormitiva”» (Ib., p. 205). Attenuare, per l’esperienza estetica, gli effetti grotteschi del termine «piacere» con il termine abbastanza incolore di «soddisfazione» non risolve parimenti il problema: «la soddisfazione fallisce palesemente lo scopo di distinguere gli oggetti e le esperienze estetiche da quelle non estetiche. Non solo una certa ricerca scientifica dà grande soddisfazione, ma alcuni oggetti ed esperienze estetiche non ne danno affatto» (Ib.). Né possiamo dire che l’attività estetica si distingue da quella scientifica in quanto «l’estetico non è diretto ad un fine pratico»; non possiamo dire questo per la ragione che «la ricerca disinteressata include tanto l’esperienza scientifica che quella estetica»; «la scienza ricerca la conoscenza senza pensare alle conseguenze pratiche, ed è interessata alla previsione non come guida per il comportamento ma come prova di verità» (Ib., p. 204; vedasi B. Herrnstein- Smith, Literature as Performance, Fiction, and Art, in «The Journal of Philosophy», vol. LXVII, η. 16, 1970, p. 569; e la replica di N. GOODMAN, Some Notes on Languages of Art, in «The Journal of Philosophy·», cit., pp. 572-73).

1155. I sintomi dell'estetico.

Da ciò ben si vede che la distinzione tra scientifico ed estetico, concepita come distinzione

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fra conoscere e sentire, fra cognitivo ed emotivo, è una distinzione che non regge: «qualsiasi raffigurazione dell’esperienza estetica come una sorta di bagno o orgia emozionale è palesemente assurda» (/ linguaggi dell'arte, cit., p. 207). La realtà - insiste Goodman - è che l’esperienza estetica e quella scientifica hanno entrambe «un carattere fondamentalmente cognitivo» (Ib., p. 206); lo scopo primario dell’uso dei simboli «è la cognizione, e l’utilità comunicativa dipende interamente da esso» (Ib., p. 217). Quello che si potrebbe dire è che «nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente» (Ib., p. 209). Ciò significa che «l’opera d’arte è percepita attraverso i sentimenti cosi come attraverso i sensi» (Ib.). Ed allora, per esempio, la pietà sul palcoscenico può venir compresa dallo spettatore mentre anche egli è indotto alla pietà; la cupidigia può suscitare disgusto e il coraggio ammirazione (Ib., p. 210). Ma, in ogni caso, siffatte considerazioni non riescono ancora a distinguere l’esperienza estetica da tutte le altre: «l’impiego cognitivo dell’emozione non è presente in ogni emozione estetica né assente da ogni esperienza non estetica». Ed ecco, allora, che Goodman, attraverso una analisi condotta all’interno dei diversi processi simbolici attivi nell’esperienza, tenta di individuare - più che un criterio netto - aspetti o sintomi dell’estetico. E «un sintomo - egli dice - non è una condizione necessaria né sufficiente dell’esperienza estetica, ma semplicemente tende ad esservi presente accanto ad altri sintomi dello stesso tipo» (Ib., p. 212). Questi sintomi del fatto estetico possono essere: «la densità sintattica, la densità semantica e la saturazione sintattica: [...] la densità sintattica è caratteristica dei sistemi non linguistici ed è un tratto che distingue gli schizzi dalle partiture e dai copioni; la densità semantica è caratteristica della rappresentazione, della descrizione e dell’espressione nelle arti, ed è un tratto che differenzia gli schizzi e i copioni dalle partiture; e una relativa saturazione sintattica distingue, fra i sistemi semanticamente densi, quelli più rappresentazionali dai più diagrammatici, i meno dai più “schematici”» (Ib.). E c’è anche un quarto, ed ultimo, sintomo del fatto estetico: «è il tratto che distingue i sistemi esemplificazionali dai denotazionali, e che, combinandosi con la densità distingue il mostrare dal dire» (Ib., p. 213). Con ogni verosimiglianza, quindi, quattro sintomi - sostiene Goodman - tendono ad essere presenti e dominanti nell’esperienza estetica; «ma ognuno di essi può essere assente dall’esperienza estetica o essere presente in quella non estetica [...] L’assenza di qualche tratto o la presenza di qualche sintomo non estetico non determina una totalità meno esteticamente pura, né un’esperienza è tanto più estetica quanto maggiore è la concentrazione dei sintomi estetici. Tuttavia, se i quattro sintomi enunciati sono singolarmente non sufficienti né necessari all’esperienza estetica, essi possono essere congiuntamente sufficienti e disgiuntamente necessari; forse, vale a dire, un’esperienza è estetica se possiede tutti questi attributi e solo se ne possiede almeno uno» (Ib., p. 214; si veda A. Brioschi, Introduzione, cit., pp. xrvxv). E se la verità di una ipotesi scientifica è un problema di aderenza - di aderenza ad altre teorie ben trincerate, ai fatti disponibili e a fatti futuri -, «tale aderenza, tale idoneità a conformarsi e a dare nuova forma alla nostra conoscenza e al nostro mondo, è ugualmente rilevante per il simbolo estetico. La verità e il suo corrispettivo estetico, si risolvono, sotto diversi nomi, in appropriatezza» (Ib., p. 221). In conclusione, Goodman intende sostenere che le affinità tra le arti e la scienza sono molto profonde e che la differenza significativa è diversa da quanto in genere si suppone. Tale differenza è da trovarsi semmai «nel predominio di certe caratteristiche specifiche dei simboli

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e non nella dicotomia “fra sentimento e fatto, intuizione e inferenza, diletto e deliberazione, concretezza e astrazione, passione e azione, mediatezza e immediatezza o verità e bellezza» (Ib., p. 222).

CAPITOLO XXV.

CHOMSKY, KRIPKE, PUTNAM: LINGUAGGIO, LOGICA, FILOSOFIA

di Franco Restaino

1156. Tre pensatori ebrei innovatori.

I tre studiosi sui quali ci soffermeremo in questo capitolo hanno contribuito in misura notevolissima, negli ultimi trent’anni, al rinnovamento di alcuni importanti settori della ricerca e del dibattito culturale negli Stati Uniti d’America. Noam Chomsky, nato nel 1928, ha prodotto, con i suoi numerosi contributi specialistici a cominciare dal 1957 e con altri scritti di carattere più generalmente filosofico dalla metà degli anni Sessanta in poi, una vera rivoluzione nella linguistica contemporanea e ha suscitato un vivacissimo dibattito sui temi di filosofia e psicologia del linguaggio. Saul Kripke, nato nel 1935, con pochissimi e brevi saggi, dagli inizi degli anni Settanta soprattutto, ha portato contributi radicalmente innovativi nella logica, e in particolare in quel settore di interessi logici, sviluppatosi in misura molto grande a cominciare dagli anni Sessanta, noto come «semantica dei mondi possibili». Hilary Putnam, nato nel 1926, è stato definito una sona di storia della filosofia statunitense degli ultimi trent’anni, nel senso che nei suoi scritti, numerosi e di varia natura (dalla logica alla epistemologia, dall’etica alla filosofìa del linguaggio, e negli ultimi anni alla storiografia filosofica) si rispecchia il vivace andamento del dibattito filosofico di quel paese negli ultimi decenni.

Oltre ad avere in comune una forte capacità di innovare e di provocare il dibattito nei diversi campi della ricerca sopra nominati, i tre intellettuali hanno in comune l’appartenenza all’ebraismo. A differenza però di altri filosofi di appartenenza ebraica che tanto hanno contribuito al dibattito filosofico degli Stati Uniti d’America in questo secolo (si pensi agli esuli dall’Europa negli anni Trenta, dai positivisti logici ai francofortesi - Horkheimer, Adorno, Marcuse ed altri -, e più tardi a Cassirer e ad Hannah Arendt), Chomsky, Putnam e Kripke sono nati tutti e tre in questo paese. A differenza, ancora, di quegli altri, emigrati spesso con difficoltà e non sempre inseritisi facilmente negli ambienti culturali e accademici statunitensi, Chomsky, Putnam e Kripke hanno operato da giovani, e continuano ad operare, in alcune delle più prestigiose università di quel paese (Harvard, Princeton, il Massachusetts Institute of Technology di Boston), esercitando una influenza enorme negli ambienti accademici e quindi in quelli più largamente culturali.

Chomsky e Putnam, inoltre, proseguendo e rinvigorendo una prassi che vede molto spesso intellettuali ebrei americani in prima fila nell’opposizione politica più radicale rispetto al loro governo, hanno partecipato direttamente alle lotte politiche, su posizioni di sinistra molto avanzata (Putnam negli anni Sessanta era tra i militanti del marxismo eterodosso, Chomsky si

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è sempre dichiarato un socialista anarchico): hanno combattuto contro l’intervento militare statunitense sia in Asia (Vietnam soprattutto) sia in America Latina, hanno condannato ogni forma di discriminazione, razziale, politica, all’interno del loro paese. Chomsky è stato e continua ad essere, tra i grandi intellettuali statunitensi, uno dei principali punti di riferimento politico e morale per chi in quel paese combatte contro le diverse forme di oppressione e di ingiustizia.

Chomsky, Putnam e Kripke non sono comunque i soli studiosi e pensatori che negli ultimi trent’anni hanno contribuito ad arricchire e a movimentare il complesso dibattito filosofico degli Stati Uniti d’America. Essi hanno operato, ed operano, in un quadro che ha visto, a cominciare dalla fine degli anni Cinquanta, un rapido susseguirsi di cambiamenti importanti e significativi nei diversi campi della riflessione, della ricerca e della pubblicistica filosofiche di quel paese.

Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta appaiono alcune delle opere più significative dei tre grandi della generazione precedente, Quine, Goodman e Sellars, che propongono alla discussione, nell’ambito della filosofia analitica di ascendenza neopositivistica, temi nuovi che si riveleranno fecondi e stimolanti; temi tramite i quali vengono poste le condizioni di un allargamento degli interessi dei filosofi analitici a questioni non più strettamente logico-linguistiche ma filosofiche in un senso per molti aspetti tradizionale (si pensi alle implicazioni molteplici delle tesi quintane sulla indeterminatezza della traduzione o sui rapporti tra le scienze e la filosofia, alle suggestioni goodmaniane sui rapporti tra la filosofia, la scienza e le arti oltre che sulla tematica del conoscere e costruire i mondi, agli stimoli del più appartato Sellare in direzione della ripresa di interesse per filosofi continentali del passato quali Kant e Hegel).

Negli anni Sessanta, ancora nel quadro del dibattito interno tra i filosofi analitici, ora più attenti alla storia e ai filosofi continentali tanto spesso trascurati, emergono nuove posizioni, talvolta di natura radicalmente innovativa (si pensi, per esempio, al dibattito tra il giovane Kuhn e il vecchio Popper sui problemi cruciali della epistemologia, e agli scritti di un Lakatos, di un Feyerabend, e di altri ancora, su tali tematiche). Si sviluppano e si approfondiscono logiche diverse e talvolta nuove rispetto al filone di logica simbolica e matematica più tradizionalmente frequentato dagli studiosi di ambito analitico (nel quale porta contributi fondamentali l'allievo e continuatore di Quine, D. Davidson): si pensi in particolare alle logiche deontiche (Von Wright) e a quelle modali (quest’ultima con un esplicito e ricorrente richiamo a Leibniz e alle sue teorie sui mondi possibili, e con numerosi studiosi impegnati in un dibattito vivacissimo: da Montague a Goodman, da Lewis a Stalnaker, da Putnam a Kripke).

Negli anni Settanta si estende il raggio degli interessi innovativi dei filosofi di formazione analitica, e tocca il pensiero politico, con le opere ormai classiche di Rawls e di Nozick, i quali tentano di dare fondamenti nuovi a due contrastanti versioni del liberalismo, una ispirata in punti chiave all’intuizionismo solidaristico di Kant, l’altra all’individualismo libertario e individualistico del filone Locke-Thoreau. Negli stessi anni entra in crisi una parte del movimento analitico, fortemente influenzata dai nuovi autori europei di orientamento postnicciano-heideggeriano (Derrida, Foucault e altri), e la spia di tale crisi è

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rappresentata dal dibattito provocato, e ancora in corso, dall’opera di Rorty del 1979 La filosofia e lo specchio della natura. Altri orientamenti di pensiero, sul versante etico-politico (si pensi agli scritti di MacIntyre, di Taylor, di Sandel e altri), contrastano e combattono le vecchie e le nuove versioni del liberalismo contrapponendo teorie e proposte di tipo comunitario, a volte esplicitamente fondate su posizioni religiose.

Nel quadro qui delineato in maniera sommaria, ma trattato in precedenti capitoli di quest’opera, sono da collocare i contributi dei tre autori, Chomsky, Kripke e Putnam, ciascuno, come si vedrà, con sue specifiche posizioni e suoi specifici campi di interesse.

1157. Chomsky: dalla rivoluzione linguistica alla filosofia del linguaggio.

Noam Chomsky, nato a Philadelphia nel 1928, formatosi all’Università della Pennsylvania dove ebbe come maestro di linguistica Zellig Harris, dopo la specializzazione ad Harvard cominciò nel 1955 la sua carriera al MIT nella vicina Boston, e li continua ad operare e a insegnare. Anche il padre, William, aveva forti interessi linguistici, sviluppati nello studio dell’ebraico (è del 1958, di un anno successivo al primo importante libro del figlio, il suo volume su Hebrew: the Eternal Language). Il suo maestro Z. Harris era di formazione bloonfieldiana, vale a dire accettava il retroterra teorico di tipo comportamentistico che stava alla base delle opere di Leonard Bloonfield (1884-1949), il più influente studioso di linguistica negli Stati Uniti d’America dagli anni Trenta agli anni Cinquanta (la sua opera più sistematica è Language, del 1933). L’opera principale di Harris, Methods in Structural Linguistics, era apparsa nel 1951, quando il giovane Chomsky presentava la sua tesi per il Master all’Università di Pennsylvania, dedicata all’ebraico moderno.

Chomsky, dopo qualche articolo, pubblica nel 1957 il volume Syntactic Structures, che contiene in nuce, con accentuata formalizzazione, la sua teoria rivoluzionaria sulla grammatica generativa. Nel 1959 pubblica una lunga e ormai classica recensione del volume di B.F. Skinner, allora il più noto esponente del comportamentismo, Verbal Behavior, lo scritto contiene una critica esplicita e argomentata del comportamentismo, dal quale Chomsky aveva preso le distanze, senza però attaccarlo in maniera esplicita, nell’opera del 1957 (nella cui prefazione riconosceva i debiti filosofici nei confronti di Quine e Goodman). Tra il 1965 e il 1966 escono le due opere che in una certa misura fissano in maniera quasi definitiva, con alcune revisioni rispetto all’opera del 1957, sia le posizioni specificamente e tecnicamente linguistiche sia le posizioni e le ascendenze filosofiche generali dell’autore: Aspects of the Theory of Syntax nel 1965 e Cartesian Linguistics del 1966. Una ulteriore precisazione di tali posizioni è proposta in Language and Mind del 1968. Chomsky, a questa data, è ormai il più influente studioso di linguistica sia nel suo paese sia in gran parte del mondo.

Chomsky è anche molto noto, allora, per i suoi frequenti interventi politici, che ne fanno un militante della causa contro l’intervento statunitense nel Vietnam. I suoi principali interventi politici, nell’arco di quasi un trentennio, sono stati raccolti da J. Peck nel volume The Chomsky Reader del 1987, volume che contiene anche una lunga e importante intervista, preziosa per la conoscenza della formazione di Chomsky.

Chomsky non cessa di approfondire e difendere le sue teorie, nei dibattiti frequenti e vivaci

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degli ultimi trent’anni, in numerosi articoli e saggi, talvolta raccolti in volume. Ci limitiamo qui a indicarne alcuni fra i più significativi degli anni Settanta e Ottanta: The Logical Structure of Linguistic Theory del 1975, Reflections on Language del 1976, Knowledge of Language: Its Nature, Origin and Use, del 1986, Language and Problems of Knowledge del 1988.

Sterminata è la letteratura critica su Chomsky, in tutto il mondo, moltissime le traduzioni. In Italia sono stati tradotti molti articoli e volumi. Particolarmente importanti sono i tre volumi di Saggi linguistici (scritti degli anni Cinquanta e Sessanta), apparsi presso Boringhieri, Torino, 1969, e la traduzione dell’opera del 1988 (Linguaggio e problemi della conoscenza. Il Mulino, Bologna). Esistono anche diverse traduzioni di raccolte di scritti politici.

In questo paragrafo daremo soltanto qualche indicazione sulle teorie e proposte specificamente e tecnicamente linguistiche di Chomsky, quali appaiono nelle sue due opere fondamentali del 1957, Syntactic Structures, e del 1965, Aspects of the Theory of Syntax. La materia è trattata da Chomsky in una maniera fortemente formalizzata; riteniamo quindi di maggior interesse, per il destinatario di queste pagine, soffermarci sulle peculiari tesi filosofiche di Chomsky sulla natura, origine e uso del linguaggio: tesi che, come vedremo, si collocano su un versante radicalmente diverso sia rispetto alla tradizione comportamentistica sia rispetto alle teorie strutturalistiche, in grandissima voga proprio negli anni in cui Chomsky avanzava le sue proposte teoriche.

Nelle opere del 1957 e del 1965 Chomsky intende dare un contributo tecnico, specialistico, alla linguistica, e non si sofferma quindi, almeno esplicitamente e sistematicamente, sul retroterra filosofico di tale contributo. Egli si pone il problema di offrire una descrizione la più formalizzata possibile, quindi di un livello e di una strutturazione quasi matematici, della grammatica, o delle strutture sintattiche (come dice il titolo dell’opera del 1957), del nostro linguaggio.

Chomsky considera come una delle caratteristiche fondamentali del nostro linguaggio la creatività, cioè il fatto che rispetto al numero limitato di parole e di regole del nostro linguaggio noi, nell’usarlo, tendiamo a creare qualcosa di nuovo, non riducibile in maniera meccanica alle regole grammaticali, anche se da esse, in qualche maniera, «generato». La grammatica, quindi, «genera» enunciati, nel senso che sta alla loro base, ma non li «produce» in maniera meccanica o una volta per tutte. Perché gli enunciati si generino è necessario che ci sia qualcuno che li enunci, cioè il singolo soggetto umano parlante.

Chomsky ritiene che il fine della linguistica sia quello di fornire una descrizione della grammatica che risulti la più scientificamente accettabile. Per realizzare tale fine Chomsky analizza alcuni modelli di grammatica esistenti, da quelli di tipo più semplice (definiti grammatiche a «stato finito») a quelli di tipo più complesso (grammatiche «a struttura di frase»). Egli presenta sia una sua formalizzazione di tali modelli sia una critica della loro insufficienza e inadeguatezza. A questi modelli contrappone quindi la sua proposta di grammatica generativa trasformazionale, sulla quale si diffonde sia nell’opera del 1957 sia in quella del 1965, nella quale ultima usa una terminologia tecnico-linguistica differente e integra la proposta del 1957 con l’ausilio della semantica (trascurata invece nell’opera del

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1957). In questo modo lo scopo della linguistica viene conseguito con un’armonica compresenza del livello semantico, sintattico e anche fonologico della grammatica generativa, la quale viene ora considerata da Chomsky, come scrive uno dei più importanti studiosi dell’intera opera del Nostro, «un sistema di regole colleganti il significato (o i significati) di ciascun enunciato che essa genera alla manifestazione fìsica dell’enunciato nel medium del suono» (J. Lyons, Chomsky, London, 1991, p. 79). Nell’opera del 1965 vengono anche introdotti i concetti chiave di competence e di performance, che sostituiscono quelli precedenti di language e di corpus e risultano avvicinabili alla coppia di concetti saussuriana e strutturalistica di langue e parole: dove il primo concetto, in tutte e tre le coppie, sta a indicare l’insieme di regole «generatrici» di enunciati, e il secondo l’atto tramite il quale gli enunciati vengono generati. Con la differenza, rispetto alla coppia saussuriana e strutturalistica, che per Chomsky la performance è sempre l’atto di un singolo parlante, di un soggetto individuale, mentre per gli strutturalisti il soggetto singolo viene a cadere, e la parole è anch’essa un atto di una struttura non individuale.

Proprio la coppia di concetti competence-performance, cioè la distinzione tra padronanza di regole grammaticali universali e addirittura matematica- mente formalizzate e loro uso effettivo e creativo nel linguaggio da parte dei singoli, costringe Chomsky a porsi delle domande che investono la psicologia e più in generale la filosofìa. Costringe pure il Nostro a prendere posizione rispetto alle teorie linguistiche più influenti e ai loro retroterra filosofici, vale a dire rispetto alla tradizione statunitense risalente a Bloonfield col suo retroterra esplicitamente empiristico e comportamentistico e rispetto alla tradizione francese, saussuriano-strutturalistica, con il retroterra filosofico della negazione dell’empirismo e dell’individualismo. Chomsky non trova soddisfacente né l’una né l’altra tradizione, in quanto entrambe non riescono a spiegare la creatività del linguaggio, cioè il fatto che ogni singolo individuo, pur condividendo con altri la stessa competence, lo stesso insieme di regole grammaticali, crea enunciati originali, nuovi, non riducibili ad una produzione meccanica e in qualche modo «causale» da parte di quelle regole (produzione intesa sia comportamentisticamente sia strutturalisticamente). Chomsky, per risolvere il problema di fondo della sua versione della linguistica, dovrà trovare altre ascendenze filosofiche, altre spiegazioni psicologiche del rapporto tra competence e performance. 

1158. Chomsky: il linguaggio? ma è innato!

D titolo del paragrafo indica il tipo di risposta che Chomsky darà alle domande alle quali abbiamo accennato poc’anzi, oltre che il tipo di ascendenze filosofiche incontrate nella ricerca di retroterra teorici soddisfacenti (Platone, Descartes, Leibniz, Kant).

Chomsky inizia immediatamente dopo il completamento, nel 1965, della versione pressoché definitiva delle sue teorie linguistiche, la ricerca di una risposta alle difficoltà presenti nella coppia concettuale competence-performance. L’opera che meglio contiene e descrive il suo itinerario verso una nuova impostazione filosofica, radicalmente differente da quelle in circolazione in quegli anni negli ambienti culturali - filosofici e linguistici - ai quali si rivolgeva, è Cartesian Linguistics del 1966.

In quest’opera Chomsky non solo cerca, e trova, un retroterra filosofico soddisfacente per le

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sue teorie linguistiche nella tradizione razionalistica - e innatistica - cartesiana (proseguita in forme diverse dai platonici di Cambridge, da Leibniz, e poi, tra i romantici tedeschi, da Schlegel, Humboldt e Goethe), ma critica gli oppositori di Descartes (Lamettrie in particolare) e i teorici contemporanei assertori di posizioni empiristiche e comportamentistiche (da Bloonfield al suo maestro Harris).

Chomsky, pur precisando che non esiste una trattazione specifica. cartesiana dei problemi della linguistica, ritiene di rintracciare, in alcune tesi centrali del discorso cartesiano, un fondamento esplicativo della peculiarità del linguaggio umano rispetto ai non-linguaggi degli animali. Il primo è creativo, gli altri sono automatici: «Descartes si convinse che tutti gli aspetti del comportamento animale possono essere spiegati in base all’assunzione che l’animale è un automa. [...] Arrivò alla conclusione che l’uomo possiede capacità uniche che non possono essere spiegate su basi puramente meccanicistiche, sebbene in genere sia possibile fornire una spiegazione meccanicistica per le funzioni e per il comportamento del corpo umano. La differenza essenziale tra l’uomo e l’animale è rivelata nel modo più chiaro dal linguaggio umano, in particolare dalla capacità umana di formare proposizioni nuove che esprimono pensieri nuovi e che sono adatte a situazioni nuove» (N. Chomsky, Linguistica cartesiana, in Saggi linguistici, Boringhieri, Torino, 1969, vol. IlI, p. 46).

Il linguaggio umano appartiene alla sfera del pensiero, della res cogitans, non del corpo, della res extensa. Il linguaggio è posseduto soltanto dall’uomo, non dagli animali, e risale a caratteri peculiari ed esclusivi dell’uomo: «L’uomo ha una capacità specifica della specie, un tipo unico di or-ganizzazione intellettiva, che non può essere né attribuita a organi periferici né correlata con l’intelligenza in generale, e che si manifesta in quello che può essere chiamato Γ“aspetto creativo” del comune uso linguistico, la cui proprietà consiste nell’illimitatezza dell’ambito e nell’indipendenza da stimoli» (Ib., p. 47). E ancora, rifacendosi ad una lettera di Descartes al platonico Henry More del 1649, Chomsky cita tra l’altro questo brano: «Non si è mai osservato che un animale sia arrivato a una tale perfezione da usare un vero e proprio linguaggio; vale a dire, da indicare con la voce o con altri segni qualsiasi cosa possa essere attribuita al solo pensiero, piuttosto che a un impulso naturale. Infatti, la parola è l’unico segno sicuro di un pensiero nascosto nel corpo, e tutti gli uomini, i più stupidi, i più sciocchi e quelli privi degli organi vocali, si servono di quella, al contrario delle bestie; e ciò può essere considerato come la vera differenza tra l’uomo e la bestia» (Ib., p. 48).

Il linguaggio, quindi, distingue l’uomo dagli animali, e costituisce per l’uomo qualcosa di costitutivo, di innato, che non viene appreso empiristicamente. Su questo punto Chomsky rimarrà fermo anche negli anni successivi, ampliando le ascendenze filosofiche di tale posizione con l’utilizzazione della teoria della anamnesi di Platone, di quella leibniziana delle monadi che non hanno contatti esterni e che quindi hanno tutto dentro di sé dall’inizio, di quella kantiana delle forme trascendentali che costituiscono la natura umana e che operano a contatto con i dati empirici ma con una funzione essenziale dell’elemento a priori.

Il linguaggio non si apprende, scriverà spesso Chomsky, ma cresce dentro di noi cosi come crescono altre «competenze» della nostra mente e del nostro corpo; fa parte di una nostra «dotazione biologica» sulla causa e origine della quale non possiamo dire nulla. In un testo

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molto ricco anche se breve del 1978 preciserà: «Di fatto, non ritengo inappropriato considerare la mente come un sistema di organi mentali - e uno di questi è la facoltà del linguaggio - ciascuno dei quali possiede una struttura determinata dalla nostra dotazione biologica. La natura e il corso delle interazioni di questi organi mentali con l’ambiente sono anch’essi generalmente determinati dalla nostra dotazione biologica» (in B. Magee, Men of Ideas, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 176).

Chomsky cerca di chiarire ulteriormente il concetto di dotazione biologica, proponendo di intendere quest’ultima come una sorta di retaggio che la specie riceve in eredità dalla lunghissima evoluzione dell’umanità, e che il singolo si trova dentro come qualcosa di costitutivo, di innato: «Noi siamo preprogrammati con ricchi sistemi che sono parte della nostra dotazione biologica. [...] Bene, i sistemi basici si sono sviluppati nel corso di lunghi periodi di sviluppo evoluzionistico. Non sappiamo in che modo, in realtà. Ma per ciascun individuo essi sono presenti. Come risultato, l’individuo è capace, con una quantità molto piccola di esperienza, di costruire sistemi cognitivi estremamente ricchi che gli consentono di agire nella maniera libera e creativa che è normale per gli esseri umani. In particolare, la nostra facoltà di linguaggio innata, a causa delle sue proprietà altamente restrittive e del tutto specifiche, rende possibile la crescita e la maturazione di una grammatica nelle nostre menti - quello che viene chiamato “apprendere il linguaggio”» (Ib., p. 184).

Il modello filosofico, antropologico, psicologico e linguistico derivante da queste tesi, frequentemente ribadite e approfondite da Chomsky nell’ultimo trentennio, costituisce un’alternativa radicale sia ai modelli di derivazione empiristica, dominanti nella tradizione analitica (soprattutto nella versione comportamentistica di cui Quine rappresenta il massimo esponente), sia ai modelli di derivazione strutturalistica e poststrutturalistica. Entrambi questi ultimi, infatti, lasciano poco o nessuno spazio al tema della creatività linguistica del soggetto individuale, e indicano nel linguaggio o, comportamentisticamente, il risultato esclusivo di ripetute esperienze di stimolo-risposta tra esseri umani e ambiente o, strutturalisticamente, il risultato dell’operare di strutture complesse e totalizzanti rispetto alle quali il soggetto individuale perde il suo ruolo attivo e creativo.

Chomsky prende le distanze, in maniera sempre più esplicita, rispetto a queste tradizioni, e soprattutto rispetto a quella empiristica e comportamentistica, dominante negli ambienti filosofici, linguistici e psico-pedagogici del suo paese. Quine e Goodman, ai quali si era ispirato in qualche misura e verso i quali aveva riconosciuto i propri debiti filosofici nell’opera del 1957, vengono criticati apertamente negli scritti successivi (si veda per esempio la prima parte del volume del 1971 Problems of Knowledge and Freedom, utile anche per la conoscenza delle sue posizioni politiche; trad, ital., Conoscenza e libertà, Einaudi, Torino, 1973).

Chomsky ribadisce e approfondisce le sue tesi innatistiche fino agli scritti di questi ultimi anni, nei quali riprende anche il problema delle ascendenze filosofiche (Platone e Descartes soprattutto, e quindi Leibniz e Kant). In particolare, in uno dei suoi più recenti volumi di carattere complessivo, Linguaggio e problemi della conoscenza del 1988, parla a lungo del «problema di Platone» e del «problema di Descartes», riferendo a queste due posizioni da una parte il problema dell’apprendimento linguistico, dall’altra il problema della creatività

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linguistica. Su quest’ultimo riprende temi già affrontati in Linguistica cartesiana del 1966. Sull’altro approfondisce alcune sue tesi, che hanno implicazioni di carattere linguistico, psicologico e pedagogico (si deve dire fra l’altro che proprio in rapporto al dibattito suscitato negli anni Sessanta dalle nuove proposte teoriche di Chomsky si è avuta una forte espansione della ricerca in campo psicolinguistico e psicopedagogico).

Chomsky affronta il «problema di Platone» partendo da una frase interrogativa dell’ultimo Russell da lui frequentemente citata: «Come mai gli esseri umani, il cui contatto con il mondo è cosi breve, personale e limitato, sono in grado di avere una conoscenza cosi ampia come di fatto hanno?». Chomsky risponde asserendo che Platone ha dato la prima soluzione «sperimentale» di questo problema nel Menone, in cui «Socrate dimostra che un giovane schiavo privo di istruzione conosce i principi della geometria conducendolo, attraverso una serie di domande, alla scoperta di alcuni teoremi di geometria. Questo esperimento solleva un problema che rimane tuttora insoluto [il problema di Platone appunto]: Come ha fatto il giovane schiavo a trovare la verità della geometria senza istruzioni o informazioni?» (trad, ital., D Mulino, Bologna, 1991, p. 5).

Chomsky ritiene che la dottrina platonica dell’anamnesi sia nella sostanza (tolte le implicazioni mitico-religiose) corretta, e la riformula in termini moderni, passando attraverso la «laicizzazione» fornitane da Leibniz. Per Platone, osserva Chomsky, «la conoscenza veniva ricordata sulla base di un’esistenza precedente, e veniva risvegliata nella mente del giovane schiavo dalle domande che gli poneva Socrate. Secoli più tardi, Leibniz sostenne che la risposta di Platone era essenzialmente corretta ma che andava “emendata dall’errore dell’esistenza precedente”. Come possiamo interpretare questa proposta in termini moderni? Una variante moderna [quella chomskiana appunto] sarebbe che certi aspetti della nostra conoscenza e della nostra comprensione sono innati, cioè parte del nostro patrimonio biologico, geneticamente determinato, esattamente come quegli elementi della nostra natura comune che fanno si che ci crescano le braccia e le gambe e non le ali. Questa versione della dottrina classica è, io credo, essenzialmente corretta. Essa è parecchio distante dalle assunzioni degli empiristi che hanno dominato la maggior parte del pensiero occidentale per un lungo periodo negli ultimi secoli» (Ib., p. 6).

Chomsky illustra la sua versione di questa dottrina classica applicandola alla linguistica, e in particolare al problema del cosiddetto «apprendimento» della lingua da parte dei bambini. Nel far ciò dà una soluzione diversa, rispetto alla tradizione comportamentistica, del problema del rapporto individuo-ambiente: «L’apprendimento della lingua non è proprio qualcosa che un bambino compie; è qualcosa che a un bambino, posto nell’ambiente 

appropriato, capita, più o meno come il corpo del bambino cresce e matura in un modo predeterminato quando gli vengono fomiti l’adeguato nutrimento e gli stimoli ambientali. Questo non significa che la natura dell’ambiente sia irrilevante. L’ambiente determina il modo nel quale i parametri della grammatica universale assumono una certa configurazione, producendo lingue differenti. [...] Inoltre, la differenza tra un ambiente ricco e stimolante e un ambiente povero può essere determinante in modo sostanziale sia nell’acquisizione della lingua cosi come nella crescita fisica o, più precisamente, in taluni aspetti della crescita fisica, non essendo l’acquisizione di una lingua che uno di questi aspetti. Le capacità che sono parte

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del nostro patrimonio genetico comune possono fiorire o possono essere limitate e soppresse secondo le condizioni che sono fomite per la loro crescita» (Ib., p. 118).

Il brano qui riportato appare di grande interesse in quanto Chomsky ritiene di essere riuscito ad armonizzare la versione innatistica classica (Platone, Descartes, Leibniz, Kant) con un orientamento naturalistico e in qualche misura scientifico. In tal modo la sua proposta teorica si presenta non come un’alternativa «retrograda» al comportamentismo empiristico e scientistico ma come un’alternativa «avanzata», che si propone di operare sullo stesso terreno scientifico di quella criticata.

Chomsky ha rivoluzionato la linguistica più di trent’anni fa, e ormai la sua posizione in questo campo è quella di un innovatore radicale che ha fatto scuola in tutto il mondo. Ma il suo pensiero non si è limitato alla linguistica. Le implicazioni filosofiche, psicologiche e pedagogiche delle sue tesi hanno esteso la sua influenza, negli ultimi decenni, ai rispettivi campi di ricerca e di dibattito; il che è dimostrato dalla abbondante letteratura critica e dalla partecipazione, alle discussioni teoriche su tali materie, dei principali esponenti di queste discipline.

1159. Kripke: logica modale e mondi possibili.

Saul Kripke, nato nel 1935, è stato una sorta di enfant prodige negli sviluppi delle forme più avanzate e innovative della logica contemporanea. Nei primi anni Sessanta, infatti, ha dato inizio alle sue elaborazioni, nell’ambito della logica modale e della problematica dei mondi possibili, culminate in tre conferenze del 1970, ormai classiche, pubblicate nel 1972 su una rivista e nel 1980 come volume autonomo dal titolo Naming and Necessity. Anche le sue riflessioni su alcuni temi chiave del pensiero dell’ultimo Wittgenstein (questione delle regole, argomento del linguaggio privato, paradosso dello scettico) risalgono ai primi anni Sessanta. Rielaborate, sono apparse in volume nel 1982 col titolo Wittgenstein on Rules and Private Language. Entrambi i volumi sono stati tradotti in italiano e pubblicati da Boringhieri, Torino, rispettivamente nel 1982 (Nome e necessità) e nel 1984 (Wittgenstein su regole e linguaggio privato). Un’altra raccolta di saggi è stata tradotta e pubblicata recentemente con il titolo Esistenza e necessità (Ponte alle Grazie, Firenze, 1992).

Kripke ha percorso i gradi della sua carriera accademica nella prestigiosa Università di Princeton. Egli è uno dei massimi esponenti della logica contemporanea, e la sua autorità in questo campo di studi è riconosciuta in tutto il mondo, anche se le sue tesi hanno suscitato ampio dibattito.

Sia la tematica affrontata da Kripke sia lo stile e il linguaggio da lui usati sono molto sottili e tecnici, anche se l’autore chiarisce spesso con esempi e con un andamento colloquiale le parti più difficili delle sue argomentazioni (i due volumi ormai classici sono la trascrizione di lezioni in buona parte, secondo quanto dice l’autore, tenute senza leggere appunti o testi). Le sue ricerche sono collocabili, in generale, nel dibattito logico e filosofico relativo alla teoria dei nomi, del riferimento e del significato; in particolare, nell’ambito degli sviluppi recenti - dagli anni Sessanta in poi - della logica modale, soprattutto in quella parte di essa nota come semantica dei mondi possibili.

L’espressione «mondi possibili» rinvia a note tesi logiche e metafisiche di Leibniz (ognuno

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ricorderà la tesi leibniziana secondo la quale, dato che esiste Dio e che Dio non può che essere buono e giusto, Egli ha creato necessariamente il migliore dei mondi possibili, che è appunto quello, l’unico, nel quale viviamo). L’uso dell’espressione «mondi possibili» e della «semantica» relativa a questi si è diffuso soprattutto a partire dagli anni Sessanta nei dibattiti logico-filosofici della logica modale, estendendosi a problematiche filosofiche di carattere più generale.

In campo strettamente logico l’uso della espressione dipende dai temi chiave della logica modale, la quale, invece che occuparsi della verità o falsità degli enunciati, si occupa di altre loro caratteristiche, in particolare della loro possibilità o necessità. Nell’ambito di tali temi emergono importanti problemi relativi agli enunciati condizionali controfattuali (per esempio «Se fossi nato due secoli fa non avrei conosciuto le opere di Joyce»), i quali rinviano, sul piano strettamente logico, alla nozione di «mondo possibile» come eventuale riferimento «semantico» di tali enunciati. I più noti e influenti studiosi che hanno alimentato il dibattito su tali problematiche sono stati Richard Montague, David Lewis, Robert Stalnaker, Nelson Goodman, Hilary Putnam, Saul Kripke. Si sono avute posizioni teoriche radicalmente opposte (Lewis sostiene l’esistenza dei mondi possibili, mentre Goodman, Stalnaker,

Kripke sostengono l’esistenza di un unico mondo, il nostro, e usano l’espressione «mondi possibili» soltanto in funzione tecnica e logica, non metafisica). Ci limiteremo a indicare quelli che vengono considerati i contributi fonda- mentali portati dalle proposte teoriche e logiche di Kripke a tale campo di studi.

Il testo chiave, per la individuazione di tali contributi, è il volume Nome e necessità che contiene le conferenze di Kripke del 1970 (altri scritti, tutti in forma di articoli, ripropongono con un linguaggio ancora più tecnico e formalizzato gli stessi temi). Kripke in queste lezioni affronta il problema dei nomi propri, muovendo dalla distinzione proposta da J.S. Mill nel suo Sistema di logica del 1843 tra connotazione e denotazione dei nomi. Secondo le proposte logiche di Mill, i nomi propri denotano, cioè indicano oggetti o persone, ma non connotano, cioè non precisano alcun contenuto concettuale, alcun significato: possiedono cioè un riferimento ma non un significato. Per esempio, il nome proprio «Aristotele» fa riferimento a una certa persona fisica, senza nulla dire di essa; per dire qualcosa di essa devo usare non un nome proprio ma una descrizione, per esempio «L’autore dell'Organon», o «Il maestro di Alessandro Magno». Secondo Kripke la tematica dei nomi propri è stata affrontata da Frege, Russell e più recentemente da J. Searle (allievo di Austin e Grice, autore di un famoso breve articolo del 1958 dal titolo Nomi Propri), con la tendenza ad attribuire ai nomi propri non solo un riferimento (una denotazione, in termini milliani) ma anche un significato (una connotazione). In tal modo, nella problematica della logica modale e dei mondi possibili, un nome proprio può indicare più di una persona, e cioè tutte quelle che rispondono ai requisiti indicati nel nome.

Kripke è contrario a questa teoria, o meglio posizione logico-filosofica, e contrappone ad essa una «immagine» (non la chiama teoria) che in qualche misura si ricollega a Mill e si ispira ad alcune posizioni generali dell’ultimo Wittgenstein. La sua alternativa è nota come proposta della definizione dei nomi propri (distinti dalle descrizioni) quali designatori rigidi, cioè «espressioni che denotano sempre lo stesso referente rispetto alle diverse circostanze di

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valutazione» (A. Bonomi, Le immagini dei nomi, Garzanti, Milano, 1987, p. 119).

Quale risulta essere, a questo punto, la portata «ontologica» del nome proprio o designatore rigido? Qual è il suo status «metafisico»? Quale la sua origine? Kripke risponde a queste domande in una nota pagina di Nome e necessità, nella quale propone una sua «immagine» di come nascano e si affermino, nelle comunità di parlanti, i nomi propri o designatori rigidi: «Nasce qualcuno, un bambino; i suoi genitori lo chiamano con un certo nome. Ne parlano ai loro amici. Altre persone lo incontrano. Attraverso discorsi di vario tipo, il nome si diffonde come in una catena, di anello in anello. Un parlante che si trova a un’estremità di questa catena, e che ha sentito parlare, ad esempio, di Richard Feynman al mercato o altrove, può riferirsi a Richard Feynman anche se non si ricorda da chi egli per la prima volta ha sentito parlare di Feynman o da chi ne ha mai sentito parlare. Egli sa che Feynman era un fisico famoso. Un certo flusso di comunicazione che alla fine si estende sino alla persona stessa, raggiunge in effetti il parlante, che può dunque riferirsi a Feynman anche se non sa identificarlo in maniera univoca. [...] E' stata invece stabilita una catena di comunicazione che risale a Feynman stesso, in virtù della sua appartenenza a una comunità che ne ha trasmesso il nome da un anello all’altro e non mediante una cerimonia che egli esegue privatamente nel suo studio: “Con Feynman intenderò colui che ha fatto questo e questo e quest’altro”» (Nome e necessità, Boringhieri, Torino, 1982, p. 89).

Nelle ultime righe del brano è chiara la distinzione ribadita da Kripke tra nome proprio e descrizione, mentre l’insieme del brano indica nella comunità dei parlanti l’origine e la legittimità dell’uso dei nomi propri, il cui status non rinvia a qualche ontologia o metafisica ma alla wittgensteiniana comunità di parlanti e ai «giochi» linguistici ai quali sembrano rinviare gli anelli e le catene di comunicazione di cui parla Kripke.

Un altro contributo molto noto e importante di Kripke alla logica modale si riferisce alle tradizionali distinzioni tra a priori e a posteriori e tra necessario e contingente. Nella tradizione logica andavano insieme, di solito, le coppie a posteriori-contingente e a priori (o analitico)-necessario. Kripke dimostra, con argomentazioni logiche e filosofiche, che non c’è ragione per la permanenza rigida di tali coppie concettuali. Queste ultime, secondo Kripke, derivano dal non aver distinto accuratamente il livello conoscitivo e quello ontologico o metafisico degli enunciati. Rifacendosi all’esempio classico, presente in Frege, della stella della sera che, tramite l’esperienza, e quindi a posteriori e non analiticamente, viene identificata con la stella del mattino, Kripke sostiene che in casi del genere si deve distinguere tra il livello cognitivo e quello ontologico-metafìsico: sul piano cognitivo il risultato ottenuto - l’identificazione degli oggetti di riferimento dei due nomi - ha a che fare con l’a posteriori, con il contingente; sul piano della realtà oggettuale, ontologico-metafìsico, il risultato si configura come qualcosa di necessario, che non può essere più modificato, che non è quindi contingente. Anche in questo caso funziona, con il riferimento al livello ontologico-metafìsico, la proposta del nome proprio come designatore rigido. 

Filosoficamente, le posizioni di Kripke sono orientate in maniera netta verso il realismo. Altri contributi, diretti o indiretti, delle riflessioni logiche del Nostro hanno riguardato la problematica del rapporto mente-corpo e temi a questa connessi. Kripke, oggi, gode di un’autorità riconosciuta fra tutti gli studiosi di logica nel mondo intero.

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1160. Putnam: verso un realismo dal volto umano.

Hilary Putnam, nato nel 1926, da molti anni insegna a Harvard, in fecondo e continuo scambio filosofico sia con i colleghi della sua Università (la più ricca sul piano filosofico, fin dalla fine dell’Ottocento) sia con studiosi di altre università statunitensi e, negli anni più recenti, con studiosi di tutto il mondo. È attualmente uno dei massimi esponenti del pensiero filosofico statunitense, del quale rappresenta, in qualche maniera, la sintesi. E' stato detto di lui che impersona la filosofia statunitense degli ultimi quattro decenni circa, ma è stato anche detto che cercare di fissare il suo pensiero è come cercare di catturare il vento con una rete. Putnam è infatti un pensatore molto reattivo alle posizioni con le quali entra in contatto, e queste posizioni sono state, e sono, moltissime nell’arco di questi decenni.

Formatosi nell’ambito della filosofia analitica, ma di quella ancora legata alle origini (ha studiato in particolare con Carnap e con Reichenbach), con forti interessi politici (Marx e il rinnovamento del marxismo soprattutto ad opera di Habermas, verso il quale nutrirà una simpatia costante), con impegni militanti negli anni Sessanta nei movimenti di sinistra ultraradicali (fece parte di un gruppo maoista), Putnam ha tenuto presenti anche i suoi legami con la tradizione ebraica, verso la quale ha pure rivolto attenzioni di tipo filosofico.

Fino alla metà degli anni Settanta ha preso parte a numerosi dibattiti logici, epistemologici, filosofici, collocandosi su posizioni di orientamento realistico. Verso il 1975, sia per una evoluzione interna del suo pensiero sia per l’influsso di pensatori quali Nelson Goodman, Ludwig Wittgenstein e Michael Dummett, oltre che per una lettura di tipo nuovo degli scritti di Kant, Putnam si sposta su posizioni da lui definite allora di «realismo interno», posizioni molto vicine a quelle di Goodman e di Kant, definite in anni più recenti «realismo dal volto umano» (è questo il titolo di una importante raccolta di saggi apparsa nel 1991).

Il distacco dalla filosofia analitica si fa sempre più netto nel corso degli anni Ottanta, senza però che questo significhi l’abbandono della filosofia proposto da Rorty (l’amico collega verso il quale manifesterà sempre, su questo punto, il suo netto dissenso). Come per Rorty, tale distacco provoca un accostamento alla tradizione pragmatistica, in particolare al pensiero di William James. Tale accostamento, però, viene vissuto da Putnam non come una maniera di riaffermare, tramite una forzatura dei testi pragmatisti effettuata da Rorty secondo Putnam, un atteggiamento liquidatorio rispetto alla filosofia, ma come una conferma di un atteggiamento filosofico pluralistico, aperto, e teso a superare la tradizionale dicotomia tra mondo dei valori etici e mondo dei valori conoscitivi. Negli ultimi anni, come vedremo, Putnam sottolinea, con forte impegno etico e filosofico, la comune razionalità, la comune radice, di bene e vero, cercando in alcuni pensatori a lui molto cari (Kant, James, Wittgenstein) motivi affini a queste sue tesi.

Putnam è uno scrittore molto prolifico. Molti dei suoi articoli degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta sono stati da lui raccolti nei due volumi del 1975 Mathematics, Matter, and Method e Mind, Language, and Reality (quest’ultimo, contenente i suoi principali contributi filosofici fino a quel periodo, tradotto da noi e apparso presso Adelphi, Milano, nel 1987). I più significativi contributi del «nuovo» Putnam sono stati raccolti nel fondamentale volume del 1983 Realism and Reason. In quegli anni Putnam pubblica anche l’opera che nella forma

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più organica definisce le sue nuove posizioni, Reason, Truth, and History del 1981 (tradotta presso II Saggiatore, Milano, 1985). Utili per la comprensione del suo nuovo pensiero sono anche le lezioni del 1976 su Meaning and the Moral Sciences, pubblicate nel 1978 e tradotte presso Il Saggiatore, Milano, nel 1982 col titolo Verità e etica. Una sintesi molto chiara e aggiornata dei suoi nuovi interessi è rappresentata dal volumetto del 1987 The Many Faces of Realism (tradotto in italiano presso Garzanti, Milano, 1991 col titolo La sfida del realismo), mentre la più recente, molto ricca raccolta di saggi dal titolo Realism with a Human Face, apparsa nel 1990 con una importante introduzione del curatore J. Conant, costituisce una fonte preziosissima di studio sulla multilateralità di interessi e autori presenti nelle riflessioni dell’ultimo Putnam. Utile è anche l’edizione delle lezioni tenute a Roma nella primavera del 1992, apparsa presso Laterza, Roma-Bari 1992, col titolo II pragmatismo: una questione aperta. Π suo libro più recente è Renewing philosophy, Harvard University Press, Cambridge, Mass., apparso all’inizio del 1993.

Ci limiteremo in questa sede ad individuare gli interessi centrali di Putnam dal 1975 circa in poi, indicandone il percorso teorico e gli agganci a posizioni, contemporanee o classiche, dal Nostro frequentemente sottolineati.

Realismo, ragione, etica, sono termini che compaiono ricorrentemente nei titoli di libri e articoli di Putnam, e stanno a indicare l’attenzione verso i problemi più generali e in qualche maniera tradizionali della riflessione filosofica: problemi ai quali Putnam ha cominciato a rivolgersi in misura crescente dagli anni Settanta, nell’ambito dei numerosi dibattiti di cui è stato spesso protagonista o interlocutore sempre molto vivace.

In una recente intervista Putnam ha indicato le diverse fasi di formazione e di evoluzione del suo pensiero, dall’iniziale partecipazione ai dibattiti tra i filosofi analitici alla crescente insoddisfazione per le fasi più recenti della filosofia analitica, le quali secondo Putnam farebbero scandalizzare i «padri fondatori» di tale tradizione. Scrive infatti in proposito: «La filosofia analitica parte come rispetto per l’argomentazione. Il problema è che dopo un po’ non si è cominciato a fare che questo, e non si è più saputo su cosa argomentare. Allora emersero gli oggetti immaginari: i mondi possibili, quanto i mondi possibili o potenziali sono diversi o uguali al mondo reale e cosi via. Che cos’è questo se non il ritorno del represso? Altro che movimento antimetafisico: oggi la corrente analitica è assolutamente la più metafisica sullo scenario occidentale. Lo prova il fatto che i maestri dell’analiticismo non parlano d’altro che di “intuizione”. [...] Il problema, ben più grave, è che la filosofia analitica è vuota» (in G. Borradori, Conversazioni americane, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 83).

Putnam aveva partecipato, tra l’altro, a molti dibattiti sui mondi possibili, e in queste righe si sente la consapevolezza dell’esaurimento teorico della tradizione analitica, consapevolezza ben presente anche in altri pensatori, in forma più radicale (si pensi a Rorty). Nella stessa intervista però Putnam sottolinea più volte il suo rifiuto di seguire la strada indicata da un Rorty o da un Derrida (l’abbandono della filosofia) e ripercorre la strada che l’ha portato dall’iniziale realismo «metafisico» al «realismo interno» o «realismo dal volto umano» che caratterizza le sue posizioni quali si sono sviluppate a partire dalla metà degli anni Settanta. In queste pagine Putnam indica anche gli autori di maggior riferimento per gli sviluppi del suo pensiero: Nelson Goodman e William James e, in misura minore, Ch. S. Peirce nel suo

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paese; Habermas, nella filosofia europea più recente, per l’idea della democrazia come concetto centrale, che è comune anche al pragmatismo, e per l’idea di un atteggiamento «redentivo» che deve stare alla base della filosofia; Wittgenstein e Kant, per la convergenza, nelle loro riflessioni più profonde, tra mondo dei valori etici e mondo dei valori conoscitivi, tra esigenza del bene ed esigenza del vero.

Putnam perviene a queste posizioni nel corso di un itinerario le cui tappe più significative sono rappresentate dalle opere successive al 1975, cioè al momento del suo passaggio dal realismo «metafisico» al realismo «interno». I termini del problema sono indicati con grande chiarezza ad apertura del suo libro più organico, Ragione, verità e storia del 1981, che illustra le posizioni originali raggiunte dall’autore in quegli anni. Si tratta di posizioni vicine a quelle di Goodman (proprio nel 1978 era apparso Ways of Worldmaking, il volumetto che sintetizzava con chiarezza ü «costruzionismo» di Goodman, al quale esplicitamente si ispira Putnam), e che intendono evitare sia la concezione oggettivistica o corrispondentistica della realtà, della verità e della ragione, sia la opposta concezione soggettivistica, relativistica, liquidatoria del problema. Scrive Putnam: «Molti filosofi, forse addirittura la maggior parte di essi, accettano una qualche versione della teoria della verità come “copia”, cioè quella concezione secondo cui un’asserzione è vera se essa “corrisponde ai fatti (indipendenti dalla mente)” e per i filosofi di questa schiera l’unica alternativa è data dalla negazione dell’oggettività della verità, che costituirebbe una resa di fronte all’idea che tutti gli schemi di pensiero e tutti i punti di vista sono disperatamente soggettivi. C’è naturalmente una audace minoranza di filosofi (per esempio Kuhn, almeno in alcuni suoi momenti, Feyerabend e alcuni importanti filosofi continentali come Foucault) che si schierano sotto l’etichetta opposta. Essi concordano sul fatto che l’unica alternativa a una concezione ingenua della verità come copia, consiste nel considerare soggettivi i sistemi di pensiero, le ideologie e persino (secondo Kuhn e Feyerabend) le teorie scientifiche e quindi propongono in maniera vigorosa una visione relativistica e soggettivistica» (Il Saggiatore, Milano, 1985, p. 3).

Al realismo metafisico della prima posizione e all’irrealismo soggettivistico della seconda Putnam intende contrapporre una terza posizione, da lui chiamata realismo interno e molto vicina alle teorie di Kant e di Goodman: «una concezione della verità che unisce componenti oggettive e componenti soggettive. Tale concezione, almeno nello spirito, si rifà alle idee di Immanuel Kant: essa sostiene che è possibile rifiutare una semplice concezione della verità come “copia” senza dover necessariamente sostenere che è tutto una questione di Zeitgeist [Spirito del Tempo], di cambiamenti di Gestalt [Forma mentale] o, semplicemente, di ideologia. La teoria che esporrò sostiene, per dirla in maniera approssimativa, che esiste un nesso molto stretto tra le nozioni di verità e di razionalità e che, molto schematicamente, l’unico criterio per decidere che cosa sia un fatto è quanto è razionale accettare» (Ib., p. 4). E ancora, in un passo molto citato: «In breve, proporrò una tesi per la quale la mente non “copia” semplicemente un mondo che può essere descritto da un’Unica teoria vera. La mia tesi, però, non sostiene neppure che la mente costruisce il mondo (né lo costruisce sottomessa a vincoli imposti da “canoni metodologici” e da “dati sensoriali” indipendenti dalla mente). Volendo usare un linguaggio metaforico, diremmo che la mente e il mondo costruiscono insieme la mente e il mondo (o per rendere la metafora ancor più hegeliana, l’Universo

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costruisce l’Universo, con le menti che, collettivamente, svolgono un ruolo particolare nella costruzione)» (Ib., p. 5).

Putnam ha intrapreso, con la sua «terza via» tra oggettivismo metafisico e irrealismo soggettivistico, una strada non facile, che rischia di farlo cadere nelle posizioni di un Rorty o di un Feyerabend o di un Derrida. Egli però, in numerosi testi, indica chiaramente che l’alternativa all’oggettivismo, al realismo metafisico (nel quale in qualche misura aveva operato egli stesso, e nel quale in ultima analisi ritiene che operi Quine), non è necessariamente quella soggettivistico-relativistica di un Derrida o di un Rorty. Egli si sente abbastanza vicino, invece, alle posizioni, anch’esse alquanto azzardate nella ricerca di una «terza via», di un Goodman, come preciserà distinguendo tra le idee di Goodman (e sue) e quelle di Rorty, nella prefazione per l’edizione del 1983 di una importante opera di Goodman risalente al 1954, Fact, Fiction and Forecast: «Sebbene muova allo stesso modo, diciamo, di Rorty - cioè rinunciando alla certezza, rifiutando l’idea di un fondamento ontologico indipendente dalla nostra attività teorica e respingendo, anche molto più di Rorty, i problemi filosofici che più vanno di moda - egli [Goodman] è lontanissimo dal tipico “ora la filosofia è finita” che tormenta tanta filosofia del Novecento. Se non c’è un mondo bell’e pronto, allora, dice Goodman, mettiamoci a costruirli dei mondi. Se non ci sono criteri oggettivi, allora costruiamoceli dei criteri. Niente è già bell’e pronto, tutto va invece costruito» (trad, ita!.. Fatti, ipotesi e previsioni, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. xm-xrv).

Putnam, nell’opera del 1981, non si limita a dichiarare in termini generali la «terza via» di cui abbiamo parlato, ma cerca di definirne i limiti e i metodi, ricorrendo spesso alle idee di Kant secondo il quale la realtà da noi conosciuta è quella che viene «costruita» a partire dalle forme trascendentali costituenti le attrezzature della nostra ragione. Non si può pervenire ad una realtà indipendente di «cose in sé». Kantianamente, scrive Putnam, «Chiedersi di quali oggetti consista il mondo ha senso soltanto all’interno di una data teoria o descrizione», per cui la verità, secondo questa concezione «internista» e non «metafisica», «è una specie di accettabilità razionale (idealizzata) [...] anziché una corrispondenza con uno “stato delle cose” indi- pendente dal discorso e dalla mente» (Ragione, verità e storia, cit., p. 57).

Nel quadro di questa prospettiva kantiana, internista, e quasi goodmaniana, osserva Putnam, «gli “oggetti” non esistono indipendentemente dagli schemi concettuali, ma siamo noi che scomponiamo il mondo nei vari oggetti quando introduciamo i nostri schemi di descrizione: poiché sia gli oggetti sia i segni sono entrambi interni rispetto allo schema di descrizione, è possibile dire quale segno corrisponde a quale oggetto» (Ib., p. 60). Il problema del riferimento delle parole alle cose, quindi, in questa prospettiva evita le opposte difficoltà e soluzioni delle concezioni oggettivistica e soggettivistica, che cercano l’una di trovare qualche misteriosa strada che porti dal linguaggio al mondo «esterno» e l’altra di introiettare le cose insieme alle parole.

1161. Putnam: convergenza di razionalità, verità e bene.

Altri problemi di fondo rimanevano aperti per Putnam nel quadro della costruzione della «terza via»: in che modo costruiamo i nostri schemi concettuali, le nostre descrizioni del mondo in senso kantiano e goodmaniano? Conosciamo le risposte di Kant (ognuno possiede

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attrezzature a priori, trascendentali, che «naturalmente» portano a costruire il mondo della nostra conoscenza, ma anche della nostra attività morale e della nostra creatività estetica) e di Goodman (costruiamo conoscitivamente il mondo, anzi i mondi, alla maniera con cui le arti costruiscono i loro mondi). La risposta di Putnam, per quanto vicina a queste altre, si qualifica per una sua diversa radicalità, che lo porta a individuare una sorta di radice comune di etica e conoscenza, con la precisazione del carattere in qualche modo «fondativo» dell’etica rispetto alla conoscenza, del bene rispetto al vero.

Per Putnam, che rompe qui con la filosofia analitica su un punto chiave, non ci sono ragioni per affermare, come spessissimo si è fatto, una distinzione radicale tra mondo dei valori e mondo dei fatti, tra etica e conoscenza o scienza. In realtà, secondo Putnam sono le scelte etiche che stanno alla base della nostra esistenza, e quindi anche di quella parte della nostra esistenza dedicata all’attività conoscitiva. Egli si sofferma a lungo su tale importante tematica, da lui ripresa e approfondita negli anni successivi, in particolare con riferimento a Kant, a Wittgenstein e a William James. Nell’opera che stiamo esaminando vengono fissati i punti chiave della sua tesi, quando scrive: «La posizione che ho sostenuto è che qualsiasi scelta di uno schema concettuale presuppone valori e che la scelta di uno schema per descrivere le normali relazioni interpersonali e i fatti sociali, per non parlare dei propri piani di vita, implica, tra le altre cose, valori morali. Non si può scegliere uno schema che non fa altro che “copiare” i fatti, perché nessuno schema concettuale è una mera “copia del mondo”. La nozione stessa di verità dipende per il suo contenuto dai nostri criteri di accettabilità razionale, e questi a loro volta presuppongono i nostri valori e poggiano su di essi. Per dirla schematicamente e in breve, sostengo che la teoria della verità presuppone una teoria della razionalità che, a sua volta, presuppone la nostra teoria del bene» (Ib., p. 231). 

Putnam radicalizza questa sua tesi affermando che essa è verificabile anche nelle nostre azioni o affermazioni più banali. Esse rinviano, in ultima istanza, a scelte di valori, implicite o esplicite, senza le quali nessuno di noi potrebbe vivere o parlare: «un essere senza valori non disporrebbe neppure di fatti» (Ib., p. 217). Anche la più banale e apparentemente la più neutra delle asserzioni, «il gatto è sul tappeto», rinvia al complesso contesto culturale, sociale, linguistico, nel quale viene pronunciata, e quel contesto presenta un gran numero di nozioni apparentemente neutre ma in realtà derivanti in ultima istanza da interessi e valori di carattere morale dai quali non si può prescindere.

Si tratta di valori-base definitivi? C’è forse una staticità dell’etica, e quindi della società che da questa in ultima istanza deriva? Putnam risponde negativamente a questa domanda, giacché egli è convinto che esista nell’umanità una sorta di spinta al miglioramento, ima molla che ci fa guardare critica- mente al nostro presente e al nostro futuro, una esigenza che ci fa sperare di produrre «una concezione più razionale della razionalità, o una concezione migliore della moralità solo se operiamo aR’interno della nostra tradizione»; e ciò avviene perché, secondo Putnam, «non siamo intrappolati in inferni individuali solipsistici; siamo piuttosto invitati a impegnarci in un dialogo autenticamente umano; un dialogo che combini la collettività con la responsabilità individuale» (Ib., p. 232). Queste sono le condizioni che fanno parlare Putnam di una «fioritura umana», un concetto a lui molto caro, che richiama i concetti di democrazia, pluralismo, razionalità e moralità aperte.

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Su questi ultimi argomenti Putnam negli anni Ottanta è ritornato spesso, svolgendo le sue riflessioni in direzione di una ripresa di tematiche pragmatistiche, di cui sottolinea l’interesse centrale per i temi della democrazia e del pluralismo, temi vicini agli interessi, non solo filosofici ma anche politici, di un Habermas o di un Apel. Da un punto di vista più generale, comunque, gli autori che Putnam ha frequentato maggiormente dopo la pubblicazione di Reason, Truth, and History del 1981 sono senz’altro Kant, Wittgenstein e William James.

Putnam cerca in tali autori una conferma autorevole delle sue tesi, in particolare di quelle sulla convergenza tra razionalità, verità e bene che, come abbiamo visto, figuravano con forza nell’ultima parte dell’opera del 1981. Soprattutto nel volumetto del 1987, The Many Faces of Realism, e nella grossa raccolta di saggi del 1990, Realism with a Human Face, questa frequentazione risulta particolarmente felice. I risultati di essa sono stati poi illustrati nelle lezioni romane del 1992 su II Pragmatismo: una questione aperta.

In quest’ultima opera Putnam è particolarmente chiaro ed esplicito sulla interpretazione e valutazione dei suoi autori preferiti, Kant, Wittgenstein e James.

A Kant, per esempio, riconosce molti meriti oltre a qualche «errore» o «confusione». Il merito, innanzitutto, di aver per primo chiarito che noi non copiamo il mondo, ma ne costruiamo immagini diverse, e non soltanto dal punto di vista conoscitivo, ma anche dal punto di vista etico, estetico e perfino religioso: «Kant comprese che noi descriviamo il mondo per scopi differenti, ad esempio per scopi scientifici e anche per scopi morali, e che nessuna delle due descrizioni è riducibile all’altra o intertraducibile nell’altra, sebbene credesse - e penso avesse ragione - che le nostre immagini morali e le nostre immagini scientifiche possono essere entrambe corrette. Tuttavia Kant stesso andava soggetto a una confusione: quella di supporre che una descrizione modellata dalle nostre scelte concettuali in qualche modo non è, per questa stessa ragione, una descrizione del suo oggetto “come esso è in realtà”» (Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 35).

Secondo Putnam l’insistenza di Kant sulla distinzione tra mondo fenomenico e mondo delle cose in sé dipende non dalle sue teorie conoscitive ma dalle sue teorie etiche (già nel volumetto del 1987 Putnam aveva sottolineato che tale distinzione si trova più nella seconda che nella prima Critica di Kant), e ha prodotto confusione ed errori. Comunque, Putnam rimane convinto «che Kant abbia fatto un progresso decisivo rispetto a tutù i filosofi precedenti nell’abbandonare l’idea secondo cui una qualsiasi descrizione del mondo può essere una semplice copia del mondo» (Ib., p. 36). Di Kant viene sottolineata da Putnam anche la tesi che noi costruiamo diverse immagini del mondo (scientifica, morale, estetica, religiosa), cioè la tesi pluralistica, anche se accompagnata - e questo per Putnam è un limite - dal privilegiamento dell’immagine scientifica o conoscitiva: «Kant senza dubbio, come Quine ai nostri giorni, ha continuato a sostenere che solo l’immagine scientifica del mondo contiene ciò che in senso stretto si può chiamare “conoscenza”. Ma questo aspetto del pensiero kantiano doveva essere messo in discussione tanto da William James quanto dall’ultimo Wittgenstein» (Ib., p. 37).

Nel collegare il pensiero di Kant a quello di James e dell’ultimo Wittgenstein Putnam sa di distanziarsi nettamente dalla nota tesi rortiana secondo la quale James e l’ultimo Wittgenstein

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sono proprio agli antipodi rispetto a Kant. Putnam sostiene invece, in maniera esplicitamente critica nei confronti di Rorty, una sorta di continuità fra Kant, James e l’ultimo Wittgenstein.

Anche su un altro punto chiave che abbiamo visto nelle pagine finali dell’opera di Putnam del 1981, quello del primato della ragion pratica sulla ragione conoscitiva, Putnam nelle lezioni del 1992 sostiene - anche qui in maniera esplicitamente critica rispetto alle interpretazioni di Rorty - una forte continuità fra Kant, i pragmatisti e l’ultimo Wittgenstein. «Per Kant - scrive

Putnam nelle lezioni sul pragmatismo - l’idea del primato della ragion pratica si estende alla filosofia stessa. Egli ritiene che non si possa costruire un’immagine morale del mondo tentando di provare a priori che ci sono giudizi di valore veri. La celebre strategia kantiana consiste proprio nel fare il contrario. [...] Essa consiste nel dire: in quanto essere che esprime ogni giorno dei giudizi di valore, senza dubbio io debbo presupporre l’idea che vi siano giudizi di valore veri; se devono esserci giudizi di valore veri, come devono stare le cose perché siano tali? In che genere di mondo possono esserci giudizi di valore veri? Considerata in questo modo, la strategia kantiana si ritrova negli scritti di John Dewey, anche se priva dell’apriorismo» (Ib., p. 51).

Su questi temi cosi cari a Putnam il pensiero di Kant, quello dei pragmatisti (da James a Dewey) e quello dell’ultimo Wittgenstein convergono nella sostanza, che è quella della concezione di una cultura e di una società aperte, pluralistiche, democratiche. Scrive Putnam in proposito: «Nonostante i suoi eccessi metafisici la filosofia di Kant voleva essere una critica della cultura, un abbozzo o uno schema per una società illuminata in grado di progredire verso uno stato in cui avrebbe regnato la giustizia sociale, basata sulla formula che la ricompensa è proporzionale alla virtù. Ora, può sembrare strano affermare che la filosofia di Wittgenstein ha anche uno scopo morale, specialmente dal momento che spesso essa non viene considerata che una specie di indifferente terapia [qui la frecciata è rivolta a Rorty, soprattutto] generata dall’avversione per la filosofia teoretica. Voglio però concludere sostenendo proprio questo, che cioè la filosofia di Wittgenstein ha anche uno scopo morale, e che essa mostra per una via diversa lo stesso tema, il primato della ragion pratica, mostrato dalla filosofia di Kant, sebbene in una particolare prospettiva di ridimensionamento» (Ib., p. 52-53). Utilizzando anche alcune interpretazioni di Habermas, Putnam si sofferma ad analizzare il pensiero dell’ultimo Wittgenstein per rilevare in esso la centralità o il primato della ragion pratica, ed afferma alla fine che «il rifiuto della metafisica da parte di Wittgenstein è un rifiuto morale» (Ib., p. 59).

L’intento costruttivo e insieme critico degli ultimi scritti di Putnam risulta, a questo punto, abbastanza chiaro: costruire una posizione filosofica aperta, pluralistica, che abbia come autorevoli precedenti la filosofia di Kant, quella della tradizione pragmatistica statunitense (con una preferenza per James) e quella dell’ultimo Wittgenstein, accomunati nel punto chiave del primato della ragion pratica su quella conoscitiva o scientifica; criticare l’ultrarelativismo rortiano che porta a liquidare la filosofia e soprattutto togliere a Rorty l’avallo che lo stesso Rorty aveva cercato - e credeva di aver dimostrato di avere - nel pragmatismo e nell’ultimo Wittgenstein, contrapponendoli, come «buoni», al «cattivo» Kant, responsabile della sistemazione dell’orientamento epistemologico nella filosofia contemporanea,

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Putnam, in sostanza, si presenta oggi, nella scena filosofica statunitense, come la più autorevole alternativa sia a Rorty (§§ 1060-1062) (e in generale all’orientamento post-filosofico, derridiano) sia alla tradizione analitica, il cui massimo continuatore può essere identificato in Donald Davidson (§ 1059).

CAPITOLO XXVI.

IL RAZIONALISMO PANCRITICO DI W.W. BARTLEY III

di Dario Antiseri

1162. Vita e opere.

Whillam Warren Bartley III è nato nel 1934 a Pittsburgh in Pennsylvania ed è morto a Oakland, in California, il 5 febbraio del 1990. Compiuti gli studi allo Harvard College, egli ha successivamente preso il dottorato in Logica e metodo scientifico presso la London School of Economics and Political Science. Dal 1967 al 1973 è stato professore di Storia e filosofia della scienza all’Università di Pittsburgh, dove è anche stato condirettore del Centro di filosofia della scienza. Ha pure insegnato al Warburg Institute di Londra, alla London School of Economics and Political Science, all’University of California (Berkeley e San Diego) e presso il Gonville and Gaius CoUege della Cambridge University.

Senior Research Fellow della Hoover Institution on War, Revolution and Peace, dell’Università di Stanford, Bartley ha curato l’edizione del Poscritto alla logica della scoperta scientifica di Popper (del quale, tra l’altro, è stato assistente per parecchi anni) e dell’ultimo lavoro di F.A. von Hayek: The Fatai Conceit, opera che è apparsa come primo volume dei Collected Works di Hayek, di cui Bartley era curatore generale. Tra le opere di maggior rilievo di Bardey sono da ricordare: The Retreat to Commitment (Alfred A. Knopf, New York, 1962; Chatto and Windus, London, 1964; nuova ed. Open Court, La Salle, 111. 1984; trad. ital. a cura di A. Rainone, Ecologia della razionalità, Armando, Roma, 1990 ); Morality and Religion, Macmillan, London, 1973; Wittgenstein, J.B. Lippincott Company, Philadelphia-New York, 1973; trad, ital., Wittgenstein, maestro di scuola elementare, Armando, Roma, 1974. Il suo ultimo libro è: Unfathomed Knowledge, Unmeasured Wealth (Open Court, La Salle 111., 1990). «Quando ebbe finito di scrivere questo libro, W.W. Bardey III sperava proprio e si aspettava di vivere tanto da vedere il lavoro in stampa. E persino nei giorni in cui si sottoponeva ai trattamenti per il cancro - che, alla fine, non poté essere fermato - egli apportò correzioni al manoscritto. La sua mente rimase vigorosa, e di quando in quando addirittura allegra. Pensava all'accoglienza che il libro avrebbe avuto, sperando in un po’ di lode, ma non chiudendo affatto gli occhi sulla possibilità della critica» (S. Kresge, Preface a W.W. Bartley, Unfathomed Knowledge, Unmeasured Wealth, cit., ρ. xm). La morte prematura non ha permesso a Bartley di portare a termine due importanti opere - che ci avrebbero dato una visione approfondita di aspetti per lo più ignoti della storia delle idee del nostro secolo: la biografia intellettuale di Karl R. Popper e quella di Friedrich A. von Hayek. E che Bartley volesse portare a termine queste due biografie intellettuali non era affatto

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casuale, se non altro perché «la teoria della conoscenza è una branca dell’economia» e per la ragione che, nonostante il cattivo funzionamento delle università, «economia ed epistemologia sono fondamentalmente interrelate, dal momento che tutte e due riguardano la crescita della ricchezza e sono governate da parecchi identici principi» (Unfathomed Knowledge, Unmeasured Wealth, cit., ρ. XIX; e si veda, di questo volume, il cap. V: Epistemology and Economics, pp. 89-94). ln ogni caso, date le infinite conseguenze delle nostre teorie e delle nostre azioni - fatto questo sul quale hanno rispettivamente insistito nei loro specifici contesti sia Popper che Hayek -, Bardey afferma: «da Popper ho appreso che noi non sappiamo mai di che cosa stiamo parlando e da Hayek ho appreso che noi non sappiamo mai che cosa stiamo facendo» (Knowledge is a Product not Fully Known to its Producer, in AA. Vv., The Political Economy of Freedom. Essays in Honor of F.A. Hayek, a cura di K.R. Leube e A.H. Zlabinger, Philosophia Verlag, München-Wien, 1985, ρ. 18). La conoscenza è «un prodotto non completamente conosciuto dai suoi produttori» (Unfathomed Knowledge, Unmeasured Wealth, cit., ρ. 34). C’è una conoscenza inesplorata e insondabile che ignorata da marxisti, sociologi della conoscenza e razionalisti costruttivisti li ha condotti su strade del tutto sbagliate (Knowledge is a Product not Fully Known to its Producers, cit., pp. 19-40).

1163. Un irrazionalista quanto più possibile razionale: Karl Barth.

Retreat to Commitment è un libro in cui «viene compiuta un’indagine sulla natura e i limiti della critica e, pertanto, un’indagine sulla natura e i limiti della razionalità» (Ecologia della razionalità, cit., p. 15). E questa indagine viene sviluppata innanzi tutto attraverso un case study discusso nella prima parte del libro, dove si vede come il Protestantesimo - dopo essere stato sostanzialmente alleato della scienza moderna e della rivoluzione scientifica (Ib., p. 20) — si sia, nel nostro secolo, trasformato, per sfuggire alla propria morte, in una ideologia dogmatica, e come ciò sia potuto avvenire tramite l’impiego di una argomentazione sui limiti della ragione, argomentazione «usata in modo convincente [...] per limitare la ragione» (Ib., p. 24). In un caso del genere, dunque, l’esercizio della critica - e quindi della razionalità - non viene limitato dal potere, per esempio, della censura, bensì dal potere della ragione stessa. Ebbene, l’intento di Bartley è proprio quello di distruggere siffatta argomentazione (l’argomento del tu quoque), così come essa si presenta all’interno della neoortodossia protestante, ma con gli occhi puntati sul più ampio campo della storia della filosofia occidentale.

Lutero, in un famoso scoppio di ira, affermò che «la ragione è una meretrice»; e suo (anche se non solo suo) è il rifiuto delle idee dello «stolto» Copernico. Nonostante ciò - fa presente Bartley - «sia Lutero sia il suo più pignolo seguace e collega Melantone cercavano ardentemente sostegno nell’umanesimo rinascimentale per giustificare e razionalizzare il proprio rifiuto dell’autorità cattolica» (Ib., p. 41). Quella tra Protestantesimo e tradizione razionalista è stata certamente «un’alleanza a fasi alterne» che, tuttavia, alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo secolo è apparsa molto solida nell’ambito della teologia protestante liberale, i cui rappresentanti di maggior spicco sono, in Europa, A. Ritschl (1822-1889), A. Harnack (1851-1930) e E. Troeltsch (1865- 1923) e, in America, W. Rauschenbuch (1861-1918). Per i teologi liberali il Cristianesimo è fondamentalmente

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ragionevole. Essi fanno proprio il metodo storico-critico nell’analisi dei testi sacri per scorgere i veri lineamenti del Gesù storico, persuasi come erano che «il Gesù storico era il forte alleato nella battaglia contro l’ortodossia calvinista e l’ingiustizia sociale, il grande condottiero nella lotta per la rigenerazione della cultura» (Ib., p. 49).

Le conseguenze di siffatto progetto intenzionale si rivelarono ben diverse da quelle intese. E ciò esattamente nel senso che ulteriori ricerche addirittura ribaltarono la linea di fondo del progetto. I teologi protestanti liberali subirono, insomma, una straordinaria ed ironica sconfitta, determinata dalla scoperta del contenuto escatologico, essenziale nel messaggio di Gesù. Dopo i lavori di A. Schweitzer divenne chiaro che la realizzazione del regno di Dio non era la realizzazione del regno di questo mondo. In breve: «l’immagine liberale di Gesù era palesemente non storica» (Ib., p. 58).

Posti davanti ad un Gesù storico «la cui figura e il cui messaggio apparivano illiberali e irrazionali» (Ib., p. 67), i teologi protestanti si trovarono lacerati tra la devozione cristiana e la devozione alla ragione. Colui che portò il Cristianesimo fuori da questa lacerazione fu Karl Barth (1886-1968), il rappresentante principale della neoortodossia, «uno degli scrittori più interessanti e coraggiosi, colti e autocritici della storia del pensiero cristiano» (Ib., p. 72). E Barth, nella sua proposta, si rifece a Kierkegaard, il quale «appoggiò il suo attacco al cristianesimo razionale fondato sull’etica, su una esplicita difesa dell’“assurdo”» (Ib., p. 74). Ricorrendo agli argomenti fideistico-scettici rinvenibili in Sesto Empirico, Pascal o Bayle, Kierkegaard sostenne che c’è «una giustificazione per l’irrazionalismo contro la quale il razionalista non può nulla, dal momento che essa è valida anche dal suo particolare punto di vista» (Ib., pp. 74-75). Ciò perché la giustificazione di una visione del mondo, di un modo di vita, di un’etica porta, alla fine, a presupposizioni non più giustificabili, le quali sono semplicemente oggetto di scelta. Ed anche il razionalista deve ammettere di aver fatto una scelta irrazionale: la scelta della ragione. Siamo logicamente costretti a scegliere. E nessuno, allora, può rimproverare il cristiano per la sua scelta. L’uomo di fede, per Kierkegaard, è Abramo: Abramo ubbidisce «ciecamente, assurdamente, senza ricorso alla ragione» (Ib., p. 75). Anzi, contro la ragione.

Ebbene, indebitandosi proprio nei confronti di Kierkegaard (del Kierkegaard della Postilla conclusiva non scientifica, delle Briciole filosofiche, e del De omnibus dubitandum est), Karl Barth - il «dogmatico» neo-calvinista, padre della teologia dialettica - fa sua una forma di irrazionalismo quanto più razionale possibile (Ecologia della razionalità, cit., p. 77; e p. 194). Per Barth, annota Bartley, «il cristiano è colui che interpreta la Parola di Dio senza chiedersi se essa sia vera, ma chiedendo soltanto se sono vere le affermazioni che facciamo su di essa» (Ib., p. 80). La Parola di Dio come questa è stata rivelata da Gesù viene da Barth sottratta alla discussione e alla autorità della ragione. E' questa, scrive Bartley, la concessione minimale ma tuttavia assoluta che Barth fa all’irrazionalismo. E qui ci troviamo di fronte ad una forma di irrazionalismo quanto più razionale possibile, generata dall’argomento del tu quoque: un argomento che pare ineluttabilmente aprire le porte aU’irrazionalismo.

1164. L’argomento del «tu quoque».

L’argomento del tu quoque sostiene che: «(1) in base a certe ragioni logiche la razionalità è

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cosi limitata che tutti dovrebbero assumere un impegno dogmatico irrazionale; (2) il cristiano, di conseguenza, ha diritto di assumere qualsiasi impegno gli paia desiderabile; e (3) perciò nessuno ha diritto di criticare lui (o qualcun altro) per aver assunto un tale impegno» (Ib., p. 111).

La correttezza delle conclusioni (2) e (3) dipende, ovviamente, dalla validità della premessa (1), cioè dalla tesi che la razionalità sarebbe cosi limitata che tutti dovranno necessariamente abbracciare in modo dogmatico ed irrazionale un qualche presupposto. E l’impegno arbitrario nei confronti di un qualche presupposto o principio dipenderebbe dalla necessità di evitare un regresso aU’infinito.

Ecco come si argomenta per la validità della teoria della razionalità limitata. Per qualunque opinione venga avanzata, ci sarà sempre qualcuno che chiederà che essa venga dimostrata o che di essa vengano date le ragioni. Una richiesta del genere viene soddisfatta presentando le ragioni dell’opinione proposta. Queste ragioni, a loro volta, possono venir poste in dubbio, e si può chiedere la loro giustificazione. Un processo del genere può andare all’infinito. «Se l’onere della prova o della giustificazione razionale viene incessantemente differito ad una premessa o ragione di livello più alto, la tesi originariamente messa in discussione non sarà mai validamente giustificata. Si potrebbe pure non aver mai dato inizio alla difesa, dal momento che si dà origine ad un regresso all’infinito» (Ib., p. 112). Insomma: «per giustificare la tesi di partenza ci si dovrebbe arrestare infine a qualcosa che non possa essere a sua volta messo in dubbio, qualcosa per la cui validità non si dovrebbe fornire alcuna giustificazione: sarebbero questi i punti di arresto della discussione razionale. Questi “standard”, “criteri”, “presupposizioni ultime”, “stadi finali”, “punti d’arrivo” dovrebbero essere semplicemente accettati» (Ib.). Semplicemente accettati, cioè: arbitrariamente, dogmaticamente accettati, arrestando senza motivazione alcuna la discussione razionale. E se qualcuno sostenesse di essere in possesso di un punto di Archimede, qualcun altro - dice Bardey - sarà subito pronto a replicare: «Come fai a sapere che quello è il punto di Archimede? In realtà tu sei completamente in errore. Io ho trovato il punto di Archi- mede, e non è certo quello che dici tu. Non solo esso dimostra che la tua posizione è erronea; dimostra anche la falsità di quel che tu chiami punto di Archimede» (Ib.). In realtà, nella storia del pensiero c’è stata e c’è una grande varietà di «presupposizioni ultime»; «non tutti accettano le stesse presupposizioni e gli uomini hanno presupposizioni diverse in momenti diversi della loro vita. Le presupposizioni variano, spesso in modo radicale, da fratello a fratello, da uomo a uomo, da villaggio a villaggio, da nazione a nazione, da periodo storico a periodo storico» (Ib., pp. 112-13). E ciò anche se molti hanno pensato e molti pensano ancora di essere in possesso di un punto di Archimede.

Nella giustificazione di una qualche teoria o idea (scientifica, etica, politica, ecc.) si sale un gradino dopo l’altro, sinché si arriva ad una presupposizione ultima che, non potendo essere giustificata in modo circolare appellandosi a quella stessa presupposizione, va accettata tramite una scelta o impegno irrazionale e dogmatico. E a questo punto diventa inutile discutere su presupposizioni accettate arbitrariamente, dogmaticamente abbracciate. La discussione razionale si ferma davanti a queste presupposizioni. «Cosi la ragione è relativizzata ad un punto fermo, ad una presupposizione, e non può sottoporre ad arbitrato le

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diverse presupposizioni. Punti fermi diversi - vale a dire criteri, presupposizioni, convenzioni, dogmi, articoli di fede - vengono accettati da individui diversi e possono dar luogo a comunità inconciliabili. Comunque possa spiegare il sorgere di tali differenze, la ragione non potrà mai rimuoverle» (Ib., p. 113).

Dunque: la giustificazione razionale di una qualunque idea, opinione o proposta porterebbe necessariamente a presupposizioni razionalmente ingiustificabili, oggetto di un impegno arbitrario da parte dei singoli individui. Se questo punto - che è il punto (1) o premessa dell’argomento del tu quoque -, è valido, allora le due conseguenze dell’argomento del tu quoque sono corrette. Difatti, se è necessario - logicamente necessario - che le presupposizioni ultime restino ingiustificate e quindi siano oggetto di scelta e di impegno irrazionali; se, dunque, ciò è necessario, allora... si può·, «si può scegliere senza alcuna giustificazione l’insieme delle presupposizioni, o il punto di Archimede, che si preferisce» (Ib.). In breve: «la “verità” delle proprie convinzioni risiede in ultima analisi non nella loro autoevidenza o universalità, ma nel capriccio o nella credenza, poniamo, che Dio ha ordinato di accettare certe presupposizioni. Le presupposizioni di un uomo sono vere per lui per via del suo impegno soggettivo nei loro confronti» (Ib.).

È cosi allora che l’irrazionalista possiede un pretesto razionale per l’irrazionalismo e insieme «un rifugio sicuro al riparo da ogni critica diretta al suo impegno soggettivo: egli dispone di un argomento tu quoque o boomerang» (Ib.). A qualsiasi suo critico, l’irrazionalista può sempre replicare: tu quoque, anche tu non ti sei comportato diversamente da me; anche tu hai fatto una scelta irrazionale, e hai fatto questo perché tutti siamo costretti, alla fine della catena delle giustificazioni delle nostre idee o proposte, a fare una scelta irrazionale del presupposto ultimo. Il nocciolo dell’argomento tu quoque è, in buona sostanza, il seguente: «Se tutti - su base logica - sono obbligati ad assumere un impegno irrazionale sotto qualche rispetto, se nessuno può sfuggire all’impegno soggettivo, allora nessuno può essere criticato per il semplice fatto che ha assunto un tale impegno, non importa se di malavoglia» (Ib., pp. 113-14). Di conseguenza, «nelle cose che più contano la ragione è impotente», in quanto esse «sarebbero [...] al di là e al di sopra dello scrutinio della ragione, mentre le cose su cui la ragione può decidere sono di importanza relativamente secondaria» (Ib., p. 114). E, infine, emerge la consapevolezza che la sospensione del giudizio della ragione sulle presupposizioni ultime equivale ad un trionfo del fideista, il quale potrà sempre ribadire che una giustificazione razionale delle presupposizioni ultime non può essere ottenuta tramite ragioni oggettive e universali, per cui «bisogna scegliere, impegnarsi o vincolarsi soggettivamente» (Ib.).

1165. IL fallimento del panrazionalismo e del razionalismo critico.

L’argomento del tu quoque sembra condurre in modo necessario all’irrazionalismo, al fideismo, al relativismo e alla incomunicabilità tra gruppi che hanno abbracciato presupposizioni ultime differenti. È tutto ciò inevitabile? - si chiede Bartley. Che cos’è che non funziona nelle nostre teorie della razionalità? Ma, innanzitutto, quali sono le concezioni o teorie della razionalità? Bardey ne individua tre: il panrazionalismo (o razionalismo radicale); il razionalismo critico; e il razionalismo pancritico (o razionalismo radicalmente critico), concezione quest’ultima che è quella proposta dallo stesso Bartley. C’è in primo luogo,

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dunque, il panrazionalismo o razionalismo radicale, nei cui termini può venir raccontata, ad avviso di Bardey, la storia della filosofia moderna nella variante dell’Intellettualismo (o Razionalismo) e in quella dell’Empirismo. Sia i razionalisti (si pensi a Cartesio, a Leibniz, a Spinoza) che gli empiristi (Bacone, Locke, Berkeley, Hume) credettero di aver trovato o nelle intuizioni intellettuali oppure nelle sensazioni delle autorità definitive cui appellarsi per decidere della razionalità o meno delle altre credenze. La filosofia moderna appare cosi come una ininterrotta serie di rivoluzioni in cui ad una autorità razionale - proposta come fondamento e pietra di paragone e di controllo per tutte le idee e teorie che mai fossero state avanzate - se ne sostituisce un’altra, anche questa intesa come fondamento ultimo ed assoluto, dotato di certezza e in grado di giustificare la razionalità delle idee e delle opinioni da essa derivabili e di giudicare della irrazionalità dei principi ad essa contrari e delle loro conseguenze. Fu cosi, allora, che la Chiesa venne sostituita «dall’intuizione intellettuale, l’intuizione intellettuale dalle esperienze sensoriali, le esperienze sensoriali da un sistema linguistico e cosi via» (Ib., p. 124; e p. 157; Theories of Rationality, in AA. VV., Evolutionary Epistemology, Theory of Rationality, and the Sociology of Knowledge, a cura di G. Radnitzky e W.W. Bartley ΠΙ, Open Court, La Salle (111.), 1987, pp. 206-207). Le intuizioni intellettuali non si sono però mostrate né autoevidenti né le stesse per tutti e le sensazioni non sono affatto apparse come roccia indistruttibile (Il trilemma di Fries e la «base empirica», in Ecologia della razionalità, cit., pp. 276-83; Philosophy of Biology «versus» Philosophy of Physics, in Aa. Vv., Evolutionary Epistemology, Theory of Rationality, and the Sociology of Knowledge, cit., pp. 25-26). Riprendendo un pensiero di I. Berlin, Bardey afferma che i panrazionalisti «hanno deificato la Ragione e in cambio non hanno ottenuto che dubbi, incertezze, disprezzo di sé, contraddizioni insolubili» (Ecologia della razionalità, cit., p. 136).

Se il panrazionalismo può costituire una feconda prospettiva per una lettura della filosofia moderna, il razionalismo critico costituisce una parte importante della filosofia contemporanea. I razionalisti critici - Bartley pensa, ovviamente, a Popper; ma anche al Morton White di Toward Reunion in Philosophy (1956), allo Ayer di The Problem of Knowledge (1956) e al Putnam di The «Corroboration» of Theories (1974) e di The Analytic and the Syntetic (1962), diversamente dai panrazionalisti, ammettono del tutto apertamente che «la razionalità è limitata nel senso che alcune questioni, come i principi e i criteri della razionalità, non possono essere giustificati» (Ecologia della razionalità, cit., p. 137). Ecco Morton White: «Non c’è nessuna roccia che possa fungere da stabile sostegno in base a cui... un’asserzione... possa essere vagliata in modo decisivo. L’idea che possa esistere una siffatta roccia è una delle grandi chimere del pensiero occidentale» (M. White, Religion, Politics and the Higher Learning, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1959, p. 48). Razionalisti critici sono, ci dice Bartley, anche Robert Nozick, W.V. Quine, Richard Rorty e Wittgenstein (Theories of Rationality, cit., pp. 208-9). In ogni caso, sottolinea Bartley, «il tipo di razionalismo critico oggi più importante - e che differisce per importanti aspetti da quelli appena discussi - è senz’altro quello proposto da Sir Karl Popper in alcuni dei suoi primi scritti» (Ecologia della razionalità, cit., p. 144). Popper sferra una critica serrata al panrazionalismo, posizione questa che egli chiama «razionalismo radicale» o «acritico», e ne La società aperta e i suoi nemici sempre Popper pone in evidenza i limiti della razionalità facendo apertamente «una concessione minima all’irrazionalismo». Scrive Popper:

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«Chiunque adotta l’atteggiamento razionalista lo fa perché ha adottato, coscientemente o inconsciamente, qualche proposta o decisione o credenza o abitudine - adozione, questa, che si può definire irrazionale. In qualunque modo possa essere compiuta, possiamo definire questa adozione come una fede irrazionale nella ragione... il fondamentale atteggiamento razionalistico si fonda in una decisione irrazionale, sulla fede nella ragione. Di conseguenza la nostra scelta resta aperta. Noi siamo liberi di scegliere qualche forma di irrazionalismo, anche qualche forma radicale o assoluta. Ma siamo liberi di scegliere anche una forma critica di razionalismo, quella che riconosce francamente i suoi limiti e la sua derivazione da una decisione irrazionale (e, pertanto, una certa priorità dell’irrazionalismo)» (K.R Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. II, trad, ital., Armando, Roma, 1974, pp. 304-5). Ebbene, questa scelta in base alla quale noi ci «leghiamo» alla ragione, questa scelta - commenta Bartley - «non rappresenta una scelta tra conoscenza e fede, “ma soltanto tra due generi di fede”» (Ecologia della razionalità, cit., p. 145). A questo punto, però, il seguente problema diventa inevitabile: e quale è la fede giusta e quale quella sbagliata? La realtà, dice Bardey, è che «se il compito di un’adeguata teoria della razionalità consiste nell’evitare il fideismo, allora la discussione popperiana sulla razionalità è inadeguata: la sua stessa discussione è infatti fideistica» (Ib.). Popper (nei suoi primi scritti) è franco e sincero sul suo fideismo, sulla scelta irrazionale della ragione scientifica. E ciò mentre il fideismo di Ayer e Putnam «non è apertamente dichiarato né, probabilmente, riconosciuto come tale» (Ib.). La franchezza, comunque, non basta - conclude Bartley - a risolvere il problema. Il problema di una buona teoria della razionalità in grado di sconfiggere il fideismo, il relativismo e l’irrazionalismo si può risolvere - secondo Bartley - entro la struttura concettuale della posizione popperiana, generalizzandola e introducendo la fondamentale distinzione tra giustificazione e critica. Con ciò siamo giunti all’analisi del razionalismo pancritico, la soluzione proposta dallo stesso Bardey. Soluzione in cui Bartley - come afferma A.M. Petroni - «ha cercato di estendere le posizioni epistemologiche di Popper in direzione di una filosofia teoretica più generale, e comunque non delimitata dalle problematiche relative alla conoscenza scientifica e alle sue epistemologia e metodologia» (A.M. Petroni, Il nongiustificazionismo di William W. Bartley III, in AA. Vv., Un’introduzione all’epistemologia contemporanea, a cura di G. Gava, Qeup, Padova, 1987, p. 137).

1166. La struttura autoritaria del pensiero occidentale.

Fallisce il panrazionalismo sia nella sua versione intellettualistica (poiché le intuizioni fondamentali non si sono mostrate autoevidenti, certe e le stesse per tutti), sia nella sua versione empiristica (perché, senza andare oltre, la base empirica - per esempio, sensazioni, proposizioni-di-osservazione - dei nostri discorsi non è neppur essa affatto certa). Fallisce anche il razionalismo critico. Il panrazionalismo si illude di evitare il fideismo e l’irrazionalismo; il razionalismo critico dichiara apertamente di aver fatto la scelta irrazionale della ragione. Nell’uno e nell’altro caso l’irrazionalismo pare inevitabile. Insomma: il razionalismo o porta di necessità al fideismo o deve apertamente ammetterlo come suo presupposto (The Alleged Refutation of Pancritical Rationalism, nei «Proceedings of the Eleventh International Conference on the Unity of the Science», The International Cultural Foundation Press, New York 1983, p. 1143).

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Irrazionalismo e fideismo sono davvero inevitabili? E' questo l’interrogativo di fondo di Retreat to Commitment. E, in primo luogo, come mai la filosofìa tradizionale ha portato a questi risultati? La filosofìa tradizionale ha condotto a siffatti esiti, risponde Bartley, a motivo del fatto che essa «presenta una struttura autoritaria anche nelle sue forme più liberali» (Ecologia della razionalità, cit., p. 156). Ciò nel preciso senso che «la filosofia moderna è la storia della ribellione di un’autorità contro un’altra autorità e del conflitto tra autorità rivali. Lungi dal mettere in discussione l’appello all’autorità come tale, la filosofia moderna ha semplicemente proposto un’alternativa alla consuetudine di basare le opinioni su un’autorità tradizionale e forse irrazionale·. l’alternativa, cioè, di basarle su un’autorità razionale» (Ib.). La storia della filosofia moderna è stata una lotta in cui a una autorità razionale reputata falsa si è pensato di sostituire un’altra autorità razionale ritenuta vera.

E fu cosi, allora, che si cercò di sostituire alla Chiesa l’intuizione intellettuale; l’esperienza sensoriale all’intuizione intellettuale; un dato sistema linguistico all’esperienza sensoriale, e cosi via. Ma tutto ciò è potuto accadere - sostiene Bartley - perché la struttura fondamentale della filosofia moderna è costituita dalla seguente domanda: come possiamo giustificare le nostre credenze?, in base a che cosa possiamo garantire la validità delle nostre opinioni? Una domanda del genere esige risposte autoritarie - quali che possano essere queste risposte: «la Bibbia, il leader, la classe sociale, la nazione, l’indovino, la Parola di Dio, l’intelletto o l’esperienza sensoriale» (Ib., p. 157).

Tale considerazione storica sulla struttura concettuale della filosofia occidentale Bartley ammette di doverla a Karl Popper. Il 20 gennaio del 1960 Popper tiene alla British Academy una conferenza dal titolo Le fonti della conoscenza e dell'ignoranza (in Scienza e filosofia, trad, it., Einaudi, Torino, 1969). Qui Popper ha affermato tra l’altro che «la nostra conoscenza ha fonti di ogni genere, ma nessuna ha autorità» (op. cit., p. 110); per lui, «non ci sono fonti prime di conoscenza. Ogni fonte, ogni suggerimento è il benvenuto, e ogni fonte, ogni suggerimento, è aperto all’esame critico» (Ib., p. 115). Le cose, però, non stavano cosi per Cartesio o per Bacone. Cartesio basò la sua teoria della conoscenza sulla veracitas dei-, Bacone la basò sulla veracitas naturae (Ib., p. 78). Sia Cartesio che Bacone hanno avuto grandi meriti, dice Popper, il quale, tuttavia, aggiunge: «Ma io non penso che Bacone e Descartes siano riusciti a liberare la loro epistemologia dall’autorità [...] Furono solo capaci di sostituire a un’autorità - Aristotele o la Bibbia - un’altra autorità. Ciascuno di essi fece appello a una nuova autorità: il primo «sull'autorità dei sensi, il secondo all 'autorità dell’intelletto» (Ib., pp. 93-94). Questa semplice osservazione di Popper («di quella semplicità - dice Bartley - di cui solo un genio può essere capace») appare a Bartley «come una rivelazione che getta una luce completamente nuova sulla storia della filosofia e i suoi problemi» (Ecologia della razionalità, cit., p. 157). Popper, ad avviso di Bartley, «ha realizzato una trasformazione strutturale» della filosofia (The Popperian Harvest, in Unfathomed Knowledge, Unmeasured Wealth, cit., p. 257); e la sua filosofia «è una filosofia davvero decisiva. Se egli ha ragione anche solo in una parte di ciò che dice, bisogna concludere che la maggior parte dei filosofi contemporanei ha sprecato il proprio tempo» (Intervista a Dario Antiseri, in «Mondoperaio», 1, 1987; rist. in D. Antiseri, Teoria della razionalità e scienze sociali, Boria, Roma, 1989, p. 133).

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1167. IL razionalismo pancritico.

Ebbene, è proprio a partire da tali considerazioni che Bartley costruisce il suo razionalismo pancritico. In teoria della politica Popper ha sostenuto che la domanda «chi deve comandare?» esige una risposta autoritaria, del tipo: il popolo, il proletariato, il re, il dittatore. Chi si pone la domanda «chi deve comandare?» presuppone, infatti, che esista qualche individuo, qualche ceto, qualche gruppo cui inerisce l’attributo della sovranità. Tale presupposto è semplicemente falso e Platone - il quale appunto pose questa domanda - ha con ciò inquinato - ad avviso di Popper - l’intera teoria politica dell’Occidente. Riconosciuto il carattere autoritario e infondato della domanda «chi deve comandare?», Popper ha riformulato la domanda politica da: chi deve comandare? in come possiamo organizzare al meglio le nostre istituzioni politiche in modo da poterà liberare dai cattivi governanti o, almeno, limitare al massimo i danni che possono produrre? (K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. I, trad, ital.. Armando, Roma, 1973, p. 173). E «questo mutamento di formulazione apparentemente secondario è sufficiente - commenta Bartley - a dissolvere la struttura autoritaria della filosofia politica. Implicito nella domanda così riformulata è il riconoscimento che non c’è affatto qualcosa come il tipo migliore di suprema autorità politica valida per tutte le situazioni, ma che ogni autorità - quella del popolo, del re o del dittatore - può mutarsi in un cattivo governo [...] Il problema, allora, non sta tanto nell’individuare in anticipo una fonte infallibile di autorità politica, quanto nell’assicurarsi contro il naufragio della nave ammiraglia che capita proprio quando sta dirigendo le manovre della flotta» (Ecologia della razionalità, cit., pp. 158-59).

Ed ecco il punto di svolta: «Quel che vale per la filosofia politica forse si applica in modo ancor più significativo alla filosofia in generale. Tutte le autorità intellettuali proposte si sono rivelate alla fine sia intrinsecamente fallibili sia epistemologicamente insufficienti. Le fonti infallibili della conoscenza e dell’autorità intellettuale sono tanto poco raggiungibili quanto le autorità politiche infallibili». Non si danno fonti di conoscenza infallibili, e quindi è inutile cercarle. Ogni fonte è la benvenuta, a patto che possa venir criticata. In altri termini: la struttura autoritaria che ha causato il fallimento della filosofia moderna (e non solo di questa) può venir dissolta tramite una operazione analoga a quella effettuata nel campo della filosofia politica. «Noi - afferma Bartley - possiamo non solo respingere (come fanno i razionalisti critici) la richiesta di dimostrazioni razionali per i nostri criteri razionali; possiamo andare anche oltre, abbandonando anche la richiesta che ogni cosa, tranne i nostri criteri, debba essere dimostrata o giustificata mediante l’appello all’autorità dei criteri stessi o per qualche altra via. Nulla può essere giustificato. Invece di seguire i razionalisti critici nel sostituire la giustificazione filosofica con la descrizione filosofica, potremmo raccomandare la critica filosofica dei criteri e degli standard quale principale compito del filosofo. Nulla può essere giustificato; ogni cosa può essere criticata. Invece di postulare infallibili autorità intellettuali che giustifichino e garantiscano le nostre asserzioni, potremmo tentare di costruire un programma filosofico per contrastare e neutralizzare gli errori intellettuali» (Ib., p. 160). E, stando cosi le cose, il filosofo non si porrà più la domanda che rinvia alla caccia di giustificazioni; egli, piuttosto, si porrà una domanda diversa, questa: «come possiamo organizzare la nostra vita intellettuale e le nostre istituzioni in modo da esporre le nostre

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credenze, congetture, azioni, asserzioni, fonti intellettuali, tradizioni e simili - siano esse giustificabili o meno - al massimo della critica, si da impedire ed eliminare quanti più errori intellettuali possibili·»? (Ib., p. 161; e Theories of Rationality, cit., ρ. 212).

1168. Quando Criticare Significa Giustificare.

Il razionalismo tradizionale aveva in sommo disprezzo la credenza ingiustificabile. Nel razionalismo pancritico ogni credenza resta, invece, ingiustificabile·, e se nulla può essere giustificato, tutto va criticato. Siamo con ciò di fronte ad un vero e proprio mutamento di prospettiva: si passa dalla giustificazione autoritativa alla critica. E questo mutamento, sottolinea con decisa consapevolezza Bartley, «rappresenta una genuina innovazione filosofica la cui importanza non sarà mai sottolineata abbastanza» (Ecologia della razionalità, cit., p. 161).

Qualcuno potrà qui obiettare che siffatta posizione di Bartley non è affatto una novità, giacché ogni filosofia rispettabile è stata ed è sempre critica. La replica di Bartley a tale obiezione è che essa va completamente fuori bersaglio per il fatto che «in quasi tutte le filosofie tradizionali e moderne - tanto in quelle che si definiscono critiche quanto in quelle che non lo fanno - il concetto di critica è stato identificato con quello di giustificazione» (Ib., p. 162). Ciò nel senso che queste filosofie tradizionali e moderne han fatto perno sull’idea per cui «il modo di criticare un’asserzione consiste nello stabilire se essa può essere logicamente derivata da - cioè “giustificata da” - un criterio o una autorità razionale» (Ib., p. 163). Cosi, nella prospettiva empiristica di Hume, «la forma più radicale di critica che si possa rivolgere ad una data teoria consiste nella impossibilità di giustificarla o fondarla corretta- mente - nel caso di Hume mediante l'appello all’esperienza sensoriale» (Ib.). Hume, commenta Bartley, fa un uso costante della seguente strategia critica (cioè giustificazionistica): prende in considerazione una dopo l’altra varie idee - l’idea di Dio, di anima, di mente altrui, ecc. - e si chiede se queste idee possano o meno essere giustificate sulla base della loro derivabilità dall’esperienza sensoriale, che per lui è l’unica fonte, o autorità razionale, della conoscenza umana. Se la giustificazione richiesta è possibile, allora l’idea sotto esame viene accettata, altrimenti dovrebbe venir respinta. Ecco un celebre passo di Hume, riportato da Bartley: «Quando... noi nutriamo qualche sospetto che un termine filosofico sia usato senza qualche significato o idea (come avviene troppo spesso), dobbiamo soltanto stabilire da quale impressione sia derivata quella idea. E se è impossibile assegnarne una, ciò servirà a confermare il nostro sospetto» (D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e i principi della morale, trad, ital., Laterza, Bari, 1957, p. 21). Sulla sponda razionalista, «Descartes pensava che ogni idea che non potesse essere ridotta a idee chiare e distinte, il che equivaleva ad una giustificazione razionale, dovesse essere respinta - esattamente come ogni cosa, per essere accettata, dovesse essere giustificata» (Ecologia della razionalità, cit., p. 163). Dunque: sia per Hume che per Cartesio un’idea viene razionalmente criticata quando si può stabilire se essa può essere razionalmente giustificata o meno. E Bartley aggiunge: «Tutte le teorie della giustificazione che io conosco persistono comunque nell’operare, in un modo o nell’altro, una commistione di giustificazione e critica: per sottoporre a critica un’asserzione si dovrebbe, in base a tali teorie, o mostrare che essa non può essere derivata da un’autorità razionale o che è in conflitto con una tale autorità, la quale non è suscettibile di critica» (Ib.,

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p. 164).

1169. Criticare non è giustificare.

E' esattamente scindendo i concetti di giustificazione e di critica che Bartley riesce ad introdurre quella novità che è il razionalismo pancritico·, un nuovo programma filosofico e una nuova concezione della razionalità. 

«Nella nuova struttura concettuale il razionalista è colui che intende lasciare ogni asserzione, compresi i suoi fondamentali criteri, obiettivi e decisioni nonché la sua stessa posizione filosofica di base, aperti alla critica; colui che non protegge nulla dalla critica mediante giustificazioni irrazionali; colui che non tronca mai una discussione o un’argomentazione ricorrendo alla fede o ad un impegno irrazionale per giustificare qualche credenza esposta al fuoco di una severa critica; colui che non è impegnato, legato o abituato a nessuna particolare posizione» (Ib., p. 166). Ebbene, questa concezione è ciò che Bartley chiama razionalismo pancritico.

Il razionalismo pancritico differisce dal panrazionalismo o razionalismo radicale perché ha abbandonato del tutto «l’ideale di una giustificazione razionale esaustiva» (Ib.). E differisce pure dal razionalismo critico, dove si riconosceva l’ingiustificabilità razionale del razionalismo finendo poi per giustificarlo in base ad un impegno sociale o morale (Ib., pp. 166-67). Questo ci dice, ancora una volta, che se la razionalità equivale alla giustificazione razionale di una opinione, idea, valore, teoria, ecc., allora, per evitare il regresso all’infinito, l’unica via praticabile è la giustificazione irrazionale, l’impegno e la scelta arbitraria di alcuni presupposti: «se la razionalità risiede nella giustificazione essa sarà rigorosamente limitata dalla necessità di ricorrere ad un qualche impegno» (Ib., p. 167). Se, invece, «la razionalità risiede nella critica, e se possiamo sottoporre qualsiasi asserzione a critica e a controlli continui, non escluso lo stesso modo di vita razionalista, senza che ciò comporti un regresso all’infinito, circolarità, esigenze di giustificazione o altre simili difficoltà, allora la razionalità è, in tale prospettiva, senz’altro illimitata» (Ib.).

Il razionalismo pancritico non prende la strada della giustificazione. E «se viene realmente abbandonato ogni tipo di giustificazione - tanto razionale quanto irrazionale - allora non c’è alcuna necessità di giustificare una posizione che è razionalmente ingiustificabile. Una posizione può senz’altro essere sostenuta razionalmente senza alcuna necessità di doverla giustificare - purché non sia immune da critiche e sopravviva ai controlli più severi»

(Ib.).

A tutto questo porta la separazione dell’idea di giustificazione da quella di critica. E criticata, senza contraddizioni o altre difficoltà logiche, può essere la stessa posizione razionalista (Ib., p. 168). Né il razionalista pancritico cade vittima dell’argomento del tu quoque·, «se il razionalista pancritico accusa il suo oppositore di proteggere alcune idee dalla critica mediante impegno irrazionale, egli non è a sua volta esposto all’accusa di essere impegnato in modo analogo. La critica dell’impegno non si ritorce più contro colui che la avanza» (Ib., p. 169).

Certo, quando si critica una certa posizione, come base per la critica vengono utilizzate

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alcune credenze che al momento vengono prese per buone: prese per buone «non perché siano giustificate o immuni da critica, ma perché sono non problematiche per il momento» (Ib., p. 170). Si comprende, pertanto, che «noi interrompiamo la critica - temporaneamente - non quando perveniamo ad autorità non criticabili, ma quando perveniamo ad asserzioni contro le quali non riusciamo a sollevare alcuna critica» (Ib.). Se verranno sollevate critiche contro tali asserzioni, tanto meglio: il procedimento critico riprende di nuovo. E questo vuol dire che «non c’è alcun limite teoretico alla criticabilità - e perciò alla razionalità» (Ib., p. 171). E vuol anche dire che il razionalismo pancritico è compatibile con un certo tipo di relativismo: «la sopravvivenza di una qualsiasi asserzione è relativa al suo successo nel superare le critiche più severe» (Ib., p. 171).

Ed ecco sulla posizione di Bartley un giudizio di Popper: «Mi sembra che la semplice formulazione di Bartley - che la giustificazione può venir sostituita dalla critica non-giustificativa - e l’enfasi che egli pone sul cambiamento di centro d’interesse implicito nella transizione dalle varie filosofie giustificazionistiche ad una filosofia critica che non mira alla giustificazione, sia estrema- mente illuminante o, almeno, io l’ho trovata tale [...] Gli irrazionalisti hanno pienamente ragione quando insistono sul fatto che abbiamo altre “fonti di conoscenza” oltre la ragione e l’osservazione - ad esempio, l’ispirazione, o la comprensione simpatetica; o la tradizione, che è forse la “fonte di conoscenza” più importante, e che è cosi spesso ignorata dai razionalisti a causa della sua ovvia fallibilità. Ma gli irrazionalisti commettono un pericoloso errore quando suggeriscono che esiste una conoscenza, di qualsiasi genere, o fonte, o origine, che è al di sopra della, o esente dalla, critica razionale» (K.R. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, vol. I, Il realismo e lo scopo della scienza, trad, ital., Il Saggiatore, Milano, 1984, p. 56; ma sulle oscillazioni di Popper nella valutazione della teoria di Bartley, si veda A.M. Petroni, Il non-giustificazionismo di William W. Bartley, cit., p. 140).

1170. Gli strumenti della critica.

Bartley, dunque, separa la giustificazione dalla critica e punta le sue carte sulla critica. Porre l’attenzione sulla critica significa, però, tecnicamente porre attenzione a quegli strumenti che, una volta accettati, risultano essere argomenti incompatibili con qualche teoria. Uno di questi strumenti - il controllo dell’esperienza empirica - è stato esaminato, ricorda Bartley, da Popper in parecchi suoi scritti, a cominciare dalla Logica della scoperta scientifica. Lo

stesso Popper, J.W.M. Watkins, J.O. Wisdom e J. Agassi hanno analizzato «il problema della critica e della riduzione dell’errore in quelle teorie che - come quelle metafisiche - non sono soggette a controllo empirico» (Ecologia della razionalità, cit., p. 175). E Imre Lakatos ha esaminato la questione in riferimento alle congetture matematiche.

Ebbene, per Bardey, noi «disponiamo di almeno quattro metodi per eliminare l’errore criticando le nostre congetture o speculazioni» (Ib., p. 176). Questi quattro metodi sono: «1. Il controllo in base alla logica·, è coerente quella data teoria? 2. Il controllo in base alle osservazioni sensoriali: una certa teoria è empiricamente confutabile da parte di qualche osservazione? E se lo è, siamo a conoscenza di una confutazione del genere? 3. Il controllo in base ad una teoria scientifica·, una certa teoria, sia o meno in conflitto con l’osservazione, è

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in conflitto con qualche ipotesi scientifica? E se lo è, siamo a conoscenza di una confutazione del genere? 4. D controllo in base al problema·. quale problema una certa teoria intende risolvere? Riesce a risolverlo?» (Ib.).

Una teoria deve essere logicamente coerente, altrimenti da essa è derivabile qualsiasi proposizione, e in tal modo la teoria andrebbe soggetta ad un processo di autocombustione. Una teoria che è in disaccordo con osservazioni sensoriali ben accurate è una teoria che, per quanto se ne sa, dovrebbe venir scartata in quanto confutata dall’esperienza. Una teoria, per esempio, filosofica, che si scontra con una teoria scientifica ben consolidata, è una teoria che ha scarsa possibilità di sopravvivere (è questo il caso dell’idealismo allorché viene fatto scontrare con la teoria evolutiva). Una teoria che risolve un problema meglio di un’altra è preferibile a quest’ultima.

1171. La funzione della logica.

In tutte queste pratiche critiche e argomentative entra in funzione la logica, entrano cioè in funzione quelle regole in base alle quali, partendo da premesse vere, perverremo sempre a conclusioni vere, e in base alle quali la falsità delle conclusioni viene ritrasmessa alle premesse. Questo, tuttavia, non significa - sottolinea Bardey - che «siamo impegnati nei confronti della logica. Ciò [...] non è affatto vero» (Ib., p. 183). Quello che, invece, è vero è «il fatto che l’esercizio dell’argomentazione critica è strettamente legato alla logica. Noi potremmo forse abbandonare la logica, ma ciò significherebbe abbandonare la pratica della discussione critica. Non potremmo più produrre argomentazioni critiche, infatti, una volta che avessimo respinto l’idea che da premesse vere debbano sempre seguire, in un’argomentazione valida, conclusioni vere» (Ib., pp. 183-84). In poche parole: «Se vogliamo im-parare qualcosa sul mondo, ο anche descriverlo, dobbiamo saper trarre conclusioni vere da premesse vere» (Ib., p. 184).

Ecco, allora, quel che Bartley ha inteso sostenere: «(1) che qualsiasi cosa, inclusa la stessa pratica dell’argomentazione e le operazioni di revisione (compiute mediante l’uso della logica), può essere criticata ed eventualmente respinta. Ma (2) finché continuiamo ad apportare revisioni e a criticare le nostre asserzioni - finché non abbandoniamo questa pratica - noi presupponiamo la logica, poiché questa è implicita nell’idea di revisione» (Ib.). Tutto ciò per dire che, se noi vogliamo abbandonare la pratica dell’argomentazione e della critica, allora possiamo abbandonare la logica; tuttavia, «finché continuiamo a seguire quella pratica la logica non potrà essere abbandonata» (Ib.·, e p. 201).

C’è, dunque, nel pensiero di Bardey, una presupposizione assoluta: una presupposizione che egli dice di identificare «con il metodo dell’argomentazione critica, nei cui confronti siamo impegnati non in quanto esseri umani, in quanto esseri biologici, psicologici o sociali, ma in quanto esseri che discutono criticamente sul mondo» (Ib., p. 184). Qui c’è da far presente che: nessun essere umano deve necessariamente e di continuo discutere sul mondo, per cui «nessuno deve necessariamente sentirsi impegnato nei confronti della logica, in quanto essere umano, ma in quanto essere che discute criticamente sul mondo. Nella misura in cui l’argomentazione critica è il nucleo del processo di conoscenza del mondo, essa è una presupposizione ineliminabile» (Ib.). E con tutto ciò, conclude Bardey, «le mie

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argomentazioni non obbligano nessuno ad essere razionalista, esse mostrano soltanto che non c’è alcun pretesto razionale o logico per essere degli irrazionalisti» (Ib., p. 220).

1172. Ecologia della razionalità: come demarcare un'idea buona da una cattiva.

Dalle precedenri considerazioni si vede che per Bardey il problema fondamentale «è quello di distinguere fra un’idea buona e un’idea catdva, fra una pratica buona e una pratica cattiva» (Fona logica e demarcazione, in Come demarcare la scienza dalla metafisica, trad, ital., Boria, Roma, 1983, p. 99). Questo è, ad avviso di Bardey, il vero problema della demarcazione. Problema che è diverso da quello di Popper, il quale era soprattutto interessato a demarcare la scienza dalla non-scienza (Teorie sulla demarcazione fra scienza e metafisica, in Come demarcare la scienza dalla metafisica, cit., p. 9). Per Bardey il problema non è quello della demarcazione tra scienza e metafisica, o tra espressioni significanti ed espressioni insignificanti: il suo problema è esattamente quello di demarcare fra un’idea buona e un’idea cattiva, fra una pratica buona e una pratica cattiva (Forza logica e demarcazione, cit., p. 99). E a tale scopo lo strumento adatto non è la giustificazione ma la critica. Le filosofie che sono nate e cresciute nel metacontesto giustificazionista della credenza vera hanno avuto come obiettivo quello di «giustificare, verificare, confermare, rendere più saldi, rafforzare, convalidare, legittimare, rendere certi, dimostrare la certezza, rendere accettabili, rendere probabili, permettere la sopravvivenza, difendere particolari contesti e posizioni» (Un metacontesto per la razionalità, in Ecologia della razionalità, cit., p. 233). «Questa pretesa dà forma - dice Bardey - al pensiero di Platone e di Aristotile, di Descartes, Spinoza e Leibniz, di Locke, Berkeley e Hume, di Kant ed Hegel, di White- head e Russell, come pure di Wittgenstein, Carnap, Ayer, Ryle, Austin, Quine, Husserl e Heidegger» (Forza logica e demarcazione, cit., p. 100). Ma è una pretesa che necessariamente sfocia nell’impegno irrazionale (Un metacontesto per la razionalità, cit., p. 231). Non, dunque, la giustificazione ma la critica è lo strumento che va adoperato per demarcare le idee buone da quelle cattive. «Popper suggerì ai positivisti che il problema non risiede nella demarcazione fra ciò che è dotato di significato e ciò che ne è privo, ma nella demarcazione fra ciò che è scientifico e ciò che non è scientifico. Io - dice Bartley - suggerisco che il problema non risiede nella demarcazione fra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ma nella demarcazione fra ciò che è razionale e ciò che è irrazionale, fra ciò che è critico e ciò che non è critico» (Teorie sulla demarcazione fra scienza e metafisica, cit., p. 35). E se le cose stanno cosi, allora quello della crescita della razionalità diventa un problema ecologico nel senso che, in un metacontesto fallibilista, occorre creare l’ambiente più letale per le nostre credenze, congetture, deliberazioni, posizioni e tradizioni, un ambiente, tuttavia, entro il quale prosperi la produzione di idee, posizioni, contesti e metacontesti (Un metacontesto per la razionalità, cit., p. 293). La risposta, pertanto, a come si faccia ad avere teorie migliori e a vagliare il buono dal cattivo, la si trova - afferma Bartley - all’interno dell’epistemologia evoluzionistica, cosi come questa è stata sviluppata diversa- mente ma in modo interconnesso da Karl Popper, Konrad Lorenz, Friedrich A. von Hayek e Donald T. Campbell (G. Radnitzky e W.W. Bartley III, Introduction a AA. Vv., Evolutionary Epistemology, Theory of Rationality, and the Sociology of Knowledge, cit., p. 2). La questione, in altri termini, «è di carattere evoluzionistico ed ecologico; e la risposta ad essa è simile alla risposta che si dà alla

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questione di come gli animali e gli organismi acquistino un adattamento sempre migliore al loro ambiente» (Forza logica e demarcazione, cit., pp. 127-28; Theories of Rationality, cit., pp. 213-14). E cosi, allora, che una teoria non-giustifìcazionista della critica va b parallelo con la spiegazione neo-darwiniana dell’evoluzione e dell’adattamento. E questo non è affatto sorprendente qualora si ponga l’attenzione con Campbell sul fatto che anche l’adattamento evolutivo delle piante e degli animali è un processo cognitivo (D.T. Campbell, Epistemologia evoluzionistica, trad, ital., a cura di M. Stanzione, Armando, Roma, 1981, p. 63). Le idee buone e quelle cattive, dunque, si demarcano le une dalle altre «gradualmente, sullo sfondo di un ambiente critico e creativo», secondo i tre grandi momenti della variazione cieca o giustificata, della selezione ed elimbinazione sistematica, e della ritenzione e duplicazione (Fona logica e demarcazione, cit., p. 128). L’epistemologo e metodologo nuovo, il quale abbia messo da parte il giustificazionismo, deve fronteggiare un ben diverso interrogativo, questo: «Come è possibile che la nostra vita o le nostre istituzioni intellettuali, le nostre tradizioni e persino le nostre convenzioni, la nostra sensibilità, le nostre maniere ed usanze, i nostri modelli di comportamento, siano conformati in modo tale da esporre le nostre credenze, congetture, ideologie, politiche, posizioni, progettazioni, fonti di idee, tradizioni e simili ad una critica ottimale, e contrastare cosi, e allo stesso tempo eliinbare, la maggior quantità possibile di errori intellettuali, cosi da favorire anche ed assicurare la fertilità della nicchia ecologica intellettuale: creare un ambiente b cui non solo la critica negativa ma anche la creazione delle idee, e lo sviluppo della razionalità, riceva una vera ispirazione?» (Ib., pp. 128-29).

Criticata (si vedano: J.F. Post Paradox in Critical Rationalism and Related Theories·, J. Watkins, Comprehensively Critical Rationalism: A Retrospect·, i due saggi si trovano b AA. Vv., Evolutionary Epistemology, Theory of Rationality, and the Sociology of Knowledge, cit., risp. alle pp. 223-49, e pp. 269-77) o difesa (G. Radnttzky, In Defense of Self-Applicable Critical Rationalism, in AA.VV., Evolutionary Epistemology, Theory of Rationality, and the Sociology of Knowledge, cit.,· pp. 279-309), oggetto di una dura disputa tra Popper e lo stesso Bartley su chi per primo l’avesse proposta (K.R. Popper, Osservazioni sui problemi della demarcazione e della razionalità, in W.W. Bartley ΠΙ, Come demarcare la scienza dalla metafisica, cit., pp. 62-78; W.W. Bartley ΠΙ, Replica a Karl Popper, in Come demarcare la scienza dalla metafisica, cit., pp. 91-97), la teoria della razionalità di Bartley costituisce, all’interno del pensiero contemporaneo, uno degli sforzi più significativi, rigorosi e consapevoli per ampliare l’idea di razionalità al di là della razionalità scientifica. Con ciò Bartley «ha tolto via una delle più importanti, forse la più importante difficoltà del razionalismo critico» (G. Radittzky, In Defense of Self-Applicable Critical Rationalism, cit., p. 309). E la sua teoriadella razionalità illimitata in riferimento alla critica è di grande importanza «per la chiarificazione della storia della filosofia»; e proprio di Bartley è l’idea che i problemi della razionalità sono i problemi fondamentali della storia della filosofia» (K.R. Popper, Osservazioni sui problemi della demarcazione e della razionalità, cit., p. 78).

Capitolo XXVII.

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Gehlen: antropologia, filosofia della tecnica e teoria delle istituzioni

di Giovanni Fornero

1173. Vita, opere e interessi culturali.

L’antropologia filosofica del nostro secolo trova in Gehlen uno degli studiosi che hanno maggiormente contribuito alla sua elaborazione e diffusione.

Arnold Gehlen nasce a Lipsia il 29 gennaio 1904, figlio dell’editore Max. Dopo la scuola secondaria studia filosofia nella propria città, seguendo anche corsi di letteratura, storia dell’arte, fisica e zoologia. Per un semestre si trasferisce a Colonia, dove ha modo di ascoltare Scheler ed Hartmann. Nel 1927 si laurea con una dissertazione sul suo maestro Hans Driesch e nel 1930 ottiene la libera docenza in filosofìa. Simpatizzante del nazismo, nel maggio del 1933 si iscrive al Partito. Nel semestre estivo dello stesso anno è chiamato alla cattedra di Paul Tillich a Francoforte, che i nazionalsocialisti avevano destituito ed esiliato (§ 906). Nel 1934 diviene professore ordinario a Lipsia, succedendo a Driesch, costretto al pensionamento anticipato con l’accusa di «pacifismo». Nel 1938 è chiamato ad insegnare filosofia all’Università di Königsberg, dove ricopre la cattedra che era stata di Kant. Nel 1940 si trasferisce all’Università di Vienna. Intanto i suoi legami con il nazismo cominciano ad attenuarsi, anche a causa della fredda accoglienza riservata al suo capolavoro antropologico, il quale, come ricorda il suo allievo e curatore delle opere Karl Siegbert Rehberg, «nonostante diverse allusioni alla Weltanschauung del nazionalsocialismo, era un libro rigorosamente non razzista» (Introduzione alla trad. ital. di L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 24-25). Anzi, la sua polemica contro ogni forma di biologismo, come osserverà il filosofo Wolfgang Harich, mal si prestava a fungere da supporto teorico all’ideologia della «bestia bionda» (Ib.).

Dopo la sconfitta tedesca, Gehlen è privato della cattedra, ma nello stesso tempo, forse come riconoscimento per i suoi deteriorati rapporti con il regime, è nominato ordinario di sociologia a Spira. Dal 1961 insegna alla Technisce Hochschule di Aquisgrana. Nel 1969 va in pensione, senza essere riuscito, probabilmente per il suo passato politico e le sue persistenti tendenze «conservatrici», a farsi trasferire in altre Università più importanti della Germania federale. Muore il 30 gennaio 1976.

La Gesamtausgabe di Gehlen, in dieci volumi, è in corso di pubblicazione presso l’editore Klostermann di Francoforte. Finora sono usciti i primi sette volumi (cfr. la Nota bibliografica). Fra i suoi scritti principali ricordiamo: Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, 1940, ed. rivista 1950, 1978), Urmensch und Spätkultur (Uomo primitivo e tarda cultura, 1956), Die Seele im technischen Zeitalter (Lo spirito nell’età della tecnica, 1957), Zeit-Bilder. Zur Soziologie und Ästhetik der modernen Malerei (Quadri d’epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, 1960), Anthropologische Forschung (Ricerca antropologica, 1961), Studien zur Anthropologie und Soziologie (Studi di antropologia e sociologia, 1963), Moral und Hypermoral (Morale e ipermorale, 1969).

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A cavallo fra l’antropologia e la sociologia, l’estetica e la psicologia sociale, la multiforme e policentrica opera di Gehlen è stata caratterizzata, sino agli anni Quaranta, da un predominante interesse filosofico, che nel dopoguerra, anche in relazione alle mutate mansioni accademiche, si è trasformato in un prevalente interesse sociologico. Questo spostamento del baricentro della ricerca non ha significato tuttavia, come si afferma talora, una sorta di «abbandono» o di «ripudio» della filosofia - almeno nella specifica accezione con cui egli intende tale concetto (§ 1174). Infatti, come avremo modo di constatare, in lui è rimasta attiva, sino alla fine, una struttura linguistica e categoriale di tipo filosofico. «Classico» e «outsider» nello stesso tempo (come lo ha definito Rehberg), irriducibile ad ognuna delle grandi scuole filosofiche e sociologiche del Novecento, il pensiero di Gehlen ha avuto notevole risonanza soprattutto in Germania (dove ha influito, tra l’altro, sulla sociologia dei sistemi di Luhmann) mentre all’estero, Italia compresa, è rimasto, sino a poco tempo fa, relativamente poco noto. Nondimeno, alcune idee del suo laboratorio teorico - si pensi ad esempio al concetto della «plasticità» costitutiva dell’uomo e alla sua caratterizzazione come «essere culturale per natura», oppure al concetto di «esonero» - sono ormai entrate a far parte della cultura odierna.

1174. L’Uomo e il suo posto nel mondo.

L’itinerario teorico della prima fase del pensiero di Gehlen va dalla filosofia speculativa al progetto di una antropologia empiricamente e scientificamente fondata. Partito da una fenomenologia dell’esistenza (Wirklicher und unwirklicher Geist [Spirito reale e irreale], 1931), dopo esser passato attraverso l’abbozzo di un sistema idealista (Theorie der Willensfreiheit [Teoria del libero valore], 1933), a partire da Der Idealismus und die Lehre vom menschlichen Handeln (L’idealismo e la dottrina dell’agire umano, 1935) Gehlen è approdato all’idea-guida di una «philosophische Anthropologie» organizzata nei modi di una «filosofia prima» in grado di porsi come sintesi teorica delle scienze positive concernenti l’uomo (Gesamtausgabe, Band 2: Philosophische Schrifte II [1933-1938], Klostermann, Frankfurt a.M. 1980, pp. 313-45; cfr., in particolare, pp. 323-24, e p. 332).

Ripresa e specificata in scritti come Worn Wesen der Erfahrung (Della natura dell’esperienza, 1936), Die Resultate Schopenhauers (I risultati di Schopenhauer, 1937), Das Problem des Sprachursprungs (Il problema del’origine del linguaggio, 1938), tale idea ha poi trovato il suo banco di prova e la sua espressione organica nel capolavoro del ’40. Su questo approdo antropologico - preparato da una serie di suggestioni che vanno dalla fenomenologia all’esistenzialismo, dall’idealismo classico alla Lebensphilosophie, da Dilthey a Bergson, da Schopenhauer a Nietzsche, da Freud ad Hartmann - l’influsso maggiore è stato esercitato dalla cosiddetta «antropologia filosofica» della fine degli anni Venti, ossia da quella corrente di pensiero rappresentata da studiosi come Max Scheler ed Helmut Plessner, autori di due opere pubblicate quasi contemporaneamente nel 1928: Die Stellung des Menschen im Kosmos (La posizione dell’uomo nel cosmo) e Die Stufen des Organischen und der Mensch (I gradi del mondo organico e l’uomo). Da questi maestri Gehlen ha tratto: 1) l’esigenza di interrogarsi «circa l’essenza e lo scopo dell’esser uomo»; 2) la necessità di gettare un ponte tra filosofia e scienze empiriche; 3) taluni concetti direttivi come «l’apertura al mondo» e «l’eccentricità». La sua antropologia manifesta però una fisionomia originale, come risulta

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evidente da un’esposizione dei suoi tratti di fondo.

Gehlen apre il suo opus maius affermando che il bisogno di interpretare la propria esistenza non è qualcosa di puramente teoretico. Infatti, «Che l’uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia “arrivata” implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi obbedirà a imperativi in sé diversissimi» (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 35). Questa necessità di autoprogettarsi secondo una certa immagine di sé ci dice subito qualcosa di molto importante sull’uomo, ossia che esso, come aveva intravisto Nietzsche, è «l’animale non ancora definito» (das noch nicht festgestellte Tier), ovvero un ente «incompiuto» o «non costituito una volta per tutte», che deve «fare di sé qual-cosa» (Ib., p. 36). Prima di esaminare le conseguenze di questi concetti è bene soffermarsi sul metodo seguito da Gehlen.

Egli presenta il proprio libro come «uno scritto a carattere filosofico e scientifico» (Ib.). Scientifico perché si basa su di una elaborazione del materiale offerto dalla biologia, dalla psicologia, dalla linguistica ecc. Filosofico perché tale elaborazione non avviene a caso, ma sulla base di una «intuizione concettuale» (begriffene Anschauung) dell’uomo, che funge da filo conduttore della ricerca: «Il mio compito [...] è di costruire un [...] punto di vista-guida, e non mi è stato possibile desumerlo da alcuna delle scienze particolari citate, essendo invece un punto di vista filosofico; l’intero libro non è che l’applicazione di quest’unico fondamentale pensiero (Grundgedanke), di una semplice intuizione» (Ib., p. 39; cfr. il testo tedesco, Athenaion, Wiesbaden 1978, pp. 12-13 e p. 14). Questa intuizione concettuale e metaempirica dell’uomo di cui parla Gehlen non intende porsi come un principio assoluto da cui «dedurre», in senso fichtiano, la scienza dell’uomo, ma (diremmo oggi) come una sorta di «precomprensione» o di anticipazione ermeneutica che richiede di esser certificata e legittimata, nei limiti del possibile, dai dati di fatto fomiti dalle scienze. In altri termini, con l’idea di un’antropologia filosofica su base scientifica, Gehlen intende respingere il tradizionale metodo aprioristico dell’idealismo e collocarsi al di là della rovinosa antitesi fra scientismo e filosofismo. Ciò non toglie, come osserva ad esempio Giovanni De Crescenzo, che «La “visione complessiva” dell’uomo propugnata da Gehlen, “visione” che la filosofia dapprima “intuisce” e poi “dimostra” con la “assunzione produttiva” dei risultati scientifici», presenti anch’essa «notevoli inconvenienti». Infatti, nell’esecuzione concreta di Der Mensch «Il dialogo filosofia-scienza finisce per configurarsi come qualcosa di ben diverso da quella effettiva interazione (controllo reciproco) pur talvolta richiesta dallo stesso Gehlen, e di prossimo, invece, all’“ autismo” epistemologico con cui l’idealismo romantico accoglie la “sfida dell’empiria” (G. DE Crescenzo, Filosofia e biologia. Nota critica sul «Mensch» di A. Gehlen, «Il Cannocchiale», n. 1/2, 1984, pp. 184-91, p. 187 e p. 186).

L’«intuizione» filosofica originaria che funge da anticipazione sintetica di tutto il discorso di Gehlen e da centro nevralgico della sua comprensione preliminare dell’uomo è l’idea di un posto peculiare dell’uomo nel mondo.

Posto che egli, non senza reminiscenze idealistiche e schellinghiane, riconduce ad un inusitato «progetto della natura» (Naturentwurf)·, «mi si conceda questo presupposto: che nell’uomo si dia un progetto globale della natura, un progetto affatto unico, mai altrimenti tentato» (L'uomo, cit., p. 41), «la natura ha destinato all’uomo una posizione particolare, o,

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detto in altri termini, ha avviato in lui una direzione evolutiva che non preesisteva, che non era ancora mai stata tentata; ha voluto creare un principio di organizzazione nuovo» (Ib., p. 43).

Il riconoscimento di tale specificità si accompagna al divieto metodologico di spiegare l’uomo mediante «categorie dell’extraumano», ossia tramite Dio (dottrina tradizionale) o tramite l’animale (dottrina moderna). Reagendo soprattutto a certo evoluzionismo e alla sua immagine dell’uomo come discendente diretto delle scimmie antropoidi - immagine che rischia di fare dell’antropologia l’ultimo capitolo della zoologia - Gehlen intende ristabilire le distanze fra l’uomo e gli animali, senza, per questo, ricadere nella prospettiva teologica classica o nella teoria scheleriana dello «spirito». In particolare. Gehlen rifiuta lo «schema a gradi», ossia la teoria secondo cui l’uomo condividerebbe con gli animali i primi livelli della vita psichica (gli impulsi affettivi, l’istinto, la memoria associativa e l’intelligenza pratica) ma si distinguerebbe da essi per il possesso di un principio «spirituale». Di conseguenza, Gehlen «non vuole calcare le orme di Scheler, che aveva compiuto un “salto metafisico”, facendo derivare la peculiarità dell’essere umano da una “scintilla divina”. Seguendo l’orientamento della Lebensphilosophie [...] preferisce considerare l’uomo figlio della natura, anche se un figlio speciale, un “progetto particolare”: la meraviglia, il capolavoro, la gemma più preziosa della natura» (M.T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Studium, Roma 1990, p. 20). In altri termini, l'uomo, per Gehlen, «rappresenta sì un’eccezione, ma sempre nell’ambito naturale» (Ib., p. 75).

Contro lo schema dualistico sotteso alla teoria dei «gradi» e contro la secolare opposizione fra soma e psiche, Scheler difende l’idea di una costituzione bio-morfologica specifica presente in tutte le funzioni dell’uomo, sia «inferiori» che «superiori». Funzioni che non stanno fra loro in un rapporto causale, ma in una connessione organica al cui interno non si dà l’una senza l’altra (L'uomo, cit., p. 44). Da ciò il carattere di unità (Einheit) e di totalità (Gesamtheit) che Scheler rivendica alla propria antropologia, che denomina anche come «generale» o «globale». Oltre che «filosofica» (Ib., p. 39) e «generale» (Ib., p. 37), l’antropologia scientificamente fondata di Gehlen intende essere «elementare» (Ib., p. 40) - in quanto tratta delle determinazioni o degli aspetti basilari dell’uomo - e «biologica» (Ib., p. 42). Nel nostro autore, il concetto di biologia presenta una peculiarità semantica che non coincide con il senso ristretto e comune del termine, in quanto allude alle condizioni o ai mezzi di sopravvivenza dell’uomo: «Se un modo di considerazione può chiamarsi biologico, non può trattarsi che di questo; vagliare un essere alla luce della questione dei mezzi con i quali esso precipuamente esiste» (Ib., p. 43). In altri termini, l’antropologia di Gehlen è «bio-logica» in quanto studia le specifiche condizioni di vita (bios in senso lato) di quel particolare progetto della natura che è l’uomo.

Da ciò quella sorta di «lotta su due fronti» - contro il naturalismo ingenuo e contro le scienze dello spirito - che caratterizza tutta l’opera dello studioso tedesco (cfr. F.G. Di Paola, La teoria sociale di Arnold Gehlen, Angeli, Milano 1984, p. 109). Infatti, se da un lato Gehlen si sforza di evidenziare i caratteri peculiari dell’uomo, che sfuggono inevitabilmente al biologismo, dall’altro si sforza di mostrare come {'oggetto tematico delle «scienze dello spirito» (e, potremmo aggiungere, dell’«analitica esistenziale» di colui che rappresenta il

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grande «innominato» di Der Mensch, cioè Heidegger) non esuli, in linea di principio, da una considerazione biomorfologica, scientificamente indirizzata, del nostro essere: «La questione di come continui a esistere l’uomo [...] è per un verso, in linea assoluta, una questione biologica, per un altro verso, concernendo necessariamente l’uomo che agisce, inevitabilmente conduce ad ambiti, come il linguaggio, la conoscenza, l’immaginazione, che erano riservati sinora all’indagine delle scienze dello spirito. Ora, questi ambiti [...] non si sottraggono affatto al punto di vista biologico» (L’uomo, cit., p. 428).

Finora abbiamo parlato di «peculiarità» dell’uomo. Ma in che cosa consiste esattamente quest’ultima? Nel fatto, risponde Gehlen, che l’uomo è «l’essere che agisce» (handelndes Wesen), ovvero che deve «prendere posizione verso se stesso» (zu sich selbst Stellung nehmen), poiché egli non tanto «vive», quanto «dirige la propria vita» (er lebt nicht, er führt sein Leben). Ma dire che l’uomo è l’essere dell’azione significa dire, come si è già accennato, che egli è qualificato da una costituzionale «incompiutezza» (Unfertigkeit) che affonda le sue radici nella struttura fisica della nostra specie. Infatti, sviluppando in senso antropobiologico l’intuizione dell’uomo come essere «non definito» - e facendosi forte delle teorie di alcuni scienziati, a cominciare da quelle di Adolf Portmann, che aveva definito il neonato come «una sorta di “fisiologico” parto prematuro» e aveva classificato il suo primo anno di vita come un «anno embrionale extra-uterino» - Gehlen sostiene che tale incompiutezza risiede nella sprovvedutezza biologica della nostra specie, ossia nel fatto che l’uomo è per costituzione un «essere carente» (Mängelwesen), privo di organi e funzioni «specializzate». Infatti, mentre gli animali sono dotati di equipaggiamenti naturali consoni all’ambiente in cui si trovano a vivere, l’uomo risulta sfornito di una dotazione organico-istintuale specifica: «dal punto di vista morfologico - a differenza di tutti i mammiferi superiori - l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi Manca in lui il rivestimento pilifero, e pertanto la protezione naturale dalle intemperie; egli è privo di organi difensivi naturali, ma anche di una struttura somatica atta alla fuga; quanto a acutezza di sensi è superato dalla maggior parte degli animali e, in una misura che è addirittura un pericolo per la sua vita, difetta di istinti autentici e durante la primissima infanzia e l’intera infanzia ha necessità di protezione per un tempo incomparabilmente protratto. In altre parole: in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo ad animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra» (Ib., p. 60).

Il rovesciamento positivo di questo dato a prima vista negativo - ossia del fatto che l’uomo, in quanto essere carente, si configura come una sorta di «monstrum biologico» e di apparente «errore di natura» - è la scheleriana apertura al mondo (Weltoffenheit). Detto altrimenti, in quanto difetta dell’adattamento ad un particolare ambiente, l’uomo risulta costretto a fare di ogni ambiente il proprio ambiente, con la conseguenza che egli può venir definito come colui che non ha un ambiente (Umwelt) ma il mondo (Welt). Più in generale, in quanto biologicamente «sprovveduto» e «inadatto», l’uomo si trova a dover compensare le proprie carenze originarie mediante un’attività creatrice di cultura. Infatti, nel luogo in cui per l’animale c’è l’ambiente, nel caso dell’uomo sorge la cultura, ovvero quel mondo artificiale

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che rappresenta, per lui, una sorta di seconda natura·. «Per essere in grado d’esistere, l’uomo è costruito in vista di una trasformazione e di un dominio della natura [...] L’insieme della natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile alla propria vita dicesi cultura, e il mondo della cultura è il mondo umano», «Quasi ogni specie animale è adatta a un suo “milieu” climaticamente, ecologicamente ecc. costante; solo l’uomo è capace di vivere in ogni punto della terra, al polo e all’equatore, sull’acqua e sulla terraferma, nelle foreste e nelle paludi, sulle montagne e nelle steppe. È capace di viverci quando può produrvi la possibilità di crearsi una seconda natura» (Ib., p. 64 e p. 65).

Per cui, sostenere che l’uomo è un essere «agente» o «creatore di cultura» significa dire la stessa cosa, ossia che l’uomo può mantenersi in vita solo a patto di una trasformazione intelligente e «prometeica» dell’ambiente circostante. L’azione si configura quindi, dal punto di vista di Gehlen, come la categoria antropologica fondamentale. E poiché egli riconosce a più riprese i propri debiti con Herder, Kant e Schiller (per la teoria della sprovvedutezza

biologica dell’uomo) e con Fichte (per la teoria dell’azione), si può dire che un filone illustre della tradizione filosofica si saldi, nella sua opera, con i risultati «empirici» delle scienze biologiche e culturali. Da ciò il potere di attrazione esercitato dalla sua dottrina, che ha cercato di recuperare e convalidare su base scientifica alcune delle tesi più significative della filosofia moderna e della tradizione «faustiana» dell’Occidente.

A differenza degli animali, i cui organi sono programmati per filtrare solo un numero limitato di stimoli e pulsioni, l’uomo, in virtù della non-specializzazione e apertura al mondo, appare in balìa di un «eccesso pulsionale» (A. Seydel, M. Scheler) potenzialmente pericoloso per la sua sopravvivenza. Di fronte a tale bombardamento di stimoli e a tale «tempesta emotiva», l’individuo si trova quindi nella necessità di «strutturare» le proprie pulsioni, allo scopo di adattarle ai propri scopi. Ciò è possibile perché egli, contrariamente agli animali, ha la capacità di svincolarsi dalle pressioni dell'hic et nunc e di orientare in modo intelligente la propria condotta: «Ancorato alla mera situazione dell’adesso, come l’animale, egli sarebbe incapace di vivere. L’uomo deve avere la capacità di far saltare completamente i limiti della situazione, di dirigersi su cose future e assenti e di agire su tale base» (Ib., p. 77). In altri termini, un essere che «già la fame futura rende affamato», osserva Gehlen con Hobbes (Ib., p. 78; la citazione è tratta dal De homine, X, 3), può vivere solo a patto di progettare e anticipare il proprio futuro, ossia di porsi come l’essere che «antivede» e «provvede» (Ib., p. 78 e p. 59).

Questa «presa di distanza» (Distanzierung) dall’esistente, che permette all’uomo di spezzare il cerchio dell’immediatezza e di uscire dal centro biologico della propria vita, acquistando una caratteristica posizione «eccentrica» (Plessner) rispetto all’ambiente, è resa possibile da ciò che il nostro autore chiama Entlastung. Questo termine, che Carlo Mainoldi traduce con «esonero» o «agevolazione» (ent-lasten = ex-onerare, liberare da un peso) e che Gehlen definisce come la «legge strutturale che regge tutte le prestazioni umane» (Ib., p. 63), ovvero come «una categoria essenziale dell’antropologia» (Ib., p. 89), presenta una molteplicità di significati interconnessi non sempre adeguatamente illustrati dai critici. In linea generale, per «esonero» Gehlen intende il processo grazie a cui l’uomo trasforma gli oneri da cui è gravato in altrettante chances di sopravvivenza. In secondo luogo, per «esonero» intende il

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progressivo carattere indiretto, e quindi pianificato e previsionale, del comportamento umano, il quale ha la capacità di sganciarsi dall’immediatezza del contingente. In terzo luogo, e più in particolare, con il concetto di «esonero» allude al meccanismo per cui le funzioni superiori si fanno carico, in modo allusivo e simbolico, di determinate prestazioni che all’inizio competevano a quelle inferiori, liberando in tal guisa l’energia precedentemente impiegata per queste ultime. Componente vitale di questo meccanismo è l'abitudine, che creando degli schemi comportamentali fissi, allevia l’individuo da continue e reiterate risposte agli stimoli ambientali, economizzando energia in vista di più alte e complesse prestazioni (Ib., pp. 89-94; cfr. Per la sistematica dell’antropologia, trad. ital. in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990, pp. 128-33).

Gehlen analizza i meccanismi dell’esonero a partire dai riflessi condizionati sino alle più alte funzioni del pensiero. Uno dei temi più rilevanti della sua analisi è costituito dal linguaggio, al quale dedica un’ampia sezione del suo volume (parte II, capp. 19-34), scorgendovi una delle più tipiche e decisive forme di comportamento esonerante, imperniato sull’uso delle parole e dei simboli al posto delle cose. Accettando da Herder il concetto del linguaggio come forma di «risarcimento» (Schadloshaltung), ne rifiuta invece la teoria secondo cui le parole non sarebbero che una ripetizione di suoni naturali, affermando che alla base di esso stanno alcune «radici antropologiche», cioè alcune attività pre-linguistiche e para-linguistiche che fungono da supporto. Dopo aver enumerato cinque di tali attività (la «vita del suono», la «comunicazione fonetico-motoria con impressioni visive», il «riconoscere», il «richiamo», i «gesti sonori»), egli passa a descrivere la funzione di medium del linguaggio, insistendo sulla sua capacità di fungere da nerbo della connessione fra esterno e interno. Connessione che egli cerca di evidenziare anche tramite il tema novalisiano della «innere Aussenwelt», parlando, caratteristicamente, di «mondo esterno interno» (Ib., p. 295 sgg.).

L’iter ontogenetico delle varie forme di esonero mostra la paradossale inversione che la sequenza evolutiva subisce nell’uomo, facendo sì che l’animale più disadattato divenga il più capace di adattamento. E ciò in virtù della flessibilità, variabilità e modificabilità connesse alla sua organizzazione corporea non-specializzata. Infatti, è proprio grazie alla plasticità (Plastizität), intesa come contrassegno morfologico fondamentale della nostra specie, che quel «frutto tardivo del mondo» che è l’uomo riesce ad autoprodursi in modo ricco e variegato - ovvero a superare «la fatica di Sisifo di padroneggiare ogni giorno l’esistenza» (Ib., p. 84) e a porsi come l’essere che è tema e compito a se stesso.

1175. Il mondo della tecnica e delle istituzioni

Come si è visto, in seguito alla mancanza di un corredo istintuale prede- terminato e al «diluvio» di impressioni che lo colpiscono, l’uomo si trova nella necessità di dover «incanalare» la propria energia psichica secondo precise modalità. Ciò avviene attraverso i processi, già descritti da Freud, della «inibizione», dello «spostamento» e della «combinazione» delle pulsioni, le quali, nell’uomo, obbediscono ai meccanismi della riduzione, della dedifferenziazione, della procrastinazione e della plasticità (Ib., pp. 371-401).

Quest’opera di «autostrutturazione» antropologica, tramite cui l’individuo, in assenza di organizzazioni neuroniche rigide e predeterminate, riesce a padroneggiare i propri «quanti

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pulsionali» e a dirigere in modo attivo il proprio agire nel mondo, coincide con il farsi stesso dell’uomo in quanto essere culturale per eccellenza: «Nell’uomo, “animale non definito”, la physis è cosiffatta da essere nel contempo e necessariamente compito, e di conseguenza il concetto di natura umana non può essere pensato se non con i caratteri della disciplina, della conduzione, della responsabilità e del valore» (Ib., p. 417). Il principio, cui si è accennato in partenza, che l’uomo è un essere da disciplinare (Zuchtwesen) trova cosi la sua conferma e mette capo al fatto etico: «Il compito, intimamente connesso con l’esistenza dell’uomo, della strutturazione pulsionale - compito cronico che si ripropone a ogni generazione - è assunto dall’educazione prima e dall’autodisciplina poi [...] La quintessenza della strutturazione si chiama moralità, ed essa [...] è una necessità biologica che sussiste solamente nell’uomo» (Ib., p. 407). Dall’educazione e dalla moralità scaturisce la formazione del «carattere» dell’individuo, nel quale convergono sia un elemento biologico-istintivo (il «temperamento» e il tono vitale) sia un elemento derivante dall’«azione pedagogica della società» (Ib., pp. 416-28).

Con lo studio del carattere siamo quindi pervenuti a quella «sfera culturale» o natura artificiale che costituisce il mondo proprio dell’uomo. L’interesse per tale sfera, già presente nell’ultima parte di Der Mensch (rielaborata nel 1950), risulta al centro della fase «sociologica» del pensiero di Gehlen e delle opere in cui essa si esprime. Gli aspetti del mondo socio-culturale su cui si concentra l’attenzione del nostro autore sono soprattutto la tecnica e le istituzioni.

Secondo Gehlen la tecnica deriva dall’equipaggiamento carente dell’uomo e rappresenta un tratto costitutivo del suo essere nel mondo: «mancando di organi ed istinti specializzati, l’uomo non è conformato per un ambiente naturale, peculiare della sua specie, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con la sua intelligenza qualsivoglia stato di cose da lui incontrato nella natura. Povero di apparato sensoriale, privo di armi, nudo, embrionale in tutto il suo habitus, malsicuro nei suoi istinti, egli è l’essere che dipende esistenzialmente dall 'azione» (Die Seele im technischen Zeitalter, trad. ital. L’uomo nell’era della tecnica, Sugarco, Milano 19842, pp. 10-11). In altri termini, se per tecnica si intende la capacità con cui l’uomo «mette la natura al suo servizio» si deve dire che essa è già insita «nell’essenza stessa dell’uomo» (Ib., p. 12) e che egli è per definizione un essere tecnico, un Techniker, ovvero un homo faher o un tools-making-man. Ma se la tecnica, come scrive Gehlen, «è vecchia quanto l’uomo» e se la questione della tecnica, come commenta Antimo Negri nella prefazione all’edizione italiana, è «la questione stessa dell’uomo» (Ib., p. ix), non ci stupiremo affatto che filosofia della tecnica ed antropologia siano, nel nostro autore, strettamente connesse e che la prima non sia pensabile senza la seconda.

Ricollegandosi agli studiosi (come W. Sombart, P. Alsberg e J. Ortega y Gasset) che hanno insistito sul legame fra la tecnica ed il carattere imperfetto degli organi umani, Gehlen afferma che gli utensili possono adempiere a tre principali funzioni: 1) rimpiazzare organi e capacità di cui siamo privi (tecniche di integrazione)·, 2) potenziare organi e capacità già esistenti (tecniche di intensificazione)·, 3) alleggerire il lavoro dei vari organi (tecniche di agevolazione). Questi tre tipi di tecnica sono illustrati da Gehlen con l’esempio dell’aereo: «Chi viaggia in aereo ha i tre principi riuniti in uno: l’aereo sostituisce le ali che non ci sono

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cresciute, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia fatiche dirette a chi vuole recarsi in posti molto lontani» (Ib., pp. 11-12).

Nell’ambito di questo processo, che trova il proprio culmine nel- Γautomazione, la tecnica tende a rimpiazzare tutto l’organico, e non solo singoli organi, con la «natura inorganica», la quale, come aveva già insegnato Bergson, è più accessibile alla conoscenza analitico-scientifica e alla prassi sperimentale. Dopo aver accennato alla storia della tecnica - e ai suoi rapporti con il pensiero magico - Gehlen si sofferma su talune caratteristiche di fondo della civiltà della tecnica e sulle connesse trasformazioni socio-antropologiche. Uno dei momenti centrali della sua analisi è costituito dalla messa in luce della «complessificazione» e «intellettualizzazione» del mondo operati dalla moderna civiltà tecnico-scientifica, che parallelamente al fenomeno della specializzazione produce una progressiva perdita di contatto con la realtà. Infatti, di fronte ad un mondo sempre più complicato e suddiviso in mini-sfere di competenza, gli individui non riescono più a rappresentarsi adeguatamente l’ambiente in cui vivono. Da ciò la necessità di quelle «fonti di seconda mano» che sono i media, i quali ci aiutano a decifrare il labirinto del mondo tramite alcuni sbrigativi ma rassicuranti schemi interpretativi: «nel mare magnum delle realtà odierne l’unica risorsa sono le fonti secondarie, le quali ci vengono addirittura incontro sotto forma di immagini e di caratteri a stampa, in tutte le gradazioni della veridicità. E ne abbiamo bisogno per procurarci nell’oceano della sicurezza una bienfaisante certitude» (Ib., p. 82). Un altro momento è costituito dalla focalizzazione dell’influenza della tecnica e dei suoi principi direttivi («il principio del rendimento totale», «il principio degli effetti previsti», «il principio delle misure standard o dei pezzi sostituibili», «il principio della concentrazione in vista dell’effetto») sullo «stile» intellettuale e pratico della società odierna: «Lo studio dei fenomeni culturali ha sempre rivelato, e rivela tuttora, che la coscienza umana viene plasmata di volta in volta dalla mentalità e dagli atteggiamenti preferiti della cultura di una data epoca; essa si impregna talmente della tematica che definisce il baricentro di un’età, da considerare infine i punti di vista della sua cultura come gli unici naturali e ragionevoli, o perlomeno come ovvi. Ciò accade anche oggigiorno, ed è per es. facile dimostrare come forme del pensiero sviluppatesi nella tecnica si trapiantino in ambienti non tecnici pur essendo ivi inadeguate» (Ib., p. 58).

Altri aspetti su cui indugia Gehlen sono la schematizzazione dei comportamenti individuali e il disorientamento degli spiriti: «La “distruzione creatrice” (Schumpeter) è insita nell’essenza della cultura industriale. Tradotto in termini antropologici ciò significa [...] che mancano all’esterno i punti d’appoggio stabili per i nostri princìpi, i nostri impegni e persino le nostre opinioni, manca una riserva invariante di usi e consuetudini, di istituzioni, simboli, ideali e “immobili culturali” ai quali si possa rimettere la guida del nostro comportamento con la sensazione di far cosa giusta. Noi invece siamo costretti a una continua vigilanza, a perseverare in una specie di stato di allarme cronico per controllare su un piano diagnostico ed etico il mondo circostante» (Ib., p. 87). Manifestazione di questo «immane disorientamento» è la «perdita dei baricentri» rappresentata da scrittori come Kafka, Musil e Beckett (Uomo e istituzioni, 1960, trad. ital. in Prospettive antropologiche, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 95-106, p. 101).

Pur insistendo sul «disagio» prodotto dalla tecnica, interpretato come «sintomo di una

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trasformazione culturale su scala mondiale», nel cui ambito si ha un’interferenza fra i caratteri della vecchia cultura e i motivi di una nuova civiltà non ancora ben delineata, Gehlen non approda tuttavia ad una forma di umanesimo anti-tecnologico. In primo luogo, la sua analisi è sempre attenta a rilevare le ambivalenze e gli aspetti simultaneamente positivi- negativi della tecnica, la quale risulta ambigua per sua stessa essenza, come dimostra il fatto che essa è sempre servita a «vivere» ma anche «a far morire» (La tecnica vista dall’antropologia, trad. ital. in Prospettive antropologiche, cit., pp. 127-40, p. 127). A conferma di questa ambiguità sta il fatto che «Lo slogan della personalità minacciata dalla cultura di massa è esatto solo per metà», in quanto, per altri versi, «non si è mai avuta al mondo tanta soggettività finemente differenziata e ricca di espressione» al pari di oggi (L'uomo nell’era della tecnica, cit., p. 197), come testimonia il mondo dell’arte e il fatto che «In fondo, viviamo nel secolo della psicologia» (Ib., p. 198). Inoltre, nella società odierna esistono molteplici contatti informali, cioè «piccole reti anonime» o «piccoli raggruppamenti speciali» che raccolgono individui accomunati da vincoli di affinità e di amicizia. In secondo luogo - e questo è il punto decisivo - Gehlen ritiene che il rifiuto della tecnica equivarrebbe ad un rifiuto dell’uomo, il quale, secondo uno dei suoi teoremi preferiti e delle sue espressioni più fortunate, risulta un «essere culturale per natura». Di conseguenza, più che una distruzione della tecnica, il nostro autore persegue lo scopo di una sua limitazione, tramite un comportamento che egli definisce «ascetico», intendendo, con questo termine, non un sacrificium in senso religioso, ma una disciplina in senso etico. Disciplina che coincide con un contenimento programmatico e consapevole della nostra smodata volontà di sapere e di consumare: «Una trasformazione radicale sarebbe possibile soltanto se attaccasse ai due estremi: al voler sapere, punto di partenza, o al voler consumare, punto di arrivo del processo» (Ib., p. 89). Questa metamorfosi ascetica si accompagna ad un abbandono della fiducia «sacrale» nella scienza e nella tecnica e ad una conseguente «secolarizzazione» di tali attività.

Un altro tema su cui si è soffermata l’attenzione del Gehlen sociologo e psicologo sociale è quello delle istituzioni. Come si è visto, la cultura, intesa come «ambito della natura trasformata dall’uomo» oppure, secondo un’altra suggestiva immagine, come «nido» dell’uomo nel mondo, costituisce una necessità vitale, poiché alla nostra specie manca l’adattamento all’ambiente. Ma la cultura vive nell’insieme delle istituzioni grazie a cui essa prende forma. Come risulta chiaro soprattutto da Urmensch und Spätkultur (1956) che rappresenta il testo-chiave della Institutionenlehre di Gehlen, le istituzioni (cfr. capp. 5-24) hanno la funzione di disciplinare in forme compatte e durevoli l’agire sociale dell’uomo, fungendo da «puntelli esterni» e da «piloni di sostegno» del suo comportamento. Oltre che «forme dell’esecuzione di compiti collettivi», le istituzioni appaiono quindi come delle «forze stabilizzanti», che pongono un argine al caos pulsionale dell’uomo e che garantiscono una vita ordinata fondata sulla fiducia reciproca. Proprio in virtù della loro natura ordinatrice e canalizzatrice le istituzioni rappresentano anche dei potenti fattori di esonero, poiché inalveando il comportamento in forme abituali e prevedibili, «liberano» energia per prestazioni superiori. Infatti, senza quelle forme «cristallizzate» di autodisciplina che sono le istituzioni, l’uomo si troverebbe, ad ogni momento, a dover scegliere e inventare il proprio modo d’essere individuale e collettivo, cadendo in improvvisazioni occasionali e

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disperdendo, in tal modo, una quantità di energie preziose altrimenti impiegabili (cfr. Uomo e istituzioni, cit., pp. 97-99).

Di conseguenza, anche le istituzioni si configurano come una forma di «compensazione» dei primitivismi organici dell’uomo. Da ciò la stretta connessione che esiste, in Gehlen, fra sociologia ed antropologia. Infatti, come scrive Ubaldo Fadini, «la complicità di fondo tra l’antropologia filosofica e la teoria delle istituzioni sviluppate da Gehlen (meglio: il risolversi della prima a presupposto della seconda) sta nel fatto che l’affermazione della negatività come predicato dell’esistenza umana (l’“eccesso” costituito dalla “plasticità” della sua natura) non può non richiamare l’imposizione di un limite esterno (di una mediazione esterna) al ritmo trasformativo, di “metamorfosi”, della stessa Plastizität» (Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Angeli, Milano 1988, p. 157).

Il collegamento fra analisi sociologica e speculazione filosofica appare evidente soprattutto in Oer Mensch, dove Gehlen arriva ad abbozzare una sorta di ontologia delle istituzioni: «la ricerca deve muoversi ora sul piano filosofico-, essa cioè non può avvalersi che di categorie ontologiche» (L’uomo, cit., p. 445). Infatti, le istituzioni - le quali, come dimostra il caso del totemismo, traggono la loro origine non da scelte strumentali e convenzionali, ma da un «atto ideativo immaginario» o da «un’idea guida direttrice» operante al di là della consapevolezza soggettiva - possono essere comprese, nella loro funzione ultima, solo tramite una sorta di «teleologia della natura» in grado di integrare l’organicismo di Schelling con l’ontologia di Hartmann. In altri termini, radicalizzando il proprio discorso, Gehlen avanza l’ipotesi che le istituzioni siano riportabili ad una organizzazione teleologica della natura nell’uomo, per «meglio» conservarlo nell’esistenza: «Vi si delinea una sorta di “astuzia della ragione” teleologica che rovescia [...] le finalità “primarie” dell’“organismo uomo” (ad esempio le mete istintuali) in finalità “secondarie” metaindividuali, cioè sociali [...] Gehlen enfatizza questa “ontologia delle istituzioni” e questo universale finalismo immanente che trapassa dall’individuale al sociale nel concetto di “conformità allo scopo secondario” (sekundäre Zweckmässigkeit), che indica appunto il risolversi della finalità “bio-individuale” in finalità storico-istituzionale» (F.G. Di Paola, op. cit., pp. 147-48).

In ogni caso, proprio perché sorgono per soddisfare le richieste antropo- logiche derivanti dalla natura plastica e instabile dell’uomo e proprio perché si configurano come «una riproduzione della perduta sicurezza degli istinti propria degli animali a un livello molto più elevato», le istituzioni rappresentano qualcosa di inestirpabile (L'immagine dell'uomo alla luce della antropologia moderna, 1952, trad. ital. in Prospettive antropologiche, cit., pp. 77-94, p. 93, note finali). Tante vero che quando vengono scosse o vengono fatte saltare per aria quelle forme inibitorie fisse - diritto, proprietà, famiglia ecc. - che hanno storicamente contribuito a regolamentare l’esistenza degli uomini attraverso i secoli, si ha un processo di «insecurizzazione» collettiva, che colpisce in profondità i centri morali e intellettuali degli individui, facendo naufragare quella «certezza dell’ovvio» o quella «bienfaisante certitude» su cui si reggeva la loro vita. Al limite, un tale processo, che si accompagna a forme di angoscia e di estrema irritatibilità, può produrre, come dimostrano le grandi catastrofi storiche e le rivoluzioni, una «primitivizzazione» dei comportamenti (Uomo e istituzioni, cit., p. 99; cfr. Per la storia dell’antropologia, 1957, trad. ital. in Antropologia filosofica e teoria

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dell’azione, cit., p. 205).

Gehlen insiste sul fatto che senza le istituzioni o contro le istituzioni non vi può essere persona («È possibile pensare antropologicamente il concetto di personalità solo nella più stretta connessione con quella delle istituzioni»). Infatti, sebbene le istituzioni schematizzino, e in parte alienino, il nostro modo di essere, da esse si traggono anche le riserve di energia esonerata «per rappresentare nell’ambito delle proprie circostanze l’unicità, cioè per operare in modo produttivo, creativo e fruttuoso» (Uomo e istituzioni, cit., p. 99). Al contrario, «Chi vuol essere una personalità, non nell’ambito delle sue circostanze, ma in tutte le circostanze, può solo naufragare» (Ib.). Contrapponendosi hegelianamente all’individualismo dei buoni propositi, Gehlen afferma inoltre che «Le istituzioni mettono al sicuro una parte dell’esistenza e dell’efficacia dell’Ideale, e [...] sottraendolo all’infido terreno della soggettività lo conducono sul solido piano delle realtà, dei bisogni e degli interessi ragionevoli» (L’uomo nell'età della tecnica, cit., p. 203). Questa «celebrazione» delle istituzioni prospettate come unico argine possibile all’esplosione distruttiva degli istinti umani, ha fatto si che il nostro autore sia stato considerato un sociologo conservatore ed un tipico rappresentante del cosiddetto «pensiero di destra». In realtà, il «conservatorismo» di Gehlen non risiede nella semplice - e per molti aspetti scontata - affermazione di principio secondo cui l’uomo non può vivere senza regole o istituzioni, ma nei connotati «forti» e ideologicamente pregiudicati che essa assume per lo più nel suo pensiero (connotati che spiegano tra l’altro il suo appoggio al nazismo).

A partire dal dopoguerra. Gehlen è andato attribuendo un peso sempre più decisivo alla dimensione etica, sostenendo che nel passaggio da una società a istituzioni «forti» ad una società a istituzioni «deboli» si ha, contemporaneamente, una transizione da un «ethos dello Stato» ad un «ethos umanitario» (cfr. M.T. Pansera, op. cit., pp. 30-31). L’affermazione di tale ethos umanitario, che egli concepisce come il prodotto del concorso di molteplici sistemi etici (etica dello Stato, etica della stirpe, etica cristiana, etica familiare ecc.) si connette, in Moral und. Hypermoral (1969) all’idea di una «ipertrofia morale» che spinge gli individui a sentirsi responsabili non solo per ciò che essi hanno effettivamente compiuto, ma anche per ciò che essi non hanno impedito che si compisse (Athenäum, Frankfurt-Bonn 1969, p. 142).

Fra i temi del pensiero di Gehlen che hanno attirato l’attenzione degli studiosi odierni, soprattutto di tendenza «postmoderna», ricordiamo l’estetica della pittura moderna (Zeit-Bilder, 1960) e la teoria della posthistoire (§ 1182). Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, in Die Säkularisierung des Fortschritts (La secolarizzazione del progresso, 1967), Gehlen ha dichiarato che nell’ambito dell’odiemo sistema scientifìco-tecnico-industriale il progresso è divenuto «routine», provocando un trasferimento dell’ansia del nuovo nel settore delle arti belle (Gesamtausgabe, Band 7: Einblicke, Klostermann, Frankfun 1978, pp. 409-11).

Gehlen è rimasto fedele ai capisaldi della sua antropologia sino alla fine e si è mostrato poco propenso ad accogliere taluni dei risultati più innovativi della neurofisiologia, della genetica, della biologia molecolare, della teoria sintetica dell’evoluzione e dell’etologia. Da ciò i numerosi appunti che gli sono stati rivolti da critici e scienziati. Una delle poche obiezioni che ha accolto è quella di aver sopravvalutato la carenza o la non-specializzazione biologica dell’uomo. Infatti, ammettendo di essere «andato sicuramente troppo avanti nel rifiutare un

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ruolo ai complessi istintuali con precisi confini», si è mostrato disposto a riconoscere, sulla scia di Lorenz, che anche l’uomo è dotato di alcuni micro-meccanismi istintivi innati (Antropologia filosofica, 1971, trad, ital. in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 291). Con tale ammissione egli non ha comunque inteso abbandonare quel principio della plasticità ed indeterminatezza dell’uomo che costituisce l’alfa e l’omega del suo pensiero.

CAPITOLO XXVIII.

G. DELEUZE E F. GUATTARI: PENSIERO NOMADE E SCHIZOANALISI

di Franco Restaino

1176. Deleuze e Guattari. una nuova triade per la filosofia francese: Nietzsche, Marx, Freud.

Gilles Deleuze è nato nel 1925 e appartiene quindi alla generazione di Foucault e Derrida, con i quali condivide la responsabilità di aver contribuito in misura determinante a cambiare i caratteri della filosofia francese, in maniera radicale, nei primi anni Sessanta. A lui si deve infatti uno dei principali elementi di novità introdotti in quegli anni: il rilancio di Nietzsche, il cui pensiero era pressoché assente nella cultura filosofica francese. Un rilancio, come vedremo, che avrebbe determinato un mutamento rapido e profondo negli interessi e nelle problematiche di quella cultura. A Nietzsche, poi, Deleuze si sarebbe ispirato, fondamentalmente, nelle sue successive elaborazioni, associandogli, soprattutto dopo l’incontro con il marxista di sinistra Félix Guattari nel 1969, Freud e Marx. E' morto a Parigi nel 1995.

Nietzsche, Freud, Marx: la «scuola del sospetto», «l’ermeneutica del sospetto». Cosi avrebbe designato i caratteri comuni a questi tre autori, in un ormai classico volume su Freud del 1963, uno dei massimi esponenti del pensiero ermeneutico, P. Ricoeur. I tre autori, infatti, non credono al significato letterale, palese, pubblico, delle idee e delle filosofie, ma «sospettano» che dietro di esse ci sia qualche cosa di nascosto che le determina e che bisogna scovare, smascherare: la volontà di potenza per Nietzsche, l’inconscio per Freud, i rapporti di produzione per Marx.

Nietzsche, Freud, Marx. Una triade che sta alla base della svolta più radicale nella filosofia del dopoguerra in Francia, dopo il predominio trentennale di un’altra triade, quella delle tre H, come scrive V. Descombes, con una formula molto nota, nel suo importante volume del 1979 sulla filosofia francese dagli anni Trenta ai nostri giorni (Le même et l’autre. Quarantecinq ans de philosophie française. 1933-1978, Les Editions de Minuit, Paris): Hegel, Husserl, Heidegger.

E' sotto l’influenza di quest’ultima triade che si è formato filosoficamente Deleuze negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra. Ricordando quegli anni, in una conversazione del 1977, Deleuze li rievoca affermando che Hegel, Husserl e Heidegger rappresentavano per i giovani di allora l’equivalente degli autori obbligati per gli scolastici medioevali. Hegel era la figura dominante, soprattutto per la enorme influenza delle lezioni di A. Kojève degli anni

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Trenta (pubblicate a cura di R. Queneau nel 1947) e per la traduzione e il commento della Fenomenologia dello spirito a cura di J. Hyppolite nell’immediato dopoguerra. Husserl era stato introdotto e commentato sin dal 1930 da E. Lévinas, e insieme a Heidegger aveva dato alimento al nascente esistenzialismo in Francia, esploso poi nell’immediato dopoguerra con la fortuna divenuta presto quasi popolare del pensiero di Sartre. Anche il pensiero di Merleau-Ponty, più presente e influente a livello accademico, costituiva una importante testimonianza della vitalità dell’insegnamento di Husserl.

Deleuze, si diceva, compie il suo apprendistato filosofico nel quadro del predominio dell’influenza di Hegel, Husserl e Heidegger (e cioè di Kojève, Sartre, Merleau-Ponty, principalmente). E' però un giovane originale, filosoficamente irrequieto, e cerca vie nuove che non lo obblighino a proseguire sulle linee del pensiero dominante in quegli anni in Francia (hegeliano-fenomenologico-esistenzialistico). Le nuove vie significano approcci verso autori poco frequentati, sui quali nell’arco di quindici anni pubblica saggi e monografie: nel 1953 su Hume, nel 1961 su Lucrezio, nel 1962 su Nietzsche (e sarà l’opera più importante di questi anni), nel 1963 su Kant, nel 1966 su Bergson (pressoché dimenticato dopo l’enorme fortuna goduta fino agli anni Venti), nel 1968 su Spinoza. Si aggiungano gli interessi per Platone, per gli Stoici in particolare, e più tardi per Bacone. Tutti autori, come ben si vede, estranei al quadro filosofico dominante, e anche, si deve dire, a quello alternativo emergente alla metà degli anni Cinquanta con l’affermazione, in funzione prevalentemente antiesistenzialistica e antihegeliana, dello strutturalismo.

Deleuze, in rapporto allo strutturalismo, ha una posizione analoga ai suoi originali coetanei, Foucault e Derrida: lo attraversa, si può dire, utilizzandone alcune tesi antistoricistiche e antiesistenzialistiche, ma non ne fa una bandiera. La sua strada, come quella di Foucault, o di Derrida, porta verso altre direzioni: in particolare, verso una utilizzazione, filosoficamente molto più impegnativa e incisiva, del pensiero di Nietzsche.

E' quest’ultimo autore, infatti, quello su cui ruota l’interesse filosofico, in maniera differenziata, sia di Deleuze, sia di Foucault, sia di Derrida. Tutti e tre se ne occupano, facendone un interlocutore centrale delle loro domande filosofiche. Ma è Deleuze il primo a rilanciare con successo il pensiero di Nietzsche nella cultura filosofica del suo paese con l'ormai classico volume del 1962 Nietzsche e la filosofia.

Il Nietzsche di Deleuze, come vedremo subito, è il primo ad apparire con forza, dopo la quasi ventennale fuoriuscita dalla scena filosofica in seguito alla utilizzazione massiccia e ufficiale che il nazismo aveva fatto del pensiero di quest’autore. Certo, è stato rilevato (anche recentemente, nella pregevole introduzione di M. Ferraris alla nuova traduzione italiana dell’opera, apparsa nel 1992), il Nietzsche di Deleuze ignora sostanzialmente le interpretazioni heideggeriane, che per opera di Derrida e di altri modificheranno in misura significativa le letture del pensiero nietzschiano negli anni Settanta e Ottanta. Ma per un decennio circa, sia con la monografia del 1962, sia con opere successive, fino a Differenza e ripetizione del 1968 e a Logica del senso del 1969, l’interpretazione del pensiero di Nietzsche proposta da Deleuze (e sostanzialmente fatta propria dall’amico Foucault nell’importante intervento al convegno di Royaumont su Nietzsche del 1964, i cui atti pubblicati nel 1967 costituiscono una importante testimonianza della fortuna delle proposte di Deleuze) è quella

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che ha più successo e più seguito.

Nel 1969 Deleuze incontra Felix Guattari, nato nel 1930, impegnato da giovane nelle organizzazioni del partito comunista, e più tardi in quelle della sinistra dissidente. Guattari non aveva avuto una formazione filosofica ma psichiatrica e psicoanalitica: aveva seguito, in particolare, negli anni Cinquanta gli ormai leggendari seminari di Lacan, che proponeva una teoria della psicoanalisi diversa da quella freudiana (da qui la rottura con la scuola freudiana ufficiale) e vicina allo strutturalismo (antisoggettivismo). Negli anni Sessanta si era sottoposto ad analisi presso Lacan, e alla fine del decennio ne era diventato un collaboratore, mentre lavorava in un ospedale psichiatrico vicino a Parigi. Guattari, al momento dell’incontro con Deleuze, cercava anch’egli nuove strade che gli consentissero di mettere insieme i due filoni di pensiero, e di attività, sui quali si era formato: quello marxista e quello psicoanalista. Nella ricerca di queste nuove strade era pervenuto ad un iniziale distacco da Lacan e ad un recupero diretto del pensiero di Freud, letto attraverso gli occhi di un marxista dissidente.

Deleuze metteva al centro dei suoi interessi teorici Nietzsche, Guattari vi metteva Marx e Freud. L’incontro, l’amicizia e la collaborazione, continuati fino alla morte improvvisa di Guattari nel 1992, diedero come frutto, inizialmente, il volume Anti-Edipo, nel 1972, presentato come prima parte di un’opera dal titolo Capitalismo e Schizofrenia. Il volume ebbe un successo, nazionale e internazionale, immediato e molto grande. La seconda parte dell’opera, col titolo Mille piani (Mille Plateaux), appariva nel 1980. Nietzsche, Marx e Freud, i tre maestri del sospetto, stanno alla base delle elaborazioni dell'Anti-Edipo e degli scritti successivi dei due autori. Secondo studiosi autorevoli, la figura e l’influenza dominanti sono ancora quelle di Nietzsche. Libri di scrittura estremamente complessa e complicata (i gerghi filosofico, con Nietzsche, psicoanalitico, con Freud e Lacan, economico, con Marx, danno luogo a un miscuglio linguistico di non facile comprensione), hanno lasciato forti tracce nella cultura francese, soprattutto l'Anti-Edipo, anche se sono molto difficilmente riconducibili (in particolare il vagante e nomadico Mille piani) a un pensiero organico e sistematico. Meno sfrenata, sia linguisticamente sia concettualmente, appare l’ultima fatica di Deleuze e Guattari, il libro su Qu'est-ce que la philosophie? del 1991.

Sia Deleuze da solo fino al 1969, sia lui e Guattari dopo l’incontro e l’inizio della collaborazione, hanno pubblicato una quantità di opere molto grande, tutte di lettura non facile. La loro produzione non è stata fatta oggetto, fino ad oggi, di molti studi critici (come è il caso, invece, per Foucault e Derrida). Gli scritti del solo Deleuze, se si fa eccezione per il volume su Nietzsche del 1962, hanno interessato prevalentemente gli studiosi di estetica e di linguistica (Deleuze ha scritto anche notevoli saggi su Proust, su Sacher-Masoch, su Kafka, sul cinema). Le opere scritte in collaborazione, soprattutto l’Anti-Edipo, hanno suscitato polemiche molto vivaci al loro apparire, ma non sono state poi al centro di significativi studi critici, e sono state sostanzialmente considerate esterne al dibattito filosofico in Francia negli ultimi vent’anni; questo ha ruotato essenzialmente, nella cultura francese, e poi in quella intemazionale, intorno alle opere di Foucault, Derrida e Lyotard, oltre che a quelle, per gli interessi ermeneutici, di Ricoeur e di Lévinas. Curiosamente, l’unica monografia importante su tutto l’itinerario teorico di Deleuze e Guattari si deve a uno studioso inglese, R. Bogue, ed

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è stata pubblicata nel 1989.

1177. Deleuze: ripensare Nietzsche.

Deleuze vede in Nietzsche, in misura decisiva, il pensatore antidialettico, antihegeliano, per eccellenza: il pensatore che ha portato a compimento le esigenze critiche manifestate nell’età moderna in maniera più chiara da Kant ma da questi non soddisfatte compiutamente. Kant, infatti, con la sua rivoluzione copernicana, ha messo in luce che siamo noi, gli esseri umani, i responsabili di quanto facciamo sul piano conoscitivo, etico, estetico. Ma si è fermato di fronte ai valori indiscussi della verità, del bene, del bello, senza operare anche verso questi valori la necessaria demistificazione alla quale invece si è dedicato Nietzsche.

Che senso hanno, che valore possiedono, quei valori? Questa è la domanda dalla quale è partito Nietzsche per compiere fino in fondo la rivoluzione copernicana iniziata da Kant. Nelle pagine iniziali, molto citate, dell’opera su Nietzsche del 1962, che contiene in nuce il pensiero di Deleuze, viene affermato con forza che «nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di senso e di valore in filosofia»; non solo, ma si precisa che «nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della critica [nel senso kantiano], il solo modo di realizzare la critica totale, ossia di fare filosofia a “colpi di martello”. La nozione di valore implica infatti un sovvertimento critico. Da una parte i valori sembrano o si fanno passare per principi: una valutazione presuppone determinati valori sulla cui base stimare i fenomeni. D’altra parte però, se si va più a fondo, sono i valori a presupporre valutazioni, “punti di vista di apprezzamento” da cui proviene il loro stesso valore. Il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale deriva il loro valore; è il problema della loro creazione» (Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 31).

Il brano citato indica con chiarezza, ci sembra, il passo avanti compiuto da Nietzsche, rispetto a Kant (e secondo Deleuze, ovviamente), sul problema dei valori: Kant li considerava principi indiscutibili (le verità logiche, la legge morale dentro di me, e simili), partendo dai quali si dovevano valutare i fenomeni, o le azioni. Nietzsche li considera invece come creazioni, e ne ricostruisce la «genealogia», riconducendoli, come sottolineerà Deleuze, alle manifestazioni e produzioni della volontà di potenza.

Quelli che tradizionalmente si considerano valori o principi indiscutibili, primari, originari, «l’alto e il basso, il nobile e il vile non» sono valori - scrive Deleuze -, ma rappresentano l’elemento differenziale da cui deriva il valore dei valori stessi» (Ib., p. 32). Nietzsche, precisa Deleuze, non solo va oltre, e confuta, la tesi tradizionale, conservata dallo stesso Kant, della originarietà e indiscutibilità dei valori, ma supera anche la tesi più recente, di matrice utilitaristica, secondo la quale i valori derivano dai semplici fatti oggettivi, per meccanica composizione: «Nietzsche formula il concetto nuovo di genealogia. Il filosofo è un genealogista, non un giudice di tribunale come Kant [cioè uno che applica principi indiscutibili], né un meccanico come gli utilitaristi. Il filosofo è Esiodo [il poeta che aveva ricostruito la genealogia degli dei]. Nietzsche sostituisce al principio kantiano di universalità e al principio di somiglianza caro agli utilitaristi il sentimento di differenza o di distanza

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(elemento differenziale)» {Ib., p. 32).

Deleuze si ispira, in questa presentazione della filosofia genealogistica di Nietzsche, soprattutto ad una delle ultime opere di Nietzsche, La genealogia della morale, di cui evidenzierà ripetutamente l’aperto carattere anticristiano oltreché antimetafisico in generale. Genealogia, precisa Deleuze, «vuol dire valore dell’origine e, al tempo stesso, origine dei valori. Genealogia si contrappone tanto al carattere assoluto dei valori quanto al loro carattere relativo o pratico. Genealogia significa elemento differenziale dei valori da cui deriva il loro stesso valore. Genealogia significa dunque origine e nascita, ma anche differenza o distanza nell’origine» db).

Accanto al concetto di genealogia abbiamo visto affiorare quello di differenza e quello di distanza: concetti che ricorreranno spesso nell’opera (e negli scritti successivi di Deleuze), insieme a quello di ripetizione, e saranno connessi ai temi considerati basilari, da Deleuze, nel pensiero di Nietzsche: quello di volontà di potenza (genealogia, differenza) e quello dell’eterno ritorno (distanza, ripetizione).

Nietzsche, e con lui Deleuze, parla di genealogia dei valori, non del valore. La volontà di potenza opera con forze molteplici e in maniera pluralistica, cioè producendo, creando, una pluralità di valori che, presentandosi nelle loro «maschere» nella storia della civiltà, devono essere «smascherati» e riportati, con il metodo genealogico, alla loro origine. Quella di Nietzsche, e di Deleuze, è una filosofia della volontà, ed è una filosofia che pone la differenza al posto della dialettica: «All'elemento speculativo della negazione, dell’opposizione o contraddizione, Nietzsche sostituisce l’elemento pratico della differenza, oggetto di affermazione e di godimento, tanto che si può parlare in tal senso di empirismo nietzscheano. [...] Il “si” di Nietzsche si contrappone al “no” dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche» (Ib., p. 39, dove l’ispirazione è chiaramente rivolta al Cosi parlò Zarathustra).

Deleuze sottolinea il carattere insieme antispeculativo e anticristiano (Dioniso o Zarathustra alternativi a Cristo) della filosofia della volontà e della differenza di Nietzsche, che trova il suo compimento nella tesi dell’eterno ritorno. Il quale, precisa Deleuze, «non è affatto un pensiero dell’identico ma, al contrario, è un pensiero sintetico, un pensiero deU’assolutamente differente che rivendica, al di fuori della scienza, un nuovo principio: il principio della riproduzione del diverso come tale, il principio della ripetizione della differenza» (Ib., p. 75; si ricordi che il titolo dell’opera del 1968 è Differenza e ripetizione).

La filosofia di Nietzsche, e di Deleuze che legge Nietzsche alla ricerca di una conferma delle sue esigenze di rinnovamento teorico contro il quadro filosofico di quegli anni, è quindi una filosofia della volontà e della differenza, della molteplicità e della genealogia. Una filosofia che dà molto spazio alla corporeità, alle forze, al movimento ininterrotto e privo di un piano, alla volontà intesa in senso plurale (se la si intende in senso monistico si cade nelle impasses di Schopenhauer, osserverà Deleuze sottolineando la differenza su questo punto tra Nietzsche e Schopenhauer, Ib., p. 110 sgg.). Come scrive lapidariamente il più attento studioso del

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pensiero di Deleuze e Guattari: «Nel descrivere il pensiero di Nietzsche Deleuze in larga parte caratterizza il suo proprio pensiero. Per Deleuze oltre che per Nietzsche, l’obiettivo della filosofia è l’affermazione della differenza come la caotica molteplicità del divenire del mondo» (R. Bogue, Deleuze and Guattari, Routledge, London, 1989, p. 32).

Lo stesso studioso, analizzando le due opere del 1968, Differenza e ripetizione, e del 1969, Logica del senso, mette in luce la continuità dell’ispirazione nietzscheana di Deleuze. Egli utilizza ampiamente, in queste opere, il concetto di «simulacro» in funzione critica verso Platone e Kant, oltre che quelli di «maschera» e di «evento» per cercare di arricchire il quadro della sua filosofia della differenza, volontaristica e pluralistica. Il simulacro non equivale né al modello né alla copia in senso platonico, ma rinvia alla precarietà dell’evento, della maschera, e quindi a quell’incessante divenire, molteplice e pluralistico, che costituisce lo sfondo della filosofia della differenza di Deleuze. Anche un riferimento ad alcuni concetti degli Stoici (in particolare quello di «incorporeo», che non significa immateriale, ma qualcosa che «qualifica» i corpi, per esempio il verde di un albero), soprattutto nella Logica del senso, serve a Deleuze ad approfondire e arricchire la sua filosofia della differenza.

1178. Deleuze e Guattari: da «Anti-Edipo» a «Mille Piani» e oltre.

Quando Deleuze e Guattari si incontrano nel 1969 e decidono di mettersi a lavorare insieme, sul piano teorico, Deleuze ha già elaborato da tempo la sua filosofia della differenza di orientamento nietzscheano, mentre Guattari è alla ricerca di una posizione teorica che gli consenta di unificare i due filoni di pensiero e di attività pratica sui quali si è formato: il marxismo e la psicoanalisi. In questa ricerca, dopo molti anni di contatti e collaborazioni  con Lacan, Guattari ha già preso le distanze dal maestro, e ha già elaborato il concetto di «macchina desiderante» che, prospettato a Deleuze, consente ai due amici di trovare la soluzione teorica ricercata da Guattari. Una soluzione teorica che equivale ad una sorta di miscela Marx-Freud, opportunamente rivisitati e rivisti, nella quale la funzione di forza catalizzatrice è svolta dalla volontà di potenza di Nietzsche nella interpretazione e utilizzazione che abbiamo visto realizzate da Deleuze nel corso degli anni Sessanta.

Il risultato del lavoro in comune è il grosso volume Anti-Edipo, pubblicato nel 1972 e andato incontro a un successo immediato e molto vasto, cui succederà però un crescente declino d’interesse. E' un libro, come si è detto, di lettura molto difficile, per la compresenza e commistione di almeno tre linguaggi: quello nietzschiano, quello freudiano e lacaniano, quello marxiano, tutti e tre utilizzati in maniera molto eterodossa. Nelle intenzioni degli autori il volume costituisce la prima parte di un lavoro più ampio dal titolo Capitalismo e schizofrenia. La seconda parte, preceduta dalla pubblicazione nel 1977 di Rizomi. Introduzione, uscirà nel 1980 col titolo Mille Plateaux (vi compare come introduzione il saggio del 1977), ma non avrà il successo dell’opera del 1972.

L’operazione teorica realizzata da Deleuze e Guattari (tra i due, ovviamente, è Deleuze il più esperto di cose teoriche) viene descritta con efficacia da V. Descombes, l’autore, già citato, della più attendibile e approfondita ricostruzione della filosofia francese recente: «Se Deleuze è riuscito nel 1972 a fare quello che tutti cercavano vanamente di realizzare - la sintesi freudo-marxista -, è per aver adottato uno stile irrispettoso, in virtù del quale la sua sintesi, in

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fin dei conti, non è né freudiana né marxista. Deleuze si è reso conto che era necessario far urtare un po’ marxismo e freudismo per cavarne qualche cosa. Il vocabolario dell’Anti-Edipo è ora marxista, ora freudiano, ma il filo conduttore, dall’inizio alla fine, è nietzschiano. Per un marxista, le parole che compongono i discorsi umani non hanno mai l’ultima parola: bisogna collocare quei discorsi nei rapporti di produzione in maniera da individuarne la “posizione di classe”. L’opposizione decisiva è dunque quella della produzione e della ideologia. Per un freudiano, la coscienza non è un testimonio degno di fede, è inutile domandarle il senso di tale gesto o di tale parola dell’individuo, giacché il gioco delle rappresentazioni coscienti è comandato, dall’esterno, da un desiderio inconscio. Si ha dunque una opposizione della coscienza e del desiderio. Se ora si traducono queste due “critiche della coscienza” nel linguaggio di Schopenhauer e di Nietzsche, si ottiene una “economia generale” nella quale si conciliano l’economia politica di Marx e l’economia libidinale di Freud» (V. Descombes, Le même et l'autre, cit., p. 202). 

Il linguaggio di Nietzsche (e di Schopenhauer) prospetta da una parte la volontà (per Nietzsche la volontà di potenza), dall’altra la rappresentazione (per Nietzsche le maschere che nascondono i prodotti di quella volontà); quello di Marx prospetta da una parte la produzione, dall’altra l’ideologia; quello di Freud prospetta da una parte il desiderio inconscio, dall’altra la coscienza.

Se mettiamo insieme i concetti dei tre «maestri del sospetto» seguendo l’ordine (da una parte e dall’altra), troviamo da un lato la volontà (di potenza), la produzione economica, il desiderio inconscio, cioè quell’insieme di pulsioni fondamentali riassunte da Deleuze e Guattari nel concetto di «macchina desiderante»; dall’altro lato troviamo la rappresentazione, l’ideologia, la coscienza, e cioè quell’insieme di impedimenti che nascondono, frenano, ostacolano ed opprimono il «desiderio produttivo» delle volontà di potenza al quale si riferiscono continuamente nella loro opera Deleuze e Guattari.

Le macchine desideranti, i desideri produttivi, vengono trattati, dai due autori, come pulsioni che hanno la loro sede naturale di origine non nella famiglia, come voleva Freud (da qui il titolo Anti-Edipo), ma nella società. E' in questa sfera, e non in quella della famiglia, che bisogna cercare il fondamento della produzione desiderante, e tale fondamento va individuato non più nell’ago cosciente e nevrotico ma nell'inconscio e schizofrenico. Deleuze e Guattari propongono pertanto di sostituire la psicoanalisi, che privilegia la sfera dell’ego e delle nevrosi, con la schizoanalisi, che privilegia invece la sfera dell’id e della schizofrenia. «La schizofrenia - scrivono i due - è l’universo delle macchine desideranti produttrici e riproduttrici, l’universale produzione primaria come “realtà essenziale dell’uomo e della natura”» (Anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975, p. 7).

Al concetto di id schizofrenico e inconscio Deleuze e Guattari associano i concetti di «corpo senza organi» e di «pensiero nomade», che stanno a indicare il carattere non personale, infra-individualistico, delle macchine desideranti, le quali operano in un mondo che appare come un caos in incessante movimento (c’è un’eco delle teorie nietzschiane del divenire e dell’eterno ritorno). L’opera è fitta di concetti e termini coniati con una sfrenatezza linguistica senza limiti, cosa che ha prodotto una moda intellettuale, nei primi anni Settanta, fortunatamente abbastanza effimera.

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Deleuze e Guattari hanno riprovato con il libro del 1980 Mille piani a rilanciare la loro schizoanalisi o nomadologia (teoria del pensiero nomade), anche questa volta impegnandosi in una sfrenatezza linguistico-concettuale che ha però avuto meno successo di quella dell'Anti-Edipo. Ai sistemi «centrati» i due autori contrappongono i sistemi «acentrati», all’albero contrappongono il rizoma (forse l’unico termine e concetto che ha avuto un qualche successo in quegli anni), alla psicoanalisi contrappongono ancora la schizoanalisi.

Di qualche interesse, in un’opera per buona parte incomprensibile, appare la contrapposizione albero-rizoma, che in maniera suggestiva riprende una tesi non nuova, anch’essa presente in Nietzsche (e con formulazioni e intenti differenti in Heidegger), sulla contrapposizione tra pensiero sistematico e pensiero libero, tra pensiero dogmatico e pensiero nomade, tra Occidente e Oriente. Deleuze e Guattari vedono dappertutto le ragioni di questa contrapposizione. Scrivono per esempio, nel saggio sul rizoma: «E' curioso come l’albero abbia dominato la realtà occidentale e tutto il pensiero occidentale, dalla botanica alla biologia, l’anatomia, ma anche la gnoseologia, la teologia, l’ontologia, tutta la filosofia [...]: il fondamento-radice, Grund, roots, foundations. L’Occidente ha un rapporto privilegiato con la foresta, e con il disboscamento. [...] L’Oriente presenta un’altra figura: il rapporto con la steppa e il giardino (in altri casi, il deserto e l’oasi), piuttosto che con la foresta e il campo; una cultura di tubercoli che procede per frammentazione dell’individuo» (Mille plateaux. Les Editions de Minuit, Paris, 1980, pp. 27-28).

Ancora, in contrapposizione al carattere individualizzante della cultura occidentale dell’albero, «riassumiamo i caratteri principali di un rizoma: a differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma connette un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente ad altri tratti della stessa natura; esso mette in gioco dei regimi di segni molto differenti e anche degli stati di non-segni. Il rizoma non si lascia ricondurre né all’Uno né al molteplice. [...] Non è fatto di unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni mobili. Non ha inizio né fine, ma sempre un mezzo, dal quale germoglia e deborda» (Ib., p. 31). Un rizoma, scrivono più avanti, spiegando cosi il titolo del libro, «è fatto di piani», e «un piano è sempre nel mezzo, né inizio né fine» (Ib., p. 32). E ancora: «noi chiamiamo “piano” [plateau] qualsiasi molteplicità che si possa connettere con altre per mezzo di steli sotterranei superficiali, in maniera da formare ed estendere un rizoma. Noi scriviamo questo libro come un rizoma. L’abbiamo composto di piani. Gli abbiamo dato una forma circolare, ma era per ridere. Ogni mattina ci alzavamo, e ciascuno di noi si domandava quale piano doveva prendere, scrivendo cinque righe qui, dieci li.[...] Ogni piano può essere letto non importa a quale posto, e messo in rapporto non importa con quale altro» (Ib., p. 33).

Il libro è non solo, o non più, la teorizzazione, ma anche la messa in pratica di quello che gli autori definiscono il pensiero nomade, una nomadologia che si contrappone alla storia, per il suo carattere aperto, circolare, caotico, senza inizio né fine (ancora l’eterno ritorno di Nietzsche? o anche la danza dionisiaca di Zarathustra?).

Una rimeditazione sui temi del caos, del rizoma, del pensiero nomade, senza inizio né fine, viene effettuata da Deleuze e Guattari nel libro del 1991 Qu’est-ce que la philosophie?

I due autori sembrano essersi un po’ ravveduti, e non inneggiano più al caos. Guardano

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semmai a quelle attività umane che cercano di realizzare «un poco d’ordine per proteggerci dal caos» (Les Editions de Minuit, Paris, 1991, p. 189). Sono le attività tramite le quali ci formiamo delle «opinioni», le quali funzionano «come una sorta di ombrello che ci protegge dal caos» (Ib., p. 190).

Tra queste attività si distinguono l’arte, la scienza e la filosofia, che esigono qualcosa di più: «esse tracciano dei piani sul caos», ci fanno entrare in contatto con il caos, ci fanno tuffare dentro. Con una simmetria triadica che ha il sapore di un gioco di parole, Deleuze e Guattari affermano che «il filosofo, lo scienziato, l’artista, sembrano ritornare dal paese dei morti. Quel che il filosofo riporta dal caos sono delle variazioni che restano infinite, ma divenute inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d’immanenza secante. [...] Lo scienziato riporta dal caos delle variabili divenute indipendenti. [...] L’artista riporta dal caos delle varietà che non costituiscono più una riproduzione del sensibile nell’organo, ma erigono un essere del sensibile, un essere della sensazione» (Ib., p. 190).

Filosofia, scienza, arte, cercano di vincere il caos tracciando piani secanti che lo attraversino, producendo «caoidi». Per esempio, «l’arte prende un pezzo di caos in un quadro, per formare un caos composto che diventa sensibile, o da cui ricava una sensazione caoide in quanto varietà; ma la scienza ne prende uno in un sistema di coordinate, e forma un caos riferito che diventa Natura, e da cui ricava una funzione aleatoria e delle variabili caoidi» ((Ib., p. 194). La filosofia, scrivono più avanti, produce invece le variazioni concettuali, nel senso che «a sua volta lotta contro il caos quale abisso indifferenziato o oceano di dissomiglianza» e produce concetti (variazioni caoidi) che non vanno assimilati alle opinioni (lb , p. 195). Un concetto, infatti, «è uno stato caoide per eccellenza; esso rinvia a un caos reso consistente, divenuto Pensiero, caosmo [caos e cosmo insieme] mentale. E che cosa sarebbe il pensare se non si misurasse incessantemente con il caos?», (Ib., p. 196).

E per concludere: «II caos ha tre figlie secondo il piano che lo ritaglia: esse sono le Caoidi, l’arte, la scienza e la filosofia, come forme del pensiero o della creazione. Si chiamano caoidi le realtà prodotte sui piani che ritagliano il caos. La giuntura (e non l’unità) dei tre piani è il cervello» db). 

Deleuze e Guattari in questo modo cercano di dare una qualche apparenza di «ordine» nel «disordine» di fondo costituito dal caos entro il quale tutti noi, macchine desideranti, operiamo in quella economia libidinale caratterizzata dal comportamento schizofrenico (lacerazione tra gli impulsi e il quadro sociale in cui vengono frenati). La filosofia, la scienza, l'arte, ritagliano nel e dal caos quei piani - o caoidi - che ci consentono di aprirci al caos senza sprofondarvi. Il pensiero rimane nomade, ma gli accampamenti volta a volta stabiliti, tramite la filosofia, la scienza e l’arte, nell’ultima opera di Deleuze e Guattari sembrano promettere una più lunga permanenza, nel territorio scelto, rispetto a quella dei Mille piani.

INDICE DEL VOLUME

CAPITOLO XIII. Rosenzweig: distruzione e ricostruzione della totalità

di Giovanni Fornero

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1063. Vita e opere

1064. Dagli studi su Hegel alla « Stella»

1065. La paura della morte e il fallimento della filosofia «dalla Jonia a Jena»

1066. La trama dell'essere e la verità come compito

Nota bibliografica

CAPITOLO XIV. Walter Benjamin tra ebraismo e marxismo

di Franco Restaino

1067. Un itinerario filosofico complesso

l 068. Fra cabbala e Bibbia: lingua, nomi, cose, Dio

1069. Dalla cabbala al platonismo: lingua, idee, verità

1070. La fase marxista : arte, tecnica , masse, politica 9

1071. Le «Tesi di filosofia della storia»: tra ebraismo e marxismo

Nota bibliografica

CAPITOLO XV. Buber: la filosofia relazionale e dialogica

di Giovanni Fornero

1072. Vita e opere

1073. Ebraismo, hassidismo e filosofia

1074. L'Io e il Tu

1075. L'«eclissi» di Dio come risposta alla «morte» di Dio

Nota bibliografica

CAPITOLO XVI. Simone Weil: impegno e ascesi

di Franco Restaino

1076. L'imperativo categorico in gonnella

1077. Il primato del lavoro manuale e dell'individuo libero

1078. I «Quaderni» (1941-1942): filosofia, religione, esistenza

Nota bibliografica

CAPITOLO XVII . Hannah Arendt: «vita activa» e «vita contemplativa»

di Franco Restaino

1079. Formazione, interessi, opere

1080. Il totalitarismo e i suoi caratteri

1081. «Vira activa»: animal laborans, homo faber, zoon politikòn

1082. «Vita contemplativa» : pensare, volere, giudicare

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Nota bibliografica

CAPITOLO XVIII . Schmitt: le categorie del «politico»

di Giovanni Fornero

1083. Vita e opere. Dalla demonizzazione alla odierna rivalutazione

1084. La critica del normativismo e la teologia politica

1085. La teoria generale del «politico» e la dottrina dei «centri di riferimento

1086. Dalla dottrina della costituzione alla teoria delle «rivoluzioni spaziali»

1087. Il nomos della terra e la crisi dello «Ius Publicum Europaeum»

No!i bibliografica

CAPITOLO XIX. Metodologia delle scienze sociali e teoria della politica nella scuola

marginalista austriaca

di Dario Anriseri

Cari Menger: la genesi inintenzionale delle istituzioni

1088. Menger: la vita e le opere

1089. Menger : da che cosa dipende il valore di una merce?

1090. Menger : l'individualismo metodologico e il compito delle scienze sociali

1091. Menger: la genesi ininteozionale della moneta

1092. Menger: istituzioni sociali sorte per via irriflessa e spiegabili in termini

individualistici

1093. Menger: il primato del teorico

1094. Menger: la filosofia della storia non è teoria economica

Ludwig von Mises: l'impraticabilità del socialismo

1095. Von Mises: la vita e le opere

1096. Von Mises: la prasseologia come scienza a priori

1097. Von Mises: l'azione umana è sempre razionale

1098. Von Mises: teoremi fondamentali della prasseologia

1099. Von Mises: difesa dell'individualismo metodologico e critica della

mitologia collettivistica

1100. Von Mises: capitalismo e calcolo economico

1101. Von Mises: l'impossibilità del calcolo economico in una società socialista

1102. Von Mises: economia di mercato come democrazia economica

1103. Von Mises: una fondazione economica dello «Stato di diritto »

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1104. Von Mises: economia di mercato e cristianesimo

Friedrich August von Hayek: dalla democrazia alla demarchia

1105. Von Hayek: la vita e le opere

1106. Von Hayek: difesa dell' individualismo metodologico e critica del

collettivismo metodologico

1107. Von Hayek: la scoperta di Bernard Mandeville; la critica del

costruttivismo; l'autonomia e il compito delle scienze sociali

1108. Von Hayek: l'uso della conoscenza nella società e il sistema dei prezzi

come sistema di comunicazione

1109. Von Hayek: la concorrenza come procedura per la scoperta del nuovo

1110. Von Hayek: critica dello scientismo

1111. Von Hayek: la presunzione fatale

1112. Von Hayek: processo allo storicismo

1113. Von Hayek: la via della schiavitù

1114. Von Hayek: la sovranità della legge come garanzia della libertà individuale

1115. Von Hayek : la libertà poggia sulla nostra ignoranza

1116. Von Hayek : i fondamenti della società libera

1117. Von Hayek: cosmos e taxis

1118. Von Hayek : il miraggio della giustizia sociale e il declino della fede

nella democrazia

1119. Von Hayek : le funzioni dello Stato e la protezione dei più deboli

1120. Von Hayek : la proposta della demarchia

Nota bibliografica

CAPITOLO XX. La riabilitazione della filosofia pratica in Germania e il dibattito fra

«neoaristotelici» e «postkantiani»

di Giovanni Fornero

1121. La tradizione della filosofia pratica e la sua crisi

1122. La riabilitazione della filosofia pratica: caratteri e presupposti generali

1123. Il neoaristotelismo pratico

1124. Bubner : azione, ethos e filosofia

1125. Il postkantismo e la disputa fra contestualisti ed universalisti

Nota bibliografica

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CAPITOLO XXI. Apel : l'etica della comunicazione e la fondazione razionale di una

macroetica universalistica della co-responsabilità

di Giovanni Fornero

1126. Vita e opere

1127. Il motivo della «fondazione ultima» e la polemica contro le tendenze

antifondative della filosofia contemporanea

1128. La «trasformazione semiotica del kantismo» e l'incontro fra la tradizione

anglosassone e quella continentale

1129. La semiotica trascendentale e i presupposti dell'argomentazione

1130. Dalle morali tradizionali alla «macroetica planetaria»

Nota bibliografica

CAPITOLO XXII. Lévinas: dal medesimo all 'altro. L 'etica come filosofia prima

di Giovanni Fornero

1131. Vita e opere

1132. Verso la filosofia dell'alterità

1133. Totalità e infinito. Dall'ontologia all'etica

1134. La «responsabilità» per altri, la «giustizia» e «l'altrimenti che essere»

1135. Etica e religione. L'ideale di una fede aperta al prossimo e liberata dai miti

Nota bibliografica

CAPITOLO XXIII . Chaim Perelman e la nuova retorica

di Dario Antiseri

1136. Vita e opere

1137. L'oratore e il suo uditorio

1138. Fatti , verità e presunzioni

1139. Valori, gerarchie, luoghi del preferibile

1140. Scelta, presenza e adattamento dei dati nel discorso argomentativo

1141. L'interpretazione dei dati

1142. Ampiezza e forza degli argomenti

1143. La teoria dell'argomentazione : tra la presunta verità assoluta dei dogmatici

e la non-verità degli scettici

Nota bibliografica

CAPITOLO XXIV . Nelson Goodman : il «nuovo enigma» dell'induzione e l'arte come

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conoscenza

di Dario Antiseri

1144. Vita e opere

1145. Sistemi «costituzionali» fondabili su molte basi

1146. Il nominalismo metodologico

1147. Il «grande problema» dei controfattuali

1148. Controfattuali, leggi causali e fatti casuali

1149. Il «nuovo enigma» dell'induzione

1150. Proiettabi lità dei predicati trincerati

1151. Qual è il modo di essere del mondo?

1152. Fabbricare mondi

1153. Arte come conoscenza

1154. Perché non regge la «dispotica dicotomia» tra cognitivo

ed emotivo

1155. I sintomi dell'estetico

Nota bibliografica

CAPITOLO XXV. Chomsky , Kripke , Putnam: linguaggio, logica, filosofia

di Franco Restaino

1156. Tre pensatori ebrei innovatori

1157. Chomsky: dalla rivoluzione linguistica alla filosofia del linguaggio

1158. Chomsky: il linguaggio? Ma è innato!

1159. Kripke: logica modale e mondi possibili

1160. Putnam : verso un realismo dal volto umano

1161. Pmnam: convergenza di razionalità , verità e bene

Nota bibliografica

CAPITOLO XXVI. li razionalismo pancritico di W. W. Bartley III

di Dario Antiseri

1162. Vita e opere

1163. Un irrazionalista quanto più possibile razionale: Karl Barth

1164. L'argomento de.I «tu quoque

1165. Il fallimento del panrazionalismo e del razionalismo critico

1166. La struttura autoritaria del pensiero occidentale

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116 7. Il razionalismo pancritico

1168. Quando criticare significa giustificare

1169. Criticare non è giustificare

1170. Gli strumenti della critica

1171. La funzione della logica

1172. Ecologia della razionalità : come demarcare un'idea buona da una

cattiva

Nota bibliografica

CAPITOLO XXVII. Gehlen: antropologia, filosofia della tecnica e teoria delle istituzioni

di Giovanni Fornero

1173. Vita, opere e interessi culturali

1174. L'uomo e il suo posto nel mondo

1175. Il mondo della tecnica e delle istituzioni

Nota bibliografica

CAPITOLO XXVIII. G. Deleuze e F. Guattari: pensiero nomademe schizoanalisi

di Franco Restaino

1176. Deleuze e Guattari . Una nuova triade per la filosofia francese: Nietzsche,

Marx, Freud

1177. Deleuze: ripensare Nietzsche

1178. Deleuze e Guattari : da «Anti -Edipo» a «Mille piani» e oltre

Nota bibliografica