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1 Il visibile e l’invisibile Viadellebelledonne, n.4 - luglio 2009

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Il visibile e l’invisibile Viadellebelledonne, n.4 - luglio 2009

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Il visibile e l’invisibile

Editoriale a cura di Alessandra Pigliaru

Voici mon secret.

Il est très simple: on ne voit bien qu'avec le coeur.

L'essentiel est invisible pour les yeux

[Antoine de Saint-Exupéry]

Aprire gli occhi sul reale. Aguzzare la vista. Rendersi conto di ciò che accade. Afferrare il visibile nell’intermittenza dell’occhio. Questi, in pochi passi, gli elementi della forma originaria del vedere che equivale al conoscere le vestigia di ciò che è. La storia della vista attraversa tutto il pensiero occidentale. E potremmo dire che diventa metafora solo in epoca tarda; cioè a dire che necessita di un radicamento fuori di essa nel momento in cui alla vista appartiene anche l’oggetto esterno, nel momento cioè che la vista non basta più a se stessa ma si relaziona alle cose del mondo. L’atto dell’aprire gli occhi è come tornare ogni volta alla luce per la prima volta. È esattamente un venire fuori dal buio della dimenticanza che fa nido nella palpebra. L’atto di aprire gli occhi è, prima che un imperativo di carattere etico, un moto involontario dell’occhio che si fonda potremmo dire ontologicamente ancor prima che nella prassi. Un moto che conseguentemente ha in sé la conoscenza e dunque si direziona alle cose. Le cose che si danno alla vista sono quelle conosciute? Davvero vedere corrisponde ad assimilare, oppure il senso che si deve sviluppare è un altro? Democrito si accecò per poter “vedere” meglio, poiché la percezione delle mortali cose del mondo nulla aggiungeva alla sua sete di conoscenza del bene e del male. Tiresia perde la vista, scorge l’inaudito corpo di Atena e si acceca. Cassandra no. Cassandra è veggente e rimane con la vista intatta. L’atto di aprire gli occhi e la sospensione tra presente e futuro è concessa solo a lei. Una rinuncia al mondo per poterlo immaginare oppure una procurata cecità che sviluppa la conoscenza per immagini? Nella storia del pensiero si scorgono diverse parabole del vedere come equivalente al conoscere e della cecità come rinuncia alla ragione. Ma se ci serviamo del vedere come di quella nitida capacità che ci consente di saltare nell’ulteriorità dell’invisibile, afferrando la trasformazione degli eventi come un naturale ciclo del transeunte, allora, e solo allora, potremmo parlare di ciò che è manifesto. Si tratta di attenzione. Il nascondimento abita un territorio frastagliato di residui che si sottraggono alla vista ordinaria e che necessitano dell’ascolto e della tregua della ragione. Sono gli oggetti del desiderio, quelli che non si palesano ma che parlano di noi. In ogni istante, consumati nel presente, tra visibile invisibile, attraverso il termine medio, attraverso il terzo. Tra ciò che vediamo e quello che ci attende dietro la soglia.

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Nel quarto numero di Viadellebelledonne, il tema proposto è stato scandagliato in ogni suo aspetto: per ritrovare di nuovo una forma omogenea. In apertura, nelle Strettoie, incontriamo la riflessione profonda e singolare di Tommaso Ariemma intorno a Peter Sloterdijk, filosofo polimorfo che viene ricordato per la concettualizzazione della sfera. Andrea Ponso raccoglie alcune puntuali considerazioni tra estetica e teologia passando per la vertigine dello smembramento del logos, arrivando alla lacerante preparazione e abitudine all’umano. Andrea Oppo si sofferma sulla figura e il ruolo di Sesto Empirico; i suoi dubbi miravano a restituire la presenza di un luogo in ombra, ovvero quell’invisibile che non si conosce. Ilaria Ciancilla discerne Sequela di Dietrich Bonhoeffer, individuandone i nodi tematici per approdare alla difficile conciliabilità tra visibile e invisibile. Balaustre ospita il denso saggio di Gianluca Pulsoni sul cinema di Isabella Sandri e Giuseppe M. Gaudino; un lavoro che si spiega attraverso l’urgenza, tra visibile invisibile, dell’immagine e la sperimentazione del linguaggio filmico. Giulia Sini approfondisce, nel suo affascinante contributo, l’opera-luogo originata dell’artista californiano Peter Erskine, il creatore dell’Arte solare ambientale attraverso il suo SOS. Matteo Boscarol presenta un lavoro originale e cangiante riferendosi alle animazioni di due artisti rappresentativi del panorama nipponico, Oshii Mamoru e Yuasa Masaaki, tra dimenticanza e Mundus Imaginalis. Nei Pianerottoli leggiamo gli scritti di Jean François Millet, scelti e tradotti da Lucetta Frisa; si tratta di appunti sul concetto dell’arte e della pittura corredate con delle lettere a Théophile Thoré. Paolo Zardi riflette sagacemente sugli aspetti della comunicazione per tracciare i contorni della “donna invisibile” circa l’aderenza o meno rispetto al vincolo della narrazione occidentale e alle basi scientifiche. Maria Antonietta Pinna getta uno sguardo autentico ed efficace intorno alle pratiche magico-superstiziose e i concretismi pagano-cristiani della terra d’Ichnussa, dal gatto nero di Edgar Allan Poe alle surbiles logudoresi. Nelle Finestre, troviamo le due letture di Maria Gisella Catuogno e Marta Ajò. La prima si concentra su Charles Baudelaire e Le fleurs du mal, mentre la seconda tratteggia l’interessante volume di Michael Greenberg sulla vicenda invisibile e dolorosa della figlia Sally. La rubrica di racconti Random , a cura di Morena Fanti, raccoglie tre voci femminili che sottolineano, attraverso i loro lavori, quanto sia ancora difficile sopravvivere in una società di tipo maschile. Le tre autrici invitate sono Virginia Foderaro, Simona Lo Iacono e Silvia Leonardi. Nei Camminamenti incontriamo Salvatore Jemma e le sue articolate e ampie riflessioni circa la trasformazione della cultura e la cosiddetta generazione [dell’] invisibile. Morena Fanti, servendosi di alcune interviste, cuce un intervento al confine tra giornalismo e scrittura creativa. I Ponteggi si aprono a due contributi impegnativi: si di Aleth Messina, che si interroga sulla tradizione ebraica ponendo l’accento fra l’amore quale elemento visibile fra uomo e donna e lo stesso amore che è elemento invisibile che unisce gli innamorati a Dio; il secondo è l’ incantevole saggio di Antonio Di Giorgio sul creatore di tutte le cose visibili e invisibili in una lettura storico-teologica. Giardini, la rubrica di Francesco Marotta, che chiude il quarto numero di Viadellebelledonne, è dedicata interamente a tre splendide antologie potiche: Alessandro Ghignoli, Antonella Bukovaz e Ivan Crico.

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SOMMARIO

Viadellebelledonne, n.4 - luglio 2009

Il visibile e l'invisibile

editoriale a cura di Alessandra Pigliaru

STRETTOIE

- Tommaso Ariemma, Ad occhio nudo. Note su Sloterdijk e sulla commozione pittorica

- Andrea Ponso, Visibile/Invisibile. Appunti tra estetica e teologia

- Andrea Oppo, I dubbi di Sesto Empirico

- Ilaria Ciancilla, Sequela,un tentativo non riuscito di conciliare invisibile e visibile

BALAUSTRE

- Gianluca Pulsoni, Il visibile e l’invisibile: appunti sul cinema di G. M. Gaudino e Isabella Sandri

- Giulia Sini, Secrets of the sun. SOS

- Matteo Boscarol, Visibile/Invisibile Animazione

PIANEROTTOLI

- Lucetta Frisa, Scritti scelti e inediti di Jean François Millet

- Paolo Zardi, La donna invisibile

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- Maria Antonietta Pinna, Superstizioni ed entità mostruose: Ichnussa e la poetica dell’oltre invisibile, dal gatto nero di Edgar Allan Poe alle surbiles logudoresi.

FINESTRE

- Maria Gisella Catuogno, Il visibile e l’invisibile in alcune poesie di Charles Baudelaire

- Marta Ajò, Michael Greenberg. Il giorno in cui mia figlia impazzì

Random (rubrica a cura di Morena Fanti)

- Virginia Foderaro, Mario Corso

- Simona Lo Iacono, L’occasione

- Silvia Leonardi, Una volta sola

CAMMINAMENTI

- Salvatore Jemma, La generazione [dell’] invisibile

- Morena Fanti, Lo sguardo oltre il colle. Confine tra giornalismo e scrittura creativa

PONTEGGI

- Aleth Messina, Il fiume Kevar il fiume del Già, elemento d’amore e di rivelazione

- Antonio Di Giorgio, “…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…”

GIARDINI

(rubrica a cura di Francesco Marotta)

- Alessandro Ghignoli. Tristizia

- Antonella Bukovaz, Poesie inedite

- Ivan Crico, Poesie inedite

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Gli autori, gli artisti e i dialoganti che hanno collaborato a questo numero:

Antonella Pizzo, Tommaso Ariemma, Andrea Ponso, Andrea Oppo, Ilaria Ciancilla, Gianluca Pulsoni, Isabella Sandri, Giuseppe M. Gaudino, Giulia Sini, Peter Erskine, Matteo Boscarol, Lucetta Frisa, Paolo Zardi, Maria Antonietta Pinna, Maria Gisella Catuogno, Marta Ajò, Morena Fanti, Virginia Foderaro, Simona Lo Iacono, Silvia Leonardi, Salvatore Jemma, Salvo Zappulla, Massimo Maugeri, Enrico Gregori, Nicola Amato, Luisa Ruggio, Valerio Varesi, Remo Bassini, Salvatore Spoto, Aleth Messina, Antonio Di Giorgio, Francesco Marotta, Alessandro Ghignoli, Antonella Bukovaz, Ivan Crico

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(foto Paola Pluchino)

STRETTOIE

- Tommaso Ariemma, Ad occhio nudo. Note su Sloterdijk e sulla commozione pittorica - Andrea Ponso, Visibile/Invisibile. Appunti tra estetica e teologia - Andrea Oppo, I dubbi di Sesto Empirico - Ilaria Ciancilla, Sequela,un tentativo non riuscito di conciliare invisibile e visibile

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STRETTOIE

Ad occhio nudo. Note su Sloterdijk e sulla commozione pittorica

di Tommaso Ariemma

Ottiche occidentali

Peter Sloterdijk è un filosofo assai interessante. Il suo nome verrà ricordato per l’elaborazione del motivo concettuale di sfera, protagonista della trilogia che ripercorre la storia dell’umanità proprio a partire da questo concetto e pertanto intitolata Sfere. I tre volumi, pubblicati tra il 1998 e il 2004 e dedicati rispettivamente a una microsferologia, a una macrosferologia e a una sferologia plurale, intendono indagare la storia dell’uomo attraverso ciò che Sloterdijk, in un altro testo, chiama “il dramma silenzioso del suo creare spazi”[1].

La sfera è un dispositivo fondamentale attraverso il quale il genere umano regola la sua esposizione alle cose e controlla il loro farsi largo. Secondo il filosofo le sfere “hanno lo status di un’‘apertura mediana’, sono involucri di membrane tra l’interiorità e l’esteriorità e dunque media di tutti i media. […] lo sferico orienta l’originaria struttura ‘spaziale’ dei rapporti abitativi”[2].

L’uomo produce e abita delle sfere che, tuttavia, periodicamente vengono distrutte. E Sloterdijk, in questo caso, registra la loro distruzione e la loro ricostruzione, senza pensare fino in fondo il trauma che le espone, limitandosi a spiegarne la causa in un eccessivo raffinamento dell’interno che soccombe a un certo punto alla pressione dell’esterno.

Possiamo a questo punto affermare con certezza che Sloterdijk fornisce utili tasselli per quella che noi abbiamo chiamato “filosofia dell’esposizione”[3], anche se resta lontano dall’elaborarne consapevolmente una.

Il motivo concettuale della sfera è, tuttavia, a nostro parere privo di una indagine “archeologica”. Come si arriva al concetto di sfera? Sloterdijk dice che trae questo concetto dalla tradizione filosofica dell’antica Grecia e più o meno esplicitamente da Parmenide e da Platone[4]. Ammette di riprendere la poetica dello spazio di Gaston Bachelard, ovvero la sua fondamentale “fenomenologia del rotondo”, all’interno della quale pure giustamente si afferma che “la «sfera» di Parmenide ha conosciuto un destino troppo grande”[5].

Ma Sloterdijk dimentica che i greci erano tutt’occhi, perché, come ci ricorda Heidegger, concepivano il mondo a partire dall’occhio e dalla visione[6], e che pertanto un concetto come quello (greco) di sfera, come medium tra interno ed esterno, è ricavato solo da una riduttiva schematizzazione del dispositivo oculare. Per un greco stare nell’essere significa stare “entro” uno sguardo, prendere parte a una teoria (theorein in greco significa innanzitutto vedere). Non dunque un semplice guardare, quello di un greco come

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Parmenide, ma uno stare nello sguardo che l’essere è. Non ha altro senso la concezione della sfera di Parmenide: l’essere non è una cosa qualsiasi, ma ciò che ci permette innanzitutto di guardare. L’essere di cui parla Parmenide è sferico come un occhio e stare nell’essere significa stare in un’ottica. Il proemio del poema di Parmenide fa riferimento innanzitutto a un’esperienza visiva e le stesse due strade (quella della verità e dell’errore) più che sentieri da percorrere sono delle vere e proprie ottiche entro cui situarsi[7].

L’essere, pensato dalla nostra tradizione di pensiero, ha una natura fondamentalmente oculare. Lo stare al mondo dell’uomo occidentale è comprensibile solo come uno stare all’interno di una certa ottica o oculatezza. Da tali spazi “ottici” l’uomo lancia “occhiate”. Un buco in una serratura ad esempio: un posto da dove “spiare”. L’abitazione strutturata otticamente è anche una base di lancio, di penetrazione e di ispezione. E solo se si pensa fino in fondo l’applicazione dello “schema oculare” ai principali dispostivi elaborati dall’uomo (abitazioni, telescopi, macchine fotografiche, telecamere), si può comprendere quella, di volta in volta istituita, “ripartizione dell’esposizione”, che disloca interno ed esterno, intimo e superficiale, visibile e invisibile.

Cosa sono finestre, macchine fotografiche, telecamere, se non occhi, dispositivi oculari, che cioè dell’occhio hanno ereditato lo schema fondamentale?

Sartre "più di ogni altro" ha intuito questa “estensione” dell’occhio, e del suo essere medium e sostegno dello sguardo, quando ha scritto che, ad esempio, delle finestre di una fattoria e la fattoria stessa, per dei soldati che si aggirano nei paraggi, “Non rimandano mai agli occhi di carne della persona appostata dietro la tenda, dietro la finestra della fattoria: per sé sole, esse sono già degli occhi”[8].

Il dispositivo oculare viene, pertanto, prima della sfera, e addirittura la spiega, la chiarisce: perché, così come viene definita da Sloterdijk, la sfera è innanzitutto un dispositivo che regola interno ed esterno, ma anche e soprattutto visibile e invisibile.

L’occhio è il medium fondamentale, l’agente di scambio tra visibile e invisibile, ma non solo, non semplicemente. È innanzitutto un dispositivo di controllo molto efficace: con la pupilla regola la quantità di luce che entra, con la retina registra ciò che vede, con le palpebre può scegliere di interrompere drasticamente la visione etc. Non è solo uno strumento di osservazione, come potrebbe sembrare, ma un vero e proprio dispositivo di regolazione dell’esposizione.

L’uomo più che fabbricare sfere, come crede Sloterdijk, fabbrica qualcosa di molto simile all’occhio, e ne eredita il sistema di regolazione. Fabbrica e abita “ottiche”, ovvero dei punti vista, prospettive.

Un dato fenomeno può essere compreso in un’ottica o in un’altra, ovvero all’interno di una precisa ripartizione del visibile e dell’invisibile, all’interno del quale rientra ovviamente anche il pensabile.

L’occhio è sferico e la sfera è oculare. Le sfere di cui parla Sloterdijk, all’interno delle quali gli uomini vengono contenuti, sono dunque innanzitutto ottiche, punti di vista. Sloterdijk ha ragione a inserire il

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motivo filosofico della sfera all’interno di un approfondimento filosofico della concezione dello spazio. Tuttavia manca, all’interno della sua riflessione, l’adeguata presa in considerazione che l’organizzazione spaziale occidentale consiste in primo luogo in un’organizzazione ottica, ovvero in una precisa organizzazione estetica.

Solo se pensiamo tali spazi entro il primato dell’organizzazione ottica, può essere pensata anche la loro crisi. La verità del punto di vista, ovvero la sua nudità, si manifesterebbe, infatti, nel momento in cui l’occhio smette di vedere come sapeva di vedere. Perde la sua organizzazione ottica.

Jacques Derrida, che ha aperto certamente la strada a ogni teoria del lacrimare, come verità dell’occhio e del punto di vista[9], non ha pensato tuttavia in modo adeguato le implicazioni socio-antropologiche relative al modo di abitare il mondo, che l’organizzazione ottica comporta e che la commozione, pensata nel suo senso più ampio, apporta a tale organizzazione. Non ha pensato cioè alle estensioni del dispositivo ottico, come pure all’estensione della commozione, che riguarda, a questo punto, non solo il lacrimare dell’occhio, ma la crisi in cui può imbattersi ogni ottica.

Lacrime e pittura

La crisi del dispositivo ottico si anniderebbe, allora, nella commozione, ovvero in ciò che fa saltare ogni ripartizione tra interno ed esterno, visibile e invisibile. La commozione non è solo il lacrimare, ma ciò che accade nel lacrimare, ovvero un cambiamento improvviso nell’abitudine o in un sistema percettivo, come nel caso della cosiddetta “commozione celebrale”. La commozione tuttavia rinvia, principalmente, alla nudità del dispositivo oculare. Per cui ciò che temono tutti i sistemi di controllo dell’esposizione è una sorta di intenerimento, di permeabilità all’altro, con conseguente crisi della ripartizione del visibile e dell’invisibile.

La pittura sarà allora portatrice, più di ogni altra arte, del senso di questa irritazione dell’occhio e di ogni sistema oculare. Il suo stesso nome significa “tocco che penetra”. Il dipinto penetra nell’occhio e pertanto fa da “esemplare” per ogni commozione del dispositivo oculare. Lacan ha scritto su questo potere della pittura pagine importantissime[10].

Se i dispositivi che l’uomo crea per controllare l’esposizione hanno una effettiva discendenza nel dispositivo proprio dell’occhio, allora tutte le forme di resistenza a tale controllo dovranno ritrovare il loro motivo ispiratore nella pittura. La pittura è “irritazione” dell’occhio, la sua finalità è la commozione. Questo spiega come tutti i principali controlli dell’esposizione, teorici e procedurali, abbiamo sempre odiato la pittura e individuato in essa il germe di ogni rivolta all’ideale, ovvero alla chiusura verso l’altro[11].

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Per questo motivo, i dispositivi di controllo, che nei secoli si sono succeduti, si sono fatti carico dell’esposizione pittorica, fino a disinnescare, nell’epoca contemporanea, ogni potenziale commovente dell’esperienza dei dipinti. Le prime pagine dell’interessante studio di James Elkins, Dipinti e lacrime, denunciano così l’approdo “anestetico” del nostro tempo nei confronti della pittura:

Moltissimi di noi, penso, non hanno mai pianto di fronte a dipinti, e magari non hanno mai provato emozioni molto forti. I dipinti ci rendono felici, ci sorprendono. Certi sono piacevoli e rilassanti. I migliori sono splendidi, di incantevole bellezza – ma in realtà solo per qualche minuto, poi passiamo ad altro. La nostra incapacità di provare emozioni intense è affascinante. […] Per fortuna, non mancano le prove di forti risposte ai dipinti. Risulta che alcuni abbiano pianto davanti a immagini del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, ad altre del XVIII secolo e ancora nel XIX, ogni volta per ragioni diverse e di fronte a quadri diversi. Pochi secoli, si direbbe, sono stati tanto caparbiamente privi di lacrime come il nostro.[12]

La spiegazione del minimo coinvolgimento dinanzi alle opere pittoriche è celata in una sottile polizia estetica, ovvero nella vigilanza del nucleo sovversivo di ogni organizzazione ottica che ogni pittura porta con sé.

Polizia estetica

Nelle sue Dieci tesi sulla politica [13]il filosofo Jacques Rancière ha ribadito lo scopo fondamentale di ogni controllo poliziesco, ovvero di ogni esercizio di potere: la ripartizione della sensibilità e in particolare della visibilità.

Ogni polizia, ogni esercizio di potere, è allora essenzialmente una polizia estetica. Non dice il potente dinanzi al ribelle “Ti faccio vedere io adesso!”?.

Se, per quanto affermato precedentemente, ogni dispositivo di controllo dell’esposizione è, per lo più, un dispositivo oculare, l’azione che perturba un tale dispositivo è pertanto un’azione pittorica, che cioè conserva il senso della pittura. La polizia estetica sarà allora il controllo di ogni commozione pittorica, di ogni turbamento dell’organizzazione del visibile. A partire ovviamente dalla pittura in senso stretto, fino a giungere a ogni possibile estensione del suo senso. Esemplare è allora ciò che accade nei musei, come pure il fine occulto della storia dell’arte. Elkins attacca efficacemente entrambe le due istituzioni quando scrive a proposito di chi compila le targhette nei musei:

I musei d’arte insegnano agli spettatori a guardare senza troppo sentire. I musei contemporanei fanno fare la spola ai visitatori da un cartello all’altro, e dicono ben poco che sia atto a favorire genuini incontri con gli oggetti. L’incessante pressione di targhette, cataloghi, guide delle gallerie, audioguide e videotape trasforma i musei in scuole. […] I dipartimenti universitari di storia dell’arte e critica, dove vengono in gran parte formate le persone che compilano le targhette, contribuiscono a raggelare la pittura proponendo ai loro abbacinati studenti il sapere di civiltà del passato. […] L’ultima cosa di cui uno studente ha bisogno è di essere davvero coinvolto da un’opera, al punto da permetterle di insinuarglisi nel pensiero, spronando e stuzzicando le sue aspettative, cambiando il suo punto di vista,

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minandone le certezze, e addirittura influendo sul suo modo di pensare. Se viene loro concesso, i quadri posso far crollare le nostre certezze, scavare sotto la compiuta superficie di ciò che sappiamo, cominciare a sgretolare il nostro modo di sentire[14].

L’immagine non commuove più, o solo in rari casi. A provocare tale risultato è, in modo significativo, un dispositivo, come quello museale, che ripartisce il visibile e l’invisibile.

Tale dispositivo orienta verso ciò che si deve vedere e ciò che possiamo provare in relazione ad esso. Istituisce ciò che si deve vedere e ciò che bisogna pensare di conseguenza. Ripartizioni fatte anche e soprattutto di discorsi tanto eruditi quanto anestetizzanti. È la vigilanza che attualmente funziona meglio, perché non si lascia scoprire e per lo più si accetta passivamente. Qualcuno non esita a invocarla.

Nessuno sospetta adeguatamente delle targhette del museo o della storia dell’arte. Nessuno coglie la canalizzazione della nostra sensibilità sottesa a queste procedure. La nostra società non ne vuol sapere della verità dell’occhio, non ne vuole sapere della commozione. Ovvero di ciò che rompe ogni ripartizione tra visibile e invisibile, ogni opposizione tra esterno e interno.

Siamo la società che ha più protetto gli occhi, (occhiali da sole, lenti a contatto, liquidi speciali), come pure la società che ha maggiormente indirizzato e controllato lo sguardo. Come se a far problema nell’occhio fosse proprio la sua nudità. Perché il vedere può essere sia qualcosa che allontana, che tiene a distanza le cose proprio osservandole, sia la porta attraverso cui può passare qualsiasi cosa. La pittura sfrutterebbe tale apertura in cui potrebbe insinuarsi anche e soprattutto dell’invisibile e da cui potrebbe fuoriuscire ciò che si direbbe l’intimo. Le lacrime sono proprio quest’intimità che sgorga, l’invisibilità visibile.

[1] P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 125. [2] Ivi, p. 138. [3] Abbiamo finora articolato una tale filosofia in diversi articoli e in special modo nei seguenti volumi a cui rinviamo: Fenomenologia dell’estremo. Heidegger, Rilke, Cézanne, Mimesis, Milano 2005; Il nudo e l’animale. Filosofia dell’esposizione, Editori Riuniti, Roma 2006, Il senso del nudo, Mimesis, Milano 2007, L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura, ombre corte, Verona 2009, Logica della singolarità. Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy, Aracne 2009. [4]Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2009, pp. 69-71. [5] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006, p. 270. [6] Cfr. M. Heidegger, Parmenide, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 258.

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[7] Il solo ad essersi avvicinato a questo concetto greco dell’essere è stato Kant, quando, a proposito delle categorie, ne ha parlato come di “lenti colorate” attraverso le quali guardiamo la realtà. Ma si è avvicinato anche Nietzsche con il suo “prospettivismo”. [8] J. P. Sartre, L’essere il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 304. [9] Cfr, in particolare Memorie di cieco, a cura di F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003. [10] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003. [11] È questa una delle tesi principali del nostro L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura, cit. . [12] J. Elkins, Dipinti e lacrime, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. VII e VIII. [13] Cfr. J. Rancière, Dieci tesi sulla politica, in “La Rosa di Nessuno”, 3 (2008), pp. 157-167. [14] J. Elkins, Dipinti e lacrime, cit., pp. 220-222.

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Tommaso Ariemma, dottore di ricerca in filosofia, insegna attualmente Estetica presso l'Accademia di Belle Arti di Lecce. Le sue ricerche riguardano l'articolazione di una filosofia dell'esposizione. Ha tradotto e curato testi di Badiou, Nancy, Derrida, Baudrillard. Ha pubblicato i volumi: Fenomenologia dell'estremo. Heidegger, Rilke, Cézanne (Mimesis 2005), Il nudo e l'animale. Filosofia dell'esposizione (Editori Riuniti 2006), Il senso del nudo (Mimesis 2007), L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura (ombre corte 2009), Logica della singolarità. Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy (Aracne 2009). È redattore della rivista on-line Kainos.

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STRETTOIE

VISIBILE/INVISIBILE. APPUNTI TRA ESTETICA E TEOLOGIA

di Andrea Ponso

L’invisibile potrebbe essere declinato come il luogo salvifico della disattenzione. Quando Benjamin parlava dell’attenzione come la forma più alta di preghiera forse, molto probabilmente, si riferiva a questo; o, meglio, questa è la forza residua che scaturisce dal frammento benjaminiano nel nostro tempo, del tutto coerente, credo, con l’idea appunto attivante e semiogenetica nel tempo, che del frammento il pensatore aveva in mente.

In un tempo in cui l’informazione e il “tempo reale” dell’immagine coprono con la loro palta luminosa e accecante, invischiante, qualsiasi spazio, offuscando qualsiasi specchio degno di fornire riflessione, la disattenzione è forse la pratica estetico-teologica più necessaria. Da questo punto di vista, allora, sarebbero certo da ripensare in maniera nuova e al tempo stesso forse antichissima, alcuni passaggi delle Scritture, tra i quali Giovanni 9, 41 e naturalmente 1Cor 13, 12.

Nel campo dell’estetica si dovrebbe procedere nella direzione di un auto-accecamento volontario che potrebbe avere la forma di una ossessione monomaniaca: guardare fino allo sfinimento un unico punto, fino a sprigionarne la nausea della coazione a ripetere, per lasciare poi fluire, liberi dal nostro controllo, tutti i punti che lo eccedono, come la brezza fresca della rosa dei venti; qualcosa che ci liberi dall’essere crocefissi al nostro essere solo noi stessi (Pessoa); lo stesso male del libro di Giobbe è il cambiamento di una modalità troppo ristretta del vedere perché, come sappiamo, il dolore rende fino ad un certo punto ciechi, cioè chiusi e concentrati nella nostra sventura: non una parola, infatti, nelle lamentazioni dell’uomo Giobbe, sulla perdita dei suoi cari, dopo che è stato colpito nelle ossa e nella carne; ma, in un altro piano, è parimenti da questo accecamento che il protagonista in qualche modo vede e comprende la sua posizione, in quel rumore assordante del corpo in distruzione, in quella morsa che lo prende fino al midollo. E cosa vede? Non vede quello che l’esegesi corrente vorrebbe farci vedere: non c’è una svalutazione delle possibili risposte alla tremenda domanda di Giobbe, ma piuttosto un’apertura che tiene conto narrativamente di tutte le possibili risposte, senza tuttavia decidersi per nessuna: l’Altissimo entra in campo con la sua voce per porre fine alla costruzione immobile di un senso, di una spiegazione. Ma “parola di Dio” è e rimane tutto il libro, l’intera narrazione, ogni parola, ogni iod, tragicamente.

Anche l’intervento della Parola attraverso i profeti ha caratteristiche vicine ad un accecamento, magari questa volta legato alla vista: la preparazione della bocca per fare spazio alla profezia è in qualche modo anch’essa una sorta di accecamento, qualcosa che nasce nel punto cieco dello stomaco o della testa, nel punto cieco del tempo, di ciò che

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ancora non si sa. Il frastuono, lo stridore e il buio dell’Apocalisse di Giovanni, la sua musica, sono una conferma delle pratiche classiche di divinazione dei profeti (1).

È in questa disattenzione/confusione da fine del mondo che può ancora nascere uno sguardo visibile, solo in questo abbandonarsi al rumore di fondo, sempre più incombente e terribilmente consueto che possiamo pensare di rivedere l’umano oltre l’umano - non in senso trascendente, poiché tale oltre non è altro che l’umano che si percepisce come non ridotto alla cornice dell’io, del soggetto.

Oppure, per tornare ora all’estetica, di quella ossessione maniaca, di quella monotonia, lasciare sprigionare al suo interno, nella sua forma chiusa e claustrofobica, tutta la grazia, illuminando il nostro sguardo, rendendolo strabico, cioè capace di guardare, dalla stessa direzione, in più direzioni. Ecco la vertigine, ecco il tragico: perché la vertigine non può che nascere dalla percezione dei margini, dei corrimano, delle ringhiere e dei profili. Come da un ritratto umanissimo di Cristo, anche da quello più basso e degradato, tra torsioni e bestemmie disarticolate - da Caravaggio fino a Bacon - può e deve sempre resuscitare quello sguardo inclassificabile, né sentimentale né disumano e giudicante, che troviamo invariabilmente nell’arte altissima delle icone russe: uno sguardo affidabile (2), che non si impone ma chiede una ancora impensata forma di fiducia.

Anche la teologia ha un suo stile, una bellezza che non riguarda il risultato relativo al bello, quanto piuttosto il poiein relativo ai movimenti del pensiero. Allora, la riflessione sulla divinità, soprattutto in ambito cristiano, deve muoversi risolutamente contro la rappresentazione: deve, come ricorda Pierangelo Sequeri (3), disfare i fili della stessa rappresentazione del divino, mostrando l’invisibile - un invisibile che non è la metafisica o l’ab-soluto quanto piuttosto, nel nostro tempo, quei tratti di umano o, meglio, di più che umano, che ci mostrano Cristo rompere la presunta e presuntuosa pantomima che spesso il cristianesimo gli ha affibbiato, vale a dire l’eternizzazione, l’evanescenza di un passaggio solo in immagine e non nella carne (Cristo piange alla morte di Lazzaro, Cristo urla come un animale sulla croce, quasi bestemmiando, Cristo dice, dopo la resurrezione, ai discepoli, che tornerà per bere con loro); lo stesso Verbo fatto carne non può essere e stare nell’immutabilità/visibilità dei suoi contorni:

Se la parola di Dio non è altro che il corpo incarnato di Cristo (Agostino, De sermone Domini in monte, XXX, 3) tale logos sarà sfigurato e leso alla stessa del corpo e del verso stridulo dell’agnello sgozzato e ritto sulle zampe posteriori, perché è un logos vivo come un animale o un vivente animato in modo tale da andare a cavallo o camminare a piedi, come fa l’Amèn, o avere una voce che picchia alla porta a pugni. (4)

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Egli è umano anche in questa dis-umanità, in questo smembramento tragico del logos - sono note, e contrastanti le identificazioni di Cristo con Dioniso, ma non è questo lo spazio per una analisi precisa.

La morte di Dio non è una invenzione nietzschiana, è il cristianesimo stesso, se finalmente avremo la forza di depurarlo del pensiero greco e platonico in particolare. Il Dio della metafisica muore volontariamente, non è più ab-soluto - e con ogni probabilità non lo è mai stato: basterebbe leggere il linguaggio concretissimo della bibbia ebraica per capirlo senza troppe difficoltà, o pensare all’idea di verità che tale sapienza porta con sé, del tutto lontana da un modello che non sia verificabile nel farsi della storia e del racconto come fedeltà ad una promessa e in cammino.

E in questo struggente contatto con la concretezza del vivente, del bìos, il Figlio non è più come prima: non sarà più come prima; non potrà più liberarsi (e non lo vorrà più) di quello che nella carne è stato: la gioia, la condivisione, il tradimento, il dolore estremo, l’abbandono, la stessa morte; non è un caso che lo stesso Cristo trasfigurato porti ben visibili i segni della sua morte e che inviti addirittura a toccare: non è, questo, un bisogno di prove certe e scientificamente sicure: esso è forse uno struggimento dell’umano in Cristo, un bisogno di condivisione… Cristo poteva mostrare la sua potenza con ben altri “segni” che questi, a ben vedere.

Tutte cose che ormai siamo abituati a vivere solo in immagine, come invisibili o come pellicole virtuali sottilissime, che possono essere appunto trapassate da parte a parte dal nostro sguardo. Ecco allora che l’invisibile, il divino, viene sulla terra per mostrarci oggi quello che per noi è invisibile/invivibile: vale a dire la vita stessa, il corpo, l’essere-con, il dolore, l’antropologico… direi quasi il fisiologico nietzchiano (senza facili esaltazioni vitalistiche che non sono altro che modi rovesciati di cancellare la consistenza dell’essere qui mediante l’oppio non più della religione ma dello spettacolare integrato). È il senso estetico, ma non solo estetico, dell’angelo necessario di Wallace Stevens (5): ristabilire un contatto materico con l’esistente, senza tuttavia cadere nell’oggettivazione di tanta teoria scientifica malamente declinata.

Estetica e teologia dovrebbero essere un buco nella carne, uno spiffero d’aria, di respiro, letteralmente ruah (spirito, nella giusta traduzione dall’ebraico: qualcosa di concretissimo insomma, che l’alfabeto ebraico appunto ci fa sentire e percepire nel ritmo stesso, affannato, di certi passaggi biblici), che sappia ridare vita a morte reliquie, a placche inerti che si depositano sulla pelle del mondo come una pellicola (reliquie massmediatiche, reliquie dell’informazione e della formazione intellettuale, musei del rimpianto culturale ed estetico, cariatidi pesanti di quello che ciecamente continuiamo a chiamare “politica”); come il soffio/profezia di Ezechiele 37, 1-14 alle ossa inerti del mondo.

Dunque, non l’invisibile come altro mondo, metafisico, staccato, assoluto: ma piuttosto come paradosso presente di un visibile/vivibile non più vivibile. Come se tutto si fosse capovolto e fosse appunto il visibile stesso a non essere più rintracciabile e percepibile se non come eternizzazione che lorda tutto (6) o come oggetto disponibile della scienza (del resto, ogni scienziato sa bene, se ha il coraggio di chiamarsi tale, che ogni teoria coerente è possibile grazie ad una approssimazione che non è altro che un restringimento del campo

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del visibile, un mettere nel buio o per lo meno nella penombra, l’immensa e non controllabile molteplicità dell’evento in causa).

Dunque, da questo punto di vista, rimane sempre valida l’ingiunzione di Chauvet: “Chi fa morire la mancanza di Cristo rifà di lui un cadavere” (7). E con questo è salva anche la dottrina cristiana che, giustamente, mantiene pur sempre la differenza tra umano e divino e non produce una melassa indifferenziata dei due attributi e che non è, se rettamente intesa, niente di ideologicamente orientato verso una semplicistica superiorità da accettare fideisticamente senza presupposti.

La redenzione potrebbe essere proprio questo. E la stessa lacerazione portata negli ambiti dell’estetica classica dall’evento della croce di Cristo, ben delineata da Auerbach (8), non fa che dimostrarlo.

Se mai esistesse una vita eterna in senso cristiano la frase pronunciata da Cristo ai discepoli nel giorno di pentecoste, “Vado avanti a prepararvi un posto”, non potrebbe avere che questo significato: vado ad abituare il Padre, la Divinità, all’umano, con tutto il suo peso, con tutta la sua lacerazione e incompiutezza. Con tutta la sua struggente e tragica grazia.

Dopo aver abituato lo stesso umano all’umano.

NOTE

(1) Cfr. Gianni Garrera, Super Apocalypsim musica, in Apocalisse di Giovanni. Con un saggio sulla musica della fine del mondo, Diabasis, Reggio Emilia 2003. (2) Cfr. Pierangelo Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996. (3) Ibid. (4) Garrera, ibid. p. 73. (5) Cfr. Wallace Stevens, L’angelo necessario, Coliseum, Roma 1988 e Note verso la finzione suprema, Arsenale, Venezia 1987. (6) Andrea Zanzotto Rivolgersi agli ossari in Il Galateo in bosco, Mondadori, Milano 1978. Proprio su questo testo, tra le altre cose, sarebbe interessante un confronto con il passo del profeta Ezechiele. (7) L. M. Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Leumann, Torino 1990. (8) E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956.

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STRETTOIE

I DUBBI DI SESTO EMPIRICO

di Andrea Oppo

1. «Sospendo il giudizio un attimo prima di pronunciare il mio “sì” – che pure mi verrebbe naturale – perché in fondo in fondo non posso dire d’esserne assolutamente certo...». Questo sembrava pensare più o meno Sesto Empirico, e tale era forse il dubbio che stava alla base di tutto il suo ragionamento. Il suo non era disfattismo, ma qualcosa di diverso. Non era sua intenzione gettare la spugna nella comprensione delle cose, sentiva piuttosto una vocazione dentro: voleva difendere una parte fragile della realtà, di cui nessuno si faceva carico.

Lo scetticismo, di qualunque epoca, è venato per natura da un sottile filo di ipocrisia. Questa considerazione, tanto cara agli avversari di quella corrente di pensiero, appare certamente vera e va riconosciuta. «Sei scettico?», argomentava grosso modo Aristotele, «allora va’ a curarti da uno stregone e non dal medico, tanto per te è la stessa cosa».

Sesto Empirico (180-220 d. C.) era un medico, uno dei più noti e validi del suo tempo. Apparteneva all’indirizzo della medicina empirica, anche se le sue opere, in quel campo, sono andate perdute. Ci sono rimaste invece quelle relative alla filosofia scettica: la prima, una specie di manuale per coloro che si accostavano agli studi filosofici, le Ipotiposi o Schizzi pirroniani, e infine due trattati, Contro i matematici e Contro i logici.

Ultimo degli scettici antichi fu anche il più grande, secondo Hegel. Anche se, paradossalmente, il suo pensiero non aveva molto di originale rispetto agli altri. Gli argomenti dello scetticismo in genere si aggrappano ai cavilli, all’originalità ad ogni costo, per vincere la loro personale sfida sulle proposizioni universali e dogmatiche. Sesto Empirico era certamente «contro», al pari degli altri, ma non lo era per il gusto d’esserlo. Se così fosse stato, probabilmente avrebbe puntato anche lui sui cavilli, su un certo compiacimento delle proprie idee, su una maggiore originalità. Invece qualcosa mostrava che la sua era vera ricerca e non provocazione fine a se stessa.

Ci teneva a distinguersi da coloro che lo avevano preceduto. «Sospendere il giudizio non vuol dire negare il fenomeno», ripeteva più volte nei suoi scritti. In un modo o nell’altro, tutti quelli che considerava suoi interlocutori dal dubbio evincevano proposizioni assertive sulla realtà, nel loro piccolo assolute e determinanti: così Eraclito, Democrito, Protagora;

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così le tre accademie, quella di Platone, di Arcesilao, e la terza e nuova, quella di Carneade e Clitomaco.

Perciò Sesto aveva approntato un sistema di difesa alle sue stesse idee, precisamente nella non-difesa, a tal punto da paragonare queste a delle «purghe»:

Noi non si afferma in modo assoluto che esse siano vere, in quanto che diciamo ch’esse si possono annullare da se stesse, circoscrivendo se stesse con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche se stesse espellono con gli umori.

SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, 206

Circoscrivendo se stesso col resto non intendeva far cadere il proprio discorso nel relativismo assoluto, anche se molti altri argomenti possono farlo pensare. In realtà le espressioni scettiche canoniche, diremmo, quali «non stabilisco nulla» e «per nulla più», miravano a segnalare la presenza di un luogo in ombra, che, probabilmente, senza una guerra decisa alle «zone illuminate», sarebbe stato dimenticato per sempre. Si trattava, insomma, di restituire un argomento a una parte muta della realtà.

Quale parte? Quale argomento?

La parte invisibile: tutto ciò di cui ancora non si sa. E la sua eventuale verità, qualunque cosa fosse il vero e se pure esistesse. Quanto all’argomento è presto detto: l’ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, afferma Sesto. Un bello smacco al logocentrismo, anzi, al logos in generale. La realtà ha un suo valore specifico, indipendente, uguale in peso e proporzioni alle ragioni; alle interpretazioni, diremmo noi. Solo così si preserva l’orizzonte non conosciuto; tutte le zone d’ombra del mondo. Solamente in questo modo si garantisce lo status credibile di un’eventuale verità. È una carta dei diritti di chi, muto, attende d’essere scoperto – e intanto deve incassare gli sguardi decentrati, le manipolazioni erronee, le parole devianti, le gelide logiche d’una stagione soltanto, quelle che non attaccano sulle res, ma, mostrando di capirle alla perfezione, le ignorano nella maniera più perfetta.

Il punto di vista delle cose, cercava Sesto. Ciò che non si sa, diceva, possiede «ugual forza» di ciò che si sa (o si crede). Dubitiamo d’ogni cosa, ma dubitiamo soprattutto della teoria e delle spiegazioni. Non foss’altro perché sono più forti e più evidenti. Chi può parlare, qualunque cosa dica, prima o dopo otterrà udienza; chi è muto no. Aveva la vista lunga Sesto Empirico: la zona d’ombra era già luogo semidimenticato, prima ancora che tutti i positivismi della modernità la ignorassero definitivamente. Che sia ancora oggi il luogo più debole non v’è dubbio.

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2. Uno scetticismo di questo tipo, tuttavia, in epoca moderna non appare più accettabile. Che senso ha essere scettici a quel modo? È ormai chiaro a tutti che c’è un paradigma conoscitivo, ufficialmente riconosciuto, di tipo causale, che punta a una spiegazione scientifica delle cose e ci dà infine la possibilità di intervenire o difenderci dal mondo, conoscendone le leggi. E tutto questo, cosa più importante di tutte, funziona. C’è una fisica, scoperta e conosciuta dagli uomini, che fa volare gli aerei: davanti a un simile fatto una posizione scettica è irrilevante. Pertanto, l’unica via da percorrere è la seguente: ci si tiene stretto quello che si è acquisito e questa è la zona visibile, il conosciuto, ciò che è certo, lo strato della “torta” che possediamo; poi gli strati successivi, le parti non ancora visibili, arriveranno, all’interno di questo modello o modificandolo per quanto sarà necessario. Ma, in un simile contesto, che senso ha “dubitare a prescindere”? Sarebbe un gioco retorico, non una posizione teoretica. Ma è proprio questo il punto di tutto: la scomparsa della retorica. Un tempo esisteva ed era fondamentale: era un metodo ma era anche la cornice entro la quale pensare le cose. L’idea stessa di finalità in Aristotele oggi potrebbe esser vista come una forma di retorica. Una forte connotazione finalistica aveva anche il pensiero di Kant, anche se alcuni tendono negarlo. Oggi invece parlare in questi termini equivale a porsi in un’ottica sapienziale, esoterica, chiromantica del mondo.

La retorica è il paradigma narrativo, ma dire “narrazione” nel mondo della scienza moderna è quasi gettare fumo negli occhi, qualcosa che serve allo spirito dell’uomo, alla sua volontà, ma non alla conoscenza. Ma davvero conoscere è solo conoscere al modo della scienza? Davvero la realtà è divisibile in ciò che si può controllare e manipolare, il “mondo vero”, e le storie della buonanotte da raccontare ai bambini e a chi le desidera, per riempire i vuoti della volontà? L’invisibile non è soltanto il visibile non ancora scoperto. E la teoresi non è solo e unicamente conoscere le leggi del mondo per appropriarsene e controllarlo. Questa è solo una piccola parte del processo conoscitivo. Il fatto è che il paradigma scientifico sta diventando una forma di retorica esso stesso ed è applicato, come espediente retorico, a discorsi che nulla hanno a che fare con la conoscenza scientifica del mondo.

Dubitare è dubitare del visibile, di ciò che appare chiaro e senza punti d’ombra, diceva Sesto Empirico. Era un’affermazione di metodo la sua, non certo una teoria scientifica. Quello stesso metodo che oggi sta scomparendo perché tanto “come stanno le cose lo si sa già” e la scienza è il nostro indicatore di rotta. Il resto sono storie narrate per tenerci distratti nei tempi morti. Verità nel primo caso, fantasia nel secondo: non c’è finalità, non c’è eschaton, nessuna metafisica o spiriti oggettivi alla Hegel, ma solo una realtà controllabile (con la scienza, la tecnica e l’economia) e poi la ricreazione. Non si modifica lo spirito del proprio tempo, ma si è liberi di dubitarne: se la metafisica era nient’altro che una forma di retorica, perché mai la scienza moderna non dovrebbe essere la retorica dei nostri giorni?

Forse tutto è retorica, tutto è narrazione. E allora ha ragione Sesto Empirico: optiamo sempre per quella fuori moda, per quella in inferiorità numerica, per quella che si vede di meno.

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STRETTOIE

Sequela,un tentativo non riuscito di conciliare invisibile e visibile

di Ilaria Ciancilla

Il contenuto di questo lavoro ha come argomento l'analisi filosofica di Sequela, opera che Dietrich Bonhoeffer elaborò, prima che si abbattesse su di lui il divieto nazista di pubblicare.

Si tratta di un lavoro dal quale emerge, con forza, il tentativo di opporre al potere nazista una visione alternativa, da ritrovarsi nei fondamenti di fede del cristianesimo. In tal senso, Sequela è caratterizzata da un atteggiamento meno speculativo rispetto alle altre opere dell'autore, il quale sentiva sempre più crescere l’urgenza di una risposta pratica alla terribile sfida totalitaria. Tuttavia, se è necessario tenere in giusto conto il contesto in cui maturò l’opera, la nostra analisi, non mira a mettere in luce il confronto tra Bonhoeffer ed il nazismo. Piuttosto, cercheremo di seguire l’evoluzione del rapporto, tra Cristo, mondo ed uomo, tra visibile ed invisibile, all’interno della prospettiva etica del pensatore tedesco. Vedremo come attraverso quest'opera, l'autore cerchi di delineare una prospettiva teologica volta alla conciliazione,seppur difficile e non del tutto riuscita,tra l'invisibile(la grazia e la chiamata di Dio) e la risposta a questa dell'uomo,nel visibile(comunità e mondo).

L’opera si divide in due capitoli: il primo dedicato all’esplicitazione dei caratteri che il vivere umano deve avere per essere autenticamente cristiano, il secondo incentrato sull’immodificabilità del messaggio cristiano, nel suo permanere identico nei tempi e nei luoghi in cui si esplica. La nostra analisi, però, prescinderà dalla scansione che il pensatore tedesco volle dare alle tematiche della sua opera.

Nella prima parte del capitolo analizzeremo il rapporto, da Bonhoeffer istituito, tra il singolo, quale destinatario della chiamata di Cristo, e la sequela. Qui emergerà l'incapacità del filosofo di far conciliare la prospettiva di fede e la sua ricaduta pratica nel mondo.

Attraverso l'analisi dell'ubbidienza a Dio capiremo come, in questa prima parte dell'opera, l'invisibile,piombi e sovrasti il visibile. Nella seconda parte, invece, emergerà il ruolo della comunità rispetto alla sequela e ai principi etici, nel quale si sostanzierà il tentativo dell'autore di conciliare la straordinarietà della fede e l'accettazione della terra,del visibile,attraverso il superamento dell'individualismo e del formalismo religioso, trovando in essa un medium capace di conciliare le ragioni dell'invisibile e del visibile. Nelle considerazioni finali vedremo invece come vi siano ancora alcune aporie nel pensiero bonhoefferiano,tali da non costituire,nonostante i suoi sforzi speculativi, il giusto orizzonte di senso capace di conciliare i due termini del sistema.

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Il singolo e la sequela: l'invisibile piomba sul visibile

Sequela è, tra le opere di Bonhoeffer, una delle più chiare. In essa si delinea, in maniera particolarmente netta, il senso della concezione etica che il teologo tedesco intende sviluppare e offrire agli uomini. La nettezza e la chiarezza, sono dovute alla particolare situazione storica in cui l’opera è stata scritta. Sequela è del 1937, quindi, è stata concepita in anni in cui si avvertiva la necessità di contrastare il dilagante nazismo, con una risposta che non presentasse ambiguità teoriche e avesse efficacia pratica.

L’opera inizia con il discorso relativo all’autentico essere cristiani, a partire dal problema della grazia, che in un’ottica protestante non può che essere centrale.

È fondamentale distinguere tra grazia a buon mercato e grazia a caro prezzo << Grazia a buon mercato significa grazia come merce in vendita promozionale, significa svendita delle remissioni…la grazia a buon mercato è il misconoscimento della vivente parola di Dio…è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo …la grazia a caro prezzo è la chiamata di Gesù Cristo…è a caro prezzo perché chiama alla sequela; è grazia perché chiama alla sequela di Gesù Cristo; è a caro prezzo perché costa all’uomo il prezzo della vita; è grazia perché proprio in tal modo gli dona la vita. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché costa cara a Dio, perché gli è costata la vita di suo figlio- siete stati riscattati a caro prezzo-. Grazia a caro prezzo è l’incarnazione di Dio…A caro prezzo è la grazia perché costringe l’uomo al giogo della sequela di Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù dica: il mio giogo è soave e il mio peso è leggero>> (1)

Il vero cristiano è consapevole di quanto, sofferenza e grazia, siano un connubio inscindibile. Non è ipotizzabile alcuna grazia senza la sofferenza, anche se non si deve pensare che possa bastare il mero dolore, il mero soffrire per ottenere la grazia. Certamente la grazia non si addice a coloro che pensano di averne diritto, in virtù di una pratica esclusivamente esteriore della vita cristiana; in questo senso, il discorso sul valore della grazia è intimamente connesso al problema delle opere. La chiamata divina, infatti, abbisogna di una risposta che non deve esprimersi una volta per tutte, ma che implica una continua offerta di sé, che deve esplicitarsi nel mondo, nella vita quotidiana, in un continuo darsi a Cristo e alla terra. Chiarisce bene Jacob: << Per Bonhoeffer si trattava di ristabilire il giusto rapporto tra grazia e sequela. La grazia senza la sequela gli si presentava nella caricatura di quella “grazia a buon mercato”, che, dai giorni della cristianizzazione di massa e sotto il dominio dell’immagine della società cristiana, si era sempre rovesciata nella Chiesa come “merce da vil prezzo”, con noncuranza e abbondantemente, quale facile consolazione e quale sacramento di poco conto. Si battezzava, si cresimava, si assolveva un intero popolo, senza che esso l’avesse richiesto e senza porgli condizioni; si somministravano torrenti di grazia senza fine, ma il richiamo alla vera sequela di Cristo si sentiva sempre più raramente>(2) . Tuttavia, anche se la sequela e le opere, sono fondamentali rispetto alla

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chiamata di Dio, quest’ultima non è frutto di una scelta umana, ma è frutto del dono di Dio e si giova della conferma continua attraverso l’agire del credente. La grazia non va intesa come presupposizione, vale a dire come dato acquisito per il semplice fatto di sentirsi cristiani << la grazia come presupposizione è grazia a buon mercato perché non costa nulla, è proclamata fin dall’inizio, precede l’azione, senza implicare nessuna tensione, nessun mutamento; invece quando la grazia è intesa come grazia a caro prezzo, tutta la vita ne va di mezzo, e la grazia diventa, ad un tempo, risultato dell’azione di Dio e della vita intera>>(3) L’uomo non può determinare in alcun modo l’agire divino, tuttavia << se la grazia è risultato dato da Cristo stesso, della vita cristiana, questa vita non è in alcun modo dispensata dall’obbedienza. Se invece la grazia è la presupposizione di principio della mia vita cristiana, allora io possiedo, in anticipo la giustificazione dei miei peccati>> (4)

Per Bonhoeffer, da tale rapporto tra grazia, chiamata e risposta dipende completamente il destino di ogni cristiano. L’uomo, infatti, è chiamato da Dio ad offrire senso all’esistenza, attraverso l’agire secondo i dettami di Cristo. Solo rispondendo all’appello di Cristo la vita può assumere una direzione ed un risultato, la grazia. In caso contrario la vita sarebbe mera giustapposizione di eventi irrelati, fino a sprofondare nell’assenza di senso più completa.

Affermando il valore fondativi della grazia, Bonhoeffer, ribadisce l’assoluta carenza ontologica dell’uomo, non sanabile in alcun modo se non attraverso la fede. Bonhoeffer delinea i presupposti ontologici, l’orizzonte entro il quale l’agire dell’uomo dovrà maturare, sottolineando la preliminare impossibilità di ogni individuo, di avere un destino al di fuori del dettato di Cristo, e di conseguenza l’incapacità di ciascuno di determinare la costituzione ontologica del reale, e di avere con esso un rapporto privilegiato << Colui che è stato chiamato da Gesù, apprende dunque che nelle sue relazioni con il mondo egli ha vissuto nel seno di un’illusione. Questa illusione si chiama l’immediatezza. Per lui, ha costituito un ostacolo alla fede e all’obbedienza. Egli sa ora che non può trovare immediatezza alcuna anche nei legami più stretti della sua vita, i legami che l’uniscono a suo padre e a sua madre, ai figli, ai fratelli e sorelle, i legami dell’amore coniugale, quelli delle responsabilità storiche. Dopo la venuta di Gesù, per i suoi discepoli non c’è più nessuna relazione immediata sul piano naturale, storico, vitale >> (5)

Dopo aver delineato, come abbiamo visto, il contesto ontologico nel quale il cristiano è collocato, Bonhoeffer inizia l’analisi delle strutture dell’azione umana. Quale caratteristica fondamentale deve avere la risposta umana, alla chiamata di Cristo? Deve essere caratterizzata dalla semplice ubbidienza e nient’altro. L’uomo deve assecondare la chiamata, in maniera del tutto irriflessa e immediata, senza sottoporla ad alcun vaglio razionale, e assecondandola, contro ogni legge terrena che gli si opponga, perché, se si attribuisce all’uomo la capacità di diventare giudice della parola di Dio, anziché semplicemente esserne ascoltatore ed esecutore, se l’uomo si arma di un principio, di un’idea di Dio, per aggredire la concreta parola di Dio, a quel punto si arroga a priori ogni diritto, diventa Dio, abbandona il terreno dell’ubbidienza, si sottrae alla convocazione da parte di Dio. Si delinea chiaramente la sproporzione,in questa prima parte dell'opera, tra invisibile e visibile, all'uomo non è concessa la possibilità di valutare e interpretare.

Qualsiasi valutazione della regola di Cristo, equivale ad una sua violazione, la ragione valutativa non ha spazi, infatti, << Proprio dove il conflitto viene preso tanto sul serio,

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dove esso tormenta e rende schiavo l’uomo, impedendogli di giungere all’azione liberante dell’ubbidienza, proprio lì si svela la sua empia natura e nella sua frivolezza in cui manca ogni segno del divino esso si manifesta come radicale disubbidienza. Seria è soltanto l’azione obbediente, che pone fine ed elimina il conflitto e nella quale siamo liberati per essere figli di Dio>> (6)

Bonhoeffer, delineando in tal modo le peculiarità dell’agire cristiano, ribadisce, in modo netto, la subordinazione dell’uomo alla volontà divina, negando ogni possibile autonomia umana nel coordinarsi in una realtà, che può essere vissuta esclusivamente attraverso la mediazione di Cristo. La chiamata alla sequela, infatti, non è rivolta all’intelletto. Cristo non propone una nuova dottrina, ma offre la possibilità di uno scarto esistenziale che metta in questione il passato di ognuno, dischiudendo le porte ad un futuro rinnovato. Ne risulta da parte dell'uomo, una rinuncia ad ogni ruolo per la coscienza valutativa,la quale chiude il pensiero del teologo tedesco nei limiti di un’astrattezza profonda, dovuta alla mancanza di un medium in grado di armonizzare legge di Cristo e realtà storica.

In Sequela,infatti,la regola divina impone all’uomo una recezione immediata, senza alcun filtro razionale della regola medesima e tuttavia l’uomo, deve vivere nel concreto orizzonte storico in cui si trova.

Per ovviare a tale problema, Bonhoeffer elabora un’interessante articolazione del concetto di ubbidienza. Il teologo tedesco spiega che esistono due tipi di ubbidienza, una legalistica ed una nella fede. La prima è un rispetto formale dell’oggettività della legge di Cristo, la seconda la possibilità di un’azione opposta alla legge. La prima è un’ubbidienza semplice e consiste nell’uniformarsi al volere di Cristo in maniera totale senza alcun tipo di interpretazione. La seconda, definita paradossale, << fondata e ammissibile solo per colui che in un momento della sua vita si è già misurato seriamente con l’interpretazione semplice, e quindi si trova in comunione con Gesù, nella sequela, nell’attesa della fine. Interpretare in senso paradossale la chiamata di Gesù è la possibilità infinitamente più difficile, anzi in senso umano, un’impossibile possibilità>>(7) L’ubbidienza legalistica è condizione della chiamata. Solo a chiamata avvenuta, il chiamato può superare tale forma di ubbidienza, per passare all’ubbidienza paradossale.

Gli elementi presenti nella distinzione delle diverse forme di ubbidienza sono, dunque, numerosi. In primo luogo possiamo notare che Bonhoeffer accentua il carattere individuale della chiamata e della risposta, rifuggendo da qualsiasi forma di massificazione della pratica cristiana. Tale elemento può essere legato al periodo storico in cui Bonhoeffer scrive, segnato dall’appello alle masse da parte del nazismo, infatti, << Bonhoeffer intende porre un freno alla crassa retorica del regime nazista che convince le masse a declinare ogni responsabilità personale, delegando i singoli compiti a un’entità superiore, ma al tempo stesso settaria e discriminante>>(8) Tuttavia l’accentuazione dell’elemento individuale, è anche frutto di esigenze teoriche fondamentali. Infatti, se la semplice aderenza al dettato di Cristo, può essere attingibile agli uomini, senza che tra essi maturino delle differenze specifiche, l’ubbidienza paradossale impone una differenziazione tra gli uomini, infatti, si configura come la scoperta in sé da parte dell’individuo della forza per porre la legge oltre la legge, secondo il precetto più profondo di Cristo, che fu legislatore oltre ogni legge. Naturalmente l’uomo può solo riuscire ad interpretare la legge, non può porsi come fonte di

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essa, tuttavia per compiere tale passo è necessaria l’affermazione di una spiccata individualità.

Bonhoeffer attraverso la distinzione tra i due tipi di ubbidienza e il concetto di interpretazione paradossale,cerca di colmare il divario tra legge di Cristo e realtà storica,tra invisibile e visibile. L’interpretazione, concessa all’uomo che abbia preliminarmente vissuto l’ubbidienza semplice, dovrebbe consentire di evitare le astrattezze dell’imporsi sovrastorico delle leggi divine sul reale. Tuttavia dobbiamo chiederci in che rapporto stiano ubbidienza ed interpretazione, infatti, fino a che punto può giungere l’interpretazione della volontà di Cristo senza rompere il vincolo dell’ubbidienza?

La risposta non è semplice, infatti, si dovrebbe ricorrere ad un’istanza terza, che sia in grado di valutare il rapporto tra regola, ubbidienza ed interpretazione, e sia anche capace di leggere tale situazione in relazione al corso del reale, rispetto al quale l’interpretazione si dispiega. Tuttavia, tale istanza non è proprio la coscienza morale, intesa come realtà in grado di creare una giusta relazione tra norma, volontà e realtà, a cui Bonhoeffer rifiuta ogni ruolo? Dobbiamo allora dire, che se certamente Bonhoeffer assottiglia la distanza tra regola e realtà, legge e storia, attraverso la possibilità interpretativa concessa all’uomo, certamente pesa su tale tentativo il rifiuto radicale di ogni coscienzialità valutativa che determina contraddizione tra l’esigenza di un’immediata obbedienza e la possibilità della mediazione interpretativa che solo la coscienza può svolgere.

Nel secondo paragrafo cercheremo di valutare se nella seconda parte di Sequela, l’analisi che Bonhoeffer dedica alla dimensione comunitaria del vivere cristiano, riesca a determinare una svolta rispetto alle difficoltà che c’è parso caratterizzino il pensiero del teologo tedesco sino a questo punto.

Sequela e comunità:un primo tentativo di conciliazione tra invisibile e visibile

Il discorso emerso fino a questo punto, ha posto in rilievo le linee principali del pensiero di Bonhoeffer, e la tendenza del teologo tedesco a privilegiare la dimensione del singolo, nel suo rapporto con Cristo. Tuttavia, nella seconda parte di Sequela si manifesta, in maniera più accentuata rispetto alle opere precedenti, una precisa prospettiva comunitaria. Bonhoeffer mette in luce in maniera chiara, la necessaria appartenenza del cristiano alla comunità fondata da Cristo, chiarendo che seguire il messaggio di Cristo significa aderire alla sua manifestazione visibile in terra, la Chiesa. Posto che l’appartenenza alla comunità dei fedeli è, a pieno titolo, un carattere fondante dell’essere cristiani, sarà, allora, interessante, valutare, se e come, le contraddizioni rilevate nel paragrafo precedente possano risolversi, attraverso tale ulteriore dimensione dell’individuo cristiano secondo Bonhoeffer.

Procediamo, però, per gradi. Il rapporto con Cristo, come abbiamo visto, ha per l’uomo un ruolo fondamentale, in virtù del compito di mediazione tra la realtà e gli uomini, che il figlio

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di Dio svolge. Tuttavia la sequela nei confronti di Cristo è comunione con lui, condivisione delle sue sofferenze << la croce non è un’avversità o un duro destino, ma è quel patire che ci deriva solo a causa del nostro vincolo con Gesù Cristo. Non è sofferenza casuale, ma necessaria (in virtù appunto del legame con Cristo). La croce è sofferenza legata all’essere cristiani…la croce è patire con Cristo, è passione di Cristo>> (9)

Il rapporto con Cristo, la comunione con il suo patire, porta alla vicinanza a Dio, tuttavia quale fu il senso profondo della sofferenza di Cristo? Fu un patire per gli altri, per l’intera umanità, fu la sostituzione vicaria,cioè il prendere sulle proprie spalle i peccati degli uomini, arrivando a sacrificare la propria vita di innocente.

Come Cristo, così gli uomini, in quanto cristiani, hanno il dovere di portare sulle proprie spalle i peccati degli altri uomini, comprendendoli e offrendo loro il perdono. Non è possibile nessuna sequela che prescinda dalla sostituzione vicaria. Dio attraverso Cristo soffrì per l’umanità, e grazie al suo sacrificio l’umanità adesso è riconciliata con lui. Tuttavia è compito di ogni uomo patire per Dio e in Dio. Ma soffrire per Dio significa soffrire con e per il prossimo, infatti, quest’ultimo, è Dio tra noi, nella dimensione comunitaria della Chiesa.

Emerge, così, il legame strutturale tra sequela, sofferenza e comunità. Essere fedeli a Cristo, vivere secondo i suoi dettami, significa soffrire come lui, per il prossimo, all’interno della comunità, la Chiesa, che è Dio tra noi. Non basta la sequela praticata in modo individuale, non c’è vero rapporto con Cristo, senza la dedizione comunitaria. Entrare nella comunità dei fedeli, significa scegliere un posto nell’orizzonte ontologico nato dall’avvento di Cristo. In caso contrario, l’uomo sarebbe incompleto, potrebbe sentirsi crsitiano, ma lo sarebbe solo a livello esistentivo, per usare i termini di tutt’altro versante filosofico, non a livello profondo, esistenziale.

Viene, in tal modo, bandita, ogni tentazione individualistica, ogni attrazione mistica per la salvezza individuale, nell’oblio dell’altrui patire. Al contempo, è netto il rifiuto per qualsiasi formalismo religioso, che valorizzi la parola di Dio soltanto nei riti, in una comunanza occasionale, priva di ogni sostanza e sofferenza comune.

Dopo aver evidenziato il valore strutturale della dimensione comunitaria nel comporre i caratteri del fedele, e quindi dell’uomo in senso pieno ed assoluto, Bonhoeffer delinea i tratti che i dettami etici assumono, alla luce dell’appartenenza alla comunità dei fedeli. Tale andamento speculativo è simile a quello tenuto lungo la prima parte di Sequela, quando dopo aver parlato dei caratteri ontologici dell’esistenza umana, Bonhoeffer ha evidenziato le conseguenze etiche delle premesse poste.

Si arriva, in tal modo, ad uno dei passi più importanti dell’opera del teologo tedesco: l’analisi del discorso sulla montagna, del Vangelo secondo Matteo.

Ancora una volta, Bonhoeffer parte dal ribadire la centralità di Cristo. Coloro che formano la schiera dei discepoli di Cristo, agiscono nella miseria e nel sacrificio, ma questo non è un merito personale << la miseria oggettiva e la rinuncia personale hanno il loro comune motivo nella chiamata e nella promessa di Cristo. Né l’una né l’altra ha valore o può

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avanzare una pretesa di per se stessa >> (10) Cristo portò per primo la croce, e dimenticò se stesso, la divinità, per misericordia, alla ricerca della comunione con i peccatori. Viene posto in evidenza, in tal modo, uno degli aspetti più importanti del vivere cristiano. Infatti, credere e praticare la fede, significa non solo accettare la mediazione di Cristo rispetto ad ogni rapporto con il reale, non solo ubbidire senza valutare l’ordine divino, non solo amore per la terra, ma anche entrare nella comunità di Cristo, nella Chiesa, e maturare un modo nuovo d’essere individui, un modo diverso di percepire se stessi e la propria personalità. Il vero cristiano è totalmente dedito alla costruzione di un rapporto rinnovato con il prossimo e il mondo. Il vero cristiano rinuncia ad ogni narcisismo individualistico e si abbandona nella fusione con il prossimo, con la comunità, la Chiesa, che è Cristo, che è Dio. Tale rinuncia però, proprio in nome della destituzione di ogni antropocentrismo, non è affidata solo a mani umane: <<Divenir uguali alla forma di Gesù Cristo non è un ideale affidato alle nostre mani, consiste nel realizzare una qualsivoglia somiglianza a Cristo. Non siamo noi a farci immagine, ma è l’immagine di Dio stesso, la forma stessa di Cristo, a voler prendere forma in noi. È la sua propria forma che vuol giungere a manifestarsi in noi. Cristo non cessa di lavorare in noi finchè non ci abbia portato alla forma di Cristo. È l’intera forma dell’incarnato, crocifisso e trasfigurato quella a cui dobbiamo essere resi uguali>> (11). La comunità, la Chiesa, nella quale l’individuo trova la possibilità di rinunciare alla propria fallace autonomia, è il corpo di Cristo visibile e << il Cristo incarnato, crocifisso e trasfigurato prende forma nei singoli, perché sono membri del suo corpo, la Chiesa: la Chiesa porta la forma umana, la forma di morte e resurrezione di Gesù Cristo. È essa per prima la sua immagine, e grazie ad essa lo sono tutti i suoi membri. Nel corpo di Cristo siamo diventati come Cristo >> (12) .

Bonhoeffer aggiunge, in tal modo, un tassello importante nell’elaborazione della sua concezione etica. Infatti, il completamento ontologico di cui abbiamo parlato in precedenza, che nasce dall’appartenenza alla comunità di Cristo, ha nella fine di ogni sentimento di autosufficienza, nella rinuncia ad ogni autonomia, una delle conseguenze etico-pratiche principali. Ciascuno deve tenere conto, nell’agire, non solo dei limiti posti dal volere di Cristo, ma da quelli che nascono dall’appartenenza alla comunità dei fedeli, che costituisce il terreno privilegiato dell’agire medesimo. Un’azione, per quanto possa essere frutto di intenzioni conformi ai dettami di Cristo, dovrà armonizzarsi sempre con l’orizzonte primario entro il quale ricade: la comunità. Solo nel rapporto con il prossimo e nella rinuncia ad ogni particolarismo individuale, possono maturare le azioni conformi al volere di Cristo. La solitudine è già peccato, perché ispirata da superbia.

In questo orizzonte, si colloca anche la trattazione del problema del male.

Il male << si riduce all’impotenza perché non trova più opposizione, più resistenza, ma è volontariamente sopportato e sofferto…il male ha fine, se noi lasciamo, senza difenderci, che attraversi la nostra esistenza…Nella volontaria rinuncia a difendersi trova conferma e manifestazione esplicita il vincolo del seguace a Gesù Cristo, la libertà, l’affrancamento del proprio io…>> (13). L’unica risposta possibile da offrire al male è nella serena accettazione della sofferenza. Tuttavia l’accettazione della sofferenza ha senso, solo se ispirata dall’esempio di Cristo, e se maturata per il bene del prossimo, per l’altro che compone la comunità. Infatti, il modo più netto di sconfiggere il male, si conquista assumendo su se

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stessi le sofferenze, per gli altrui peccati. Così facendo si raggiunge il culmine del processo di allontanamento da sé verso Cristo, e verso la comunità che ne costituisce l’incarnazione.

Verso colui che si fa portatore del male, cioè il nemico, quale atteggiamento è necessario avere? L’amore è la forma migliore di risposta, verso chi è nemico del cristiano << l’amore diventa invincibile per il fatto che esso non chiede mai cosa faccia il nemico nei suoi confronti, ma solo cosa abbia fatto Gesù>> (14).

In sostanza, la fede, il rapporto con Cristo, e soprattutto l’ingresso nella comunità cristiana, offrono all’uomo la possibilità, la forza, per rinunciare alle inclinazioni che sono tipiche di chi abbia anteposto se stesso e l’amore del proprio io ad ogni cosa. L’amore per Cristo, invece, è amore per il prossimo, è ingresso in un sé più largo, la comunità, che sconfigge il male destituendolo di senso, attraverso la rinuncia alla contrapposizione. Non si tratta di arrendevolezza, ma della forza positiva della fede, dell’ingresso di ciascuno in una dimensione più ampia, visibile, che non ha bisogno di difese, perché trova, nell’unione e nella rinuncia a sé per il bene superiore, l’energia migliore per affermarsi.

La comunità cristiana, inoltre, offre al singolo, la possibilità di accedere alla dimensione dello straordinario che essa incarna. La Storia è ricca di esempi d’uomini che si sentirono straordinari. Tuttavia, mai come nell’epoca moderna, tale sentimento è stato vissuto come un carattere strutturale della natura umana, ritenuta in grado di dominare il reale e modificarlo. Come ben dice Battista Mondin, l’uomo moderno << ha imparato a fare da sé, a governarsi da solo, a risolvere i propri problemi senza ricorrere a qualche essere superiore. Una volta, quando era ancora minorenne, per vincere la fame, le malattie, la miseria, i disordini sociali, le ingiustizie personali, i conflitti bellici, ecc., egli faceva appello a Dio. Oggi, egli si rivolge ad altri uomini come lui: al medico, al sociologo, all’ingegnere, all’avvocato, al politico. L’uomo moderno ritiene di essere padrone non soltanto del presente ma anche del futuro: egli è diventato provvidenza a se stesso; programma e fa piani tenendo conto solo delle sue forze e delle risorse che questo mondo mette a sua disposizione>> (15) .

Tanto spreco di narcisismo, secondo Bonhoeffer, nuoce alla causa dell’uomo. Esiste un modo per essere straordinari, senza cadere nell’antropocentrismo: << è l’amore di Gesù Cristo stesso, che affronta la croce nella passione e nell’ubbidienza, è la croce. Lo straordinario del cristianesimo è la croce, che consente al cristiano di essere al di là del mondo e in tal modo gli da la vittoria sul mondo>>(16). La comunità stretta intorno alla croce, vive la straordinaria esperienza di un amore che, per chi non crede, è paradossale, impossibile. Il cristiano esperisce l’accettazione del mondo che è premessa indispensabile per il suo mutamento, che non avviene, però, nel nome dello smisurato narcisismo antropocentrico, ma attraverso l’amore in Cristo.

L’agire in maniera che agli altri può apparire straordinaria, se è tipico del cristiano, non deve essere però al centro della sua attenzione, pena la ricaduta nel narcisismo. Per Bonhoeffer sarebbe, addirittura, necessaria una forma d’inconsapevolezza che preservi l’uomo di fede dall’assumersi meriti che non sono suoi, ma di Dio: <<Chi è nella sequela vede sempre e soltanto il suo Signore e lo segue. Se vedesse lo straordinario in sé, già per questo non sarebbe più nella sequela>> (17).

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A questo punto, posto che il singolo al di fuori della Chiesa manchi completamente del contatto con Cristo, dobbiamo chiederci quale deve essere il rapporto, secondo Bonhoeffer, tra i componenti la comunità cristiana e il mondo esterno. Abbiamo già iniziato a trattare tale tema parlando del nemico, però Bonhoeffer nelle ultime parti di Sequela, ritorna su questo problema.

Il ruolo della comunità cristiana è intimamente connesso con le sorti del mondo esterno ad essa, perciò Bonhoeffer considera tale comunità << “concentrazione cristologica” al servizio del mondo e concepisce lo spazio ristretto della comunità come luogo dove il cristiano si attrezza per un coerente servizio all’esterno. I cristiani sono “sale”: se essi devono porre ogni cura nel salvaguardare la loro sapidità; ciò avviene solo “ per amore della terra”, perché l’obiettivo di Dio nel mondo è sempre la sua comunità, ma la sua comunità a sua volta fa ogni cosa per guadagnare la salvezza del mondo>> (18)

Il cristiano, che vive la difficile pratica della fede, ha, in chi è fuori dalla comunità cristiana, non il nemico da combattere, ma la persona da comprendere e non da giudicare, da amare e non da emarginare. Il rapporto con l’altro che non vive in Cristo, è fondamentale, quanto quello con il mondo, entrambi sono parte essenziale della missione del cristiano, che deve saper accettare il prossimo, per evitare che la sequela si trasformi in ascesi e oblio del mondo e degli uomini,del visibile.

Alcune aporie teoriche

Abbiamo potuto osservare che, nella seconda parte di Sequela l’analisi bonhoefferiana propone un ruolo fondante per la comunità cristiana, ritenuta centrale, sia nel comporre l’identità dell’uomo di fede, sia come luogo della presenza di Cristo e quindi incarnazione dei suoi precetti etici. La struttura ontologica dell’individuo bonhoefferiano, giunge, in questo modo, a completarsi. L’uomo è strutturalmente determinato dalla venuta di Cristo, dalla chiamata che dal Redentore riceve, ed inoltre << la persona nel suo nucleo ontologico più originario è relazione, essere sociale>>(19)

Adesso, possiamo valutare se le ultime mosse teoriche di Bonhoeffer siano riuscite a fornire le risposte, ai vari interrogativi, frutto di altrettante contraddizioni emerse durante la trattazione della prima parte di Sequela.

Dobbiamo partire da una valutazione più attenta dei rapporti che, secondo Bonhoeffer, la comunità dei cristiani deve intrattenere con chi non vi appartiene. Non si corre il rischio, che la prospettiva del teologo tedesco dia vita a forme di elitarismo, incentrate sull’appartenenza ad una comunità di uomini straordinari, vanificando il rapporto con il mondo e la sua stessa accettazione? E, d’altro canto, come rinunciare a definire le particolarità dell’agire cristiano e la sua eccezionalità, in un mondo dimentico di Dio? Può

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bastare sostenere la necessaria inconsapevolezza della propria diversità, da parte del cristiano? Siamo di fronte allo stesso problema teorico incontrato nel capitolo precedente.

Bonhoeffer tenta di conciliare l’eccezionalità della professione di fede, con l’accettazione del mondo concreto, inteso come realtà non obliabile nelle sue specificità. Tuttavia l’esigenza di professare la legge di Cristo nella sua rigida alterità rispetto al reale che concretamente si dà, è difficilmente compatibile con il contemporaneo accoglimento del mondo concreto, della terra. Infatti, sarebbe necessaria una coscienza in grado di mediare tra legge e mondo, ma Bonhoeffer ci dice che proprio sull’inconsapevolezza si fonda la possibilità d’essere veri cristiani. Ma come si può proporre ad un mondo sempre più orfano di Dio, un messaggio di fede che contemperi la forza della sua eccezionalità e la capacità di accettare fino in fondo il reale, se chi dovrebbe essere protagonista di tale tentativo ignora la propria grande diversità e di conseguenza la condizione del mondo cui dovrebbe rivolgersi? Se manca la coscienza valutante, manca il tramite concreto tra legge e mondo, fede e reale,visibile ed invisibile.

L’analisi di Sequela, ha confermato le difficoltà del pensiero bonhoefferiano, nel rinunciare ad un ruolo attivo per la coscienza, e allo stesso tempo determinare un incontro tra cristianesimo e mondo che sia in grado di conciliare accettazione sostanziale del reale nella sua concretezza, e radicalità nell’applicazione della legge divina. La rinuncia al mondo produrrebbe l’ascesi, di cui s’è macchiato il protestantesimo luterano. L’attenuazione della forza del messaggio di Cristo, ricondurrebbe alla visione compromissoria e lassista, tipica del cattolicesimo. Tuttavia, l’ostilità verso la coscienza moderna, fa sì che venga a mancare il possibile raccordo tra i termini da conciliare. L’ulteriore elemento comunitario, emerso nella seconda parte di Sequela, si limita a spostare il problema.

È la comunità degli eletti a non poter istituire un fattivo rapporto con il resto degli uomini, infatti, ciascuno per farne parte, deve vivere nell’inconsapevolezza della propria straordinarietà, diventando, così, incapace di reale discernimento e di concreto rapporto, sia con il proprio essere cristiano, che con il prossimo che vive fuori dalla comunità.

NOTE:

1)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.27-30. 2) Jacob, Dizionario del pensiero protestante, Morcelliana, 1970, p.495-496. 3) Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Brescia, 1995, p. 54. 4)) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.21. 5) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p. 72-3. 6)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p. 60. 7)5) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p. 71 8) A. Andreini, Bonhoeffer. L’etica come confessione, Paoline, Milano, 2001, p. 173. 9) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p. 78. 10)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.98. 11)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.284-285. 12)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p. 286-287. 13)D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.131-132. 14) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.139.

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15) B. Mondin, Il messaggio cristiano e l’uomo moderno, p.65. 16) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.143. 17) D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia, 1997, p.149. 18) A. Gallas, Anthropos tèleios, Queriniana, Brescia, p. 226. 19) S.Sorrentino, << Sanctorum communio>>: una comunità nelle dimensioni della storia, da Sapienza, Anno XXVI, n.2, p.148

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(Foto di Paola Pluchino)

BALAUSTRE

- Gianluca Pulsoni, Il visibile e l’invisibile: appunti sul cinema di G. M. Gaudino e Isabella Sandri - Giulia Sini, Secrets of the sun. SOS - Matteo Boscarol, Visibile/Invisibile Animazione

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BALAUSTRE

L’OCCHIO MANCANTE (1)

Il visibile e l’invisibile: appunti sul cinema di G. M. Gaudino e Isabella Sandri

di Gianluca Pulsoni

[…]

nota bene tout le film tourné hors champ comme jaunissent les pêchers comment le plaine se strie lignes coupe-vent/ pylônes/maisons rouges hangars bombés/ tunnels de plastique/ petites routes

J. C. Bailly, da Le basse continue

È praticamente misconosciuto qui in Italia il lavoro cinematografico che da anni, Giuseppe M. Gaudino e Isabella Sandri compiono, singolarmente ma sempre con una costante complicità progettuale, ai margini del sistema.

Stabili per ora a Roma, ma lontani dalle logiche dominanti del mercato, continuano imperterriti a scrivere e immaginare e filmare la realtà a discapito di tutto, conservando l’obliquità di una poetica che annulla le distanze tra molte supposte dicotomie: cultura alta e cultura bassa, degrado e poesia, avanguardia e tradizione, documentario e finzione. Ponendosi in questo modo come radicalmente moderni e automaticamente non riconciliati all’idea di un cinema senza “passaggio delle idee”.

A loro si dedica questo lavoro sulle tracce del visibile e l’invisibile del cinema. E, con loro, tutto ciò, trova un caso italiano: attuale, anti-retorico, flagrante.

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I.

Tracce di una poetica in transito

Il cinema di Giuseppe M. Gaudino e di Isabella Sandri, nasce negli anni Ottanta, in Italia. Come il loro incontro, di lavoro e di vita (oggi hanno anche una loro modalità di auto-produzione, dal nome che è una sintesi dei loro cognomi, “gaundri”). Già con alcuni segni forti e profondi, che rimarranno una costante di ognuno: perché nonostante l’incontro, ognuno dei due ha mantenuto, fino ad oggi, il modo personale di vedere e interpretare l’uomo, la società e il mondo. Da una posizione faticosa ma privilegiata, alla fine. Quella che parla dal margine (che, come si sa, rischia sempre di irrompere):

Veniamo tutte e due da studi legati soprattutto alle arti visive: perché Beppe ha fatto l’Accademia di belle arti a Napoli ed io ho fatto il Dams arte a Bologna. E questo, già dall’inizio, ci ha portato ad una ricerca non solo spinta sul piano dell’urgenza dei temi e dello spessore dei contenuti, ma anche sul lato della sperimentazione e della potenza dell’immagine, e del linguaggio attraverso l’immagine. Ed è una cosa che amiamo molto: considerando che poi la sfida è di riuscire con mezzi che consideriamo liberi, dal punto di vista espressivo. Proprio da film-maker. Ad esempio Beppe potrebbe raccontarti di come ci sia stata una lunga documentazione per Giro di lune non solo sul piano della documentazione della realtà ma anche sul piano di una documentazione e di una ripresa di vari linguaggi, delle avanguardie artistiche e anche di quelle del cinema. E l’avanguardia, la ricerca aveva segnato da tempo il nostro percorso. Beppe aveva iniziato già nei settanta con Annotazioni per un documentario su Pozzuoli. E questo se vuoi è il punto di partenza, lo snodo, per arrivare alla fiction di Giro di lune tra terra e il mare. Io poi Beppe l’ho conosciuto al centro sperimentale di cinematografia perché stava montando Aldis. E per me all’inizio lui era Aldis e il mondo, le forme e le idee che stavano dietro ad Aldis. Poi, invece, ho conosciuto che il suo mondo era anche legato ad una forza intrinseca con i luoghi, il territorio, il reale etc. Poi l’ho accompagnato in queste peregrinazione che mi hanno colpito tantissimo – perché venivo da Rovigo, dal Polesine – e non conoscevo per niente il sud, non conoscevo Napoli e non sapevo che cosa era successo al rione Terra. Così il nostro viaggio, il mio viaggio con lui è iniziato con questo rapporto d’amore per il rione Terra, per Pozzuoli: per girare lì, per filmare (lui continuava poi un suo lavoro e un suo discorso iniziato anni prima) per arrivare poi alla fine a Calcinacci. E Calcinacci è un lavoro in cui poi si sono ritrovati tutti i temi che ancora adesso sviluppiamo, che appunto è la documentazione ma che è anche la possibilità di queste aperture al sogno, al mito, che inoltre nutrono la zona. […]

Poi noi – io avevo visto Beppe montare Aldis e come detto, in quel periodo l’ho conosciuto – ci siamo ritrovati, finito il Centro sperimentale, ad Ipotesi cinema, perché finito il Centro sperimentale il problema era produrre qualcosa in pellicola. Oggi noi ci lamentiamo di quello che sta succedendo adesso ma io mi ricordo che nel 1985 la situazione era assolutamente disperata, e riuscire a trovare qualcuno che ti producesse era raro […] Quindi Ipotesi cinema finito il Centro sperimentale pensavamo fosse l’unico posto dove c’avrebbero prodotto qualcosa, in pellicola… o poi, come per Calcinacci, in video.

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Il racconto di Isabella Sandri non potrebbe essere più rivelatore. C’è già molto della loro biografia “filmica” e della loro inclinazione a due mondi, che sono due tradizioni più o meno divergenti della storiografia del cinema: il polo Lumière, l’automatismo della realtà che può soltanto essere ripresa, trovata e contemplata, e che viene esclusivamente prima della nostra presenza; il polo Meliès, ovvero l’artificio e la volontà della ricerca, della messa in scena, della finzione. Due polarità, queste, che sono state una sorta di leit-motiv della produzione d’autore fino ad oggi.

La concezione del cinema, come arte dell’accordo e del raccordo tra visibile e invisibile, forma-di-vita e vita-senza-forma, porta il lavoro di Isabella e Giuseppe a proseguire per piccole tappe di sperimentazione costante, che però fissa alcuni punti fissi, punti visibili nella loro metodologia. Fin dagli inizi di ognuno.

Anzitutto il lavoro sull’immagine: il trattamento della luce, del colore e del suono, e quindi più in generale il trattamento degli “stati” dell’immagine.

Con Aldis (Gaudino, 1983), film-tractatus di sperimentazioni visive, attorno al volto e al corpo di una marionetta di legno che si rianima, Gaudino espone un lavoro sull’immagine audio-video tale da rendere già l’evidenza del film e allo stesso tempo l’irruzione di uno stato alchemico della materia. E la stessa traccia, ben visibile, sempre disgiunta da una “poetica a messaggio”, la si trova pronunciata e scolpita anche in Annotazioni per un documentario su Pozzuoli ( Gaudino, 1987-88), lavoro-studio preparatorio a Giro di lune tra terra e mare (Gaudino, 1997), opera che invece fa della sperimentazione il rito di passaggio del visibile in invisibile, e viceversa, in tutte le loro declinazioni e forme (storia/mito; neorealismo/espressionismo; razionalità/pensiero selvaggio; narrazione/sinfonia etc.).

Con Isabella Sandri il discorso è meno evidente ma tuttavia presente, passando magari per una negazione dell’estetica del documentario e del naturalismo, che prenda poi forma in un sentimento “sospeso” tra empatia e osservazione. E rilevanti, a questo proposito, sono già i suoi lavori sui popoli altri, lavori etnografici più di qualsiasi film scientifico perché riescono a performare lo sguardo, come una prova per giungere alla “communitas” , a un sottile stato di progressivo allargamento di coscienza, come in Gli spiriti delle mille colline (Sandri, 1997) o in La zattera di Sabbia (Sandri, 2003). Andando a verificare, se si vuole, una grande intuizione di V. Turner: «quando i drammi sociali trovano veramente i loro “doppi” culturali (per usare, invertendone il senso, un termine di Antonin Artaud) nei drammi estetici e in altri generi di performance culturali, è possibile […] che si sviluppi fra essi una convergenza, in modo che da un lato nei drammi estetici sia

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implicita la forma processuale dei drammi sociali (anche se soltanto per inversione o negazione), e dall’altro la retorica dei drammi sociali, e dunque la forma di argomentazione, sia tratta dalle performance culturali.» (2)

Da qui è chiaro che la loro attenzione all’immagine in quanto protesi del discorso tocca anche gli aspetti che in genere dell’immagine non vengono mai pensati e ne tantomeno pesati, le sue proprietà invisibili: cioè quegli aspetti fuori dalla giurisdizione della volontà d’autore, della volontà di significato simbolico. E da questo punto di vista i gaundri sono da considerare come due artigiani delle immagini. Due artigiani con le stimmate dei film-maker, che creano il loro film da zero. Che tendono a lavorare su tutti i parametri che vengono implicati, a 360°. Per sortire anche l’effetto di uno spiazzamento significante. Si pensi ancora ad Aldis, dove il montaggio, ritmico e barocco, lavora in cupio dissolvi con soluzioni formali prese in prestito da campi affini all’avanguardia, per produrre uno spaesamento topografico dello sguardo che si perde tra le mille immagini “velate”; oppure Giro di lune tra terra e mare, e a tutta la parte dell’immaginario, “rovinata ad arte” per staccare le figure dallo sfondo del set e dargli la loro irriducibile “aurea”. Più in generale, nei loro lavori tendono sempre, laddove gli è possibile, a de-teatralizzare, soprattutto attraverso un uso alle volte davvero formalista del montaggio, le scene dei loro film. Con varie soluzioni stilistiche o anche piccoli accorgimenti anche “minimali”, buoni affinché un certo tipo di intensità “irrelata” venga comunque espressa, affinché la flagranza irriducibile dell’immagine possa irrompere nelle sue potenzialità…

Ma questo appunto non c’è bisogno nemmeno di spiegarlo. L’idea si muove con uno stato d’animo preciso per cui l’immagine è sempre mossa da un sentimento. […] Tu andavi a disturbare dei luoghi perché erano posseduti da altre forze, altri spiriti, altre presenze: come per esempio il volo dei piccioni spaventati (cfr. una scena di Calcinacci), il suono dei piccioni spaventati… per trovarlo ricrearlo, rimodularlo dovevamo proprio essere partecipi di quel sentimento simile a quello di quei ragazzini che erano entrati nel duomo, a portare via le rovine e a violare uno spazio che non era il loro, mostrandosi come doppiamente colpevoli, perché in più erano anche ladri. E tutto questo come raccontarlo? Logico che non c’era dietro una storia, ma siamo partiti da tale partecipazione di sentimento, e cercare poi con il linguaggio delle immagini – i primi piani degli angioletti – o con il suono, di riprodurre questo stato d’animo.

L’altro punto fisso della loro metodologia riguarda il loro lavoro di documentazione argomentativa: dalla scelta dei soggetti alla forma delle trame. Tecnicamente, visibilmente, i loro lavori, nella maggior parte di essi, si fanno rientrare dentro la categoria di “documentari”. Ora, è chiaro che la parola va questionata e spiegata. Cosa significa, in sostanza, un “documentario”? Il suo significato, complesso e sfaccettato, difficile da definire in modo icastico, oscilla tra forma e produzione. Ora, seguendo un pensiero di Godard, che vuole che “un film, se tale, sia anche il documentario di sé stesso”, ci teniamo buona l’etichetta di documentario per quanto concerne la collocazione produttiva dei molti lavori dei gaundri, ma decostruiamo senza meno l’associazione di questa parola come “genere” dei loro lavori. Cosa ha di visibile un documentario in modo significativo? La “tesi”: la struttura

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che poggia su una tesi, “centrata”, che deve essere dimostrata o soltanto mostrata. La forma di un documentario è data dalla “tesi”, dal messaggio.

Ora, nei lavori non di fiction dei due cineasti italiani, lavori che si strutturano come ricerche etnografiche vere e proprie e in cui il set è il fieldwork, la “tesi” permane, ma non è più al centro del sistema del film: bensì si trova ad essere in continuo contrappunto con tutte le singolarità presenti o soltanto evocate. Esposta, e non imposta, “negoziata” e modulata dentro al film, dialogante spesso con digressioni e altri brani, poetici o narrativi, dentro a un “coté” stilistico che si mantiene costante, come nelle opere di fiction del duo, laddove è possibile. Come in Materiali a confronto, Albania-Italia 1994-2003 (Gaudino, 2003), esempio splendido di un documentario in forma di “affresco”, dove le testimonianze di tre ragazzi albanesi “attraversano” lo spazio sospeso, tra passato e (mancanza di) presente, del film.

Ma tutto questo diventa essenziale per provare a dire allora che il loro cinema incorpora nei singoli lavori la prassi del documentario, non come un fine, non come genere, ma come “mezzo” e modo di intendere il dispositivo-film. Seguendo l’idea che la sceneggiatura significa apertura della Storia e del linguaggio al caso, alle immagini: per incontrare i soggetti, tessere nelle pieghe del fuori campo la narrazione e liberare il visibile dall’essere-contesto, dall’essere “quadro”.

II.

Né visibile, né invisibile.

Traccia di una de-costruzione dello sguardo

Il cinema, in quanto articolazione di un discorso tra visibile e invisibile, è “fuori”, altro da queste due categorie. Nel momento stesso in cui le fonda, le sfonda. È la “tabula rasa” di queste due categorie, in quanto “movimento”, spiazzamento, de-pensamento.

Così l’immagine, oscillante come segno tra l’essere “documento” – visibile – sovrascritto a uno scheletro di una determinata “patografia” – invisibile – è ancora altro: irriducibile ad entrambi i poli. Né totalmente luce, né totalmente buio. Ma momento di passaggio, passaggio del momento, “crepuscolo” del pensiero. Aporia del linguaggio…

Perché noi facciamo proprio gli extra-terrestri che arrivano e toccano il suolo. E si trovano proprio con occhi concretamente concavi. Diventiamo lì quasi come dei recipienti, con le nostre telecamere. E riprendiamo però, con lo stesso spirito, identico, vediamo Napoli ed altri luoghi che sono diversi…

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Napoli come la Kabul di Kakà Shirin (il protagonista di Storie d’armi e di piccoli eroi, Gaudino-Sandri 2008 n.d.a)

Assolutamente. Tu viaggi nella metropolitana di Napoli, adesso… e hai una sensazione, oltre che dell’intersecarsi di molti mondi, di non una estraneità. Ma di una estraneità in senso positivo. Perché se tu ti abitui ad applicare questo esercizio dell’occhio, lo puoi fare rispetto a qualunque cosa. Questa capacità, come dice Beppe a volte riuscita a volte no, dove l’immagine è flagrante. Dove appunto appare una epifania, come un evento. E questa cosa ti può capitare, se appunto l’atteggiamento è quello di empatia e di riflessione, ti può capitare in qualunque posto, in qualunque momento. Quindi gli Scali ci sono perché, in quei momenti, in quel poco tempo che hai a disposizione, tutto è potenziato. E questo atteggiamento ce l’hai non inframmezzato all’arco della tua vita ma ce l’hai come un momento a se stante, che tu riesci a vivere con molta chiarezza e lucidità. E ad esercitarlo, di volta in volta. Abbiamo anche Parigi così, abbiamo Londra… abbiamo un sacco di città girate. Con lo stesso occhio, lo stesso sguardo.

Sempre da alieni…

Si ma quello che cerchiamo, poi, alla fine… è tutto ciò che tradisce, alla fine, questa idea di alieno.

Accade, allora, col cinema di Giuseppe M. Gaudino e Isabella Sandri che, nei loro migliori momenti, i loro film si traducano in un cortocircuito tra forme della memoria e istanze di presente, dove il gioco stesso della memoria – come testimonianza (cfr. Materiali a confronto; Gli spiriti delle mille colline) o come immaginario (cfr. Giro di lune tra terra e mare; Aldis) – traduce il desiderio di distaccare lo sguardo dai corpi, facendolo corpo sottile, “spettro” e soggetto assoluto aleggiante tra le architetture delle immagini. In modo tale che ogni volta la figura possa avere il predominio sul suo “sfondo”, sul racconto che la fonda. E lo sguardo, libero, possa essere il segno – uno sguardo-ritmo, uno sguardo-tatto, un “sesto senso” – del movimento che passa e di quello che “resta”.

Per un cinema a misura tanto del senso quanto del “momento”.

Ed è senza dubbio la relazione tra tempo e sguardo, cioè tra sfondo e figura, che è centrale come leit-motiv nelle prove dei due cineasti.

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Nello specifico, si tratta allora di dare una “continuità” al labile presente filmico, attraverso le forme della memoria, come ideale prolungamento e completamento espressivo. Fino a

spiazzare, se necessario, alle volte, con le coordinate tecnico-riproduttive dell’atto stesso di guardare, lo sguardo stesso: tanto la retorica d’autore, quanto la percezione dello spettatore.

Dire quindi – negli argomenti – e mostrare – nelle audio-visioni – come il presente nel cinema assume su di sé, per essere “presenza altra”, le forme della memoria, con proiezioni e rovesciamenti continui di ogni traccia di rappresentazione in invenzione e viceversa, significa alludere a una “dimensione” prettamente cinematografica del tempo. Una dimensione spostata, slittante, che si incammini invece verso quella poetica che un grande filosofo aveva già

chiamato l’ “alchimia degli estremi”.

Fino a formare un pulsante tempo-ritmo diverso, sfasato, dolcemente out of joint e capace di far irrompere e far vibrare, sempre, l’immagine come segno di rottura sintattica, rivelazione cognitiva e emozione lirica dentro le maglie di ogni dialettica soggetto-oggetto.

Salvaguardando l’indecidibile attorno ad ogni immagine, l’alone di inespresso e frammentario come “movimento segreto” di ogni narrazione, perché «non è la favola dell’alterità innocente che il cinema ci racconta, poiché l’incontro può comportare il conflitto, l’incidente e anche la paralisi del movimento. È precisamente andare per la nostra strada, ma con un’altra andatura.» (3)

Né memoria, né presente allora. Ma reverîe: come secondo la lezione di Ricoeur.

Reverîe come derma della realtà, esteso all’infinto, dove l’occhio guarda ed è guardato, finalmente mancante. Finalmente nel corpo del mondo. Dove tutto è in tutto, da ripetere e riprendere, ogni volta.

Reverîe: ecco il nome della forma, aperta, del cinema e dei film dei gaundri.

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NOTE (1) Le citazioni dell’articolo, sono, quando non sono indicate, estrapolazioni di una lunga conversazione “ininterrotta” con i due cineasti. Che qui, umilmente, ringrazio, per la loro generosa disponibilità e apertura. (2) V. Turner, Dal rito al teatro, Il mulino, Bologna 2004, p. 164 (3) M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento, Le Lettere, Firenze 2008, p. 300

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Isabella Sandri

Isabella Sandri (Rovigo, 1957) è laureata al Dams di Bologna e diplomata in regia al “Centro Sperimentale di Cinematografia” di Roma. Dopo aver girato vari cortometraggi, tra cui Calcinacci, vincitore del premio Spazio Italia nel 1990 al Torino Film Festival, nel 1995 realizza il suo primo lungometraggio intitolato Il Mondo alla Rovescia, selezionato a Locarno e a Torino. Con Gli Spiriti delle Mille Colline (1997) vince il Silver Spire Award a San Francisco e il secondo Premio Nazionale del documentario italiano “Libero Bizzarri”. Firma nel 2000 la regia del film Animali che attraversano la strada. La zattera di sabbia (2003) ha vinto il premio speciale della Giuria al Torino Film Festival. Lavora con Giuseppe M. Gaudino dal 1988, e con lui dal 1990 in poi ha realizzato il già menzionato Calcinacci, La casa dei limoni, Scalo a Baku, Maquilas e Storie d’armi e di piccoli eroi (2008).

Filmografia “minima”

Paesaggio domestico (1984), Anita (cm, 1985), La vestaglia rosa (1988), Italia ’90, lavori in corso (film collettivo, 1989), Diario in poesia (TV, 1989), Elvira Notari: pioniera del cinema napoletano (TV, 1990), Calcinacci (1990), Ricordo di Virginia (TV, 1991), La divina Claudia (TV, 1991), Il mondo alla rovescia (1995), Gli spiriti delle mille colline (1997), La casa dei limoni (1999), Animali che attraversano la strada (2000), I quaderni di Luisa (2001), La zattera di sabbia (2003) Scalo a Baku (2003), Maquilas (2004), Storie d’armi e di piccoli eroi (2008)

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Giuseppe Gaudino

Giuseppe Gaudino (Pozzuoli, 1957) si è diplomato in scenografia presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli e in regia al “Cento Sperimentale di Cinematografia” di Roma. Nel 1983 ha esordito con il documentario Antrodoco, una storia per due battaglie. Nel 1992 ha realizzato Joannis Amaelii, anima vagula e blandula, “backstage” di Il ladro di bambini di Gianni Amelio. Giro di lune tra terra e mare del 1997 è il suo primo lungometraggio, presentato in concorso a Venezia, riceve il plauso della critica come uno dei migliori film italiani degli ultimi anni (vincitore del Tiger Award di Rotterdam). Nel 2002 firma il documentario O’ Ciuna, mentre nel 2003 ultima Materiali a Confronto, presentato a Venezia. Lavora con Isabella Sandri dal 1988, e con lei dal 1990 in poi ha realizzato Calcinacci, La casa dei limoni, Scalo a Baku, Maquilas e Storie d’armi e di piccoli eroi (2008).

Filmografia “minima”

Antrodoco, una storia per due battaglie (1983), Annotazioni per un documentario su Pozzuoli (1987-88), Aldis (1989), Calcinacci (1990), Joannis Amaelii, animala vagula blandula (1992), Giro di Lune tra Terra e Mare (1997), La casa dei limoni (1999), I diari della Sacher: Scalamara (doc, 2001), Gli amori di Aldis (2001), O’ Ciuna (2002), Materiali a Confronto, Albania-Italia (2003), Scalo a Baku (2003), Maquilas (2004), Storie d’armi e di piccoli eroi (2008)

Paolo Brunatto ha dedicato a G. M. Gaudino nel 2006 un film-ritratto nella sua serie I clandestini del cinema italiano, serie prodotta dal canale satellitare Cult.

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BALAUSTRE

SECRETS OF THE SUN. SOS.

Di Giulia Sini

La luce - Visibile e Invisibile: appella così l'autore la mostra “Secrets of the Sun”, che ha avuto la sua prima apparizione ai Mercati di Traiano, Roma, nel 1992, creata per rendere la Bellezza e l'Orrore della luce solare e dei suoi effetti sull'umanità e sull'ambiente. Strumento centrale, grosso e tecnologico pennello, è l'Eliostato, macchina che cattura e ferma la luce solare tramite uno specchio che riflette, frammentati attraverso un prisma oscillante, i colori dello spettro all'interno delle stanze oscurate e delle persone che le attraversano. Non è la prima opera in cui Peter Erskine, l’artista californiano, usa la luce; naturale o artificiale, in forme dal gusto minimalista, sempre e comunque intrisa di un misticismo indiano cui si avvicina con i suoi viaggi. Ma, in maniera ben più complessa, passa dalla concezione di un’opera progettata per un luogo specifico, ad una cosiddetta opera-luogo originata, un prodotto artistico non “creato per” bensì “creato da” un luogo architettonico che lo ospita: esclusivamente solare, SOS è un enorme gustoso arcobaleno che allaga la struttura in ondate imprevedibili, suggerite eppure autonome. Prende a piene mani dalla Scienza, che sia astronomia, che sia fisica della visione anche, sa degli effetti invisibili delle onde elettromagnetiche, sia benefici che non. Anzi, più spesso “non”. E’ cosciente della generica incoscienza dell’inseparabilità dal tutto, da esseri alienati dalla natura, ignari degli effetti del proprio comportamento sul sistema di cui si fa parte. Sono tutti temi, insieme a una riflessione sulla bellezza ai massimi gradi di intensità, che Erskine prende in grembo e fa fermentare e che lo dirigono a quella grande orchestrazione che è SOS. Non meno importante, l'intera mostra è alimentata

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dall'energia solare prodotta. Un'arte ecologica, oltre che tecnologica, che va a braccetto con le musiche di Bruce Odland e Paul Klite di Terra Infirma, anch'essi artisti ambientalisti che danno il loro contributo insieme a Sam Auinger per quel che concerne il percorso sonoro dell'esposizione. SOS è una sorta di percorso iniziatico che prende posto nelle stanze dei Mercati e in parte al suo esterno, che parte con una rinuncia all'indennità (nonché dichiarazione di responsabilità e consapevolezza) materialmente firmata su carta e con l'indossare una tuta bianca che trasformerà lo spettatore in tela vivente, portandolo per i vari episodi rivelatori, rendendolo attore interagente, modellatore dell'opera con le risposte che in essa provoca al suo passare (variazioni di colore, emissioni sonore) e che termina con la restituzione del vestito rituale, per tornare all'aria aperta, cresciuto. Entrando in SOS sembra di viaggiare nelle pagine di un Novalis o di un Jean Paul, nelle quali “fiammeggiava un’aurora dove si sospendevano le perle degli arcobaleni” (Rêve d’un Rêve). [1] L’arco dei colori diventa davvero un tutto avvolgente, intangibile, in mutazione perenne. “Un raggio di sole è qualcosa di diverso dai colori. Cionondimeno il raggio di luce è suscettibile di essere animato, in modo che l’anima vi si rifranga in colori d’anima…”.[2]

OCCHIO LUCE SPAZIO STRUTTURA TEMPO

Erskine vuole che sia come “camminare dentro un quadro futurista”: il Futurismo era l’arte della totalità, dell’ambiente animato, del dinamismo e della compenetrazione spaziale; del mito della macchina. Con forti implicazioni per i fenomeni occulti si interessava alle dimensioni parallele, ai fenomeni psicocinetici, nell’ambito di una temperie culturale in cui si pensava che grazie ai novelli raggi X si sarebbe potuto rivelare ogni segreto, anche l’anima, avendocela. L’intento era di percepire il movimento psichico invisibile, l'energia vitale, con una commistione di parascienza e paranormale sedotta dall’energia e dal movimento della materia, luogo di eventi che la visione normale non coglie. Le tracce delle figure in stato psicomotorio, banco di prova degli studi di Balla e Bragaglia, trovano il loro corrispettivo in SOS nei cambiamenti di colore che le persone che attraversano l’installazione vi determinano; e non a caso: l’immagine residua trasparente permette di rilevare la fusione con l’ambiente, attraverso il canale incorporeo in cui tutte le cose si

compenetrano al di là dei limiti interiori ed esteriori in forme mai finite.

Lo spazio, concetto astratto usato per esprimere qualcosa in cui si è o si ha intorno o è altrove, misurabile, rappresentabile, da riempire, o da tener vuoto come distanza tra noi e

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l'altro; è stato per secoli quella convenzione grafica a tre dimensioni e un cono prospettico in cui il pittore monocolo rappresentava la finestra di una visione astratta che ordina oggetti, una deformazione culturale fatta di linee rette tirate a squadretta, non già più fisiologicamente curve come curva è la retina che dialoga col cervello lontana da quello spazio psicofisiologico che arricchisce altezza/lunghezza/profondità con un davanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra. La geometria è la vera natura della realtà, finché non entra in gioco Einstein spiegandoci che è una sovrastruttura imposta. Con lui tempo e spazio diventano ufficialmente relativi; sono soggettivi, sono parole o concetti con cui esprimo la cosa dal mio punto di vista: oltre a xyz che descrivono la posizione di quello rispetto a me, il tempo diventa la quarta dimensione. Il futurismo, e –per rubare una frase di McLuhan- il cubismo con la sua “immediata consapevolezza sensoriale del tutto” che coglie “in un unico istante la consapevolezza totale”, rivelano la forte influenza della “poetica” della quarta dimensione, lo spazio-tempo. “Non è forse evidente che non appena la sequenza lascia il posto alla simultaneità, si entra nel mondo della struttura e della configurazione?” [3] Sempre più allo spazio rappresentato si sostituisce una nozione di spazio esperito. Negli anni ’50 del novecento assume dimensione gestuale perfettamente astratta come prolungamento del movimento del corpo di Pollock, avanza o retrocede sulla bidimensionalità tonale silenziosa dei colour-field paintings di Rothko dal retrogusto mistico ed esistenziale, si refrigera nella geometria netta e inespressiva dell'hard-edge di Newman, Noland, Kelly. Sull’altra faccia della luna il movimento chiassoso della Pop Art (Claes Oldenburg) lo rende spazio per azioni in ambienti, estendendo la pittura alla realtà quotidiana; al sorriso spennellato sull’artista che vi si presenta all’interno (Jim Dine). Nel Minimalismo è la scultura a rompere la sua scala canonica e intima per assumere proporzioni monumentali, talvolta vivibili, fino alla scala urbanistica, cibandosi di materiali industriali di serie, di brandelli della realtà da cui nasce e che digerisce in conformazioni geometriche, ritmiche, riducendosi all’essenziale. Risentendo fortemente della fenomenologia di Merleau-Ponty e degli studi sulla percezione, le opere nate da questa corrente strutturano lo spazio con l’energia che emana dalla forma, ponendosi sul un piano temporale infinito e altro. E’ qui che le prime opere di un Erskine scultore, negli anni ’80, trovano le loro radici, nella luce naturale o al quarzo usata come struttura primaria, assoluta, geometrica, essenziale, su bianco o su oro, in variazioni e suggestioni misticheggianti seppur nella fredda angolosità del supporto. Altro fondamentale riferimento per SOS è la ricerca

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effettuata dai “Californian Light and Space Artists” verso la fine degli anni ’60 a Los Angeles, principalmente rivolta alla condizione dell’uomo inurbato e alienato dalla natura, privato dell’orizzonte. Gli ingredienti immateriali di artisti come Nauman, Wheeler e Turrel sono sempre la luce, la percezione, l’illusione, in spazi opprimenti, nel deserto sconfinato, in solidi impalpabili e fraintesi, o addirittura nel rapimento di un pezzo di cielo, nell’indagine di quanto l’arte dipenda dall’osservatore.

SOS è un'opera itinerante. Ha già viaggiato e viaggerà ancora, essendo un’opera-luogo-originata che ogni volta dovrà la sua forma all'edificio in cui si sviluppa. La scelta della struttura dei Mercati di Traiano in Roma per la sua prima edizione, la annette al filone dell’arte che ha subito la fascinazione dell’antico. Antico non come mimesi, ma come sentimento. La Earth Art, figlia del Minimal e del Concettuale, intrisa di metafore archeologiche, si palesa a volte come mock-archeaeology, “falsa archeologia” (Alan Sonfist: Time Landscape) facendo sua una forte dimensione rituale, di cammino, di traccia. Altrove si contestualizza in spazi storici, come nell'opera dei coniugi francesi Anne e Patrick Poirier sedotti dal fascino del tempo sui muri sbriciolati che rivelano la struttura dei luoghi architettonici. Ancor prima di loro, secondo Jiro Yoshihara, leader del Gutai, pioneristico gruppo giapponese nell’happening e nella performance, poteva “interessarci e coinvolgerci solo la bellezza contemporanea percepita nelle alterazioni causate dall’oltraggio del tempo che passa inesorabile su oggetti d’arte e monumenti. Ciò sembrerà apprezzamento di un bello decadente, ma è un modo di godere della bellezza della materia originaria rivelatasi al di là degli artifici di cui la si è travestita. Quando ci lasciamo sedurre dalle rovine forse cediamo proprio alla rivincita delle loro fessure, delle loro crepe sul sopruso subito dai materiali di origine”.[4] E’ così che l’opera di Erskine si inserisce nel monumento, in modo dialettico. I Mercati non perdono la loro identità. I torsi stessi che appaiono nella “Stanza della Riflessione sulla storia”, di intenso valore allegorico, simboli di passata grandezza, di divenire e assumere nuova forma, sono in piccolo ciò che per l’architettura è la rovina. Sculture acefale fronteggiate da enormi teste danno modo allo spettatore di rispecchiarsi in grande; il tema della riflessione è palese negli specchi della stanza e simbolico nelle sculture antropomorfe decollate, nelle teste divise dai corpi: l'ocularità, che nel capo ha la sua sede, è l'elemento primario della coscienza. La scultura, in antichità medium policromo e via via impallidito, vede rigenerato il suo manto cromatico: la pittura dello spettro su un marmo che per sua natura lascia filtrare la luce un po’ oltre la superficie, anima una cute di materia vibrante. E' pietra che si sublima. “Come spiegare che la statua si trasformi in figura umana? Forse dando vita e pensiero alla sua testa e il senso della carne a tutto il suo corpo? (...) il miracolo che colmò l'artista di gioia e meraviglia fu dunque la metamorfosi di quei bei muscoli di pietra in muscoli di vera carne”. [5]

VAPORE, SCULTURA IMPALPABILE: MOTONAGA, MORRIS, BEUYS, ERSKINE

Jiro Yoshihara, spiegava: “L'arte Gutai non trasforma la materia. (...) La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla perfino. Infondere vita piena alla materia è un modo di infondere spirito alla vita. L'elevazione dello spirito fa sì che la materia stessa venga introdotta in uno spazio altamente creativo”. [6]

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“Gutai” significa “concretezza”: volontà di concretizzare lo spirito attraverso la materia. Una poetica sperimentale ma fortemente radicata nelle tradizioni filosofico-religiose del proprio paese, che abbandonava la mostra in galleria per portare l’arte a cielo aperto o nel teatro. Interpretando la ricerca di forme dinamiche a mezzo delle tecniche più insolite che pervade la produzione del gruppo, Sadamasa Motonaga conclude con “Fumo”, la manifestazione Arte Gutai sul Palcoscenico (Osaka Sankei Hall, 1957), “Il sipario si alza sul fumo che fluttua, in una luce vivida si innalzano scoppi di cerchi di fumo accompagnati da sonori boati. Altri cerchi di fumo colorato scorrono poi lentamente passando sopra gli spettatori”. [7] Scrisse: “L’Universo non si arresta un solo momento nel trasformarsi e noi lo subiamo” e poiché la trasformazione non è altro che rinnovamento, “è naturale che noi cerchiamo di creare dei fenomeni nuovi o che li scopriamo con stupore”.[8] L'opera, non più finita ma dinamica, diviene casuale. Dilatata nel suo farsi, si pone “in un vuoto esistente tra arte e vita: come una dimensione di intatto presente”. [9]

Autore di un’arte contemplativa che non si può possedere materialmente, dal 1969 Robert Morris espone sculture in forma provvisoria. “Steam Cloud” è una struttura ambientale di nubi di vapore che, occupando lo spazio e trasformandosi in fattezze mutevoli, vanno dissolvendosi. Nel contesto, comune a molti artisti, di una dematerializzazione dell’opera d’arte, il volume è inconsueto, il limite è indefinito, l’aspetto materiale perde peso, la durata è fugace. La forma, non definita a priori, è scelta dal comportamento del materiale nel suo rapporto con l’ambiente ospitante, epifanica.

E’ del 1984 l'opera “Thermisch-Plastisch Urmeter” di Joseph Beuys, all'interno della mostra Sculptur im 20. Jahrhundert, a Basilea. Scultura impalpabile, è l’esito un'installazione realizzata in una cantina nella quale del vapore esalava da piccoli sfiatatoi sotto i gabinetti in virtù di un contenitore pieno d'acqua scaldato su un fornello a gas fuori dall'edificio, e un tubo di rame che lo indirizzava sino alla cantina attraverso un muro, facendolo vagheggiare in una nube presso il pavimento. L’opera nega la solidità e la permanenza della scultura sostituendole con il calore, aperto e informe.

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“Un'intensa nebbia sale da un'altra stanza della mostra. Vapori bianchi ricoprono il pavimento, quindi seguono zampilli che turbinano attorno ad una apparentemente semplice eppure minacciosa macchina metafisica (...) come le piume degli angeli di Giotto”.[10] Un edificio sagomato a mo’ di fabbrica, con un tetto a zig-zag e quattro lunghe ciminiere a canna d’organo. "Spectrum Vapor Chimneys" espelle fumo spettrale, di accesi cromatismi, ad emissione programmata, metafora della violenza dell'inquinamento industriale e denuncia ecologica: un tenero giocattolo che esala “i fumi colorati di sfumature brillanti dello spettro solare” come “i tramonti di Los Angeles offuscati dallo smog”. [11]

BELLO, BRUTTO E UN PO’ CATTIVO

Quella minimalista era una scultura “antropomorfica”, con le parole del critico Michael Fried [12], in quanto ponendo il significato al di fuori dell’oggetto, e derivandolo dalla risposta dello spettatore ad esso anche in termini di cambiamento di coscienza e comportamento, faceva perno sulla ricerca del contenuto umano dell’arte. Il tradizionale antropomorfismo di corpo opaco, che contiene l’individuo, riveduto e corretto, diviene attenzione per la coscienza del corpo come ruolo nella realtà fisico-sociale. La rappresentazione del guscio come emblema dell’umano, passa al tema dell’azione che coagula in un tutt’uno mente e corpo cartesianamente separati. Lo spettatore di Erskine è cosciente della propria interrelazione con l’ambiente attraverso una simbologia dell’azione. E’ invitato a trasformare la propria energia fisica in energia elettrica e suono, e ancora in energia nervosa che lo ripenetra in un flusso senza soluzione di continuità, pedalando sulla bicicletta “Faster”. Il concetto di unità che gli deriva dalla filosofia orientale, tra spirito e materia, mente e corpo, uomo e ambiente, si allarga alla coscienza delle pericolose ripercussioni a boomerang di azioni del singolo sull’ambiente. E’ il messaggio della mostra: ecologicamente, visitatore e opera diventano un sistema simbiotico in continua mutazione e in continua ricerca di equilibrio, dove l'uomo è ingrediente attivo dell'opera quanto specchi, luce, microfoni, eliostato.

“Bellezza” è qualcosa di ancestrale, archetipico; e altrettanto lo è la ritualità di un’ iniziazione: la mostra era un percorso di purificazione, un’ascendere dal buio di una fase alla luce di una successiva più evoluta e consapevole. L'abito cerimoniale è d'obbligo. La pelle, la superficie che delimita e rende individuo, e contemporaneamente pone in relazione con l’altro da sé: cambiare pelle è simbolicamente cambiare coscienza. Attratto nella natura della luce, nell’essenza ignea, l’uomo è trasfigurato e reso apparentemente impalpabile, allucinato e allucinazione.

Abituati alla luce solare, non stiamo troppo a pensarci. C’è. Ma da una parte questo extra-ordinario spettacolo di luci esalta i sensi, dall’altra informa della parte occulta e invisibile della luce, i danni possibili ad opera di frequenze al di là dello spettro visibile. “Non riflettiamo abbastanza su quanto accade lontano dai nostri occhi”. [13]. Diventa un realismo estremo che usa mezzi altamente tecnologici ma con un fare molto più alchimistico che scientifico, una ricerca sul cosmo empirica e intuitiva, di quell'intuizione tipica della creatività artistica che si nutre della realtà per plasmarla e riesprimerla senza costrizioni.

L’uomo dell’era elettronica, per dirla con McLuhan, ha esteso le sue terminazioni nervose, occupando grandi distese di spazio e di tempo. Dinamismo, energia, conquista. Introiettare il passato negli strumenti con cui ci si lancia verso l’avvenire. Abbandonando la tradizione

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secolare del tracciare su supporti atti a ricevere e conservare, Erskine esalta il corpo, la pratica sui materiali e l’occupazione dell’ambiente. Esteso al massimo verso il domani, attinge al passato per recuperarne miti e riti, congiungendo gli aspetti di un’antropologia arcaica a quelli del progresso tecnologico più avanzato. L’Uomo del futuro è, come i suoi antenati, un raccoglitore, ma di memorie.

NOTE

Le immagini pubblicate in questo articolo: Credits e Copyright di Peter Erskine. Il sito web di Secrets of the Sun, in cui è possibile vedere anche altri shots della mostra è all'indirizzo: http://erskinesolarart.net/sos.html [1] cfr. Gilbert Durand, I simboli spettacolari, in Le strutture antropologiche dell'immaginario. Introduzione all'archetipologia generale, Bari, Dedalo Libri, 1972, p. 222 [2] cfr. Gaston Bachelard, L'intuizione dell'istante. La psicanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1973 [3] Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, (1964), tr. it., Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 9 [4] Jiro Yoshihara, Manifesto dell'Arte Gutai, in Geijitsu Shincho, dicembre 1956; in cat. "Giappone all'Avanguardia. Il Gruppo Gutai negli anni '50" A cura di Shinichiro Osaki, Augusta Monferini, Marcella Cossu, Roma Electa, 1990-91, p. 156 [5] Diderot, citato da Jean Starobinsky, L'invention de la Libertè, 1700-1789, Genève, Skira, 1964, in Jean Clair, Medusa. L'orrido e il sublime nell'arte, Milano, Leonardo editore, 1992, p. 148 [6] Jiro Yoshihara, Manifesto dell'Arte Gutai, in Giappone all'avanguardia. Il Gruppo Gutai negli anni '50, op. cit., p. 156 [7] Bollettino Gutai, Osaka, 15 luglio 1957, ivi, p. 160 [8] Sadamasa Motonaga, ivi, p. 143 [9] Aldo Passoni, contributo critico senza titolo, in Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, a cura di Germano Celant, catalogo della mostra presso la Galleria Civica di Torino, giugno-luglio 1970, ivi, p. 143 [10] Jan Buttefield, Secrets of the Sun. Beauty and Horror, in Secrets of the Sun, Millennial Meditations-I, catalogo dell'Esposizione, Roma, 1992, p. 24 [11] Peter Erskine, ivi, p. 24 [12] citato in Kenneth Baker, Minimalismo, Milano, Jaka Book, 1989, p. 80, e da John R. Clarke, catalogo dell'Esposizione, p. 30 [13] Peter Erskine, catalogo dell'Esposizione

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BALAUSTRE

Visibile/Invisibile Animazione di Matteo Boscarol "L`occhio non vede piu`, si stacca ed in un`estasi delle cose per le cose rotola fra le pieghe della materia. Non vede piu` ma in un delirio tattile rotola, rotola, rotola. Biglia impazzita di gioia" "...ma soprattutto, di quale fuoricampo è l'animazione il segmento?" [Deguchi Izuru] Benchè esponente maggioritaria di ciò che viene definito comunemente cutlura pop l'animazione è un tipo di arte marginale, eccentrica e duplice (talvolta il suo status artistico è messo addirittura in discussione) dove paradossalmente tutto è massimamente visibile rimanendo allo stesso tempo invisibile. Visibile perchè non c è, o almeno nell' interpretazione dominante non ci dovrebbe essere, un fuoricampo della scena inquadrata, invisibile in quanto l'animazione (quella migliore s`intende) indipendentemente dal suo "realismo", nasconde il suo nocciolo di significazione, mancando quel referente reale automatico che le immagini filmiche portano "naturalmente" in grembo. C'è una coppia di autori d'animazione giapponese (1) le cui opere, per altro di diversissimo stile e fattura, si prestano particolarmente, in virtù della loro qualità, ad una lettura di questo tipo. Ci riferiamo ai lavori di due degli artisti più rappresentativi del panorama dell`animazione nipponica, Oshii Mamoru e Yuasa Masaaki. Se il primo è oramai conosciuto anche in Occidente, soprattutto dopo i suoi numerosi passaggi a Cannes e a Venezia, Yuasa non e` ancora molto conosciuto in Occidente (e forse neanche in patria) ma e` gia autore del geniale lungometraggio Mind Game e soprattutto di quel piccolo capolavoro seriale che è Kaiba, intravisto anche dalle nostre parti al Future Film Festival di Bologna. Che cosa è il visibile? Che cosa è l'invisibile? Ciò che vediamo è realmente visibile? Ciò che non vediamo è davvero invisibile? Ma soprattutto, come affrontare un tema come questo parlando di un' arte apparentemente visiva? Kaiba, o dell'oblio "L'oblio non va d'altronde confuso né con la dispersione della distrazione, né col sonno in cui la vigilanza si assopisce; l'oblio è fatto di una veglia cosi' sveglia, cosi' lucida, così mattiniera che è piuttosto un congedo alla notte e pura apertura su un giorno non ancora venuto. In questo senso l'oblio è attenzione estrema, così estrema che cancella ogni volto individuale che le si offre, una forma, in quanto determinata, è al tempo stesso troppo antica e troppo nuova, troppo strana e troppo familiare per non essere subito rifiutata dalla purezza dell'attesa e dunque votata all'immediatezza dell'oblio." (2)

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Kaiba è una serie animata realizzata nel 2008 dal noto studio giapponese Madhouse e diretta da quell`eclettico genio e sperimentatore che nel corso degli ultimi anni si è rivelato Yuasa Masa'aki ( Mind Game, Kemonozume, Genius Party ). Mandata in onda a tarda notte su un canale

satellitare, ci racconta la storia di un ragazzo che si risveglia senza memoria in un mondo tanto fantastico quanto psichedelico, un universo dove le memorie (e la coscienza?) delle persone sono contenute in un chip che sta in cima alla testa. Spostandolo si puo` quindi cambiare corpo, i cattivi ricordi possono essere cancellati e nuovi piu`belli venir istallati . Ma questa sostituzione è riservata solo a chi puo` permetterselo, i meno

fortunati devono accontentarsi di corpi minori, secondari, di seconda mano, oppure della morte, della disintegrazione del corpo alla quale segue inevitabile la dispersione delle memorie. Cancellazione che avviene, in una delle trovate poetiche più riuscite della serie, con il rilascio di minuscole uova d`orate le quali vanno a perdersi nell`universo. L`oblio è uno dei temi che fin dall'incipit informano e percorrono la poetica di Kaiba e che cos' è più invisibile dell'oblio? Invisibile perchè è sempre assente anche quando paradossalmente è presente, non è assenza di qualcosa, ma "attenzione estrema, così estrema che cancella ogni volto individuale". E' così succede con il ragazzo protagonista che ripercorre tutta la sua vita dimenticata partendo solo da un ciondolo dove è infissa la foto di una ragazza, cercando di farsi tornare la memoria. Ma è un rimembrare che è tale solo in superficie perchè fin dai

primi episodi ci si rende subito conto che non è il solito ed abusato tema del "cercare il proprio vero sè" la spina dorsale della serie, quanto piuttosto il guardare la "sua" vita dalla parte della dimenticanza, dal di fuori quindi, da un lui non più medesimo ma Altro. E' un flusso, un esplorazione della potenza del fuori, dei movimenti eccentrici liberati dal principio di identità esaltati del disegno surreale e dalla gommosità del mondo immaginato da Yuasa. Un labirinto senza centro in cui tutti i punti di riferimento si rompono (quella che per molti è una critica, per noi è un pregio) chi è chi? chi è stato che cosa? sono domande che perdono il loro senso trasportate in un vorticoso movimento, dove a danzare è l'assenza di un'identità fissa , una selvaggia proliferazione di soggetti tutti uguali eppur diversi, l'invisibile che permea il visibile finalmente esce allo scoperto.

E se il tema della dimenticanza è, come abbiamo gia` accennato, il topos con cui si apre la narrazione, va ancora una volta sottolineato come la purezza dell'oblio man mano che gli episodi proseguono, prenda forma nello stile, nel paesaggio, nello sguardo attonito e plastificato del pupazzone in cui si "accasa" temporaneamente il protagonista e soprattutto nella poesia dischiusa in molte scene. Oshii, o della tendenza immaginale

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“Chi va a fondo della rêverie ritrova una rêverie naturale, una rêverie di primo cosmo e di primo sognatore. Allora il mondo non è più muto.” (3) Sembrerà ardito e fuori luogo ad alcuni, ma ci sembra che meriti se non un approfondimento almeno una breve riflessione, l'evidente tendenza all'Immaginale che compare in quasi tutta l'opera di Oshii Mamoru, cioè l'esplorazione e l'avvicinamento a quella sfera che Henry Corbin ha genialmente definito come il "Mundus Imaginalis (...) . È un mondo in cui si trova, allo stato sottile, tutta la ricchezza e varietà del mondo sensibile, un mondo di Forme e Immagini sussistenti, autonome". (4)

Queste presenze sottili sono quindi invisibili ed è compito destinale di certa letteratura e soprattutto di alcune frange dell'arte figurativa di manifestarle. Oshii percorre questa pista poetica fin dall`ormai lontano 1985, anno della realizzazione di quel capolavoro di simbolismo attivo che e` Tenshi no tamago (“L'uovo dell'angelo”). Dialoghi quasi assenti in mondo pieno di rovine, di carcasse di animali pietrificati ed enormi palazzi gotici dove vagabondano i due protagonisti, un guerriero ed una bambina dai folti capelli bianchi che custodisce un misterioso uovo. Questa ricerca di “un dinamismo simbolico” (5) continua in tutta la carriera di Oshii, con delle punte di eccellenza come la scena del robot ginoide sventrato di Innocence, o la meravigliosa scena della sfilata sempre nello stesso film, dove davvero sembra di percepire i movimenti sottili ed invisibili di una materia in flusso. O ancora tutto quel piccolo gioiello che è Assault Girl 2 episodio dell`omnibus Kiru/Kill, l'attesa di una guerriera fantastica/fantascientifica in un campo di grano accecante alla Van

Gogh e`resa con una fotografia ed un montaggio cosi` perfetti che la forza simbolica delle immagini riesce quasi ad ispessire il tempo rendendolo visibile. La stessa qualita`di tensione immaginale si ritrova nelle lunghe scene della metropolitana in Avalon dove praticamente non succede niente, ancora una volta e`il tempo che esce dai suoi cardini, sempre sul punto di rivelarci qualcosa, forse un mondo anteriore, forse l`illusione di questo

o forse tutto il resto che non e` solitamente immaginabile. Con Oshii il mondo delle cose sussurra, il suo tocco e` salvifico in quanto ridona all`inerte esterno la sua sacralita`e

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l`uomo si ritrova in questo modo non piu` al centro del cosmo. Ma questa e` la sua salvezza. *** NOTE: (1) Parola da usare con le pinze specialmente nel caso dell'animazione, in quanto al processo di creazione il più delle volte, esclusi i casi maniacali alla Miyazaki, partecipano non solo una miriade di disegnatori e collaboratori ma addirittura una varietà di case di produzione. (2) Michel Foucault, Il pensiero del fuori, SE 2008 (3) Gaston Bachelard, La Poetica della rêverie, Dedalo, 1972. (4) Ecco il passo completo "Il mundus imaginalis ('‾alam al-mith‾al), mondo intermedio fra quello intelligibile degli esseri di pura Luce e quello sensibile; l'organo preposto alla sua percezione è l'Immaginazione attiva. Non è il mondo delle Idee platoniche (Mothol Ifl‾at‾un‾ıya), ma il mondo delle Forme e Immagini "sospese" (Mothol mo'allaqa); intendendosi con questa espressione che esse non sono immanenti a un sostrato materiale (come il colore rosso, per esempio, è immanente a un corpo rosso), ma che possiedono dei "luoghi epifanici" (maz‾ahir) in cui si manifestano, come l'immagine "sospesa" in uno specchio. È un mondo in cui si trova, allo stato sottile, tutta la ricchezza e varietà del mondo sensibile, un mondo di Forme e Immagini sussistenti, autonome, che è la soglia del Malak‾ut. Là si trovano le città mistiche di J‾abalq‾a, J‾abars‾a, e H‾urqaly‾a.” Henry Corbin, Storia della filosofia islamica. Dalle origini ai nostri giorni, Adelphi,1991 (5) “Rubiamo” questa bella espressione a Paolo Mottana a proposito di Tarkovskij, fra l`altro uno dei referenti cinematografici dello stesso Oshii. Qui il bel passo nella sua completezza: “Tarkovskij...ha tenacemente perseguito (…) l`opera di trasmutazione di una materia prima riottosa, sfuggente e abbandonata in un distillato saturo di dinamismo simbolico, in un opus in attesa di sguardi sufficientemente devoti per accogliere l`inesauribile messe dei suoi messaggi salvifici. “ Paolo Mottana, Il cinema immaginale, Sussidiarietà; Magia; Pedagogia immaginale; Tarkovskij e il cinema immaginale, in “Il cinema per la formazione. Argomentazioni pedagogiche e indicazioni didattiche” , a cura di Alberto Agosti, Franco Angeli , 2004.

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(foto di Paola Pluchino)

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- Lucetta Frisa, Scritti scelti e inediti di Jean François Millet - Paolo Zardi, La donna invisibile - Maria Antonietta Pinna, Superstizioni ed entità mostruose: Ichnussa e la poetica dell’oltre invisibile, dal gatto nero di Edgar Allan Poe alle surbiles logudoresi

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Scritti scelti e inediti di Jean François Millet

da Ecrits choisis di J.F.Millet, L’Echoppe, 1990

tradotti da Lucetta Frisa

L’arte della pittura

Nel 1858 appariva l’opera del pittore di origine elvetica David Soutter (amico di Millet, Rousseau e Diaz a Barbizon) dal titolo “Filosofia delle Belle-Arti applicata alla pittura”. Per simpatia verso l’autore, Millet ne intraprese la lettura: il più delle volte in disaccordo con lui, annotò le sue reazioni e riflessioni,evidentemente senza la minima velleità di pubblicazione.

L’arte della pittura consiste nell’esprimere l’apparenza dei corpi. Questo non è il fine dell’arte, ma il mezzo, il linguaggio che si utilizza per esprimere il nostro pensiero. Quello che chiamiamo composizione è l’arte di trasmettere pensieri agli altri. Per questo, non si può prescrivere regole a nessuno. Non può esserci una composizione che non comprenda essenzialmente l’ordine. L’ordine mette ogni cosa al posto che gli spetta e di conseguenza, dà chiarezza, semplicità e forza. È quello che Poussin chiamava le convenienze.

È un errore credere ci siano delle regole d’arte già trovate e stabilite per l’uso di chi vuole esercitarle. Chi può vedere la natura con i propri occhi e riceverne le impressioni non troverà in nessuna di esse il modo di comunicarle; è solo ciò che sente a comandare l’espressione. Al cane non si dà il fiuto: lo si addestra. L’educazione può fare solo questo. Ma l’esempio delle persone forti, qualsiasi cosa abbiano fatto e per quanto siano apparentemente diverse tra loro, ci conferma come nessuno abbia potuto sottrarsi a questa legge dell’ordine; e con molta naturalezza, dato che senza di essa, l’espressione non potrebbe manifestarsi, in quanto le cose non hanno il loro valore se non per il posto che occupano. Gli uomini forti non si distingueranno tra loro che per l’aspetto ultimo della loro opera. Tutti insegneranno gli stessi principi: essere sinceramente Pietro o Paolo, l’originalità è propriamente questa. Si può insegnare a qualcuno la materia dell’arte, ma solo fino a un certo punto. Ripeterà, insieme a ciò che ha imparato più o meno male, quanto gli altri hanno detto: ma non camminerà mai da solo se non vede con i suoi occhi. Si legge, nel Cuisinier français, una cosa molto più istruttiva di quanto sembri a prima vista: ”Per fare un salmì, prendete una lepre”. E’impossibile che un uomo diventi quello che non è chiamato a diventare; i buoni precetti possono sviluppare solo quello che c’è in lui. All’uovo occorre una chioccia; ma se l’uovo non ha il seme, cosa covare?

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La bellezza risulta dall’armonia. Non so se in arte c’è una cosa più bella di un’altra. Cosa è più bello, un albero dritto o uno storto? Quello che sarà adeguato alla situazione. Una situazione dove un gobbo sembrerà più bello di un Apollo messo a sproposito. Vedremo quindi sempre che, in qualunque modo si giri o si chiami la cosa, sarà sempre una questione di ordine. L’ordine, l’armonia, sono la stessa cosa.

Lettera a Thoré

In occasione della mostra di alcuni suoi quadri alla Galleria Martinet, Millet scrisse al critico d’arte Théophile Thoré, difensore del pittore dai tempi del Salone del 1844, che intendeva scrivere un articolo. Pubblichiamo la lettera direttamente dalla brutta copia per i chiarimenti che suggerisce e per il commento di tre quadri che, alla fine, non vennero esposti.

Barbizon, 18 febbraio 1862,

Mio caro Thoré,

poiché desiderate occuparvi dei miei quadri esposti da Martinet, vorrei dirvi un po’ qual’è stata l’idea che me li ha fatti fare. Giudicherete voi se ci sia qualcosa di buono da cavare fuori da questi appunti. Prima di tutto, devo dirvi che cerco di esprimere, in quello che faccio, il senso rustico. Che il mio motto sarebbe volentieri: rus!

In La donna che ritorna dal pozzo (1), ho fatto in modo che non la si possa scambiare né per una portatrice d’acqua né per una serva: che viene da attingere l’acqua per l’uso domestico, l’acqua per fare la minestra al marito e ai suoi figli, e abbia l’aria di trasportare né più né meno che il peso dei secchi pieni, e attraverso quella specie di smorfia stirata dallo sforzo dei pesi sulle braccia e gli occhi socchiusi a causa della luce, si indovini sul suo viso un’aria di bontà contadina. Ho evitato, come sempre, con una sorta di orrore, quello che potrebbe tendere al sentimentale. Al contrario, ho voluto svolgesse con semplicità e bonomia e senza considerarlo una corvée, un atto che è, come gli altri lavori domestici, il lavoro abituale di tutti i giorni della sua vita. Vorrei che si immaginasse la freschezza del pozzo e che il suo aspetto antico ci mostri come molti, prima di questa donna, siano venuti ad attingerci l’acqua.

In Pecore appena tosate(2), ho cercato di esprimere quel tipo di stordimento e confusione che le pecore provano appena spogliate e anche la curiosità e lo sbalordimento di quelle che non sono ancora tosate nel vedere tornare tra loro creature così nude. Ho cercato di infondere all’abitazione un’atmosfera rustica e serena. Che si possa immaginare il recinto erboso che sta dietro dove sono piantati i pioppi che la proteggono: infine che tutto questo abbia quell’aria abbastanza antica da far credere che sia stata abitata per intere generazioni.

Contadina che dà da mangiare ai suoi figli(3). Vorrei fosse come una nidiata di uccelli a cui la madre dà l’imbeccata. L’uomo lavora per nutrirli tutti.

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Poi, nel caso giudicaste necessario parlarne, il mio desiderio è che, in quello che faccio, le cose non diano per nulla l’impressione di essere mescolate a caso e per l’occasione, ma abbiano tra loro un legame indispensabile e intenzionale. Che gli esseri da me rappresentati abbiano l’aria di essere destinati al loro stato e che sia impossibile immaginarne un altro. In breve, che persone o cose siano là per un fine, uno scopo. Desidero dipingere pienamente e con forza quanto è necessario, ma professo l’orrore più grande per le inutilità e i riempimenti, che hanno solo il risultato di indebolire il quadro.

Non so se c’è da cavarne qualcosa da quanto vi ho detto, ma è esattamente così.

Ricevete, mio caro Thoré, una bella stretta di mano con l’augurio di una perfetta salute

J.F.Millet

Appunti

Non sono tanto le cose raffigurate a fare il bello, quanto il bisogno di rappresentarle e il bisogno stesso crea il grado di energia col quale si assolve a questo compito. Si può dire che tutto è bello a condizione che giunga a tempo e al suo posto; al contrario, nulla può essere considerato bello se è controtempo. Si potrà certamente lodare qualcuno per la bellezza della sua capigliatura, ma è difficile esprimere lo stesso apprezzamento trovando una ciocca degli stessi capelli dentro la minestra…Il bello è quello che è adeguato.

Rientro del gregge nel loro campo (4)

Finito il brusio di questo ultimo atto della giornata, tutto deve restare calmo e silenzioso. Mi piacerebbe lasciare presagire il regno sereno dell’astro che la gente di campagna chiama “il sole delle volpi”, e dare al mio quadro un aspetto tale che si ascoltino con l’immaginazione i rumori notturni: il coro delle rane e il lontano abbaiare di un cane di fattoria: e infine, esprimere il regno del silenzio. E ancora una volta (ci tengo) che la luna sia davvero “il sole delle volpi”.

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Un contadino e sua moglie che piantano patate(5)

Il loro campo è lontano dal villaggio, perciò non hanno potuto lasciare a casa il bambino da solo. Lo hanno sistemato in una delle ceste dell’asino, assieme al resto del carico, e, appena giunti a destinazione, l’hanno deposto all’ombra del melo nel cestino dove ha viaggiato: quindi coperto con la camicia del padre. Anche l’asino è stato messo all’ombra. Vorrei saper rendere commovente la maniera di lavorare di queste due creature così intimamente legate e fare in modo che le loro azioni si accordino talmente da sembrare una sola. A proposito: perché l’atto della semina di patate o di fagioli sarebbe meno interessante e nobile degli altri? Sia bene inteso che di nobile o basso non c’è che il modo di comprendere e rappresentare le cose, e non le cose stesse. Quanti esempi potrei citarvi a sostegno di questo!

L’impazienza e l’inquietudine dell’attesa(6)

Ecco che il sole, ancora una volta, è appena tramontato: e niente! Che fare se lui non ritorna? Ammesso che non gli sia successo niente! Non possono più decisamente tenersi l’uno all’altra. Partono insieme, ma giunti in strada, la madre non può fare a meno di allontanarsi un po’ dal cieco, che comunque cerca di discendere la soglia della porta, a tastoni, come chi non ci vede. Lei teme tuttavia di allontanarsi troppo da lui. Ora, col suo sguardo interroga in tutti i modi la strada, che resta vuota e scura. La noia ha invaso la casa. Poveri vecchi, vi tornerete molto tristi! Facciamo finta che queste persone siano dei vecchi Tobia: si potrebbe raffigurare la loro storia in maniera diversa da quella dei sentimenti umani?

Note

1) Paysanne revenant du puits (1855-1862) 2) Les moutons qu’on vient de tondre (1862) Yuzo Ilida, Chuo-Ku, Tokyo. 3) Paysanne donnant à manger à ses enfants (1860), Musée des Beaux-Arts, Lille. 4) Le parc à moutons au clair de lune è probabilmente il quadro che si trova a Parigi e non quello del Museo Walters a Baltimora. 5) Les Planteurs de pommes de terre (1861-1862), Museo delle Belle Arti, Boston 6) Tobie ou l’Attent“(1861), Galleria Nelson-Museo Atkins, Fondi Nelson, Kansas City. ***

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Nota biografica

Jean-François Millet nasce a Gruchy, nel 1814 nei pressi di Cherbourg da una famiglia di contadini molto religiosi. Fin da ragazzo inizia a dipingere. Amico di Theodore Rousseau e Théophile Gauthier, è stato criticato da Baudelaire nei suoi Salons. Nel 1868 è nominato cavaliere della Legion d’Onore. I suoi quadri di scene di vita contadina sono sempre più richiesti. Muore a Barbizon il 20 gennaio del 1875.

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La donna invisibile

di Paolo Zardi

La comunicazione è un processo che prevede almeno due punti fermi: una sorgente e un destinatario. E se l'arte è (anche, o soprattutto: dipende dai punti di vista) comunicazione, un pittore che dipinge un quadro sta realizzando solo la prima metà della sua opera: opera che sarà conclusa solo nel momento in cui qualcuno aprirà i propri occhi di fronte alla tela, e aggiungerà, a ciò che sta vedendo, tutto il proprio mondo. Esiste, quindi, una relazione stretta, tra chi crea e chi guarda, una sorta di contratto i cui termini continuano a variare nel corso del tempo.

La narrazione occidentale degli ultimi tre o quattro secoli – dalla nascita del romanzo in poi – possiede una particolare caratteristica, che è il realismo, o la verosimiglianza. Chi scrive, pur essendo libero di inventare qualsiasi storia, o di descrivere un mondo inesistente e diverso dal nostro, deve comunque fornire, a chi legge, tutti gli elementi necessari per garantire una coerenza assoluta alla storia nel suo insieme: se in un racconto di fantascienza qualcuno vola, è necessario che ciò accada per motivi fisicamente plausibili, e non, ad esempio, per magia. E i cosiddetti “romanzi magici” sono eccezioni che confermano la regola, perché raramente rientrano nella tradizione occidentale fondata dal Don Chisciotte, fatta evolvere da Dafoe e Tolstoj, e portata alle sue estreme conseguenze da Kafka, Nabokov, Roth e infine Wallace.

Il lettore, dunque, impone allo scrittore di romanzi la condizione del realismo: in cambio, accetta di rilassare i vincoli della propria credulità per tutta la durata della narrazione. Se vuoi che io creda fino in fondo ai fantasmi che hai creato, sembra di sentir dire, garantiscimi che ciò che sto leggendo è successo in un qualche mondo – ovunque questo si trovi.

Questo vincolo è talmente consolidato che anche chi decide di realizzare una serie di fumetti nella quale un uomo è in grado di camminare rimanendo appeso al soffitto di una stanza, o può incenerire un avversario con una fiammata prodotta dalle mani, o riesce a vedere attraverso lo spesso muro di una casa, deve inventare – oltre a tutti questi particolari fantasiosi – anche un buon motivo per cui le leggi della fisica che siamo abituati a sperimentare vengono sovvertite. Nel Medioevo, o nella cultura araba, o nella civiltà latina, si sarebbero fatti intervenire Dio, Allah, Minerva, un asino d'oro, un mago con la barba; ai nostri tempi, dove lo scetticismo ha travolto ogni ingenuità, a chi deve inventare una storia

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impossibile rimane solo la cieca, ingenua fede nella scienza (o in una sua più o meno fedele approssimazione alla Focus) che il lettore medio non smette di professare.

In quasi tutte le storie impossibili concepite negli anni sessanta, si è ricorso spesso a non meglio precisate radiazioni per spiegare la nascita dei super-poteri: Peter Parker diventa l'Uomo Ragno dopo essere stato punto da un aracnide che si era fatto una passeggiatina in una sala dedicata ad esperimenti con l'Uranio; Matt Murdock si trasforma in Dare Devil, il diavolo cieco e mascherato che vendica i torti subiti dai giusti, dopo essere stato investito, in pieno centro, da un furgoncino che trasportava fusti di materiale radioattivo (!); e i Fantastici Quattro infine, tornati da una missione spaziale durante la quale il Sole aveva fatto le bizze, si ritrovano trasformati in simpatici fenomeni da baraccone.

La maggior parte dei bambini degli anni settanta ha amato l'Uomo Ragno, Hulk, Dare Devil, Capitan America; i Fantastici Mostri, invece, sono entrati nel cuore dei piccoli lettori con molta più fatica. D'altra parte, con chi ci si potrebbe identificare? Con Ben, detto “la cosa” (uno dei soprannomi più crudeli di tutta la storia dei fumetti), il gigante di pietra, costretto a girare vestito solo con un paio di ridicole mutandine blu? Con Johnny, il capo della spedizione, il serioso uomo chewingum? O con Bruce, la torcia umana piena di sé? Sue, la donna invisibile, moglie di Johnny e sorella di Bruce, era fuori gioco a priori: aveva un sesso che non combaciava con quello che, in miniatura, i lettori di fumetti tipicamente possedevano.

E sarebbe bello studiare, da un punto di vista psicologico, o sociale, o antropologico, il motivo per il quale una delle pochissime eroine “femmine” presenti nei fumetti americani, tra tutti i poteri che i suoi creatori potevano darle, abbia ricevuto quello di sparire a suo piacimento, cioè una facoltà non propriamente eroica: nel corso dei combattimenti con i feroci avversari, Sue scompare, sottraendosi di fatto al suo nemico; di lei, rimane solo un contorno tratteggiato, che permette al lettore di sapere dove si trova, ma non ai suoi nemici di individuarla. Davvero non si poteva inventare di meglio, per una superdonna?

Scegliendo invece un approccio scientifico, si deve osservare che la sua sparizione non è totale: non assomiglia, ad esempio, alla smaterializzazione di Mandrake, che ora è qui, poi compare una nuvola di fumo, e lui non c'è più – no, la donna invisibile si limita a diventare trasparente, ma continua ad esistere ancora: può persino parlare, ed essere udita. La luce la attraversa senza essere né ostacolata né riflessa dal suo corpo, ma perdura la pienezza del suo corpo. Ma una cosa simile, sarebbe davvero possibile? Cioè: chi ha inventato la donna invisibile, ha rispettato il contratto del realismo con i suoi lettori?

Einstein, in qualche momento della sua lunga vita di scienziato e pensatore, disse che tutto è relativo. Anche se questa affermazione, in realtà, non era affatto generale, ma si riferiva al

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fatto che il tempo e lo spazio non sono uguali in tutti i sistemi di riferimento (un metro, insomma, non è sempre un metro), la sua portata filosofica, più o meno consapevole, ha travolto qualsiasi campo del sapere – introducendo una rivoluzione paragonabile a quella introdotta da Darwin con la sua teoria dell'evoluzione. Dopo Einstein, è diventato chiaro che l'osservatore fa parte del sistema che si sta osservando, e che è impossibile prescindere dalle sue caratteristiche.

Il mondo che ci circonda ha suoni (un lettore mp3 acceso, una mamma che sta sparecchiando in cucina, la bambina che respira regolarmente nel suo lettino), odori (quelli del nostro corpo, più o meno camuffati, quello del posacenere accanto al computer che non abbiamo ancora svuotato), colori (il video, i pantaloni, il rosa delle nostre mani percorse dall'azzurro delle vene), sapori (un ruttino da McDonald che ogni tanto ci ricorda il pranzo coni colleghi, il gusto inutile di un'unghia che stiamo tormentando da mezz'ora), e una consistenza che ci avvolge (la sedia che ci sostiene, l'aria sopra di noi, la scabrosità del filato della nostra camicia di lino). E ci verrebbe da dire che tutto questo – suoni, odori, colori, sapori, consistenza – è qualcosa che esiste. Cioè che esiste davvero – non per noi, non in questo momento, ma sempre, nell'Universo.

Ma il serpente è sordo, e molti animali non distinguono i colori, oppure sono ciechi, come certi pesci degli abissi; e i delfini hanno un senso che permette di sapere come è orientato il grande magnete nascosto dentro alla Terra: un senso che noi non riusciamo neppure ad immaginare, se non come qualcosa che fa bip bip, o qualcos'altro che ci spinge più da una parte che da un'altra – una sorta di ditone che preme su un lato del nostro corpo. Se fossimo nati senza occhi, se non avessi sviluppato la capacità di trasformare la luce in qualcosa che ha senso per noi, saremmo arrivati a conclusioni sul mondo modo diverse da quelle alle quali siamo arrivati, e alle quali abbiamo dato, un po' pomposamente, il nome di Scienza.

Ma in qualsiasi teoria scientifica, si dovrebbe aggiungere una specie di postilla, una piccola professione di onesta umiltà, con la quale si dice che molti dei fenomeni fisici studiati hanno senso solo quando accadono dentro a quella particolare scala di valori che i nostri sensi riescono a percepire. Quando affermiamo, ad esempio, che il vetro è trasparente, dovremmo sempre aggiungere che stiamo parlando da un punto di vista tipicamente umano, o comunque animale – una pianta costretta a vivere dietro ad una finestra, ad esempio, non la penserebbe allo stesso modo.

La luce. Per descriverla con i nostri strumenti, per ricondurla a formule matematiche in grado di spiegarne i comportamenti (o di prevederli a priori), si possono usare due teorie diverse, legate tra loro: la teoria corpuscolare, che la immagina come un flusso di oggetti chiamati fotoni, e quella elettromagnetica, per la quale la luce è radiazione elettromagnetica. I fotoni trasportano un'energia che è proporzionale alla frequenza dell'onda elettromagnetica: ecco il legame tra le due teorie.

Quando la luce tenta di attraversare un materiale, i fotoni colpiscono gli elettroni degli atomi che lo costituiscono. Se in uno di questi urti un fotone riesce a fornire ad un elettrone

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un'energia sufficiente affinché questo passi ad uno stato di energia superiore (sono come le scale, questi stati energetici: o sei in un gradino, o sei su quello sopra, perché in mezzo non ci si può proprio stare) allora la luce non passa: i materiali opachi, quindi, sono costituiti da atomi i cui elettroni possono assorbire l'energia fotonica.

Se invece l'energia di un fotone (cioè la frequenza della radiazione: sono due concetti intercambiabili) non è sufficiente a far “saltare” l'elettrone, allora il fotone passa indisturbato attraverso il materiale: come accade con il vetro, che è silicio, cioè sabbia, che il calore ha trasformato in qualcosa di diverso. Il fotone ci passa proprio in mezzo, indisturbato. Come è possibile che una cosa così dura come il vetro, non riesca a bloccare un fotone? Perché non dobbiamo dimenticare che i sensi possono tradirci. La realtà è che tutto quello che noi consideriamo pieno, è praticamente vuoto. Lo spazio che c'è tra un atomo e quello che gli è più vicino è, in proporzione, quello che esiste tra il Sole e Nettuno, il pianeta più lontano del Sistema Solare. Chi direbbe che il Sistema Solare è qualcosa di pieno? Il modo migliore per rappresentare un atomo e i suoi elettroni è uno stadio con una pallina di golf nel centro: di spazio, in mezzo, ce n'è davvero parecchio. La sensazione di pienezza è il modo con il quale i nostri sensi percepiscono i legami tra i singoli atomi. Dal punto di vista di un fotone, però, il vetro semplicemente non esiste.

Il discorso, in realtà, è ancora più complicato. La luce che noi riusciamo a vedere è un sottoinsieme della radiazione che gli oggetti sono in grado di emettere: la luce visibile ha una frequenza compresa tra 4 x 10 alla quattordicesima e 8 x 10 alla quattordicesima Hertz. Il vetro lascia passare i fotoni corrispondenti a queste frequenze; ma quando questi fotoni colpiscono, ad esempio, i sedili della nostra macchina, e rimbalzano verso il finestrino, hanno perduto gran parte della loro energia, calando di frequenza fino ad uscire dall'intervallo del visibile. Questa luce riflessa, che è quella che chiamiamo infrarossa, non tenta più di colpire gli elettroni degli atomi del vetro, ma punta a strutture più grandi e più complicate, che non la lasciano passare, e anzi la riflettono. Ecco spiegato l'effetto serra: il vetro, e l'aria, sono trasparenti rispetto alla luce visibile che entra, ma non ai raggi infrarossi in uscita, quelli che i sedili dell'auto, o la Terra, riflettono. L'energia entra, ma non esce più. E' quello che succede, in modo evidente (perché le frequenze in gioco sono tutte nella scala del visibile), sotto acqua: quando ci si immerge a qualche metro di profondità, e si guarda in alto, si vedrà una meravigliosa volta a specchio sopra di noi. E se il nostro occhio riuscisse a vedere i raggi ultravioletti, se riuscisse a percepirli, il diamante si mostrerebbe per quello che è: un pezzo di carbone nero particolarmente duro e liscio, e nient'altro. Quindi non esiste nulla di trasparente o opaco in senso assoluto: ciò che chiamiamo “visibile” non esiste per i neutrini (che passano indisturbati attraverso il pianeta Terra come se fosse una nuvola), e ciò che chiamiamo “invisibile”, può essere un muro impenetrabile per un sottilissimo raggio ultravioletto. Gli ultrasuoni che fanno rizzare le orecchie ad un cane esistono anche se noi non li sentiamo. La faccia scura della Luna viene illuminata tutti i giorni.

Ma allora, la donna invisibile rispetta il vincolo della narrazione occidentale? La sua trasparenza ha basi scientifiche, o è magia? Ora, dovremmo avere tutti i mezzi per

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scoprirlo: così come gli atomi di silicio, opportunamente cucinati, modificano il modo con il quale stanno gli uni vicini agli altri; così come il nero carbonio, pressato per qualche milione di anni, assume una configurazione particolarmente brillante, allo stesso modo è possibile, anche se solo da un punto di vista teorico, che la moltitudine di molecole che formano il corpo umano assumano, tutte insieme, l'attributo dell'invisibilità – cioè che abbiano, queste nostre molecole, elettroni che l'energia della luce visibile non riesce a scalzare. Certo, non è qualcosa di particolarmente semplice da realizzare – non a stomaco pieno, immagino – ma il tipo di credulità che i creatori della donna invisibile ci chiedono è tutto sommato accettabile.

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PIANEROTTOLI

Superstizioni ed entità mostruose: Ichnussa e la poetica dell’oltre invisibile, dal gatto nero di Edgar Allan Poe alle surbiles logudoresi.

di Maria Antonietta Pinna

Visibile e invisibile, sottile trama d’esserci e non esserci, poesia di concretezza e fantasmagoria. Bella e confortante la sicurezza dell’occhio che vede, della mano che tocca. E quel San Tommaso dalla fede empirica conserva ancor oggi il suo scettico fascino. Però a pensarci bene non basta, ci dev’essere qualcos’altro, un’assenza di rete che spinge il trapezista a rischiare, un mondo altro, liminare, sotterraneo di sogni e misteriose chimere, un universo dell’anima che ci allontana dal grigiore della quotidianità. Un antico pianeta oscuro di presenze inattingibili corrosive o benefiche. E non c’è cultura o progresso che tenga, l’ipnotico invisibile è in noi, nasce con la nostra stessa sostanza e carne di uomini, si annida nell’istinto più puro, mescolato con tradizione ed inconscio. L’arcano permea di se arte, letteratura, vita e morte, in un fantastico, imperdibile viaggio.

Il mistero è la sirena di Ulisse, la montagna di Messner, la penna per lo scrittore. E’ l’irrinunciabile, l’oltre...

Uno sguardo a pratiche magico-superstiziose e concretismi pagano-cristiani della terra d’Ichnussa, può essere illuminante in proposito.

In Sardegna c’è chi ricorda ancora pratiche superstiziose che avrebbero il potere di guarire gli infermi ed affermare l’esistenza di un sottobosco non attingibile ai sensi.

Asserisce il Bottiglioni in Vita sarda, nel 1925, che, secondo le credenze popolari, bere l'acqua di alcuni fiumi o torrentelli guarisce dai mali, specialmente in occasione di giorni particolari, come quello di San Giovanni, quando le acque assumono straordinarie virtù curative. Inoltre la cura dei leucomi si ottiene "masticando certe erbe aromatiche e soffiando nell'occhio malato". Alle bacche di ginepro si attribuiscono proprietà che consentono a chi le mangia di divenire "agile e rapido nei movimenti". Con le foglie di certi tipi di piante, "bollite o impastate insieme" si ottengono degli impiastri medicamentosi contro "tumori, sgraffiature e ferite"[1].

A Thiesi, piccolo paese del Logudoro-Mejlogu, fino a circa cinquant’anni fa si faceva “su suddu”: si prendeva una cassetta di legno pregiato e vi si riponevano “medaglie, reliquie

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sacre, monete, crocifissi, immagini sacre, rosari di metallo prezioso”, nella convinzione che quest’usanza avrebbe guarito le malattie epidemiche sia degli uomini che degli animali.

Se “su siddu” arrestava l’epidemia, si offriva un oggetto prezioso, “prenda de oro” che si metteva nella cassetta.

Giuseppe Pettazzi, durante la sua lunga attività di medico condotto nel paese di Thiesi, ha avuto modo di constatare che anche le immagini sacre venivano utilizzate per arrestare tutte le calamità naturali come temporali, fuoco, invasione di cavallette ecc. Le immagini di santi e madonne venivano sistemate “nell’apice di canne spaccate che si mettevano a raggiera attorno alla zona da proteggere”[2].

"A Scano e a Sennariolo" si credeva che la donnola conoscesse i segreti delle piante e fosse capace di guarire se stessa "e di risuscitare un animale morto".

Esistevano anche delle erbe che avevano effetti perniciosi: "l'erba sardonia faceva morire ridendo, l'elleboro istupidiva, il succo di certi arbusti, somministrato di nascosto nei cibi e nelle bevande, faceva innamorare pazzamente".

Anche certe pietre erano considerate dotate di particolari poteri, allontanavano le malattie e guarivano dal malocchio: "l'onice, il corniolo, il corallo, su pinnadellu, sa pedra de tronu, ecc." venivano utilizzate a scopo di magia[3].

Scrive il Bottiglioni che per guarire il mal di ventre si batteva il paziente con un piede calzato di pelle di cane, oppure si ungeva la parte malata con grasso di volpe, o toccandola col cercine del corno di cervo, di muflone o di daino. Gli occhi a Padria si curavano bagnandoli con sangue di fegato di bue e a Cagliari facendovi sopra una croce, recitando orazioni o sfregandoli con l’epigramma di un murice (bucconi de scogliu), che per la sua rassomiglianza con l’organo della vista, si chiama occhio di Santa Lucia[4].

Pericoli invisibili non si annidavano soltanto nel mondo vegetale ma anche in quello animale dove veniva avvertita la presenza di esseri nocivi per l’uomo. Il barbagianni, ad esempio, le cui penne avevano la straordinaria virtù di far guarire dall’itterizia, causava poi esso stesso questa terribile malattia, orinando sopra un individuo che riposava supino, il quale restava così istriau.

“Il contatto col geco (detto pistilloni a Cagliari, tarantula nel Logudoro e ascurpè nel settentrione dell'isola), produceva sulla pelle umana delle vescichette le quali potevano essere guarite solo dal dito di chi avesse toccato l'animale o da un corno di muflone o di daino”.

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Assai fastidioso era anche il morso della mutilla, che i Sardi cercavano di scongiurare con formule varie e di cui si distinguevano tre specie: “arza bagadia, arza coiada, arza viuda”[5].

L’arza era un insetto, il latrodectus dalla puntura velenosa che poteva causare anche la morte.

Per guarire se si veniva punti occorreva che il paziente fosse messo in un forno tiepido, perché il calore facesse scappare gli spiriti maligni oppure messo dentro un sacco e sepolto fino al collo nel letame, mentre intorno a lui danzavano tre gruppi, uno di donne nubili, uno di maritate [6]e uno di vedove, appunto perché la bestia poteva essere bagadia, coiada o viuda[7].

Perché la guarigione fosse completa occorreva cantare delle strofette: Comare arza, comare arza mia, non fattèdas male a sa pessone mia, non fattèdas male a sa mia pessone, bos app’a narrer muttos e cantones, muttos e cantones de onzi zenia, comare arza, comare arza mia”.

Anche la rana ed il rospo potevano assumere una valenza negativa: a Bosa, se sentivano gracidare una rana dicevano che stava succhiando il sangue a qualcuno; a Bolotana, evitavano di addormentarsi per terra nei luoghi dove ci potevano esser dei rospi, i quali, saltando sopra il dormiente, gli avrebbero squarciato irrimediabilmente il cuore; a Cuglieri, se si vedeva un rospo, si temeva che la sostanza secreta dalle sue ghiandole della pelle, producesse erpeti e vari malanni, per cui gli si sputava addosso, dicendo: «latte a tie, sambine a mie».

La forfecchia (forficula auricularis, in sardo: forfighitta, forchidadile, pisciafui, isperragoa, isperraguazza, ecc.), era considerata un animale pericoloso. Si pensava che penetrasse nell'orecchio dei neonati arrivando fino al cervello e producendo la morte.

Questa paura superstiziosa non si nutriva soltanto verso gli animali perfettamente innocui, come la rana, il rospo e la forfecchia, ma anche per delle bestie favolose, le quali non esistevano se non nell'accesa fantasia del popolo.

A Cagliari, si credeva che certi uomini per dieci anni di seguito, tutte le notti, si trasformassero in furiosi vitelli … che percorrevano le vie buie muggendo e sbranando chiunque avessero incontrato sul loro cammino. Tornati a casa si immergevano nell’acqua e riacquistavano la figura umana, che assumevano durante tutto il giorno come se niente fosse accaduto durante la notte.

Un altro insetto che incuteva terrore ai sardi era “Sa musca macedda (machedda, maghedda)” descritta come “una mosca di grandi proporzioni, con due ali potentissime, e con un pungiglione formidabile, di cui le punture sono mortali”.

Secondo la tradizione essa custodiva i tesori nascosti in una botte, accanto alla quale se ne trovava un'altra piena di micidiali mosche; ciò impediva all'avido cercatore di tesori di aprire una delle due botti, perché poteva aprire proprio quella dove erano nascosti i mostruosi

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insetti, che, liberati dalla loro prigione, avrebbero cagionato non solo la sua morte, ma anche la distruzione del mondo intero[8].

Secondo alcuni storici la leggenda della musca macedda sarebbe la deformazione irreale del timore ispirato dalla zanzara anofele, portatrice della malaria, che, nelle zone paludose, mieteva un elevato numero di vittime[9].

Un discorso a parte merita il gatto, soprattutto se nero. Le credenze popolari dell’isola attribuivano al felino la capacità di proteggere la casa dagli spiriti maligni.

In Sardegna c’erano anche certi curiosi riti collegati al gatto. Per esempio quando una ragazza si comportava in modo leggero, contravvenendo alle regole morali non scritte della comunità, tre fratelli o parenti della giovane aspettavano la vigilia di Natale, a mezzanotte, e quando la gente del paese ascoltava la messa, catturavano tre gatti dai colori diversi, poi utilizzando una forbice mai usata prima, tagliavano tre ciuffetti di pelo dalla coda di ciascun animale, quindi con uno spago, dopo aver rimesso in libertà le tre bestiole, si provvedeva a legare insieme i peli tagliati e si faceva ritorno a casa. Il giorno successivo, si bruciavano i peli e la cenere ricavata veniva messa di nascosto nel piatto della ragazza che, in questo modo, sarebbe rinsavita ed avrebbe assunto per magia costumi più morigerati[10].

A Uri si diceva che se una donna allattava il suo piccolo e ospitava in casa una gatta che aveva avuto i gattini, gli avanzi del suo cibo dovevano essere buttati e mai dati in pasto alla gatta, altrimenti le sarebbe andato via il latte[11].

Il gatto nero ha una valenza magica in tutte le culture.

Scrive Edgar Allan Poe, gigante della letteratura noir americana: “avevamo … un gatto. Quest’ultimo era un animale grande e molto bello, tutto nero ed intelligente al massimo grado. Parlando della sua intelligenza, mia moglie, non aliena da una certa superstizione, faceva frequenti allusioni all’antica credenza popolare che vedeva i gatti neri come delle streghe travestite”.

Il protagonista del labirintico ed ammaliante racconto di Poe, il gatto nero, in preda ai fumi dell’alcool, prima cava l’occhio poi uccide l’animale, atto sacrilego che trascinerà l’uomo in un baratro di sventura ed abiezione, segnando la sua definitiva rovina[12].

Il gatto nero è stato anche protagonista suo malgrado di un terribile fatto di cronaca accaduto nel marzo del 1961 e riportato dal quotidiano olandese De Telegraaf.

Un gruppo di invasati dai diciotto ai quarant’anni si dedicarono nella città di Anversa a massacri collettivi di gatti neri.

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L’animale veniva legato ed appeso ad una fune per una ventina di minuti. Se riusciva a sopravvivere a tale trattamento veniva fatto passare attraverso una porta, che, chiudendosi con violenza, doveva schiacciargli la testa. Successivamente l’infelice vittima veniva squartata e fatta a pezzi sotto lo sguardo di quei criminali che poi lo cuocevano e lo mangiavano[13].

Demoniaco e necrofago è anche il gatto del defunto John Mortonson di un racconto di Bierce. John giace esangue dentro una bara protetta da una lastra di vetro. Tutti i parenti, in lacrime, attraverso il vetro possono vedere il corpo immobile del caro estinto. Quando la moglie, affranta cerca di osservare il volto del marito cade svenuta. La vista è infatti orribile, tutti si ritraggono orripilati. Un uomo cercando di allontanarsi, inciampa nella bara e spezza uno dei suoi fragili supporti. Il vetro si infrange e dall’apertura esce fuori un gatto che pigramente si adagia sul pavimento, si strofina con mefistofelica tranquillità il muso rosso di sangue con una zampa, ed esce con dignitosa calma dalla stanza[14].

Erodoto afferma che gli Egiziani praticanti la zoolatria, potevano sacrificare anche la propria vita pur di salvare quella di un gatto, animale sacro.

Bastet, antitesi della malvagia dea Sekhmet, con centro cultuale a Bubastis[15], era una dea dalla testa di gatta.

I sacerdoti del tempio di Pacht, dea felina dell’Amore spiavano giorno e notte il comportamento dei gatti sacri spiandone ogni singolo movimento per trarne auspici[16].

In epoca imperiale in una strada di Alessandria un cittadino romano venne linciato dalla folla per aver ucciso un gatto[17].

La legge egiziana prescriveva infatti la pena di morte per chi osasse sopprimere il flessuoso felino.

Se la morte di un gatto avveniva in modo violento per la strada, colui che trovava il corpo inerme si allontanava gridando di dolore e piangendo sì da dimostrare di non avere niente a che fare con la sorte della bestiola.

Se invece il gatto moriva dentro casa, gli abitanti si rasavano le sopracciglia, emettevano funebri lamenti per delle ore, chiudevano gli occhi all’estinto, gli comprimevano i baffi contro le labbra e poi lo bendavano.

In Egitto il culto del gatto raggiunse livelli che rasentavano l’assurdo se si pensa allo stratagemma messo in atto dai Persiani che assediarono Pelusio[18] nel 500 A. C., quando incontrarono la resistenza egiziana.

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Cambise, capo persiano ordinò ai suoi soldati di catturare vivi la maggior quantità di gatti possibile. Il giorno della battaglia gli egiziani videro avanzare numerosissimi gatti che fuggivano atterriti di fronte all’armata persiana, mentre ogni soldato di Cambise avanzava tranquillamente recando un gatto in braccio che fungeva da scudo.

Gli Egiziani si rifiutarono di combattere per timore di far del male a qualche felino e Pelusio fu conquistata senza che gli abitanti opponessero resistenza alcuna[19].

Anche la cultura giapponese ha una certa forma di venerazione per il gatto.

A Tokio, dopo la loro morte, gli animali vengono portati in un cimitero adiacente ad un piccolo tempio, il Go-To-Ku-Ji all’interno del quale abbondano le immagini di gatti pietrificati o dipinti, di diversi materiali, carta, porcellana, bronzo o tela.

Gli animali hanno tutti la zampa destra sollevata all’altezza degli occhi per salutare ed attrarre la curiosità dei visitatori.

I giapponesi pensano che far seppellire il proprio gatto vicino al tempio consenta loro di trascorrere un futuro sereno[20].

Numerosissimi libri di magia parlano del gatto. Nel Vangelo del Diavolo è scritto che tutti i gatti stringono un patto con Satana; “nessuno può dire che cosa essi guadagnino ma è certo che il diavolo li invita a far bisboccia con lui il martedì grasso”[21].

Quando il sole è alto nel cielo i gatti dormono perché sono creature notturne che vigilano quando le tenebre fitte avvolgono la terra e vedono e sentono ogni cosa. Per questo gli Spiriti Maligni, avvisati in tempo dai felini, hanno tutto il tempo di sparire prima che gli uomini possano scorgerli.

Nello stesso “Vangelo” sono presenti due ricette assai curiose, una per recarsi o assistere al Sabba, l’altra per diventare invisibili.

La prima consiste in un infernale intruglio a base di “100 grammi di sugna, 5 grammi di hashish, un pizzico di radice di elleboro ed un grano macinato di tornasole”. Bisognava ungere collo ed orecchie la sera, prima di andare a dormire con tale unguento le cui virtù magiche trasportano l’uomo nel sabba.

Il portentoso miscuglio altro non era che un insieme di sostanze stupefacenti aventi inevitabili conseguenze sul sistema nervoso centrale e sulle capacità immaginifiche dell’uomo, tanto da trasformare dei semplici alberi agitati dal vento in un convegno di malefiche streghe e satanassi, accompagnati da una ridda graffiante di gatti del color della notte.

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La seconda formula si basava su alcuni elementi fondamentali: l’immancabile gatto nero, una pentola nuova, una pietra di agata, un piatto nuovo, una fontana e uno specchio.

Innanzitutto occorre procurarsi dell’acqua attinta da una fontana a mezzanotte precisa, poi si mette l’acqua nella pentola a bollire per ventiquattr’ore assieme al gatto ed alla pietra, tenendo il coperchio con la mano sinistra.

Si mette la carne cotta del gatto in un piatto nuovo che viene gettato dietro alle spalle.

Poi ci si guarda in uno specchio e non ci si vede più.

L’estrema ignoranza di queste assurde credenze ha condannato il povero ed innocente gatto nero ad essere un simbolo mefistofelico, messaggero di Lucifero. Così gli uomini hanno potuto sfogare su questa bestiola la loro meschina paura del demonio[22].

In Bretagna le leggende popolari dicono che in certi luoghi esistono favolosi tesori che i gatti custodiscono nelle ore notturne; per impadronirsene bisogna vendere l’anima al diavolo e firmare il patto col sangue del mignolo della mano sinistra.

Le assurde tradizioni di alcuni popoli prevedevano addirittura di bruciare vivi numerosi gatti per allontanare gli spiriti malvagi.

Anche nella francese Seine-et-Marne c’era l’usanza di ardere i graziosi felini e le cronache raccontano che il 12 luglio 1739 il sindaco di Melun fece per tre volte il giro di un rogo che poi accese per farvi gettare alcuni gatti vivi. Quando la cerimonia finì numerosi presenti si impadronirono di alcuni tizzoni considerati amuleti per preservarsi dal fulmine.

La storia attesta che a Parigi fin dal 1471 re Luigi XI assistette ai fuochi di San Giovanni divertendosi nel veder bruciare più di venti gatti e che i suoi successori non disdegnavano di presenziare a tali cerimonie.

Enrico IV e Luigi XIII specialmente amavano questo genere di feste, mentre Luigi XIV, le Roi Soleil, vi presenziò una volta soltanto e precisamente nel 1648. Egli fu l’ultimo sovrano francese che assistette al macabro rituale, contro il quale già Sant’Eligio fin dal VII secolo aveva lanciato inefficacemente i suoi strali.

A Liegi la folla assisteva divertita a manifestazioni popolari che prevedevano fuochi artificiali con contemporaneo lancio di gatti vivi. Gli animali spesso morivano tra le fiamme per le bruciature riportate e per lo spavento.

Nel 1500 sempre in Belgio divenne famoso il crudele Kattestoet o lancio dei gatti: annualmente dall’alto di una torre del maniero di Korte-Meers, si gettavano nel vuoto numerosi gatti per dimostrare alle autorità ecclesiastiche che nelle Fiandre la popolazione aveva abiurato al culto di Freia consistente nell’adorazione dei gatti[23].

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Il gatto nelle varie epoche storiche, non è stato visto soltanto come messaggero di morte ma anche come spirito benefico.

Un’usanza assai antica prevedeva che per rendere solido un edificio vi si murasse un gatto vivo.

Nei resti di alcuni castelli risalenti all’epoca medioevale sono stati rinvenuti i corpi di numerosi gatti che hanno subito un processo di mummificazione e si sono conservati perfettamente, sia pur presentandosi rinsecchiti ed incartapecoriti. La morte per fame e per sete impedisce la putrefazione e la mancanza di umidità ha consentito il mantenimento della piccola spoglia felina.

Fernand Méry riferisce che nella Scuola di veterinaria di Alfort è possibile ammirare “lo scheletro di un gatto disseccato trovato prima della guerra del 1914, in un’intercapedine del soffitto di una vecchia casa del XVII secolo, in via Mouffetard.

In Russia, in Polonia ed in Boemia si diceva che un modo per ottenere un abbondante raccolto era sotterrare un gatto vivo in un campo di grano[24].

Il folklore finlandese attribuisce ai gatti la capacità di trasportare l’anima dei morti nel regno dell’oltretomba.

Il Kalevala, l’epopea nazionale della Finlandia narra che un giorno una strega si introdusse dentro una casa piena di uomini ed in pochi minuti fu in grado di trasportarli su una slitta trascinata da un enorme gatto che li condusse ai limiti del Pohjola, il mondo delle tenebre e degli spiriti maligni.

In Olanda si pensa che chi non ama i gatti o li maltratta avrà un matrimonio ed un funerale sotto la pioggia[25].

Il rito ortodosso indù obbliga ogni fedele a tenere almeno un gatto in casa e la legge di Mani dice che: “Chi ha ucciso un gatto deve ritirarsi nel mezzo della foresta e dedicarsi agli animali fino a quando non si sia purificato”[26].

Nella Francia meridionale sono diffuse le leggende sui matagots o gatti-stregoni che, come il gatto d’argento della Bretagna, possono avere nove padroni, rendendoli tutti ricchi.

Il matagot è un gatto nero che, se ben nutrito ed ospitato in casa porta al padrone ogni giorno uno scudo d’oro. Ma attenzione! Non basta attirarlo con un lauto pasto, non basta afferrarlo dolcemente, metterlo in un sacco e portarselo a casa, no, occorre dargli tutte le volte che si mangia il primo boccone del proprio piatto, se ogni mattina si desidera trovare uno scudo d’oro vicino all’animale.

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In Bretagna si dice che ogni gatto nero possiede un pelo bianco. Se il padrone riesce a strapparglielo senza farsi graffiare avrà nelle mani un talismano portentoso, un portafortuna unico[27].

Nei racconti leggendari dell’Asia[28] Maneki-Neko è una celebre, piccola gatta che ammalia i passanti; viene rappresentata seduta e con la zampa alzata in segno di saluto.

I marinai giapponesi pensano che i gatti con tre colori, bianco, rosso e nero, i Mike-Neko, possano presagire l’avvicinarsi delle tempeste. La leggenda narra che facendoli salire sull’albero maestro della nave allontanano le anime dei naufraghi che non trovano pace e si aggirano minacciosamente lungo la cresta delle onde[29].

Le leggende di molti popoli parlano della magica metamorfosi donna-gatto.

In Sardegna la sùrbile, di cui si dirà meglio in seguito, era una donna che si trasformava in mosca o gatta, si introduceva nelle case la notte e succhiava il sangue ai neonati.

Nell’Isola ancora oggi, nonostante il progresso della scienza, nonostante Freud[30], si traggono previsioni anche dal comportamento degli animali e dai sogni. Quando il gatto saltella per la casa e si lava il muso e nel farlo va oltre le orecchie, significa che pioverà.

La civetta, portatrice di sventura, canta di notte vicino all'uscio di chi deve morire.

Si dice anche che "chi sogna dei pesci" è destinato a fare un viaggio; che se si pulisce una fontana "quando soffia il vento di levante", l'acqua diviene "cattiva e putrida"; che se si tagliano i capelli di venerdì nasceranno i pidocchi[31].

Portano fortuna le farfalle che entrano in casa e svolazzano attorno alla luce, mentre sono tutti segni funesti il vedere un asino sdraiato per terra con le gambe in aria, "un cavallo zoppo di notte o uno bianco di mattina, un cuculo che beve acqua, una stella vicina alla luna”.

Porta sfortuna anche udire "il canto del passero solitario" o il verso della gallina, oppure sognare "dei buoi, dell'uva nera" o di perdere i denti, specialmente se questi non fanno male[32].

La notte, associata alla morte, è momento di crisi, dominio di presenze potenti e malefiche.

È durante la notte che anche le campagne si animano di entità misteriose e sovrannaturali: sa sùrbile, sas janas, su diaulu, s’érchitu, sas panas, s'ammuttadore o ammuntadore, detto anche sa súrtora a Ghilarza e pundacciu in Gallura.

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La “sùrbile” o “súrvile" nel Logudoro, "súrtile" a Nuoro, “coga” a Cagliari e stria o istria in Gallura, era una donna che, durante le ore notturne, dopo essersi unta le giunture del corpo con uno speciale unguento, si trasformava in una mosca che, attraverso il buco della serratura, riusciva a penetrare nella stanza dove dormivano i neonati e succhiava loro il sangue, provocandone la morte.

Per tenere occupati questi assetati vampiri, si poneva vicino alla finestra della camera del bimbo o accanto alla culla, una falce con numerosi denti, "o una scopa o dei chicchi di grano" in modo che la súrbile s'indugiasse "a contare i denti della falce, o i fili della scopa, o i chicchi, e non riuscendo a procedere oltre il numero sette" venisse "sorpresa dall'alba e costretta a ritirarsi"[33].

La madre del bimbo poi si curava di tappare il buco della serratura con della cera e metteva sotto il letto un treppiede rovesciato che si pensava potesse allontanare gli spiriti maligni[34].

In alcuni paesi si pensava che le sùrbiles fossero terribili spiriti erranti che si annidavano nel corpo delle donne malvagie, permettendo loro di trasformarsi in gatti al calar delle tenebre.

Il mefistofelico felino si introduceva nelle case con facilità, succhiava il sangue incidendo la tenera carne del neonato e poi deponeva il sangue nella cenere calda del focolare, in modo che si rapprendesse e diventasse un goloso cibo per le sùrbiles[35].

In realtà, specialmente nei secoli scorsi, le morti in culla erano frequenti a causa della malnutrizione. Le madri avevano poco cibo a disposizione e producevano poco latte, dunque il neonato spesso soffriva la fame e poteva capitare che ne morisse.

Così è nata la leggenda delle streghe-vampire.

Le janas o fate erano delle donne di bassa statura e generalmente di bell’aspetto che potevano essere buone o malvagie. Secondo alcune leggende le loro dimore erano nuraghi, castelli diroccati o le domus de janas dove custodivano immense ricchezze, gioielli, oro, argento e preziosissime stoffe.

Le fate indossavano abiti rossi, vistose collane ed amavano adornarsi con un fazzoletto ricamato che dalla testa ricadeva sulle spalle.

Ai piedi portavano babbucce ricamate e vestiti di lino e panno che cucivano e ricamavano esse stesse.

La loro principale occupazione consisteva nel tessere sull’erba, al chiaror lunare, preziosi tessuti in telai d’oro e nel lavare la biancheria non col sapone ma col pane fatto in casa, su grivacciu.

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Secondo le leggende queste piccole entità, il cui nome deriva da Diana, dea della luna, emanavano una luce intensa che diradava le tenebre della notte durante la quale, talvolta, si appropinquavano alla culla dei bimbi appena nati, decretandone il destino.

Se la fata era buona il neonato veniva bene vadadu, ben fatato e poteva diventare un uomo fortunato e felice, altrimenti, se l’entità che gli si accostava era malvagia veniva condannato alla malattia, male vadadu, mal fatato.

Quando si desiderava augurare del male a qualcuno si usava l’espressione “Mala jana ti hurrada!, “Che una cattiva fata ti corra dietro!”.

A Cabras si diceva che le janas erano solite un tempo scendere al paese per chiedere alle donne il lievito per fare il pane, in quanto la pasta fatta col lievito delle fate non si gonfiava. Questa credenza è probabilmente collegata col mito di Ecate o della luna calante, fase in cui gli agricoltori non raccoglievano né seminavano perché non c’era una luna propizia a tali lavori.

A Dorgali, quando una donna chiedeva in prestito un po’ di lievito, le si raccomandava sempre di non mostrarlo alla luna, perché se quest’ultima “l’avesse visto” il pane non sarebbe lievitato più[36].

Nelle località dove, per motivi geologici, non cresce l’erba il popolo sardo crede che vi alberghi il diavolo. Egli può assumere svariate sembianze anche quella di una dolce fanciulla danzante. Così inganna il pastore e lo attira a se. Però la metamorfosi non è mai perfetta, infatti Belzebù non riesce a nascondere le zampe da caprone. Allora all’uomo basta guardare in basso per accorgersi dell’inganno e far sparire il terribile demonio.

Secondo la tradizione ci sono dei luoghi dove è possibile vendere l’anima al diavolo: Perda Liana presso Gairo, una roccia molto alta e piuttosto suggestiva o Montenovo San Giovanni nel Supramonte di Orgosolo, la cima di Sant’Andria a Orune o Gorroppu, una gola profonda situata tra i Monti di Orgosolo e Urzulei.

Chi, per avidità di ricchezza era disposto a venire a patti col Maligno poteva farlo recandosi in quei luoghi, attendendo la mezzanotte e invocando a voce alta il diavolo che compariva per stipulare il contratto e si prendeva l’anima in cambio di tutte le divitiae che uno bramava[37].

A Gorropu si recavano anche le donne per accordarsi con Mefistofele che da queste pretendeva anche il corpo, come accade in molte leggende mesopotamiche. Si narra infatti che Marduk, giungesse di notte in cima alle ziqqurat, dove c’era il santuario, e pretendesse di unirsi carnalmente con le donne che trovava lassù.

Ancora oggi a Dorgali si dice “Bae a Gorroppu”[38] col significato di “Vai al diavolo”[39].

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L’érchito chiamato “a Orgosolo voe travianu, a Ollollai voe mulinu, a Mamoiada e a Lula boe muliache, a Benetutti su voe corros d’attalzu, a Buddusò su oe mududu” era un uomo che aveva commesso gravi crimini e che, impunito, durante la notte poteva trasformarsi in un animale che prediva la morte. In particolare si trattava di un grosso bue con enormi corna dalla punta d’acciaio che muggiva per tre volte davanti all’uscio della persona destinata a morire entro un breve lasso di tempo[40].

Secondo alcune leggende il bue poteva riassumere sembiante umano solo dopo essersi imbrussinadu, ossia voltolato per terra davanti ad un cimitero o a tre chiese[41].

Le panas, invece, erano donne morte di parto che, dopo la mezzanotte fino al sorgere del sole, lavavano i panni dei loro figli al fiume servendosi di uno stinco di morto. Questa penitenza durava sette anni.

Se qualcuno interrompeva il loro lavoro esse dovevano ricominciare da capo e la pena durava altri sette anni.

Se venivano disturbate potevano mutarsi in entità dannose per i vivi, per questo le donne in Sardegna nei secoli scorsi avevano paura di avvicinarsi ad un corso d’acqua prima dell’alba.

Quando una donna moriva di parto si usava mettere nella bara aghi, filo, ditale e qualche pezzo di sapone per facilitare il rammendo ed il lavaggio dei panni che l’anima doveva affrontare dopo la morte.

Un rito assai superstizioso in uso nell’isola prevedeva che il sacerdote, mentre recitava il vangelo, benediceva la casa con una candela accesa aspergendola di acqua benedetta. Questo rito era assai gradito nelle case dove una donna aveva appena partorito. Infatti si pensava che col parto si liberassero dei fantasmi nocivi, pantamas che dovevano essere eliminati con la purificazione rituale, altrimenti avrebbero procurato grossi guai agli abitanti di quella casa[42].

L’acqua, elemento purificatore per antonomasia, nella società nuragica non serviva soltanto per benedire ma anche per stabilire l’innocenza o la colpevolezza di una persona. Quando si commetteva un reato, (ad esempio, il furto del bestiame, assai frequente in Sardegna), il sospettato veniva sottoposto al lavaggio degli occhi. Si pensava infatti che in caso di innocenza gli si sarebbe rinvigorita la vista, mentre in caso di colpevolezza sarebbe diventato cieco[43].

Ancora oggi quando si vuole convincere qualcuno della sincerità delle proprie asserzioni si dice “Chi m’idan zegu si non est beru”, “Che diventi cieco se non è vero”.

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S'ammuttadore o mastringannu era un folletto che portava "sette berrette rosse" e che si sedeva sul petto dei dormienti. Se questi però, svegliandosi, riuscivano ad afferrare una delle berrette, il folletto indicava loro la strada per arrivare ad un tesoro.

Si diceva che questo spirito fosse basso, grasso e tarchiato, vestito col tradizionale costume sardo e che guidasse il gregge contando di continuo le pecore ma soltanto fino al numero tre.

Su Corripedde, che appariva coperto da diversi fazzoletti di colore scuro ed avvolto in un lungo scialle, era uno spettro bonario, amante dei neonati che cambiava, cullava ma poi non adagiava nuovamente nella culla, bensì dove capitava, perfino per terra[44].

Su Porcu Attuddadu o Porco ispido era un grosso maiale dagli occhi malefici che incuteva terrore e sotto la luce lunare annunciava la morte.

Chi aveva la sventura d’incontrarlo doveva “saltare a croce un fuoco” prima di recarsi a casa[45].

Gli spiriti maligni ma soprattutto le streghe nuocevano a tutti mediante unguenti, filtri e libri magici, suffumigi e certe statuine "di cera o di sughero", sulle quali esse inserivano dei chiodi o degli spilli e che venivano messe vicino alla persona da danneggiare. Questa poteva anche morire se non trovava la statuina affrettandosi a distruggerla oppure se non era provvista da amuleti contro la stregoneria. La iattura veniva allontanata conservando in tasca un ciuffo di "lana gialla, o un corno di muflone o di daino, oppure una fienarola, il rettile che i Sardi chiamano lanzinafenu, fuisessini, liscierba, ecc.

Il malocchio non soltanto è portato dalla stria, ma anche da persone normali che però hanno nello sguardo una particolare potenza malefica che è capace di far seccare le piante e far morire uomini e animali.

Questa credenza è ancora oggi diffusa nei paesi della Sardegna. Il rimedio per evitare le nefaste conseguenze di simili sguardi è che la persona che guarda deve toccare l'oggetto guardato per evitare de ponner oiu, di mettere il malocchio. Si tocca con mano dunque, il tangibile visibile scongiura l’invisibile... Si ricorre anche a sa mejghina e s'oiu o ea di l'occi, una specie di intruglio la cui preparazione conoscono solo poche persone, specialmente le donne, che sanno anche le preghiere che si devono dire per allontanare il male[46].

Il malato deve bere questo filtro e deve pregare per tre giorni affinché la iattura lo abbandoni.

La tradizione popolare vuole che la chiragra, "su male de sos póddighes" guarisca "ungendo la parte malata di olio e toccandola col forcone del forno", mentre l'orzaiolo si cura "fingendo

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di cucire per tre volte le palpebre con seta nera" e "le convulsioni, mettendo al collo del malato una briglia, un fazzoletto e delle chiavi"[47].

Le fattucchiere dette anche pregantadoras a Tortolì allontanavano il malocchio immergendo più volte una particolare medaglia in un bicchiere d’acqua nel quale si trovavano alcuni chicchi di grano. Con un dito bagnato con la saliva si agitava l’acqua in modo da far smuovere i chicchi di grano mentre si recitavano particolari preghiere nelle quali si invocavano Santi che si riteneva avessero un particolare potere taumaturgico come Sant’Antioco il cui nome sardo Antiògu può essere interpretato come anti-ogu, ossia anti-occhio anche se in greco significa “colui che resiste”, “che tiene duro”[48].

Il malocchio in Sardegna viene detto oiu o ogu malu[49] oppure ogu liau o occhio legato.

Nel Dizionàriu del Porru si dice che il malocchio è una “specie di male causato dallo sguardo fisso di certi occhi infettati”.

Lo stesso autore prosegue poi affermando che Avicenna ed altri medici antichi fossero convinti essere la causa fisica di tale male causata “da qualche veemente immaginazione dell’anima per cui gli spiriti uniti al corpo patiscono mutazione, la quale avviene principalmente negli occhi” sede di spiriti sottili e corruttori dell’aria “fino ad una certa distanza. Per la stessa ragione gli specchi, se siano nuovi e tersi, contraggono qualche appannamento dall’aspetto della donna, che trovisi nel fiorire. Quindi se qualche persona venga molto eccitata alla malizia, il suo guardo diventa velenoso e notevole soprattutto ai bambini, i quali per avere il corpo tenero sono più suscettibili d’impressione”[50].

In Sardegna si pensa che certe persone gettano il malocchio inconsapevolmente, senza volerlo semplicemente guardando e facendo un’osservazione su un dato soggetto o oggetto.

Possiamo quindi affermare che l’invisibile è contenuto nel suo contrario, in tutto ciò che i nostri sensi possono percepire.

Ciò che si vede e si tocca è sempre veicolo dell’invisibile, strada maestra finita del sogno, navicella che viaggia verso siderali, paralleli universi.

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[1] G. Bottiglioni, Vita sarda, note di folklore, p. 78, 79. [2] La Rosa di Gerico, di G. Pettazzi, in Nostra Signora de Seunis. [3] G. Bottiglioni, Vita sarda, note di folklore, cit., p. 80. [4]“Il sangue di pipistrello fa scomparire le lentiggini dal viso, la pelle di lepre fa sgonfiare i tumori, quella di biscia guarisce dall'emicrania, che si cura anche coi denti dell'orata (in sardo carina o canina), il grasso di cavallo calma i dolori reumatici, la carne di un pulcino, applicata alla testa, fa passare la perniciosa. Dall'itterizia si guarisce bevendo dell'acqua in cui sia sciolta la cenere di pelle di stria (il barbagianni), o quella di un pidocchio bruciato; dall'idrofobia mangiando il fegato del cane idrofobo che ha procurato il male, oppure facendo bollire nell'olio un po' del suo pelo e applicandolo sulla ferita (a mussu de cane pilu de cane); le ferite si chiudono spalmandole di olio nel quale sia messo uno scorpione; le orecchie del cane, le ossa della rana, i nidi delle formiche o delle vespe bruciati e polverizzati, offrono altrettanti rimedi contro vari malanni”. Ibidem, p. 80. [5] “Nubile, maritata o vedova”. [6] “Comare argia, comare argia mia, non fate male alla persona mia, non fate male alla mia persona, vi dedicherò canti d’amore e canzoni, muttos e canzoni di ogni tipo, comare argia, comare argia mia”. [7] Ibidem, p. 80-84. [8] Ivi. [9] D. Turchi, Leggende e canti popolari della Sardegna, cit., p. 22. [10] B. Mazzone, I sardi, un popolo leggendario, cit., p. 159-161. [11] Vedi Viaggio nel tempo a cura di Giovanni M. Cappai, cit., p. 128. [12] E. A. Poe, Il gatto nero, in Tutti i racconti, Luigi Reverdito Editore, Varese, 1995. [13] F. Méry, Il gatto, vita, storia, magia, cit., p. 32. [14] A. Bierce, Il funerale di John Mortonson, in Tutti i racconti dell’orrore, Newton Compton edizioni, Roma, 1994, p. 29, 30. [15] Città del basso Egitto oggi scomparsa. [16] Vedi F. Méry, Il gatto, vita, storia, magia, cit., p. 20.

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[17] Vedi ibidem, p. 23; F. Cimmino, Vita quotidiana degli Egizi, Bompiani, Milano, 2001, p. 93, 327. [18] L’odierna Tisseh, nei pressi di Porto Said. [19] Vedi F. Méry, Il gatto, vita, storia, magia, cit., p. 30. [20] Ibidem, p. 30, 31. [21] Ibidem, p. 33. [22] Ibidem, p. 34, 35. [23] Questa cerimonia subì un’interruzione di tredici anni ad opera dei Calvinisti dal 1578 al 1590 epoca in cui ci fu la liberazione di Ypres ad opera di Alessandro Farnese. A quel tempo si sacrificavano soltanto due gatti; “ma poiché, un certo anno, la fiera annuale aveva ottenuto un troppo magro successo fu deciso di aggiungere una terza vittima. Malgrado questo ulteriore sacrificio, la fiera successiva continuò ad essere un tale fiasco che non se ne parlò più fino al 1714, quando il ‘lancio dei gatti’ venne ripreso per un paio d’anni. Dopo il 1789 i Francesi, durante la loro occupazione, proibirono questi sacrifici, ma nel 1847 il Kattestoet venne ripreso con una gram messa in scena e costumi di gala. Interrotto nuovamente durante le ultime due guerre, non rinacque veramente che nel 1954: … ma non già per lanciare gatti vivi dall’alto della torre, ma soltanto gatti di stoffa”, ibidem, p. 37, 38.

[24] Ibidem, p. 39.

[25] Ibidem, p. 40.

[26] Ibidem, p. 25.

[27] Ibidem, p. 44.

[28] Una di queste leggende racconta che all’inizio del secolo XIX un gatto che aveva assunto sembianza umana un giorno portò due monete d’oro ad un vecchio mercante di pesce divenuto povero perché afflitto da una lunga malattia. Il gatto voleva mostrarsi riconoscente verso il vecchio malato che tante volte gli aveva offerto bocconi prelibati. Appena guarito il mercante apprese la notizia della morte del gatto, ucciso da un suo cliente al quale il felino aveva rubato le monete. Il mercante allora capì che lo sconosciuto che lo aveva aiutato altri non era che il gatto. Raccontò tutta la storia al cliente che riconobbe il suo errore e fece dissotterrare il corpo del gatto per farlo seppellire in un tempio con tutti gli onori, vedi ibidem, p. 47, 48.

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[29] Ibidem, p. 47.

[30] Il sogno secondo Freud è sempre l’espressione di un desiderio. Questo può essere considerato inaccettabile o vergognoso dal soggetto perciò nella visione onirica può subire mascheramenti e deformazioni. Compito del terapeuta è interpretare il sogno cercando di cogliere il desiderio nascosto che sta alla base di esso attraverso un lavoro sul sogno raccontato dal paziente e sulla vita reale dello stesso che non può essere disgiunta dalle rappresentazioni oniriche. Vedi Freud, L’interpretazione dei sogni, traduzione di E. Facchinelli e H. Trett, L’Unità-Boringhieri, Roma, 1994. [31] G. Bottiglioni, Vita sarda, note di folklore, cit., p. 87. [32] Ibidem, p. 88, 90. [33] G. Bottiglioni, Vita sarda, note di folklore, cit., p. 84, 85; vedi anche D. Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna, cit., p. 33. [34] Vedi ivi. [35] Vedi ivi. [36] Vedi D. Turchi, Leggende e racconti popolari di Sardegna, p. 53. [37] Ibidem, cit., p. 23. [38] “Vai a Gorroppu”. [39] Vedi D. Turchi, Leggende e racconti popolari di Sardegna, cit., p. 24. [40] Vedi E. Delitala, Il manoscritto 58 del fondo Comparetti, in Bollettino del repertorio dell’atlante demologico sardo, n. 5, 1974. [41] Vedi a tal proposito R. Marchi, Il bue muliache della Barbagia, in Atti del convegno degli studi religiosi sardi, Cagliari, 1962. [42] Vedi a tal proposito M. Attori e M. M. Satta, Credenze e riti magici in Sardegna, Ed. Chiarella, Sassari, 1980. [43] “Si perfidia abnuit, detegitur facinus coecitate, et captus oculis admissus fatetur”, G. Lilliu, La civiltà dei sardi, dal neolitico all’età dei nuraghi, ERI, 1967, Torino, p. 350; vedi a tal proposito anche B. Mazzone, I sardi, un popolo leggendario, cit., p. 57. [44] Vedi ibidem, p. 119. [45] Ibidem, p. 122.

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[46] G. Bottiglioni, Vita sarda, note di folklore, cit., p. 85, 86. [47] Ibidem, p. 86. [48] P. Pastonesi, Tortoli, Saludi e Trigu! Parole ed espressioni del vernacolo, giochi tradizionali, antologia documentaria, Collage Edizioni, Tortolì, 1998., p. 413. [49] Occhio cattivo. [50] P. Pastonesi, Tortoli, Saludi e Trigu! Parole ed espressioni del vernacolo, cit., p. 413.

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(foto di Giusy Calia)

FINESTRE

- Maria Gisella Catuogno, Il visibile e l’invisibile in alcune poesie di Charles Baudelaire - Marta Ajò, Michael Greenberg. Il giorno in cui mia figlia impazzì *** Random (rubrica a cura di Morena Fanti) - Virginia Foderaro, Mario Corso - Simona Lo Iacono, L’occasione - Silvia Leonardi, Una volta sola

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FINESTRE

Note critiche poetiche. Il visibile e l’invisibile in alcune poesie di Charles Baudelaire

di Maria Gisella Catuogno

Desiderando misurarmi col tema del Visibile e dell’invisibile, proposto per il quarto numero di Viadellebelledonne, ho avvertito anzitutto la necessità, vista l’ampiezza, la complessità e la polivalenza dell’argomento proposto, di circoscrivere l’oggetto della riflessione dall’orizzonte genericamente culturale a quello specificatamente letterario, al fine di evitare tentazioni di esaustività e rischi di genericità.

Dunque, il milieu letterario che mi è venuto spontaneo scegliere per queste mie note è quello della poesia simbolista, o meglio di alcune poesie che ne precorrono di diversi decenni, rispetto a Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, sensibilità, gusto, musicalità ed effetti cromatici: alludo ai Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (1821-1867), silloge definita nell’Introduzione all’Edizione italiana dei Giganti di Gulliver :

forse la più importante raccolta di poesie della letteratura, un volume compatto, unitario pur nella scansione dei suoi componimenti -130 liriche circa – di cui Victor Hugo scrisse che risplendono e abbacinano come stelle. Un capolavoro assoluto che dal 1857, anno in cui fu pubblicato, è un punto di riferimento assoluto per chi ami e studi la poesia.

La natura è un tempio dove pilastri viventi/ lasciano talora sfuggire confuse parole./L’uomo vi passa lungo foreste di simboli/ che lo fissano con occhi familiari./

L’incipit celeberrimo di Corrispondenze, una delle liriche più famose della raccolta, è l’espressione del rapporto tra visibile e invisibile, tra ciò che appare e ciò che si nasconde ma è. L’uomo trascorre i suoi giorni in costante rapporto con elementi riconoscibili e familiari, eppure essi non si esauriscono in se stessi, nelle loro caratteristiche fisiche e ontologiche, ma alludono ad altro, ad un quid immenso e inconoscibile, che si può solo percepire, e intuire, non cogliere razionalmente; un noumeno primordiale e archetipico da cui tutto si è generato prendendo forme, tonalità, rumori, odori diversi, ma che sono riconducibili all’unicum da cui derivano. Per questo:

I profumi e i colori/ e i suoni si rispondono come echi/lunghi che di lontano si confondono/ in unità profonda e tenebrosa/vasta come la notte ed il chiarore./

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Dunque la corrispondenza è proprio tra il visibile (colori) o il percepibile all’olfatto

(profumi) o all’udito (suoni) e l’invisibile, il sotterraneo (unità profonda e tenebrosa),

dove degli oggetti esterni approda solo l’eco (come echi lunghi); la corrispondenza è tra materia e spirito.

E quel nucleo in cui virtualmente tutto era compreso e celato, prima che si manifestasse in entità differenti, visibili e compagne dell’itinerario terrestre dell’uomo, ha una sua sacralità, comunque lo si voglia immaginare, principio divino o altro, perché è proprio l’invisibilità a renderlo misterioso e sovr-umano.

Il feeling non è facile né scontato: quella natura, che il Poeta metaforicamente concepisce come tempio, emana confuse parole, non immediatamente decifrabili.

Baudelaire mutuava questa concezione del rapporto visibile-invisibile, poi trasfigurata poeticamente in una delle più suggestive liriche della poesia mondiale, dal mistico svedese del Settecento Emanuel Swedenborg, che esercitò una profonda influenza, a tratti fascinazione, sui romantici europei, profondamente imbevuti di teorie irrazionalistiche.

L’interesse nei suoi confronti, si manifestò a partire dal 1845, quando il poeta francese fece sua l’idea che la natura sia animata da voci che si richiamano: il titolo Corrispondenze allude proprio alla molteplicità di questi richiami, filosofici e sensuali, che sottendono una primigenia unità.

Oltre le apparenze, dunque, sta l’essenza stessa e il presupposto della multiforme e cromatica realtà che ci circonda assumendo modalità familiari e riconoscibili, dunque rassicuranti per la creatura umana.

Meno immediatamente decifrabile ma presente è un altro invisibile cui si allude nella lirica L’albatro:

Spesso, per divertirsi, le ciurme /catturano degli albatri, grandi uccelli marini,/ che seguono, compagni di viaggio pigri,/ il veliero che scivola sugli amari abissi. /E li hanno appena deposti sul ponte,/che questi re dell’azzurro, impotenti e vergognosi,/ abbandonano malinconicamente le grandi ali candide/ come remi ai loro fianchi./ Questo alato viaggiatore, com’è goffo e leggero! /Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto!/ Qualcuno gli stuzzica il becco con la pipa, /un altro scimmiotta, zoppicando, l’infermo che volava! /Il poeta è come il principe delle nuvole/ che abituato alla tempesta ride dell’arciere;/ esiliato sulla terra fra gli scherni,/ non riesce a camminare per le sue ali di gigante.

Qui, il tema prevalente è quello del rapporto tra il poeta e la società: rapporto complesso e sofferto perché i valori del primo non sono apprezzati e riconosciuti dalla seconda. E l’intellettuale che, quando si libra nel suo mondo lirico, vola, come l’albatro, tanto in alto da essere irraggiungibile anche per la freccia del più valente arciere; allorché deve vivere con gli altri, patisce la sua differenza rispetto ad essi, perché allora diventa oggetto di scherno, di canzonatura, come il grande uccello marino, che è stuzzicato e preso in giro dalla ciurma: le

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ali da gigante divengono impaccio e impossibilità di muoversi con disinvoltura. Il nucleo tematico della lirica consiste dunque in questo parallelismo tra l’albatro e il poeta, ma nel quarto verso non può sfuggire l’immagine del veliero che scivola sugli amari abissi, indimenticabile per la sua incisività. Ebbene, cos’è il mare, per la sua stessa natura, per la profondità che cela, per la superficie che si chiude, indifferente, su tutto ciò che l’acqua vorace inghiotte, se non il simbolo più pertinente e fascinoso dell’invisibile che possiamo solo intuire, senza conoscere mai? Per questo l’abisso è amaro, è il baratro che temiamo, l’attrazione fatale cui non possiamo sottrarci, l’incognita, il mistero che non ci è dato di svelare.

Il tema ritorna, più insistito e articolato nello svolgersi, come fa appunto l’onda che si srotola, si abbatte e si ritira, della lirica che segue, dal titolo L’uomo e il mare:

Sempre il mare, uomo libero, amerai! /perché il mare è il tuo specchio; tu contempli /nell'infinito svolgersi dell'onda /l'anima tua, e un abisso è il tuo spirito/ non meno amaro. Godi nel tuffarti / in seno alla tua immagine; l'abbracci /con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore/ si distrae dal tuo suono al suon di questo /selvaggio ed indomabile lamento./ Discreti e tenebrosi ambedue siete: /uomo, nessuno ha mai sondato il fondo/ dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,/mare, le tue più intime ricchezze,/tanto gelosi siete d'ogni vostro /segreto. Ma da secoli infiniti/ senza rimorso né pietà lottate/fra voi, talmente grande è il vostro amore/per la strage e la morte, o lottatori /eterni, o implacabili fratelli!

Qui il mare e lo spirito sono fratelli e il primo è lo specchio del secondo, abisso non meno amaro: entrambi custodiscono segreti, entrambi sono discreti e tenebrosi, amano la strage e la morte, non hanno rimorso né pietà. Dunque il mare è anche metafora dell’invisibile che è dentro di noi, dell’insondabile mistero che è l’animo umano.

La ricerca di un altrove, di un luogo dove tutto è ordine e beltà,magnificenza, quiete e voluttà si configura per l’animo inquieto di Baudelaire, come del resto per quello di ogni romantico, come una tensione incessante e mai appagata. Il sentirsi perennemente in esilio, a volte persino rispetto al tempo, oltre che allo spazio, appartiene alla sensibilità dell’epoca: si vagheggia una patria ideale che è tale in quanto corrispondente al proprio patrimonio sentimentale e sensoriale. Già Goethe sognava il paese dove fioriscono i limoni, Foscolo la Grecia classica: sono luoghi che appartengono all’immaginazione, alla fantasia o alla memoria; si distaccano dalla visibilità, dalla realtà, per approdare al loro contrario. In Invito al viaggio il poeta francese non nomina mai il paesaggio nordico, luminoso e umido a cui allude: il sole è madido, come gli occhi femminili bagnati dal pianto e i velieri stanchi, sui canali, piegano le ali al sonno. Baudelaire ha forse negli occhi i quadri di Veermer, la luminosità dei cieli d’Olanda, i suoi commerci con l’Oriente, i fiori, l’ambra e canta così il Paese mai visitato personalmente, visibile solo allo sguardo della fantasia.

Bimba, sorella mia,/che cara fantasia,/pensa, potercene laggiù fuggire!/Là dove a meraviglia/ tutto ti rassomiglia,/amare e vivere, amare e morire!/Da quegli ombrosi cieli/un sole, se trapeli/ madido, sparge un misterioso incanto/che mi prende la mente,/come perfidamente/gli occhi tuoi quando brillano nel pianto./

Tutto laggiù è ordine e beltà,/magnificenza, quiete e voluttà./

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Mobili, fatti lustri/da un lungo uso di lustri,/adornerebbero la nostra stanza;/s'unirebbe l'odore/ d'ogni più raro fiore/dell'ambra alla volubile fragranza;/le ricche volte, gli ampi/specchi dai mille lampi/lo splendor della vita orientale,/parlerebbe ogni cosa/all'anima curiosa/la dolce arcana sua lingua natale./ Tutto laggiù è ordine e beltà,/magnificenza, quiete e voluttà./

Guarda su quei canali/piegare al sonno l'ali/i velieri dall'estro vagabondo:/non sai? per farti pago/ il cuore in ogni svago/sono venuti qui di capo al mondo./I dorati tramonti/accendon gli orizzonti,/ le campagne, i canali, la città,/d'un lume di giacinto;/s'assonna il mondo vinto/in una calda luminosità./ Tutto laggiù è ordine e beltà,/magnificenza, quiete e voluttà.

Forse anche questo altrove, sempre vagheggiato e mai vissuto, è un altro invisibile a cui il Poeta anela: uno spazio di luce, serenità, compostezza e bellezza, che può esistere solo nella dimensione virtuale, che probabilmente sarebbe contraddetto e rinnegato da un viaggio reale nel visibile dei Paesi Bassi. Per questo è meglio rinunciarci e invitare al viaggio senza compierlo mai: soltanto così la dimensione del mistero e del sogno può alimentare se stessa e placare lo spirito inquieto.

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FINESTRE

Il giorno in cui mia figlia impazzì – Una storia vera

di Michael Greenberg, Rizzoli editore.

Marta Ajò

La protagonista di questo racconto-romanzo ha un nome: Sally.

“A quindici anni è una ragazzina solo un poco diversa da tutte le altre. La sua casa a New York, nel cuore concitato e bohémien del Greenwich Villagge: ha un padre scrittore freelance che naviga a vista tra un lavoro e l’altro e una madre che vive lontana, sensibile al fascino della New Age. E poi la scuola, gli amici, la passione per la poesia coltivata nelle notti che sempre più spesso trascorre insonne nel loft di Bank Street solo con i suoi libri e i suoi complicati pensieri…”

Così l’autore ci introduce nel quotidiano di sua figlia Sally; in una sorta di normalità in cui molti potrebbero riconoscersi, salvo per quella sua tendenza all’isolamento e alla meditazione nelle ore del riposo notturno.

Un segnale d’allarme che se non fosse preceduto dal titolo del libro, avremmo anche potuto ignorare.

Ed infatti Michael Greenberg, autore ma anche padre di Sally, ci introduce in un mondo invisibile, in cui nessuno può immaginare che quelle notti e quei pensieri febbrili, che si fanno via via più intricati e difficili da governare, siano l’inizio di un viaggio precipitoso e terribile, che nel giro di pochissimo tempo, strapperà questa adolescente al suo mondo e ai

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suoi affetti, per confinarla, delirante ed estranea perfino a se stessa, nella stanza del reparto psichiatrico di un grande ospedale.

Questa la sintesi.

Ma l’autore si sforza di sostanziare la vicenda tragica di Sally, con i immagini e percorsi che si muovono intorno a lei, che a sua volta si mostra a loro indifferente ed ostile, in una teatrino senza sceneggiatura né regia, che non sia quella dettata da lei e dalla sua mente.

Ognuno dei cooprotagonisti rivela la propria impreparazione ad affrontare l’emergenza; la disponibilità affettiva è inficiata dall’impossibilità di una normale conversazione; del comunicare e del fare sulla base della norma di vita; sulla differenza di interessi intellettuali; sulla paura della perdita di una persona viva che spaventa più di quella data da una persona morta.

Perché la morte fisica è una regola e come tale sappiamo che, prima o poi vi dobbiamo soggiacere e soprattutto e comunque siamo obbligati ad accettare. Ma la morte della mente, mentre il corpo ogni giorno, ogni minuto, ti ricorda che c’è e che esiste, è un’agonia che difficilmente si riesce ad accettare e a sacrificarsi ad essa.

La cronaca è piena di casi familiari in cui, e non sono solo casi estremi, i parenti più stretti divengono le vittime sacrificali di questi malati; rifiutati nella società, relegati in luoghi che dovrebbero essere preposti al miglioramento delle loro condizioni di salute, ma spesso totalmente inadeguati ad un vero recupero; la mancanza del numero sufficiente di strutture, di leggi adeguate o mal gestite ed applicate, obbliga i familiari ad accollarsi l’assistenza di questi malati.

La famiglia va dunque a sostituire, in modo inadeguato, quello che la società e le sue istituzioni non riescono a garantire. Ma il limite di questo nucleo, al di là dell’affetto e della buona volontà, è quello di non essere in grado di dare assistenza medica e terapeutica.

Prima considerazione: le famiglie sono mutate ed il nucleo d’origine è sempre più ridotto all’essenziale.

Le realtà patriarcali di una volta, in cui un malato mentale si “spalmava”, in definitiva, in un sostegno condiviso e quindi maggiormente sopportabile da ciascun membro, oggi non esistono più e sono quasi sempre padri o madri ad accollarselo, in un stato di solitudine e di vergogna che li porta a condividere la patologia del congiunto fino all’estremo, divenendo essi stessi patologici per empatia, o quando, come spesso accade, non finisca in tragedia.

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Sally, per chi legge, non è che la rappresentazione, tra romanzo e verità, di una delle tante persone che soffre di patologie psichiatriche e che le stime europee danno come oltre 50 milioni mentre, solo in Italia si è parlato di 4 quattro milioni e mezzo, (cifre forse destinate a crescere con gli ultimi aggiornamenti) di individui con disturbi mentali.

Individui che devono fare i conti oltre che con la propria malattia, anche contro lo stigmatizzazione della società che tende ad allontanarli e rifiutarli; a non considerarli individui a tutti gli effetti ma ectoplasmi di loro stessi, a considerali “come se non ci fossero”, inesistenti o invisibili.

Un atteggiamento che deriva certamente dalla paura, oltre che dal rifiuto dei disturbi psichici, una paura collettiva che diventa in qualche modo anch’essa comportamento patologico; che tende a produrre stereotipi e comportamenti negativi e indirettamente violenti, come l’emarginazione sociale e culturale.

E d’altronde le società hanno sempre emarginato e condannato il malato di mente, considerandolo un diverso e pericoloso, inadatto ad inserirsi in un cosiddetto equilibrio sociale già difficile da gestire nelle sue diversità.

La storia anche più recente, conferma purtroppo questo atteggiamento; basti pensare in tempi non troppo lontani, fra gli sventurati destinati ai campi di sterminio tedeschi, non vi erano solo ebrei,come individui “diversi” dalla società legale e dalla razza ariana, pura e perfetta, ma anche altri “diversi” come i gay, i rom e i malati di mente.

Per quanto la scienza e la medicina, nel corso degli ultimi anni abbiano cercato di dare risposte sempre più innovative da un punto di vista scientifico e farmacologico, le metamorfosi della mente rimangono ancora misteriose e come tali difficili da capire ed accettare.

E’ il mondo che appartiene a questi individui, che li rende diversi e inaccessibili, come se vivessero in un mondo a noi invisibile.

Il linguaggio in cui essi si esprimono, la gestualità non comune, le idee che manifestano, gli obiettivi che si danno o che non si danno affatto, appartengono a qualcosa che a noi non appartiene, in quanto membri di un mondo codificato ed organizzato: chi esce da queste regole, non può esistere.

Razionalizzare la differenza che esiste oggettivamente e non soggettivamente tra la cosiddetta “normalità” e la codificata “anormalità”, rende spesso difficile distinguere tra gli individui malati da altri considerati comunemente sani. Le etichette spesso mal si adattano alla caratterialità dell’individuo in quanto tale.

La sua unicità è fatta di comportamenti, di come concepisce il tempo, di come affronta il quotidiano, di come progetta il futuro, di come percepisce, in assoluto, il senso della vita.

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Quando Sally inizia a vaneggiare esplicitando comportamenti di onnipotenza, a stabilire che lei non è che un puntino della genialità che è in lei e che riconosce in alcuni individui che incontra o che cerca, insegue un suo percorso interiore che non corrisponde a nessuno degli schemi seguiti dai suoi familiari e dal contesto sociale; il suo modo di esprimersi e usare il linguaggio diviene autoreferenziale lasciando basito chi la circonda.

Disturbo bipolare, diranno i medici.

Ma un’etichetta non basta a capire, se capire si può. Sally inizia questo viaggio non dormendo la notte, perché il sonno è uno dei primi sintomi ad attivarsi nei disturbi mentali; un tempo di veglia troppo lungo che conduce spesso alle fasi maniacali, che diversamente dalla depressione spinge chi ne soffre ad avere un umore particolarmente euforico con stati di esaltazione in cui sembra tutto possibile e raggiungibile. Questo è un’elemento di forte pericolosità, quando non pone freni alle capacità reali del proprio corpo e delle proprie azioni. E i pensieri si accavallano ad un ritmo difficilmente contenibile. La mancanza di sonno, come quella dell’appetito, non è altro che la manifestazione di un non bisogno sostituito dalla sensazione di poter fare qualsiasi cosa, commettendo spesso azioni compulsive; una forza delirante che priva il corpo dei bisogni necessari perché si nutre dei bisogni della mente e della propria energia mentale: fattasi malattia.

Spinoza diceva che “la vitalità è la virtù più pura, l’unica virtù. Lo sforzo di autoconservazione è la qualità assoluta condivisa da tutti gli esseri viventi”.

Cosa succede, però, quando la vitalità diventa così potente che la virtù spinoziana si inverte, e una persona, invece di sopravvivere e prosperare, è indotta a mangiarsi viva?

Ed infatti, molte patologie psichiatriche s’incrociano con i sintomi dell’anoressia che è carica di vitalità distruttiva che porta il corpo, privato dell’alimentazione necessaria, a consumarsi e nutrirsi degli organi interni; essa spesso non è che alternanza ad altri sintomi psicotici.

“ All’improvviso Sally si scosta da me, balza in piedi e inizia a percorre l’appartamento a grandi passi….E parla, o, meglio dire, sputa parole dalla bocca come una bottegaia che con la scopa caccia la polvere fuori dalla porta del negozio. C’è gente che l’aspetta, dice, persone che dipendono da lei, …non può deluderle, deve andare subito da loro…”

“Sally si divincola da noi rifugiandosi nell’angolo più lontano dell’appartamento…”.

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Nelle crisi di maggiore disperazione, quasi tutti questi malati, che hanno la percezione della loro “unicità incondivisibile”, tendono a scappare da quello che rappresenta la normalità, cercando un rifugio dove nascondersi, dove possono ricavare una tana che rappresenti la difesa del loro mondo invisibile. Può essere un angolo, un tavolo o il retro di un divano.

Quella è la soglia, il limite invalicabile a cui è impedito l’accesso agli altri, e al loro mondo visibile e nemico.

L’impossibilità di trovare un comune spazio vitale, conduce spesso alla disperazione ed ad un senso di vuoto che può indurre al suicidio. L’impreparazione degli “altri” a questi eventi è così forte che diventa difficile cogliere questi momenti, accettarli ed affrontarli. Anche il padre di Sally resta sconvolto ma cerca di dare sempre spiegazioni razionali ai comportamenti della figlia che lo rassicurino; mentire a se stessi sulla gravità di queste patologie spesso è d’aiuto a sopportare quella che è una vera e propria tragedia per il malato e la sua famiglia.

“Divenni il suo alleato; peroravo instancabilmente la sua causa con gli insegnanti, con gli altri genitori, con i nostri stessi parenti, sconvolti dall’abisso tra come lei vedeva il mondo e come lo vedevano tutti gli altri…Non è forse la dimostrazione che Sally ha accesso a quella regione elevata della mente di fronte alla quale noi possiamo solo restare sgomenti…?”

E il padre di Sally compie ancora e suo malgrado la rimozione della malattia della figlia, come tendono quasi tutti coloro che sono legati da legami affettivi al malato; un malato intelligente, sensibile e furbo, che riesce spesso a dare nobiltà intellettuale ai propri ragionamenti, al limite della genialità, in cui è facile confondersi, nel tentativo, inutile, di applicarsi ad una logica malata.

In altri casi, tuttavia, la fase maniacale non è caratterizzata da umore euforico, bensì “disforico”, ovvero da un senso costante di rabbia verso le ingiustizie che il malato pensa di avere subito, stati d’intolleranza, irritabilità e, spesso, vera e propria aggressività. Le conseguenze delle proprie azioni non vengono valutate da chi le produce; inoltre il malato tende a dare spiegazioni ai suoi comportamenti, di cui conserva una percettibilità latente, incolpando altri del proprio stato (d’altra parte modalità simili sono riscontrabili anche in atteggiamenti di persone non definite patologiche e probabilmente vissute in tempi precedenti la malattia stessa); una ricerca di uno o più capri espiatori su cui convogliare il proprio disagio mentale e la percezione latente di non uscire dal vortice della malattia.

“E' agitata, infastidita…mi rivolge uno sguardo di rara violenza…con il sandalo tira un calcio fortissimo a un bidone….mi fissa con i pugni stretti lungo i fianchi…Penso, e non per la prima volta, che non sono in grado di gestire una figlia…”. “Mi tuffo davanti a lei e lei mi spintona contro il muro. Ha una forza sorprendente…scatti convulsi di energia le fischiano dentro come un venti di tempesta. Mi getta a terra, mi strappa via gli occhiali, mi affonda le unghie nel viso fino a farmi sanguinare…Sally si divincola da noi rifugiandosi nell’angolo più lontano dell’appartamento”.

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Eppure dietro ogni atto, anche il più incomprensibile ed inconsulto, esiste un disperato “Perché è successo a me? Perché a me?”.

Davanti alle forme di violenza con cui spesso si esprime un sofferente psichiatrico, le persone che lo circondano restano prive di ogni logica spiegazione e restano prede della paura fisica e mentale. Anche il padre di Sally, tenta di scacciare la consapevolezza che sua figlia possa fargli del male. Cerca spiegazioni ai suoi gesti; si rivolge agli effetti della droga, che inconsciamente lui spera abbia assunto per giustificarla. La difficoltà di questi rapporti spesso si consuma in modo omertoso nelle famiglie, come una cosa di cui vergognarsi e per cui nessuno è disponibile ad offrire aiuto.

I componenti della famiglia di Sally, si sentono tutti inadeguati. Lo stesso fratello dichiara con semplicità al padre. “Sono sollevato di non esserci io, chiuso qui dentro, e mi sento in colpa perché mi sento sollevato. Vorrei sapere cosa fare per lei.” L’affetto non basta ad accettare il sovvertimento della norma. Le persone, che si attengono ad esse fin dalla più tenera età, scuola, lavoro,leggi ecc., hanno difficoltà a recepire quella diversità; la possibilità di allontanarsene trasforma in un fossato il desiderio di avvicinarsi a quel mondo invisibile di cui uno solo ha le chiavi del castello. Quando il ponte levatoio viene aperto, è possibile accedervi, ma quando si pensa di averlo attraversato e il padrone del luogo lo alza, lasciando cadere ogni possibilità d’incontro, a quest’incontro volentieri ci si sottrae.

Ma non sono solo i familiari a sfuggire all’imbrigliamento dell’invisibile, che l’affetto avvolge come una spirale; non esiste neanche una complicità di “casta”. Gli incontri che avvengono negli ospedali psichiatrici, in cui i malati riescono, nei casi meno gravi, a trovare una complicità fra loro che li induce a guardare il mondo “altro” con una sorta di intesa superiorità, in cui riescono anche a fare gruppo e condivisione o scambio di “interessi” raggiungibili solo fra di loro, lasciano al contrario una sorta di annientamento fra i parenti; invisibili non solo al mondo esterno ma fra loro stessi e tra essi e i parenti degli altri malati.

Quando l’autore saluta le dimissioni di un altro giovane paziente, di cui ha condiviso i problemi con i familiari scrive: “Né io né lui suggeriamo di tenerci in contatto. Una conoscenza occasionale che nasce in un reparto psichiatrico non esce da quelle mura”. Anche se fino a pochi giorni prima quel ragazzo era uguale ed insieme a Sally; ed i familiari parlavano ed interagivano fra loro, con gli altri parenti; considerandosi interlocutori alla pari; gli invisibili, in quanto tali, erano ignorati.

“Abbasso la voce per non disturbarla, poi mi rendo conto di essere l’unico a prendersi la briga di farlo. Nessun altro nella stanza la considera minimamente. Una tristezza come questa non ha orecchie. Non può essere disturbata. Non ha niente a che fare con la malinconia e neppure con il lutto, che per lo meno sono emozioni immaginabili”.

L’Autore confessa che per tutta una prima fase del manifestarsi della malattia, egli ha cercato una spiegazione che lo convincesse; fino ai limiti della sublimazione di quella mente

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devastata il cui linguaggio incomprensibile avrebbe anche potuto essere considerato come il senso e lo sviluppo, di un’ espressione dell’elevatezza della sua anima; una superiorità che poteva essere considerata patologica solo da chi non l’avesse compresa. Egli s’inoltra sempre più nei meandri della malattia, nelle farraginose macchine della medicina; nei rapporti umani. Sa che sua figlia potrebbe uscire all’improvviso dal tunnel o precipitarvi per sempre. E’ solo questione di tempo; un tempo che sembra un’eternità.

“Qualcosa nel suo tono ha attirato la mia attenzione: la modulazione della voce, la sua schiettezza tranquilla: misurata e con un calore che non sentivo più da mesi. Gli occhi le si sono addolciti. Mi riprometto di non farmi ingannare. Eppure il cambiamento in lei è innegabile.” “E’ come se fosse successo un miracolo. Il miracolo della normalità. Dell’esistenza ordinaria. Mi lascio guidare da Sally e mi comporto come se non fosse accaduto niente di strano. E si direbbe proprio che per lei non sia accaduto niente di strano: sembra inconsapevole del cambiamenti”.

“E’ come se avessimo vissuto in una favola per tutta l’estate. Una ragazza bellissima è trasformata in una pietra comatosa, o in un demonio. Le strappano le persone care, il linguaggio, tutto ciò che era suo. Poi l’incantesimo si spezza e lei si risveglia, “sorpresa di avere gli occhi”.

Ma i miracoli non si compiono con tanta facilità. E l’autore, che non vuole dare lezioni di sostegno per famiglie con pazienti psichiatrici a carico, ma ha semplicemente raccontato la sua storia (o meglio quella di sua figlia Sally); non ha voluto ergersi a giudice dei comportamenti; non ha tentato di indicare scorciatoie o terapie perseguibili.

Alla fine del racconto, molto delicatamente, ma inevitabilmente avverte il lettore che il percorso di questa ragazza sventurata come altri, ha conosciuto da allora solo soste e mai definitive: si è diplomata a pieni voti; ha studiato; ha subito un altro ricovero;si è innamorata e si è sposata; si è riammalata e separata; e, ci informa Greenberg, si è messa infine a lavorare in una panetteria dove si è specializzata in un tipo di biscotti.

I biscotti della sua creatività, del suo mondo, della consapevolezza di dover combattere contro un demone affilando le sue uniche armi: armi invisibili sotto forma di biscotti visibili.

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FINESTRE

RANDOM a cura di Morena Fanti La passione al femminile non è solo amore

di Morena Fanti

Tre voci femminili ci raccontano come sia ancora difficile essere donne in una società che per secoli è stata solo maschile. La presenza femminile non esisteva ed era perciò “invisibile” e non considerata nella nostra società, nel lavoro e nei tanti settori pubblici come politica, istruzione e anche in tanti ambiti artistici. In alcune zone del mondo questa voce è tuttora troppo invisibile.

Proporre tre autrici per i racconti presenti in questo numero era, forse, una scelta naturale. Un modo di seguire i pensieri e di dare spazio alle passioni delle donne.

Le tre voci narranti si sono indirizzate su ciò che è forse il punto dolente dell’essere donna oggi: conciliare lavoro, carriera e passioni personali con la famiglia. È ancora molto difficile trovare il modo di vivere in pieno i propri desideri e inseguire i propri sogni senza per questo rinunciare all’essere donna e persona.

Quanto sia arduo imporsi in un mondo che ragiona ancora al maschile lo sa bene Angelina Basilicò “anni 25, seni abbondanti, occhiali inforcati sul naso” mentre coltiva il suo sogno: “Scrivere, appunto. Non un romanzo. Ma il romanzo. Quello che avrebbe svettato nelle classifiche dei best-seller. Quello da cui avrebbero tratto un film. Quello che già pregustava finito, accorpato in pagine da sfogliare. Insomma. Quello che nessuno le pubblicava”. Essere donne in un mondo lavorativo formato e guidato dagli uomini porta ancora in sé i semi del fare maschile: “Erano sempre attratti da altro, gli uomini. Proprio come gli editori. Mai che si fermassero su questa constatazione ovvia: che lei – oltre a un formidabile fiuto da scavatrice - aveva talento da vendere. E invece le occhieggiavano il décolleté, ignoravano le sue citazioni letterarie”, questo è il mondo di cui ci racconta Simona Lo Iacono nel suo racconto L’occasione. La sua scrittura vivace e immediata sa collegare la semplicità con l’accuratezza dei dettagli. Con poche parole Simona sa creare un personaggio e con poche frasi lo fa vivere in un racconto perfettamente calato nella realtà.

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Ester, la protagonista di Una volta sola di Silvia Leonardi, ha fatto una scelta difficile, una scelta che al momento le era sembrata l’unica possibile. Ma scegliere il lavoro importante, quello che si è desiderato per anni, l’opportunità che tutti vorrebbero, non è mai così semplice per una donna. Quando sceglie, la donna rinuncia, consapevole o meno, alle altre cose: “Tu rimarrai il mio unico amore, quello che avrei sposato il prossimo anno, se fossi rimasta. Ma capisci, succede una volta sola, una sola nella vita, questo pensò e disse Ester”.

Come può una donna sapere se un giorno si troverà a rimpiangere la scelta che sta facendo? Chi le indica qual è la porta da aprire? Come può, Ester, sapere se quello che sta lasciando le mancherà?

“Certo, mi mancherai, ma allora non vuoi capire. Io ti amo ma questa è la mia vita, ho studiato, ho aspettato, e adesso ci siamo. Cioè, ci sono. Tornerò appena possibile, in qualche modo faremo. […]E io parto lo stesso, se mi ami non puoi non capire che sono cose che ti passano davanti e se non le acchiappi sei fregato. Se non lo faccio adesso dimmi quando”.

È una bella scrittura introspettiva, questa di Silvia Leonardi. Una scrittura che sa guardare dentro l’anima e che usa il cuore. L’interiorità diventa più visibile del corpo e dei luoghi in cui abita. Un bell’esempio di come si possa usare “l’invisibile” e dargli visibilità.

E poi c’è Samanta, la protagonista del racconto Mario Corso di Virginia Foderaro. Samanta è una scrittrice ma sa benissimo che "Di poesia non si vive" perciò accetta di scrivere un romanzo che verrà firmato da un altro. L’altro ha un nome noto ma non sa scrivere e Samanta deve pur vivere e accetta l’incarico: “Quell’io narrante lo sentivo dentro le mie orecchie urlarmi che dovevo fare in fretta, che quei soldi sarebbero stati importanti ma che non erano tutto. Aveva voglia di uscire allo scoperto e comunicare il suo messaggio. Il fatto di passare attraverso le mie mani di scrittrice e il mio cuore di poeta era solo un dettaglio. Non avrei contagiato la mia maniera di scrivere, se per una volta sola avessi scritto per conto di un altro. Del resto scrivere era il mio imperativo, non mi sarei sottratta neanche quella volta”.

Ma non aveva fatto i conti con la passione, Samanta. Si stava dimenticando di se stessa e di ciò che desiderava davvero. Perciò quando finisce il lavoro e sta per consegnare il romanzo, la sua creatura, nelle mani di un altro, non riesce a farlo. Non accetta di rimanere invisibile e dare visibilità a chi non la merita. Virginia Foderaro ha scelto un tema che coniuga attualità e simbolismo e l’ha trattato con la sua bella scrittura, raffinata e incisiva Quante volte le donne sono rimaste nell’ombra? Quante volte hanno ceduto il passo? Ma ecco che Samanta si scuote e recupera se stessa attraverso i suoi sogni.

Tre grandi comunicatrici per un tema importante e una visione che lascia spazio alle possibilità femminili.

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Mario Corso

Iniziare un nuovo romanzo è sempre stato per me un atto d'amore. E' sempre stato come indossare il mio abito più elegante, calzare scarpe con tacco a spillo 12 centimetri e partire su un'auto coupé verso la notte, dove tutto può accadere. Ho sempre saputo che la vita che mi agita dentro abbia più sangue pesto di quella là fuori. Mario Corso mi aveva commissionato un nuovo romanzo. Avrei scritto per lui, incassato il mio compenso e fine. Mario era un famosissimo volto della televisione. Comico e conduttore televisivo, aveva al suo seguito un nutrito pubblico di spettatori e potenziali lettori. Ma non sapeva scrivere. Punto e a capo. Fu per questa ragione che mi contattò al telefono un pomeriggio di maggio del 2007. Mi chiamò personalmente e mi disse: "Signorina Maffei dovrei incontrarla". Il suo accento era molto milanese e mi piacque. Alla televisione si manteneva su delle intonazioni neutrali, ma in quella telefonata mi era parso più umano. "Mi chiamo Mario Corso. Avrà di sicuro sentito parlare di me. Sono quello della tv. Ho un progetto ambizioso, mi hanno detto che lei può aiutarmi". Riagganciò il ricevitore non prima di avermi dato il suo appuntamento in Piazza della Repubblica, di fronte all'Hotel Portogallo. Accettai, compresi immediatamente che il mio lavoro di scrittrice non sarebbe restato per sempre nell'ombra, se già lui aveva bisogno di me. Ci saremmo incontrati il giorno seguente alle dieci di una mattinata resa allegra dal sole e dal tepore della primavera inoltrata, in cui Roma offriva il suo sfondo. Mario era un tipo asciutto e slanciato, rendeva meglio dal vivo piuttosto che in video. La sua risata era contagiosa. Mi strinse la mano, mi osservò per lunghi secondi, più del dovuto per essere un incontro di lavoro. In silenzio, sorrise. "Sei carina, Samanta. E che fai oltre a scrivere?" "Scrivo e basta. E' ciò che amo davvero. Non vorrei distrarmi con altre occupazioni e continuo per la mia strada, sebbene non sia un'occupazione che offra da vivere agli sconosciuti. Per fortuna ora c'è questa possibilità", gli sorrisi e pensai che quello fosse un giorno fortunato per entrambi. Prendemmo posto in un tavolino all'aperto del bar Capri, localino deserto, perfetto luogo d'incontro clandestino, come era il nostro. "Ho un'idea molto chiara per il mio romanzo. Ma non saprei da dove iniziare. Riccardo Chini mi ha dato il tuo manoscritto da leggere. L'ho letto tutto di un fiato, e alla fine ho pensato che avrei voluto scriverlo io. Riccardo mi ha parlato del tuo lavoro di scrittrice conto terzi, utilissimo per chi, come me, non ha tempo". Mi osservava con uno sguardo di taglio e tentava di cogliere nelle mie espressioni ogni movimento che svelasse qualcosa di me. Voleva intuire cosa stessi pensando: all'affitto di casa, alle scadenze più prossime, alle rate dei prestiti. Io quel lavoro non potevo mancarlo. "E perché non pubblichi a nome tuo?" disse ancora indagando segnali su quel mio viso esausto. "Sono stata selezionata per la pubblicazione su antologie prestigiose. Scrivo poesie. Ma non ci campo". Per me potevamo iniziare anche subito, gli confessai senza perdere tempo. Presi nota della sua idea. Voleva scrivere un romanzo d'impatto generazionale, che contenesse una storia di sentimenti e riflessioni. Aveva scelto già il titolo: "Se incontrandoti non ti riconoscessi". Mi sarebbe servito ad orientarmi nel suo mondo. La vicenda doveva svolgersi nei giorni nostri, il protagonista, un io narrante cinico e seduttore, aveva il compito di

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condurre il lettore in un viaggio interiore di trasformazione alla ricerca dell'amore. "Un tema banale, se vogliamo, ma di presa sicura" concluse con una risata fragorosa e si sfregò entrambe le mani, come a voler significare che quella storia era un successo garantito, chiunque l'avesse scritta per lui. Non replicai, cercai di rimanere pacata nei toni e nei gesti. "Samanta, io aspetto i primi capitoli per capire se possiamo partire. Che ne pensi?" Prendere o lasciare, Samanta. Mi risuonò nella testa. Di romanzi ne avrei scritti mille, almeno al momento avrei potuto tirare avanti un altro po' senza dovere ritornare sconfitta a casa dai miei, confermando che la vita dello scrittore è una strada senza uscita. "Di poesia non si vive", gli strinsi la mano e gli assicurai che lo avrei richiamato al più presto. Era già mezzogiorno. Le strade erano sovraccariche dal rumore dei clacson delle automobili in transito, e delle voci dei passanti sul marciapiede. Fissai tutta quella vita volteggiare nella mia direzione e pensai che, se da un lato ero stata fortunata con quell'incontro, dall'altro stavo barattando la mia anima e la mia arte. Mi vendevo. Proprio io che ero contraria a qualsivoglia compromesso, ero stata appena acquistata da un capriccioso e smaliziato personaggio della tv. Diecimila euro erano una bella cifra di denaro e l'avevo già destinata prima ancora di entrarne in possesso. L'anticipo sarebbe arrivato con i primi due capitoli. Potevo anche portarglieli il giorno seguente. Mi specchiai in una vetrina di asciugamani e tovaglie, avevo gli occhi che brillavano sul mio futuro. C'era chi fosse disposto a pagare per le mie storie. Ad ogni modo, oramai avevo accettato. Tornai a casa quasi di corsa, volevo iniziare quanto prima fosse possibile a buttare sulla carta una storia irresistibile. Doveva essere densa di carica sensuale ed evocatrice di sogni. Quell'io narrante lo sentivo dentro le mie orecchie urlarmi che dovevo fare in fretta, che quei soldi sarebbero stati importanti ma che non erano tutto. Aveva voglia di uscire allo scoperto e comunicare il suo messaggio. Il fatto di passare attraverso le mie mani di scrittrice e il mio cuore di poeta era solo un dettaglio. Non avrei contagiato la mia maniera di scrivere, se per una volta sola avessi scritto per conto di un altro. Del resto scrivere era il mio imperativo, non mi sarei sottratta neanche quella volta. Ciò che non considerai in quelle ore fu che avrei scritto un romanzo straordinario. Mi misi subito all'opera e andai avanti senza fermarmi un attimo per tutta la notte e il giorno seguente, e quello dopo, e ancora e ancora per una settimana intera e anche di più. Mi alzavo dalla scrivania solo per brevi momenti, avevo staccato il telefono e ogni contatto con il mondo esterno. La mia segreteria telefonica aveva esaurito lo spazio e di me le persone non ricevettero alcuna notizia per lunghi, interminabili giorni. All'improvviso conclusi. O almeno la struttura era in piedi, l'intreccio era solido e garantiva ai miei personaggi di muoversi con forza e determinazione in quel mondo che avevo appena costruito. Mi piacque. Guardai l'ora. Erano le quattro del mattino, non sarei stata in grado di distinguere di quale giorno. Avevo perso l'orientamento. Ma non pensai fosse tardi per telefonare a Mario Corso. Doveva essere informato che avevo compiuto il mio piccolo miracolo. A quell'ora, aveva il cellulare acceso, quasi una premonizione della mia chiamata, pensai. Lo lasciai suonare finché la sua voce lontanissima circondata dal buio della notte finalmente rispose. Era un orario indecente, ma io non diedi ad intendere alcun imbarazzo. «Ho finito!» gli urlai dal microfono del mio cellulare. E gli raccontai tutta la trama del mio..., del suo romanzo. Poi, presi a leggere ciò che avevo scritto per lui. «Sei un genio, Samanta! Ti adoro. E’ scritto da dio. Mi hai fatto piangere. Cazzo!» concluse sul finire dell'ottavo capitolo. Continuai ancora a tutto fiato, senza fermarmi, assalita da un'eccitazione indomabile. Volevo che Mario fosse fiero di me, ammalato della mia stessa

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febbre. Era muto, avvertivo che le sue parole si erano incastrate in fondo alla gola. Mi sentivo invincibile nel mostrare il mio trofeo di caccia. Avevo rincorso la mia preda nei campi e l'aveva catturata, raggirato i tranelli e le astuzie di quella creatura e l'avevo messa nel sacco. Ed ora ero sul podio a riscuotere applausi. Corso era muto, ancora. Brevi colpi di tosse tradivano qualche sigaretta di troppo, ma era lì incollato con l'orecchio al ricevitore. E se ora gli dicessi di no, cosa accadrebbe? osai tra me e me. Arrivai fino all'ultimo rigo poi tacqui. «Ti è piaciuto?» fuori l'alba aveva avvolto la strada, la sua luce biancastra rifrangeva sulla linea dell'orizzonte che scorgevo dalla finestra. «Sarà un grande successo» pronunciò con la voce popolata di ombre. «Mario, ci ho ripensato. Il romanzo non lo vendo. Resta mio» e riagganciai la comunicazione.

Virginia Foderaro

Virginia Foderaro, nata a Napoli nel 1962, vive e lavora a Roma. Ha studiato Lingue e Letterature Straniere all’Università La Sapienza di Roma. Le sue passioni sono la letteratura, il cinema ed il teatro. Ha lavorato per il teatro come addetta stampa, traduttrice, direttrice di scena, aiuto regista ed autrice. Ha collaborato in qualità di redattrice per varie testate giornalistiche, firmando articoli su temi di attualità, politica e moda, e critica teatrale. Scrive testi di narrativa e ha al suo attivo racconti, poesie, due romanzi inediti. E' la fondatrice e curatrice di La scrittura creativa di Opposto http://www.opposto.net , sito Internet che si occupa di dare visibilità ad autori italiani e stranieri.

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L’occasione Donna di mare non era mai stata. Né d’acqua o di fiume. Piuttosto donna di terra, di una Catania ben ancorata alla riva, dalla quale scorgeva le onde con una certa indifferenza. Eppure adesso si trovava - metro più metro meno- almeno sei spanne sotto costa. Cosa poi ci facesse lei, Angelina Basilicò - anni 25, seni abbondanti, occhiali inforcati sul naso - in quel barcone sperso a mezzo mare, era storia lunga. Nessuno le avrebbe creduto. E lei stessa, se le avessero raccontato la verità, avrebbe forse riso coi suoi bei denti bianchi, innevati come il pennacchio dell’Etna. Fatto sta. Così era cominciata. Sedetevi comodi che ve lo racconto. ***** La redazione del giornale non era cosa. Non per una laureata in lettere con specializzazione in archeologia, campagne di scavi a Cipro e quattro romanzi storici chiusi nel cassetto. E però. Pagare pagavano, ed era pur sempre un modo per scrivere. Questo infatti gustava Agelina Basilicò nei suoi sogni. Questo presagiva mane e sera, nella doccia o in macchina districandosi nel groviglio fitto di strade che a Catania s’abbarbicano l’una sull’altra. Scrivere, appunto. Non un romanzo. Ma il romanzo. Quello che avrebbe svettato nelle classifiche dei best-seller. Quello da cui avrebbero tratto un film. Quello che già pregustava finito, accorpato in pagine da sfogliare. Insomma. Quello che nessuno le pubblicava. Era, ovviamente, un particolare. Su cui svolare con animo leggero, nere le carni dell’abbronzatura di scoglio, lucide le mani di olio solare. Un particolare che superava appunto lisciandosi per uscire, impomatandosi di fondotinta, passando un bell’ombretto sugli occhi grandi, cespugliosi, che gli uomini non le fissavano mai troppo a lungo. Erano sempre attratti da altro, gli uomini. Proprio come gli editori. Mai che si fermassero su questa constatazione ovvia: che lei – oltre a un formidabile fiuto da scavatrice - aveva talento da vendere. E invece le occhieggiavano il décolleté, ignoravano le sue citazioni letterarie, si eclissavano se al primo appuntamento si presentava con quattrocento cartelle dattiloscritte, formato A4, giusto per leggerne qualche riga. Una razza inconcludente. E soprattutto – pensava sdegnata Angelina Basilicò – incolta. ***** A questo punto si trovava la sua vita quando le si era presentata l’occasione. Al giornale era un fermento. Il direttore mai così elettrico, colla sigaretta che gli sfiaccolava tra le dita in tre prese di fiato. I redattori allumati per quell’annuncio memorabile che aveva messo sottosopra persino le centraliniste. Lui. Proprio lui. Conteso da testate della capitale e programmi televisivi. Da forum e palchi. Lui sceglieva Catania. Preferiva la provincia ai fasti dell’impero. Intervistarlo era d’obbligo. Essere all’altezza pure. Sciorinare date, citazioni e disinvoltura anche.

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Nessuno pareva più adatto di Angelina Basilicò, l’unica a masticare le lingue (greco antico) e a districarsi sulla sedia girevole con gambe ben tornite. L’unica ad essersi istantaneamente candidata, scalzando le colleghe in un sorpasso da rally. Si preparò al gran momento con cura, Angelina Basilicò. Rispolverò storia antica e recente, intrecci politici, qualche espressione retrò e ricordi che rimandavano a numerose (e mai vissute) esperienze giornalistiche. S’ingegnò in un estemporaneo corso di dizione e, infine, si rinchiuse dal parrucchiere. Quando ne uscì – ondeggiante, soddisfatta - le ciocche svaporavano aromi di miele e cannella. L’ultima trovata in fatto di immagine. ***** Ma la messa in piega non serviva. L’odore acre di cannella neppure. L’appuntamento sarebbe stato segreto e in posto di difficile approdo. L’intervista – per imprescindibili ragioni di sicurezza – andava fatta in luogo tutt’altro che adatto a una sfilata di moda. Angelina Basilicò se ne fece una ragione. Sfoderò un sorriso da reporter consumata. Corse a paludarsi in jeans, sahariana e scarponi da trekking. Sembrava un inviato estero in Kossovo. Quando al giornale la videro così parata, le braccia protette da un asfittico spray antizanzara e il viso incremato di fango, restarono perplessi. Fatto sta. Era l’unica a districarsi nell’aggrovigliata matassa della storia e il direttore fece finta di niente. Le consigliò per l’occasione un paio di occhiali da sole e un costume. Top e pantaloncini non troppo corti. Fu a questo punto che - per la prima volta - Angelina Basilicò ebbe un sussulto. Costume? Quindi l’appuntamento era in mare. Sì, al largo, confermò il direttore, e lei finse indifferenza mentre ripassava mentalmente i rudimenti dello stile libero. Inutile. Mai saputo nuotare. Mai stata in acque profonde. Al più sulla battigia e tra gabbiani affamati di lische di pesce. Ma ancora una volta non tentennò. Indossò un bikini mozzafiato e disse di essere pronta. ***** La costa era svanita da un pezzo. La motonave procedeva impavida da un’ora. Percorreva la striscia bianca dei marosi senza annaspi. Angelina Basilicò combatteva con capogiri e nausea. Tentava respironi a pieno petto e concentrazione dello sguardo: dritto innanzi a lei, puntato come siluro a centro d’orizzonte. Eppure non passava. Finché il motore sbottò, sputò olio nero e benzina. Cessò di rumoreggiare solo quando fu chiaro che non si sarebbe più ripreso. Angelina Basilicò e il capitano si guardarono torno torno. Nessuno yacht in vista, neanche quello che ormai avrebbe dovuto preannunciare il personaggio. Aria e acqua si ostinavano anzi a confondersi in nebulosa appartenenza. Alla radio segni zero di contatto. I cellulari fuori ponte. Angelina Basilicò cercò di darsi un contegno ma rinnegò in cuor suo persino la vocazione letteraria. Il capitano, invece, pareva soddisfatto.

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Le cincischiò qualcosa in una lingua incomprensibile. Le sfiorò le dita con un baciamano d’altri tempi. Angelina Basilicò dimenticò di attingere a Ovidio, e per un attimo volle scrutare con più interesse il suo compagno di viaggio. Mai uomo era stato più inadatto al governo di un natante. Con quell’aria pallida di chi non vede sole e mani curatissime, senza increspature da nostromo. Né mai imbarcazione le era parsa – se ne accorgeva adesso – più malmessa e leggera. O così priva di dispositivi di salvataggio. Ma dov’era finita? E mentre se lo chiedeva, il capitano si liberava del cappello, sfoggiava una chioma da sirena e, sotto gli occhiali a specchio che gli nascondevano metà del viso, si rivelava. ***** Beppina Puglisi, centralinista procace del giornale. Aspirante scrittrice anche lei, ma costretta dalla sorte a sussurrare : “attenda in linea” nella speranza di fare carriera. Era stata la prima ad apprendere la notizia. La prima a conoscere il luogo dell’incontro. Origliare da una cornetta non era disdicevole se veniva giustificato dall’amore per l’arte. Una cosa sola era disdicevole. Che per l’intervista fosse stata scelta Angelina Basilicò. Lei che si dondolava sui tacchi fingendo di non essere interessata agli sguardi degli uomini. Che sbandierava aforismi in greco antico. Che per dire “bello” farfugliava kalòs e per dire “buono” agatòs senza curarsi della confusione dell’interlocutore (che regolarmente scambiava il primo per un’unità di misura e il secondo per un gateau di patate). Lei. In carriera ma senza darlo a vedere. Invaghita dalla storia e dal tempo. Come se il tempo, poi, fosse astratto quanto l’odore dei suoi profumi, o la linea evanescente dell’eye liner che le sottolineava lo sguardo. Come se il tempo non fosse invece scandito dal click della cornetta che inesorabilmente chiudeva le telefonate. ***** Si chiama sequestro di persona, bella. Si chiama vendetta. Si chiama anche invidia, ma mi sembra banale. Questo avrebbe voluto dire alla centralinista. Ma il sole picchiava a sasso. La bandana lasciava colare rivoli di sudore. Il mare s’increspava gradualmente di onde lunghe, come sciabordii che sfiorino una balena. Angelina Basilicò si sentiva adesso contemplativa. Nessun altro momento le era mai parso tanto adatto per concepire un romanzo. Così stese l’asciugamano nuovo di zecca sulla prora. Si accomodò dopo essersi spruzzata in viso poche gocce di mare. Lasciò l’altra a guardarla perplessa, mentre lo scafo prendeva a oscillare sempre più forte. Scivolò nel sonno senza accorgersene. Senza salutare il buio con apprensione. ***** Era stata nottata di malo sonno.

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Angelina Basilicò – anni 25, seno procace, occhiali ancora inforcati sul naso e dimenticati la sera prima – sollevò le lenzuola con sollievo. Anzi. Con la sensazione di essere scampata ad un naufragio. E quella nausea da onda lunga, poi. Quel sudore caldo che la colmava di insofferenza e – stranamente – di una vaga tristezza. Non c’è spiegazione a certe notti, sospirò , e si immerse sotto il fiotto della doccia navigando tra aromi di bagnoschiuma. Al giornale, solito va e vieni. Solito tastare sul computer a ritmo serrato. Angelina Basilicò si chiuse la porta alle spalle. La targhetta della sua stanza recitava in corsivo :dott.ssa Basilicò. Direttrice. Primo caffè della giornata e poi la notizia. Lui. Proprio lui. Conteso da testate della capitale e programmi televisivi. Da forum e palchi. Lui sceglieva Catania. Preferiva la provincia ai fasti dell’impero. Intervistarlo era d’obbligo. Essere all’altezza pure. Sciorinare date, citazioni e disinvoltura anche. Schiere di colleghe paludate in jeans attillati le si proposero a sciame. Svolarono per aria zaffate di cannella, evanescenze di sofisticatissimi shampoo e resti di lacca per acconciature. Svolarono anche citazioni dotte e aforismi in greco antico. Qualcuna azzardò ricordi di reportage e una dizione molto poco meridionale. Le stupì tutte quando disse : “Voglio Beppina Puglisi. La centralinista”. Simona Lo Iacono

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970, ha seguito studi classici e si è laureata in giurisprudenza. Durante il periodo universitario ha collaborato assiduamente con giornali del catanese e del siracusano di critica letteraria. E' giudice del tribunale di Siracusa da 12 anni. Attualmente dirige la sezione distaccata di Avola. Nel 2006 il suo racconto "I semi delle fave" ha vinto il premio "Carpinteri" edito dal convegno "scrivere donna" ed è stato pubblicato da Romeo editore nella collana SCRIPTA MANENT. Collabora con riviste e magazine e tiene una rubrica a metà tra letteratura e diritto sul blog di Massimo Maugeri "Letteratitudine" del gruppo Kataweb L'Espresso. Riunisce regolarmente in casa un salotto letterario che raggruppa scrittori e artisti.Raggruppa "circoli di lettura". Il suo primo romanzo "Tu non dici parole" (Perrone editore, nov. 2008) ha di recente conseguito il Premio Vittorini opera prima.

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Una volta sola

Fu quando Ester si affacciò dal treno che capì che indietro non si torna. Vide gli occhi sgranati di lui a fissare un punto incerto sulla striscia gialla al di qua del binario. Così sporco che il giallo era quasi grigio, o forse no, era il suo sguardo basso e immobile a deformare anche i colori. Quanto schifo nelle stazioni, fu la sola cosa che quel giorno riuscì a pensare. Che volle pensare. Lui stava in posa indefinita, un piede su quella striscia giallogrigia - che una voce deformata dall’altoparlante suggeriva di non superare per prudenza- uno a mezz’aria a sfiorare il primo scalino del treno, quasi avesse in mente di saltarci sopra al primo accenno di movimento. Non poteva sollevare il viso, lei l’avrebbe visto piangere e un uomo, questo, lo evita finché può. Ester lo immaginò, non lo chiamò per nome e continuò a fissarlo come una cosa che non ritorna. O che non c’è mai stata. Si era preparata un lungo discorso per togliere un po’ di sale a quella giornata, giusto perché non risultasse troppo pesante mandare giù il boccone. Solo che adesso si chiedeva dove le avesse messe tutte quelle belle parole che aveva appuntato nella mente, scavando tra ricordi di vecchi libri i vocaboli più impersonali e giusti, di quelli che non sai dove vuoi andare a parare, ma che ci stanno bene se vuoi essere forte e regalare coraggio. Tre anni insieme, ma adesso doveva andare. Era l’occasione della sua vita quel treno mezzo verde e mezzo bianco, e dentro tutto sporco di vite di passaggio. Anche per lei, in un altro senso, era solo un mezzo. Arrivare a Roma e poi volare oltre oceano, a pigliarselo tutto quel lavoro così cercato e voluto. Aveva provato a spiegarlo anche a lui, che aveva scosso la testa e chiesto solo “E io?” Già, e tu. Tu rimarrai il mio unico amore, quello che avrei sposato il prossimo anno, se fossi rimasta. Ma capisci, succede una volta sola, una sola nella vita, questo pensò e disse Ester evitando con cura di indagargli dentro. “Ma come fai a sapere che è il lavoro giusto, che starai bene, che non ti mancherà tutto questo, io, noi?”. Certo, mi mancherai, ma allora non vuoi capire. Io ti amo ma questa è la mia vita, ho studiato, ho aspettato, e adesso ci siamo. Cioè, ci sono. Tornerò appena possibile, in qualche modo faremo. “No, non si fa, Ester, lo sai che le storie a distanza – che distanza, poi - non durano”. E io parto lo stesso, se mi ami non puoi non capire che sono cose che ti passano davanti e se non le acchiappi sei fregato. Se non lo faccio adesso dimmi quando. “Fai come vuoi allora, non aggiungo altro”. La lasciò partire anche se avrebbe voluto dirle che la vita che li aspettava insieme lui l’aveva già pensata, a suo modo costruita. Che sperava di chiederle di diventare sua moglie sul lungomare di Napoli. Di essere banale e innamorato con un anello da offrirle, un futuro incerto ma pur sempre futuro. Dei figli, magari. Che per lei era pronto a sopportare anche le feste di famiglia, e la zia Piera che non smette un attimo di parlare. Che avrebbero preso un cane, magari due. Che non le avrebbe mai più rinfacciato i suoi difetti e qualche pretesa di troppo.

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Ester partì, felice e triste insieme. Sarebbe tornata presto a riprenderselo, giusto il tempo di sistemarsi, mettere da parte un po’ di soldi, poi gli avrebbe chiesto di seguirla. Solo che lui non lo sapeva ancora. Sarebbe spuntata come una sorpresa inaspettata. Vedi, sono tornata per te. Andiamo a vivere in America. Un rumore la riscosse dai ricordi. Sarà la vicina che come sempre lascia cadere le chiavi di casa per terra. Si affacciò al vetro come dieci anni prima, ma da molto più in alto. Ventottesimo piano di uno dei più bei grattacieli d’America, dentro un appartamento incredibile che non avrebbe saputo nemmeno immaginare prima che glielo consegnassero con un sorriso. In basso, oltre la vetrata non c’erano occhi bassi e lacrime in bilico, ma fiumi di gente di tutti i colori e gli umori, brave persone, mendicanti, assassini, manager come lei. Che scorrevano sui marciapiedi come piccole formiche, scontrandosi e scostandosi per lasciarsi passare. Nessuna forma definita e netta come quella di un uomo che molti anni prima la abbracciava davanti al mare, la salutava vicino a un treno senza il coraggio di guardarla partire, senza dire una parola per non infrangerle i sogni. Si era detta per mesi che sarebbe tornata, ma poi erano scalini in più da salire, unghie da affondare per non farsi superare da qualcun altro. Così era rimasta a consumarsi gli occhi e gli anni su una poltrona girevole in vera pelle, ambito seggio che si era guadagnata in lunghe notti accasciata accanto a un computer a finire relazioni per il giorno dopo, nelle pause pranzo in cui correva a studiare inglese, in quelle rare volte in cui si sfiniva sul tapis roulant di una palestra perché anche l’occhio vuole la sua parte e un manager deve essere in forma. Guardò la sua faccia sorridente da luna piena che la osservava da una foto sbiadita. Una foto che nel tempo doveva aver preso troppo sole perché era ingiallita agli angoli. Già, il sole. C’era anche quel giorno che lui le aveva scattato la foto da troppo vicino. Ester aveva protestato che sarebbe sembrata un pesce palla. “Io amo i pesci palla, non lo sai? Sono i miei animali preferiti!” aveva commentato lui atterrandola sulla sabbia. Se adesso si guardava allo specchio, di quella luna restava solo la metà Luna calante, avrebbe detto. Troppo magra, ma il tempo di mangiare non c’era più. “Hai una strana tristezza negli occhi. Ce l’hai da quando ti conosco” le aveva detto un giorno il presidente della sua azienda. No, quale tristezza, guarda che ti sbagli. Ma Ester non avrebbe saputo dire con esattezza da quando gli occhi avessero cambiato espressione. Magari, aveva pensato, è naturale. Sono stanca, lavoro come una matta, e gli occhi sembrano tristi. Sembrano solo. Perché poi non ho nulla di cui essere triste. Ho il lavoro più bello del mondo, e ho fatto tutto da sola. Di questo pensiero adesso le restava dentro l’ultima parola, come un monito a lungo cacciato via dai suoi giorni. Sola. Sola come chi nella vita ha fatto pesanti rinunce e se ne accorge tardi, quando gli anni sono attimi troppi lunghi da colmare e sai che non fai in tempo a riprenderti certi sorrisi. Quando guardarsi indietro è doloroso e necessario. Irrinunciabile.

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Di lui aveva saputo solo che si era sposato. Glielo aveva scritto con cautela sua madre -che per comunicare con Ester aveva imparato a collegarsi in rete- in una mail telegrafica e ispettiva, per vedere se alla figlia avrebbe fatto male o sarebbe arrivata come una delle tante notizie dall’Italia. Bene, aveva risposto lei. Se lo vedi, fagli tanti auguri da parte mia, era stata la sua laconica risposta. Di cui tra l’altro si era pentita un secondo dopo aver cliccato su Invia. L’aveva incrociato, alla fine, sua madre. Due giorni esatti prima delle nozze, e gli aveva comunicato gli auguri da parte della figlia. Che poi lui avesse cambiato volto come se avesse visto un fantasma, questo no, alla sua bambina lontana non lo disse mai. Ester si allontanò dalla finestra. In penombra si lasciò cadere sul divano. Si accorse di una piccola lacrima scesa a rigarle il viso. Sentì davvero, per la prima volta, che le occasioni mancate ci si allargano dentro, si prendono il cuore, riempiono di dubbi. Che non è facile scegliere cosa prendere e cosa lasciare. Che si era presa un lavoro da cinquemila dollari al mese e una casa che non avrebbe mai potuto avere nella sua Napoli bella e sfortunata. Con la lente distorta con cui si osservava adesso, pensò a un tempo lontano, alla scelta tra due sogni, due mondi, due amori diversi. Troppo tardi capire adesso che era lui – forse sì - l’occasione giusta per sentire quei piccoli brividi di gioia che la gente chiama ancora felicità.

Silvia Leonardi

Silvia Leonardi è nata a Messina, 33 anni fa. Laureata in lettere moderne, vive a Roma da quasi 10 anni. Lavora per una società informatica in cui si occupa di comunicazione, progettazione e formazione. Ha pubblicato nel 2007 “Allo Specchio”, la sua prima esperienza letteraria. Ha terminato da poco un secondo romanzo che sta proponendo a diverse case editrici e ne sta scrivendo un terzo, anche se afferma di essere ancora agli inizi. È un’ottimista per natura, non ha paura di sperimentare ed è una sognatrice. Sogna tanto. Non a caso il suo blog si chiama “Sogni Volanti” http://sognivolanti.splinder.com

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(foto di Paola Pluchino)

CAMMINAMENTI

- Salvatore Jemma, La generazione [dell’] invisibile - Morena Fanti, Lo sguardo oltre il colle. Confine tra giornalismo e scrittura creativa

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CAMMINAMENTI

Lo sguardo oltre il colle Confine tra giornalismo e scrittura creativa

di Morena Fanti

Con lo sguardo puntato verso l’orizzonte gli occhi si fermano su quella sottile, e invisibile, linea che divide il reale dall’irreale. L’invisibile, come ha indicato Giacomo Leopardi con i suoi versi, richiede una vista interiore che è possibile usare solo se l’occhio [vista esteriore] incontra un ostacolo sul suo cammino.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Abbiamo quindi bisogno di un ostacolo, di un punto dove fare sostare l’occhio; in questo punto potremo lasciare libera quella vista interiore che ci permetterà di vedere l’invisibile. Chi ci può indicare dove posare lo sguardo dell’anima? Ogni artista e ogni forma d’arte può rispondere a questa domanda. La prima forma d’arte a cui pensiamo, la più visiva, è la pittura. Quale espressione artistica meglio della pittura ci fornisce indicazioni visibili, apprezzabili, misurabili con gli occhi? Marc Chagall, il grande pittore-poeta, ha detto: " Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse anche più reale del mondo apparente". Le sue tele, rappresentazione-visione della sua anima, così ricche di simboli e di personaggi fantastici, ci dimostrano che il mondo invisibile può diventare visibile grazie alla magia dei colori che cantano e danzano in assoluta libertà. L’altra espressione artistica che sa puntare lo sguardo "oltre", è la poesia, come ci ha dichiarato Leopardi mostrandoci quell’infinito nascosto dalla siepe. Ma vogliamo andare oltre e approfondire l’argomento "scrittura": le parole sulla pagina formano quel colle oltre cui guardare. Le parole, le frasi, i paragrafi si uniscono e formano la parte visibile, il nero su bianco verso cui tendiamo. Ma è quella la direzione giusta verso cui posare lo sguardo? O non è forse il resto, il non detto, la parte importante della comunicazione? La scrittura ha tante forme e tanti modi in cui esprimersi. Ci trasferiamo nella dimensione più concreta e razionale, quella giornalistica, e in contrapposizione esploriamo la scrittura di fiction, la scrittura dei romanzi, delle storie ‘inventate’ che ci piacciono tanto. Ho chiesto il parere di alcuni giornalisti-scrittori; persone che, quindi, hanno conoscenza dei due mezzi e sono scrittori su due piani che si intersecano e si compenetrano inventando nuove figure geometriche della comunicazione. Quando si scrive si ‘disegna’ un quadro: le parole contengono colori e forme e gli intrecci che si creano formano una trama di segni. Associare la scrittura alla pittura non è così strano.

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� In un quadro tutto ciò che viene dipinto diventa visibile ma ogni oggetto ne potrebbe nascondere un altro e ogni ombra avere dietro la sua luce. In che modo questa affermazione si può applicare alla scrittura?

"Ogni situazione descritta, può avere il significato che aveva in testa l'autore ma anche provocare significati diversi in chi legge. E non è detto che l'autore abbia ragione, anzi. Di solito chi legge ha una visibilità più sgombra" è la risposta di Enrico Gregori che "crede molto nel ruolo creativo del lettore" e pensa che "una volta pubblicato il libro è suo". È quindi un’idea che delega al lettore la responsabilità di vedere "altro" nella pagina scritta. È la prima possibilità che ci viene esposta: l’invisibile lo crea chi legge e lo fa per mezzo dell’interpretazione che dà al testo che sta leggendo.

Mentre per Luisa Ruggio è lo scrittore stesso che crea questo aspetto doppio dell’interpretazione di un testo, questa condizione di essere "mai raggiunto": "… resta comunque una porzione di ambiguità nella scrittura. Le parole sono paraventi buoni per le ombre, specchi, caleidoscopi che tentano l’unità attraverso la frammentazione. Sono il suono delle cose, il loro vestito, l’allure di un limite in continua espansione. Il cui destino è restare irraggiunto. Forse è per questo che Marguerite Duras parlava di equilibrio dello squilibrio, e alludeva a quei pieni-vuoti, quei chiaro-scuri nei quali lo scrittore è chiamato a stare come un funambolo, muovendosi sul confine che separa il visibile dall’invisibile, densi come universi matrioska".

Ma le parole scritte non devono riempire ogni spazio vuoto. Anzi, a volte sono gli spazi bianchi che, contrastando le righe nere, lasciano spazio alla ricerca dell’invisibile: "Il narratore deve lasciare intendere, non spiegare, far sì che sia la libera interpretazione del lettore a carpire il messaggio che egli ha voluto lanciare attraverso la parola scritta." Afferma Salvo Zappulla e conclude: "Una storia può celare tanti sottintesi "invisibili", a chi sta dall'altra parte cercare di dipanarli".

Massimo Maugeri sottolinea che la relazione tra pittura e scrittura passa attraverso le visioni e le suggestioni, comuni ad entrambe le modalità artistiche: "Ho sempre pensato che pittura e scrittura abbiano forti connessioni. Mi piace molto la scrittura "immaginifica". Anche la mia lo è, almeno in parte. Così come avviene per le immagini pittoriche, anche la scrittura offre visioni e suggestioni. Ed ecco qualcosa che appare, anche se non viene descritto. E qualcos'altro che si evince da un incrocio di trame, o da sovrapposizioni di destini. Il visibile e l'invisibile si inseguono e si attorcigliano, come due rampicanti che crescono su un'opera muraria. E ciò, a mio avviso, vale sia per la pittura che per la scrittura".

Valerio Varesi denuncia il potere evocativo, quello che parla all’anima e a quello "sguardo interiore" tanto caro a Leopardi e a tutti i poeti, della scrittura "La scrittura dice di più di ciò che letteralmente manifesta. Se uno scrittore è abile e sa usare la lingua, intesa come ritmo, sintassi e vocabolario, riesce a esprimere qualcosa che non è scritto. L’esempio più eclatante in questo senso è la poesia. Il poeta trascina tra le righe emozioni e sensazioni tali che la sua arte ci sembra una formula magica capace di combinare sensi a partire dalla semplice successione di parole. Basterebbe scambiare l’ordine di queste parole per distruggere un’armonia che produce la visione dell’invisibile o del non manifestato".

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Molto chiara anche la risposta di Remo Bassini, raccontata attraverso l’esempio del personaggio di un romanzo dell’autore: "A volte, soprattutto quando si lavora sulla percezione e sulla psiche dei personaggi, questo assunto è il più importante. E l'invisibile diventa ciò che più rifulge. Faccio un esempio concreto da un mio libro, di una donna che parla con i morti. Appare di sfuggita, in un solo capitolo. Ma è una presenza tanto invisibile quanto forte, dalla prima all'ultima pagina. E' stato però interessante vedere le reazioni dei lettori: per alcuni quest'invisibilità è il fiore all'occhiello del libro, per altri, meno avvezzi, credo, al simbolismo, e ad assaporare ciò che aleggia, l'impalpabile insomma, hanno invece storto il naso. Io però nella mia scrittura ho e penso avrò sempre una predilezione per "l'invisibile protagonista"."

Per Salvatore Spoto la scrittura si muove sulla linea sottile che divide/unisce creatività e comunicazione, ed è: "specchio dell’anima e mente, come dire dell’irrazionale e del razionale. Non è possibile avere la certezza della corrispondenza tra parole e pensiero, così che non potremo mai sapere se uno scritto è espressione del razionale o dell’irrazionale. Sotto questo aspetto la scrittura è creatività (irrazionale) oppure comunicazione (razionale). In effetti è il duplice spaccato del giornalista-scrittore: comunicazione del concreto oppure creatività per mezzo dell’immaginario".

La scrittura del giornalista è forse la più adatta ad evidenziare l’aspetto visibile e concreto dei fatti. Sembra agli antipodi della scrittura del romanzo. Se una è chiarezza/certezza, l’altra è invenzione/invisibilità e si lega sulle cose taciute, sul non detto. Il giornalismo è tangibilità, è un passaggio certo sul fiume della realtà. Con il suo essere concreto, con le sue forme ben evidenti è l’antagonista della fantasia e dell’invenzione. Ma avrà anch’esso una parte di invisibilità?

� E per quanto riguarda il giornalismo che significato possiamo dare al visibile e all’invisibile? Esistono entrambi e sono dipendenti l’uno dall’altro, oppure no?

"Il giornalista è talvolta obbligato a dire delle cose forse un po' artificiose per fornire al lettore gli strumenti per arrivare alla verità attraverso un ragionamento. Questo, ovviamente, se la cosiddetta verità non può essere supportata da documentazione e prove". Afferma Enrico Gregori che il mestiere di giornalista lo conosce molto bene e che lavorando nella cronaca nera, sa bene l’importanza di prove e documenti, parti "visibili" di ogni indagine.

Per Massimo Maugeri il giornalismo deve essere ben calato nella realtà e deve dare spazio al visibile: "Ritengo che il giornalismo debba più interessarsi a ciò che si vede. E - ancor di più - a ciò che si dovrebbe vedere, ma viene nascosto. A mio avviso il giornalismo ha una funzione diversa dalla letteratura. Esso dev'essere più radicato alla realtà, mentre la letteratura può espandersi nell'inseguimento di un sogno. E della sua trasfigurazione."

La pensa così anche Salvo Zappulla che sottolinea il bisogno di chiarezza: "Il giornalismo è cronaca, fatti di vita vissuta, riportati e commentati. Credo che un buon giornalista debba avere maggiore chiarezza espositiva rispetto allo scrittore".

Scrivere articoli sembra più immediato rispetto alla scrittura creativa. Si dà più spazio alla realtà e si fa opera di divulgazione. Ma anche la scrittura del giornalista ha uno spazio di

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‘scelta’, un terreno quasi creativo in cui si privilegia di mostrare alcune cose e di celarne altre dietro le parole. Questa è l’opinione di Valerio Varesi: "Nel giornalismo mi pare tutto più semplice visto che in questo mestiere la scrittura ha quasi esclusivamente un compito divulgativo o di volgarizzazione di ciò che sfuggirebbe ai più. Si potrebbe, in questo caso, affermare che, molto spesso, i giornali, ma soprattutto la televisione, compiono scelte nel rendere visibile solo una parte della realtà per varie ragioni che possono andare dallo spazio disponibile al taglio d’opinione fino all’interesse politico-economico. In tutte queste situazioni l’invisibile è la volontaria sottrazione del visibile".

Ma c’è anche chi pensa che l’invisibile non esista nel giornalismo: "Nel giornalismo non c'è spazio, o se c'è è ridotto ai minimi termini, per l'invisibile. Che c'è, però: è tutto quello che si sa e non si può dire e che solo raramente viene percepito dal lettore".[Remo Bassini]

"Nel giornalismo non ci dovrebbe essere alcun gap tra visibile e invisibile. Se ci fosse sarebbe figlio di un giornalismo scadente che non si attiene ai fatti, non cerca la verità. Un fatto è un fatto. Non un racconto". [Luisa Ruggio]

Esiste sempre, però, anche in questa scrittura così reale e razionale, una porzione di soggettività che conduce il testo in territori condizionati dal pensiero di chi scrive, ci suggerisce Nicola Amato: "Scrivere un articolo giornalistico non è esente da contaminazioni personali da parte di chi scrive. Il rischio di pilotare l’oggettività della notizia, consapevolmente o non, è sempre dietro l’angolo. In sostanza, all’invisibile rappresentato dall’interpretazione soggettiva del lettore, si aggiunge l’invisibilità, e direi quasi la sublimità, del messaggio nascosto inteso a condizionare l’elaborazione mentale del lettore".

Abbiamo, quindi, da una parte la scrittura razionale e concreta, la chiarezza e la verità. Con la scrittura giornalistica siamo integrati nella realtà e mostriamo ciò che di visibile abbiamo intorno: l’invisibile nel giornalismo è quella parte di verità a cui non siamo ancora arrivati ma che intuiamo esserci. È un leggere e mostrare tra le righe, un lasciare intuire che dà spazio all’interazione del lettore. Ma il tutto deve essere supportato dalle notizie, e chi scrive deve essere visibile. Tutto questo cambia, assume altri aspetti e regala spazi nuovi alla scrittura, quando entriamo nel mondo della fiction, quando scriviamo "storie". Se l’invisibile è una zona che vogliamo solo fare intuire a chi legge, e se l’invisibile è la zona d’ombra in cui viaggiano i misteri e il buio della psiche dei nostri personaggi, allora si percepisce questa "invisibilità" come una cosa che ci viene sottratta e la scrittura diventa un processo di riduzione del visibile. Su questo aspetto, su questo modus operandi, troviamo meno divergenze d’opinione. Il visto e il non visto, questa "sottrazione" di eventi e di parole che porta il lettore a immaginare, a tentare di vedere anche ciò che non è scritto, ciò che non viene mostrato, è il vero fascino della scrittura che, se ben esercitato, conquisterà il lettore.

� Nella scrittura di fiction, questa diversità/compenetrazione dell’invisibile viene attuata per sottrazione e cioè non manifestando parole ed eventi ma lasciandoli piuttosto intuire al lettore?

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"Io credo che nella fiction letteraria sia molto importante giocare tra il visto e il non visto, tra il descritto e il lasciato immaginare. […] Il bravo scrittore è sempre in grado di dosare il visibile e l'invisibile". [Massimo Maugeri]

"Si, ma con qualche eccezione che deriva esclusivamente dalla tecnica del racconto". [Salvatore Spoto]

Nicola Amato, grande esperto e conoscitore di varie forme di linguaggio segrete, anche nascoste in file e messaggi, accosta questo aspetto della ‘sottrazione’ nel raccontare, al linguaggio del cinema, espressione artistica in cui il "visibile" è una forte presenza: "Il dualismo visibile-invisibile ha trovato ampio dibattito nella storia del cinema ponendo in contrapposizione l’idea di elaborazione cinematografica, e quindi di scrittura ad essa riferita, orientata verso la visibilità e quella che invece preferisce l’invisibilità. Il montaggio invisibile, utilizzato dal cinema classico tra gli anni 30 e 50, aveva la caratteristica di accentuare al massimo lo sviluppo drammatico delle diverse scene e guidare lo spettatore nella direzione voluta dal regista, il quale metteva l’accento su ciò che secondo lui meritava. Non accorgendosi del "trucco" insito nel lavoro tecnico (brevi ellissi temporali, cambi di ambiente, etc.), lo spettatore era portato a giustificare i punti di vista proposti dalla cinepresa, a dimenticarne la presenza, a identificarsi con essa e, in ultima analisi, a "vedere" il film come una realtà di cui si sentiva testimone diretto. Diverso invece il discorso per quello che riguarda la cinematografia russa dello stesso periodo che ha influenzato i modi di scrivere per il cinema e il modo di approccio. In sostanza, ritenevano che il montaggio c’era e doveva vedersi. Lo spettatore doveva "sentire" che la telecamera c’era. L’invisibile, ritenevano, doveva essere creato solo ed esclusivamente nell’elaborazione mentale dello spettatore che, non più fruitore passivo come avveniva nel cinema hollywoodiano, era ora parte attiva ed integrante del processo filmico in quanto elaborava i contenuti creando quella parte invisibile del film".

Scovare l’invisibile a questo punto diventa una felicità, un "piacere deduttivo", come lo definisce Luisa Ruggio: "Dipende dalla qualità delle strutture narrative, dalla voce fuori campo che le dirige. Nella migliore delle ipotesi l’invisibile dovrebbe attuarsi per sottrazione, questo implica un rapporto di fiducia col fruitore della fiction al quale l’autore rivolge i suoi "tra le righe" che diventano epifanie, felicità dell’intelligenza. Un piacere deduttivo, un’intuizione, un presentimento visionario".

Saltare questo confine immaginario tra razionale e irrazionale, tra realtà e fantasia, è l’aspetto ludico della scrittura. Trasportarsi da una parte e dall’altra del confine, oltrepassare la linea e avventurarsi oltre e poi tornare indietro e mostrare di nuovo il colle indicando dove puntare lo sguardo per vedere il resto, è ciò che rende la scrittura, la buona scrittura, quel viaggio avventuroso che coinvolge scrittore e lettore allo stesso modo.

� Giocare su questo confine che divide la materia dall’immateriale può essere limitante o al contrario apre nuove prospettive al raccontare?

Per Valerio Varesi la risposta è chiara e senza esitazioni: "Credo che apra nuove prospettive e che ciò sia l’essenza del narrare. Del resto non possiamo dimenticare che ogni

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parola porta con sé una ricca dose di significati già per il fatto che è stata usata a lungo ed è passata attraverso universi di senso che appartengono al nostro bagaglio culturale".

"Apre nuove prospettive. L’invisibile è la strada maestra che conduce al mito", afferma Remo Bassini, mentre per Salvatore Spoto "Può aprire nuove frontiere, ma solo a livello di creatività".

Ma non è tutto qua: se lo scrittore ‘gioca’ con il confine tra il detto e il non detto, allora anche il lettore gioca, in quel coinvolgimento totale che è il rapporto con chi scrive seriamente: "Non solo apre nuove prospettive a chi racconta, ma gli fornisce anche la possibilità di giocare a correre su quel filo sottile che divide il visibile dall’invisibile saltando di qua e di là. Tutto ciò si traduce in una maggiore partecipazione del lettore che ha la possibilità di assegnare valori semantici a suo piacere alle varie vicende del racconto. Una sorta di concessione di libertà di movimento mentale al lettore, insomma". [Nicola Amato]

Se penso ad una scrittura che contenga "l’invisibile", la prima associazione che mi viene alla mente è con la scrittura "di genere", cioè con il giallo, con il noir, che sono i generi per eccellenza in cui si nasconde qualcosa, in cui il mistero serve ad indicare le parole sottratte e le invisibilità interiori dei personaggi. Ma è davvero così? L’invisibilità è propria solo di queste scritture o è una prerogativa della scrittura in ogni suo aspetto e rappresentazione?

� Ma questo scarto tra visibile e invisibile, questa sottrazione di eventi, questo nascondere alla vista e lasciare intendere, è legato solo a certi generi letterari – se ancora esistono i ‘generi’ – o è un’arte che si può [si deve] applicare a tutta la letteratura, perché se non ci fosse renderebbe vano l’atto stesso della scrittura?

L’importante è saper dosare gli ingredienti, afferma Valerio Varesi: "Tutta la letteratura ne è investita, semmai, certi generi, accentuano maggiormente alcune caratteristiche, ma è come dosare più o meno un ingrediente. Uno scrittore di thriller, per esempio, utilizza l’evocazione per far immaginare al lettore qualcosa che lo tiene in ansia o lo spaventa. Ma, lo ripeto, è solo questione di dosaggio".

E di dosaggio parla anche Massimo Maugeri, con le sue porzioni di detto e non detto, che diventano il sale della narrazione: "No, credo che debba applicarsi a tutta la letteratura. Senza distinzione di generi. Il visto e il non visto, così come il detto e il non detto, sono il sale di qualunque tipo di narrazione".

Parlare di generi letterari sembra un modo di dividere la letteratura, un vincolo che piace poco in un momento in cui le contaminazioni tra generi sono frequenti e in cui non sembra esistere un testo che abbia un solo orientamento. La pensano così molti autori. I romanzi ora sono un contenitore in cui si spazia dall’amore al sociale passando per il noir psicologico e il mistery. L’importante è non essere noiosi, conclude Salvo Zappulla: "I generi letterari sono vincolanti, un'opera non si classifica, né si lega strettamente a un genere, diventa limitativo. Voltaire diceva che tutti i generi vanno bene, tranne quelli noiosi. Parole sante. Certo, uno scrittore dotato di grande fantasia, in grado di inventarsi storie fantastiche che vanno oltre l'ordinario, per me è quello che si avvicina di più al concetto di artista".

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Se fuggiamo dai libri noiosi, a maggior ragione ci allontaniamo dai libri disonesti che diventano, quindi, libri inutili per Remo Bassini [e anche per noi]. Bassini conferma il noir come scrittura adatta alla sottrazione di eventi tipica del mistero: "Io penso che il noir si presti maggiormente, ma io credo anche che la suddivisione di genere serva solo ai critici e alle case editrici per catalogare Nella mia testa la suddivisione dei libri che ho negli scaffali è tra libri che lasciano un segno e libri onesti, da un lato, e libri inutili e disonesti (scritti per accalappiare i lettori, e basta) dall'altro".

Se si fa un uso sapiente del gioco di nascondere indizi ed eventi, come anche aspetti psicologici e dell’anima dei personaggi, si "tiene il lettore incollato alla sedia", come dichiara Nicola Amato: "Ritengo trovi ampia applicazione in tutta la letteratura. Ovviamente, ci sono dei generi che, per la loro intrinseca natura fatta di contenuti intriganti, di suspense, di elaborazioni psicologiche, rappresentano un terreno più fertile per il gioco visibile-invisibile. Un uso sapiente di questo gioco può rendere il racconto stesso più efficace dal punto di vista della fruizione, raggiungendo uno degli obiettivi primari di chi scrive: mantenere il lettore incollato alla sedia sino all’ultima parola scritta".

Ma ogni libro, ogni romanzo e testo, è un viaggio tra visibile e invisibile: tutto porta alla visione di quel colle che divide la mente razionale e l’irrazionalità dell’anima e del cuore, che deve essere sempre presente quando lo scrittore scrive. Quello sconfinamento, quell’andare a vedere oltre, è l’arte stessa della scrittura.

"E’ un assoluto. Quello sconfinamento è la scrittura stessa". [Luisa Ruggio]

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Ringrazio gli amici giornalisti-scrittori che hanno contribuito alla stesura di questo articolo regalandomi il loro tempo e le loro visioni sulla materia: Nicola Amato, Remo Bassini, Enrico Gregori, Massimo Maugeri, Luisa Ruggio, Salvatore Spoto, Valerio Varesi, Salvo Zappulla.

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La generazione [dell’] invisibile

di Salvatore Jemma

Il problema, ovviamente, è che in un tempo di crisi e rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell’orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare un Salto di Fede.

Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse

1.

Tempo fa, non pochissimo a pensarci bene, ricevetti una rivista di poesia, in questa vi lessi un editoriale che esprimeva giudizi che mi parvero piuttosto sommari e superficiali. In una cinquantina di righe si tentava di ragionare su un’intera fase poetica e su una generazione che ha cercato di sostanziarla (ma, direi, che ancora continua a farlo). Parlo di una generazione, la mia, e del rapporto che si è instaurato tra questa e la poesia; ne parlo in questi termini anche se tale periodizzazione mi ha sempre lasciato piuttosto freddo, come quella più recente della “giovane poesia”, che mi pare un’assoluta stupidaggine. Ma lo scritto in questione nasceva nel momento in cui tali periodizzazioni cominciavano a farsi spazio e largo tra le varie assurdità che cercavano di sostituirsi a una critica che aveva (e in parte ancora ha) lasciato un vuoto a causa della propria assenza - un’assenza che, come si vedrà più avanti, ha generato un’altrui presenza. Mi colpì una frase – la cito a memoria - diceva più o meno così: «Una generazione che ha lavorato con poca generosità dal punto di vista personale e dal punto di vista collettivo».

Questo giudizio mi parve subito inesatto sia storicamente che poeticamente. Intanto non era chiaro a chi, di questa generazione, lo scritto si riferisse, se ai pochissimi che avevano fatto una scelta “entrista” nel mercato editoriale maggiore, o alla maggioranza che si era sentita spinta (costretta dalle circostanze che più avanti dirò) a scelte diverse. La situazione di allora e anche quella presente, situazione della quale non trovai il minimo accenno pur nel poco spazio di quella paginetta, era (ed è tuttora) piuttosto complessa, molto più di un freudiano giudizio di ingenerosità o avarizia. Nessun poeta, credo, come nessun artista in generale, ha mai scelto per snobismo di appartarsi, di nascondersi. Quando questo avviene, e quando avviene poi per (quasi) un’intera generazione, il fatto dovrebbe perlomeno far pensare, dovrebbe indurre ad alcune riflessioni. Bastava chiedersi da dove questa generazione provenisse (dalla fine degli anni sessanta che, come si sa, sono anni di ribaltamento di un modo di vedere e percepire il mondo) e già qualche ragionamento sarebbe balzato alla mente. Avrebbe potuto ragionare quello scritto, e non sarebbe stata cosa da poco, sul fatto che la genesi della poesia per quella generazione aveva trovato la sua cifra in un “ritardo”, se così lo vogliamo chiamare, che la fece “slittare” di almeno un decennio dalla sua possibile nascita e maturazione, diciamo dalla fine dei sessanta a quella

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dei settanta, per i motivi che si sono appena sottolineati. Si trattò di una poesia che venne posticipata, rimandata “a dopo”, consapevolmente o meno. È stata una generazione di “ritardatari” nel senso bloomiano del termine? forse, ma certamente l’essere in ritardo è divenuto un segno, uno stigma che è possibile trovare inciso in quasi ogni testo di questi autori.

L’altro dato, a mio avviso assolutamente rilevante, fu il venir meno di una serie di riferimenti o, meglio, della progressiva scomparsa di quelle linee e valori canonici attraverso i quali le generazioni precedenti avevano consumato la propria esperienza, portando a compimento un processo che, appunto, terminò con i sessanta. Si trattava di valutare l’aspetto di rivolgimento sociale e culturale - il mercato culturale e lo sviluppo in atto della società - denunciato già da una certa prosa pasoliniana e fortiniana ma, in modo criticamente più acuto e politicamente più pregnante, dalle riflessioni di Roberto Roversi, un autore che è stato e continua ad essere per tanti di quella generazione, un riferimento costante e preciso.

La trasformazione della cultura in pura merce non è un’invenzione orwelliana né, tantomeno, ci si poteva aspettare che in un tale rivolgimento, il potere decidesse di rifare i conti con la cultura che le stava di fronte allo stesso modo dei passati decenni. Con fatica, quella generazione ha cercato una strada non per emergere verso una certa visibilità (una visibilità, lo ripeto, che non avrebbe fatto e non farebbe schifo a nessuno, ma verso la quale si fu e si è impossibilitati), ma per cercare un senso e una consonanza tra ciò che stava cercando di scrivere e quello che circondava la propria scrittura.

In quegli anni si compiva il processo di lacerazione profonda tra cultura e società; quest’ultima, in realtà – almeno per ciò che riguarda il rapporto con la cultura – ancora rappresentata da alcune élite.

La critica poi, come sopra accennavo, cominciò a vacillare fortemente e a perdere, con l’autore, i consueti punti di riferimento. Ma se per l’autore il confronto con il proprio lavoro (quando si trattava di un lavoro serio) lo costrinse quasi coercitivamente a cercare, in proprio e solitariamente, altri riferimenti, a ricercare con pazienza tutto ciò che era (e ancora rimane) velato da una società sempre più “seduttiva”; per la critica, al contrario, la solitudine di quegli anni agì da schermo, da benda, da velo che tutto copriva (e copre ancora) alla vista. La critica scelse la propria cecità, e ancora oggi se ne notano i disastri: operando sul “già visto e già confermato” e, soprattutto, in stretto legame di interessi con un mercato culturale in perenne e totale modificazione. In questo modo il lavoro di confronto e di discussione non poteva che richiudersi su se stesso, col pericolo di estinguersi.

Se c’è un dato distintivo della generazione in oggetto, si tratta proprio della “resistenza” messa in opera da questa verso tale situazione, per cercare una “narrazione” totale da contrapporre a quella messa in atto da una comunicazione unica e diffusa. E qui si pone (e si oppone) il vero problema, cioè quello di una generazione che, nonostante la sua invisibilità (in una situazione dove tale posizione cominciava a significare “morte per assenza”), è riuscita comunque a trovare il proprio principio generatore nella poesia che in quel torno di anni si è andata formando. Nell’epoca della «seduzione non stop», come la

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chiama Lipovetsky[1], tutto ciò che non rientra nei valori di quella categoria seduttrice è destinato a perdersi nel buio dell’inesistenza, ma bisognerebbe anche capire – e qui sta il problema – che sottostare a quella logica seduttiva, per la poesia (ma in generale per tutta l’arte) significa definitivamente venir meno al proprio principio generativo: quello di essere ciò che costruisce i sensi “del” e “per” il mondo. L’austerità (e di conseguenza l’invisibilità) sta tutta qui: nel fatto che questa generazione ha creduto (e crede ancora) al valore della poesia, alla sua forza rivolgitrice e alla sua capacità costruttrice. Se la poesia non ha questa autorità e dignità, tutto quello che lo circonda non può che apparire abbastanza inutile.

E oggi? Che cos’è quello che oggi si vede? per non entrare in un relativismo dei sensi occorre gettare le basi per una risposta che contenga in sé un buon principio di realtà, ma che regga pure il confronto con la parte che si nega alla vista e di cui la realtà nega qualsiasi esistenza - con l’invisibile che accompagna ogni momento della vita. Ma prima di rispondere a questa domanda, occorre formularne un’altra: perché vediamo ciò che vediamo e perché quello che non appare ci resta invisibile? ma un’ulteriore domanda spinge per essere formulata: è necessario che l’invisibile appaia?

2.

Vorrei accompagnarmi con voi per un breve giro, che probabilmente ognuno ha già più volte compiuto, attraverso una delle tante moderne librerie. Il giro è tra gli scaffali, i banchi più e meno in vista, tra le pile delle novità oppure tra quelli che nascondono i volumi prossimi alla liquidazione; propongo un giro senza un’idea precisa di ciò che si cerca, per scoprire girando, con la cautela riservata alle personali scoperte e la gioia privata di poter invece essere scoperti da quel tale libro. È ancora possibile un tale atteggiamento? Intanto si tenga conto che questo è un modo di intendere il giro attraverso la libreria assolutamente fuori dai canoni che il mercato editoriale odierno intende, poiché al contrario la visione da questi proposta è ora banalmente illimitata. Cos’è che si vede in questo luogo privato della sua e nostra privatezza? anzi: cosa si vede e cosa non si vede? sappiamo tutto (o magari crediamo di saperne le logiche più o meno conosciute) sulle attuali leggi di mercato, sulle economie che le determinano; sappiamo che ogni raffigurazione a questo livello rimanda alla regola principale della società capitalistica contemporanea: quella della sua propria fantasmagoria che prelude alla propria fantasmaticità, sì che un certo animismo pervade le cose fatte merci così come una certa spettralità circonda gli individui fatti consumatori: niente di nuovo, di tutto questo ne sentiamo continuamente l’eco perpetuo rimbombare nel vuoto. Ma ora.

Nel giro che stiamo compiendo, tutto quello che comunque si rappresenta a noi spinge verso la presenza di chi esce dalla propria invisibilità e prende forma limitata e certa; diventa necessario individuare cosa significa la rappresentazione di questa libreria che per noi, a un primo sguardo, si evidenzia immediatamente informe e perciò illimitata; inoltre, bisognerà

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individuare sia la presenza che l’assenza. Dell’assenza, voglio sottolineare il fatto che è una presenza senza forma, ma pur sempre una presenza determinante e parte perciò di quella indefinita illimitatezza che è la forma del luogo che stiamo visitando.

In questa sorta di flânerie alla quale ci abbandoniamo per la libreria, un libro che venga costretto ad astenersi forzatamente dalla propria presenza, poiché è stato posto in questa condizione sia per dove è stato riposto e sia per l’assenza di ogni notizia derivata da quella comunicazione unica e diffusa che costituisce il discorso su cui si fonda l’attuale transazione di merci; questo libro perde la propria prerogativa (la possibilità di essere richiesto per primo e, nella odierna logica del consumo accelerato di merci, di essere richiesto tout-court). Perde ciò di cui era stato potenzialmente connotato e caricato, perde la possibilità di presentarsi come cosa che possa assumere un rilievo, rimanendo cosa piatta e confusa nella sterminata pianura di libri che a noi si presenta, ma soprattutto perde la possibilità di presentarsi in una forma non semplicemente da proporre (e, nella logica sopraddetta, da proporre per primo), ma da proporre in alternativa, sì che quel tale libro rimane rinchiuso in quella che potremmo chiamare la propria connaturata spettralità, non potendo raggiungere una sua forma concreta.

Ora, se quel libro perde la propria presenza, acquista una sua forza fantasmatica, non comparendo fa però apparire chi si presenta, gli dà una parte di origine, dona (con) la propria assenza (ciò) che si tramuta nella presenza dell’altro. Come già detto sopra, sappiamo quali sono le leggi del mercato che regolano lo scambio di assenza e presenza; in questo mercato, la comunicazione formula il discorso che dovrà sostenere la costruzione di quanto si appresta a diventare presente.

È per questo che il modo in cui il giro è stato (intenzionalmente) proposto risulta manchevole o addirittura inutile, poiché non si basa sulle informazioni date da quel discorso cui si accennava. Ma quel discorso, se viene concepito per un certo fine, è poi anche sufficiente di per sé a dar vita e forma? Se così fosse dovremmo pensare, nella logica mercificata odierna la quale detta anche i tempi e le modalità sia dell’apparire che dello scomparire, a una libreria fatta di soli volumi concepiti per acquisire la propria condizione di vita e forma presente - un obiettivo sempre paventato ma finora non raggiunto.

Non raggiungibile, direi, e questo al di là delle logiche più o meno laterali che si aggiungono ai processi del mercato culturale considerato principale, poiché mi pare che sia propriamente l’assenza procurata dalla moltitudine (dei libri, in questo caso) a produrre corpo e vita, a produrre presenza ai presentanti, allo stesso modo che possiamo dire, al di là dello sviluppo singolare di ogni individualità, che quello sviluppo non sarebbe possibile se queste singolarità fossero permanentemente irrelate tra di loro (irrelate, non assenti, poiché l’assenza è già di per sé una forma di relazione tra il presente che ha coscienza di ciò che non lo è, così come il visibile lo ha dell’invisibile). Il presente visibile e l’assente invisibile qui sono concepiti e messi in relazione tra di loro proprio all’interno della logica mercificante che prevede, attraverso il proprio discorso, cosa debba essere consumato e cosa debba servire affinché abbia luogo quel consumo.

Quello che voglio dire è che, nella moltitudine rappresentata dagli spazi riempiti in modo apparentemente indifferente allo sguardo di chi calca la libreria, ciò che si evidenzia come

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presente (che viene evidenziato come visibile) è originato da ciò che rimane assente, invisibile. Questo non gli permette solo la presenza, diventa pure parte costituente della sua propria forma, il presente è fatto anche della forma dell’assente; voglio quindi dire che oggi la forma presente del presentante (il suo discorso, ciò che dirà e farà) è propriamente prodotta dall’assente.

La presenza del visibile, dunque, per essere tale per dare corpo e vita alla propria presenza ha necessariamente bisogno dell’assenza dell’invisibile, e non solo perché questa assenza permette al visibile di acquisire la propria prerogativa, ma anche (e soprattutto) perché il discorso comunicante che lo rende visibile deriva (nel senso che ne è la deriva) da quello negato: l’invisibile forma dell’assente proietta la propria ombra sul visibile presente.

Usciamo, a questo punto, dalla libreria senza aver acquistato alcunché, non potevamo visto che mancava – come si è già detto - una qualche notizia pregiudiziale sulla quale poggiare il nostro giro.

Come per la libreria appena visitata, se giriamo per il mondo delle persone, c’è una considerazione da fare sul discorso negato dalla comunicazione attuale, ed è quello che riguarda il silenzio imposto, attraverso la solitudine, all’individuo. Cosa dice la nostra contemporaneità? dice che c’è una moltitudine muta e consumante la quale vive e vegeta secondo modelli i quali, possedendo un discorso dominante per via di una comunicazione unica e diffusa, s’incistano in essa e di sé la fanno vivere. Propongo di ribaltare la questione e affermo che ciò che è visibile, vive pensa scrive parla intrattiene ama attraverso il ciò della moltitudine invisibile e fantasmatica, attivando la propria prerogativa, la propria carnalità e corporeità, per una solida vita che è sostenuta dalla comunicazione unica e diffusa, restituendola a se stessi come modello o riferimento.

È chiaro che questa posizione mette in causa l’aspetto della moltitudine – che qui ora chiamo produttori - verso la visibile presenza – che qui definisco merci da consumare. La visibilità delle merci, in effetti, non la loro presenza, risiede nella pervadente comunicazione unica e diffusa la quale, sola, possiede la parola formulata secondo un certo principio e costruita secondo una certa forma, una comunicazione che permette al nucleo sociale fondato sul consumo di ribadire il proprio essere quello che è. Se la comunicazione è la base sulla quale costruire una possibilità, la cosa interessante è che una invisibile sovrastruttura quale è la comunicazione, sia trasmigrata nella visibilità della struttura.

Questa comunicazione, in effetti, è diventata la sorte (il sorteggio) dialogante dalla quale viene estratto il solo discorso possibile affinché il nucleo sociale si riproduca e si sviluppi secondo le coordinate prestabilite. In tal modo dichiara la propria prerogativa. Si tratta, evidentemente, di un sorteggio truccato, ma l’unico possibile nella logica del consumo delle merci prodotte, quella di un discorso che continui a riprodurre ideologie di produzione e modalità di consumo; ma le prime, oggi racchiuse nel nucleo invisibile della presente assenza, sono diventate l’anima mancante (delle merci e dei produttori). I produttori ora ritrovano se stessi soltanto nella piena visibilità della comunicazione e nelle modalità del consumo - la comunicazione sentita come un prologo al consumo - sicché pensano di acquisire anima da quel visibile e solitario consumo, creduto ora calco e modello per la propria vita.

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3.

Parafrasando Bernard Malamud, si potrebbe dire che, in generale, riscrivere le parole dell’unico e solitario discorso visibile, costruito questo secondo un certo principio di mantenimento e una certa forma di contenimento – mantenimento della cultura dominante e contenimento della spinta rivolgitrice della cultura dominante - non è affatto un brutto modo di trascorrere la propria solitudine. Di trascorrerla? certo, dalla propria invisibilità verso la visibilità che ci viene dal consumo di merci, accogliendo la loro solitudine per la nostra.

Se si rimane dentro a questo schema, dotato di un certo fascino lenitivo, non c’è dubbio, direi che si resta intrappolati dentro una sorta di illusione: l’illusione che il mondo si arrenda alle nostre parole, che la nostra solitudine possa trascorrere dalla invisibilità delle parole che possediamo alla visibilità di quelle della comunicazione unica e diffusa che ci possiedono, senza che le nostre subiscano alcunché.

Si tratta di un’illusione perché trasmigrare da una condizione a un’altra, tralasciando le proprie parole, per quanto misconosciute (e l’ideologia delle parole stesse), che comunque dovrebbero essere dette, poiché quelle parole costituiscono il solo principio di realtà per il quale la presente assenza acquisisce forza e autonomia; questo significa eliminare oggi la propria ideologia di produzione: vendere la propria ideologia per un piatto di merci da consumare. La tossicità dell’illusione sta propriamente qui, e colpisce segnatamente l’individuo nella sua solitudine, un individuo che vive una vita molto popolare negli spot pubblicitari, sì che si può dire che il mondo oggi non sia tanto la raffigurazione della eliottiana terra desolata ma piuttosto una terra isolata, dove ogni cosa sembra già compiuta, non potendo rintracciare alcun pensiero che ne narri la sua costituzione, visto che si tratta solo di consumarla.

L’idea che, ad esempio, la poesia abbia qualcosa da dire dentro la struttura comunicativa unica e diffusa la fa diventare, nella società delle merci in eccedenza, appunto un’eccedenza.

In questa la poesia si danna, perde la propria anima, la propria invisibile assenza che genera il mondo, che lo produce.

Questo certo complica tutto, ma è tale il coinvolgimento comunicativo in atto, tale l’intreccio di relazioni che attorno si è costituito, che il patto vincolante della società odierna non lascia spazio a nessuna “narrazione” totale che non sia quella per il quale è previsto il consumo mercificato delle parole. Queste ultime sono lì, alla portata di ognuno, per ognuno che le voglia usare e consumare e riscrivere, salvo non porsi poi in alcun modo il problema se queste appartengano davvero alle persone e non alle parole stesse.

Se così è (come credo che sia), il problema della poesia nell’odierno (dell’arte in generale), del suo discorso significante e della sua forza costruttrice, non è solo quello di inseguire dei

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fantasmi, ma anche di delimitarli nel loro apparire; in questa delimitazione che è il loro apparire (e in questo apparire che è l’uscita dalla banale illimitatezza) possiamo trovare il nostro limite che è il vero superamento della solitudine: delimitare la propria solitudine, ritrovarne le parole.

Salvatore Jemma

[1] Gilles Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Trento, Luni editrice, 1995.

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CAMMINAMENTI

Il fiume Kevar il fiume del Già, elemento d’amore e di rivelazione.

di Aleth Messina

Ascolta, Israele, Dio è nostro Signore, Dio è uno (Shemà Israel)

Ascolta, Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l'unico Signore. Dt 6:4

La fede per gli ebrei è una delle sette qualità che sono sacre di fronte al Trono della Gloria, ed è in stretta correlazione alla rettitudine, alla giustizia, all’amore, alla pietà, alla sincerità e con il sacro Shalom il sacro saluto della pace.

La fede è principio su cui poggia la relazione dialogica fra Dio e l’uomo. Lo Shemà Israel è appunto il cardine del dialogo fra Dio e l’uomo [1]

L’ebraismo ha un insieme di credenze e pratiche religiose estremamente eterogenee, e se per assurdo si può giungere con il più bell’umorismo ebraico a sostenere che non si ha bisogno di credere in Dio per esser ebrei, la religione ebraica ha le proprie pratiche che derivano da più movimenti, quali lo chassidico, l’ortodosso, il conservatore, il riformista ed il ricostruzionista, e i principi essenziali della religione ebraica sono interpretati diversamente da ognuno di questi movimenti.

Dal XIII secolo furono codificati tredici principi di fede e, col tempo e la consuetudine, essi ebbero carattere di requisito indispensabile per ritenersi ebrei; sono: Dio esiste, vi è un solo Dio ( Dio è unico ), Dio è incorporeo, Dio è eterno, la preghiera non ha intermediari è rivolta sempre a Dio, le parole dei Profeti sono veritiere, le profezie di Mosè sono veritiere e Mosè è stato il più grande fra tutti i profeti, Dio dette la Torah (Legge) ed il Talmud (commenti alla Torah) a Mosè e sono veri, la Torah è unica mai ve ne sarà altra, a Dio sono noti pensieri ed azioni di tutti gli uomini, Dio ricompenserà i giusti e punirà i malvagi, il Mashiach (Messia) verrà, i morti risorgeranno.

La spiritualità ebraica è obbediente ai precetti della Torah [2] che dichiarano il divieto di farsi sembianze di ciò che è nei cieli. Ma questa obbedienza Israele l’ha sempre onorata? La Bibbia attesta che a un certo punto escono angeli e creature della corte celeste nei luoghi più sacri della religione ebraica. L’Arca dell’Alleanza stessa, in cui erano conservate le tavole delle Dieci Parole che L’Eterno dette a Mosè era sormontata da due angeli con le ali spiegate, e le fonti bibliche sostengono come il tempio eretto da re Salomone fosse ricco di sculture e intagli. Tutta questa ricchezza artistica è confermata dai ritrovamenti archeologici [3]

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Il Kevar [4] il profetismo e l’amore umano

,נפתחו ;כבר-נהר-על ,הגולה-בתוך ואני ,לחדש בחמשה ברביעי ,שנה בשלשים ויהי א

.אלהים מראות ,ואראה ,השמים

È stato nel trentesimo anno, il quinto giorno del quarto mese, mentre ero con gli esiliati dal fiume di Kebar, il cielo si è aperto e ho visto divine apparizioni [5]

Le visioni di Ezechiele iniziano in un corso d’acqua. In ebracio Kevar vuol dire Già. Ezechiele misticamente descrive un atto rivelatorio, una disvelazione dell’Eterno che si rende visibile all’occhio del profeta in esilio. Ezechiele non ha ancora consapevolezza di quel che sarà testimone in seguito. È l’elemento idrico, qui, il mediatore fra il profeta e l’Eterno. Mediatore d’elemento per Mosè è stato il fuoco, in Elia leggiamo che le teofanie divine sono precedute tramite l’aria che erompe nella violenza e si ferma, il vento impetuoso che poi si placa, giungendo al sussurro, al silenzio, un segno percepito dall’orecchio spirituale, interiore, e sensoriale; il profeta Daniele avrà le stesse visioni mistiche presso i fiumi di Babilonia (Dan 8:2; 10:4; 12:5). Ma con Ezechiele la rivelazione che ha il proprio inizio con un “Già” ossia con un avverbio di tempo che sottintende un senso vero di déjà vu, e in effetti tale è la visione poiché prima il profeta vede, poi mette mano alla pergamena ed scrive ciò che ha visto in precedenza, il cosiddetto “già visto”[6]

L’occasione del Kevar induce a varie considerazioni sul simbolismo della fede ebraica. Il Dio che è invisibile si mostra in luoghi rivelatori tramite categorie che l’uomo può sostenere. La Bibbia è chiara a riguardo: vedere Dio nella sua gloria, sarebbe morte immediata, eppure questa morte non ha colto i grandi profeti d’Israele, essi sono sopravvissuti hanno messo mano alle proprie opere che nello straordinario modo che a tutti è ormai noto (per mezzo di documenti in pergamena, papiro, epigrafi, incisioni su metallo, sculture ecc…) è giunto sino alla nostra epoca.

Lo spirito dell’Eterno che si precipita sul consacrato fa si che questi diventi un’altra persona. Questo argomento è descritto in 1 Sam 10:5, in cui si legge un dialogo fra Samuele e Saul:

ירדים נבאים חבל ופגעת ,העיר שם כבאך ויהי ;פלשתים נצבי ,שם-אשר ,האלהים גבעת תבוא ,כן !חר ה .מתנבאים והמה ,וכנור וחליל ותף נבל ולפניהם ,מהבמה

Poi si arriva alle Colline del Signore, dove c’è una guarnigione dei Filistei, e si arriva in città, potrai incontrare un coro di profeti che scendono dall’altura, preceduti da liuti, i tamburelli, flauti e arpe e l'abbandono alla ispirazione.

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e nel passo successivo si legge:

.!חר לאיש ,ונהפכת ;עמם והתנבית ,יהוה רוח עליך צלחהו ו

Su di te eromperà lo Spirito di YHWH [lett. Si precipiterà su di te] e tu profetizzerai con loro e diventerai un altro uomo.

“La comparsa dei profeti è un elemento caratteristico dell’antico Israele” così afferma Rendtorff, lo studioso celebre d’Antico Testamento ad Heidelberg, ma è pur vero che esiste un fil rouge nel profetismo. L’estasi dei profeti del dialogo sopra riportato fra Samuele e Saul è la loro caratteristica più singolare. Estasi come fenomeno corporeo-spirituale, il profeta è una “cassa di risonanza” ossia come un tamburo che emette il suono perché altri lo ha percosso. La percussione è il precipitare dello Spirito di YHWH nel profeta, che nella novità e nella stranezza del percepito divino entra seduta stante nel timore di Dio e giunge a considerazioni intime estremamente personali.

Geremia va oltre e nel libro che porta il suo nome si legge:

.לי לעג כלה ,היום-כל לשחוק הייתי ;ותוכל חזקתני ,ואפת יהוה פתיתני ז

Eterno tu mi hai persuaso [il senso è anche di sedotto] ed io mi sono lasciato persuadere [senso di sedurre] mi hai fatto forza e mi ha vinto, sono diventato così oggetto di scherno e tutti si fanno scherno di me.

Nei Profeti abbiamo l’espressione compiuta di un rapporto speciale fra Dio e l’uomo, è una comunicazione in pregress che avviene tramite un luogo essenziale: la vita, l’esistenza. È questo un luogo vitale, tant’è che il filosofo ebreo Martin Buber in Ich und Du [7]e Dio ha bisogno nella pienezza della sua eternità di te, un te certo impersonale che identifica l’uomo e la donna, e il senso stesso dell’esistenza umana, per Buber, risiede in questo mutuo bisogno di comunicazione fra Dio e la sua creatura.

Se è l’accoglienza stessa di Dio il primo luogo della comunicazione è vero che l’uomo deve predisporre se stesso all’accoglienza del messaggio divino. Come? Il luogo di partenza di questa comunicazione per l’ebreo è la Torah, nell’essenza più alta di desiderio orante, quindi ascetico e mistico dove questi due momenti d’unione col divino sono in correlazione, ma ascesi non significa condurre una vita di stento o di delirio religioso, esiste tale pericolo che conduce al solipsismo, bensì ascesi significa elevazione e auto emendazione delle proprie mancanze.

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La Torah è il luogo visibile della presenza di Dio, Shekinah, è il luogo in cui lo spirito può instaurare con Dio un proficuo dialogo: è un innamoramento.

L’innamoramento è un corso d’acqua che scorre è un Kevar in cui sebbene l’Eterno non concede rivelazioni vi è la più elevata delle santità, quella dell’amore.

Altro luogo lirico, all’interno della Bibbia è il Cantico di Salomone, il Cantico dei Cantici, che è luogo poetico per eccellenza in tutte le letterature. Prendiamone dei passi:

Ct 5:7-8

.החמות שמרי ,מעלי רדידי-את נשאו ;פצעוני הכוני ,בעיר הסבבים השמרים מצאני ז

Le guardie che fanno la ronda dentro la città mi hanno trovata e loro mi hanno percossa, le guardie delle mura mi hanno levato il mio mantello.

3ני !הבה שחולת ,לו תגידו-מה--דודי-את ,תמצאו-אם :ירושלם בנות ,אתכם השבעתי ח

Vi scongiuro oh ragazze di Gerusalemme se incontrate il mio Amato che gli direte? che io sono malata d’amore!

Lungi dal voler condurre un’esegesi teologica quello che qui mi preme è di porre l’accento fra l’amore quale elemento visibile fra uomo e donna e lo stesso amore che è elemento invisibile che unisce gli innamorati a Dio, in un ideale Kevar che poi misticamente non è troppo ideale, perché la sposa al capitolo ottavo affermerà con tutta la forza di cui è capace che le grandi acque non possono spegnere le fiamme dell’amore, fiamme amorose quali ignee sagitte per evocare l’immaginario greco-romano di Eros che colpiva uomini ed animali con i suoi dardi infiammati d’amore e passione, e fuor dal mito teologico di Eros abbiamo nel Cantico il luogo più concreto della Torah, perché è nell’amore sponsale e di condivisione ed accoglienza che l’Eterno si manifesta e precipita il proprio spirito, e a conclusione di queste linee in cui si è cercato di dare un là ai luoghi della tradizione ebraica, mi sento di dire che se è nello Shemà Israel che l’Eterno sussurra le sue parole d’amore all’anima, è anche nella progettualità umana di accoglienza e della pace dell’Eterno che si può e deve costruire un luogo, la Terra che è già sacra e santa in cui ognuno possa apertamente dialogare con Dio. Dio non rifugge nessuno, perché cerca costantemente tutti, è un suo bisogno d’amore.

[1] Dio e Adam-Eva nella dimensione unica e non divisibile fra maschio e femmina.

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[2] Sono i primi cinque libri della Bibbia, detti anche Pentateuco. La Torah, in italiano si può anche scrivere Toràh e si legge Torà è chiamata Orach Haim cioè La via della vita. La tradizione rabbinica elaborò la Legge orale che in origine era di 613 disposizioni o comandamenti tassativi; attualmente sono 24. Delle 613 diposizioni 365 erano divieti e in numero 365 è corrispondente ai giorni dell’anno, e 248 sono le disposizioni positive e il numero 248 corrisponde alle membra del corpo umano. Il re David nel Salmo XV codifica 11 disposizioni; Habbakuk, II:4 ne codificò in uno: il giusto vivrà per fede.

[3] Esiste una monumentale bibliografia che comprova il dato storico presente nella Bibbia, fra le opere con gli esiti di ricerca più interessanti segnalo: WERNER KELLER, La Bibbia aveva ragione; prefazione di Giuseppe Ricciotti, Milano Garzanti, 1957.; IAN WILSON, The Exodus Enigma, London, Weidenfeld and Nicolson, 1985; HERSHEL SHANKS, The Mystery and Meaning of the Dead Sea Scrolls, New York Random House, 1998.

[4] Esiste la forma di Chebar, Kebar. Il fiume in questione è un corso d’acqua vicino Nippur, sede del culto di Enlin, divinità dell’atmosfera, rappresentato con sembianze antropozoomorfe.

[5] La traduzione è letterale, forse dissonante al lettore italiano; era il quinto anno della deportazione del re Ioiachin.

[6] Cfr. Re’uyyot Yehezquel (IV – V secolo), a cura di Ithamar Gruenwald, in Temirin 1, 111-114. Si veda inoltre sempre di Ithamar Gruenwald, Apocalyptic and Merkavah Mysticism, Leiden, E.J. Brill, 1980

[7] Martin Buber, L’ Io e il Tu, Pavia 1991; l’opera che è il suo capolavoro è del 1923; è stata pubblicata in italiano anche col titolo di Il principio dialogico, Milano 1958.

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(Foto di Paola Pluchino)

PONTEGGI

- Aleth Messina, Il fiume Kevar il fiume del Già, elemento d’amore e di rivelazione - Antonio Di Giorgio, “…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…”

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(foto di Paola Pluchino)

PONTEGGI

“…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…”

di Antonio Di Giorgio

“...Tutto ciò che in vita si può conoscere intorno a Dio, per molto che sia, non è cognizione vera, ma parziale e molto remota.”

San Giovanni della Croce

“A quanto possiamo discernere, l'unico scopo dell'esistenza umana è di accendere una luce nell'oscurità del mero essere”.

Carl Gustav Jung

“La parola/ del silenzio,/ deserto/ o visitato,/ mai si cheta”. Alessandra Palombo

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Introduzione

“La vita è un mistero Ognuno deve farcela da solo Sento che tu chiami il mio nome E mi fa sentire come fossi a casa…” Madonna, Like a Prayer, 1989.

Così cantava Madonna nel 1989 nella celebre Like a Prayer, che presentava tematiche religiose e mistiche condite da un linguaggio mediatico, il video, ispirato dal sorgere, negli States di quel periodo, di nuovi fenomeni razzisti. Ma la canzone, in sé, è una sintesi lirica, un grido al Dio invisibile, un grido che Madonna poi continuerà a esprimere in altri brani, Spanish eyes del 1989 e in Frozen del 1998, quest’ultima contenente rinvii al credo induista, il cui testo ricorda molti passi delle Upanishad, raggruppati negli Aranyaka inseriti nell’ultima parte dei Veda, che introducono l’uomo alla riflessione sopra la morte.

In questo percorso tenterò di tracciare una linea essenziale dell’invisibile e visibile nell’esperienza religiosa.

Il visibile religioso è il concreto, è il simbolo, è una candela accesa nella attesa che la notte oscura della fede termini nel bagliore dell’ardore divino, il visibile come segno, nel cristianesimo è la croce di redenzione, che è talamo su cui Cristo ha dormito il sonno della morte trionfando sul peccato risorgendo, come affermano le antiche liturgie pasquali. L’invisibile è molto più arcano, ed è in netto contrasto col mondo materiale, ma per il Nuovo Testamento[1] l’invisibile è anche il principale avversario dell’uomo.

Il Dio invisibile si fece uomo.

L’esperienza religiosa ed il pensiero filosofico hanno elaborato l’idea di Dio, tuttavia esiste una notevole differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio della religione.

Pur prescindendo dall’analisi religiosa dell’idea di Dio, cosa potremmo dire ,e non, di lui? Neppure la Bibbia, paradossalmente, ci dice nulla a suo riguardo, non ne dimostra l’esistenza e non ne parla mai come di un oggetto della conoscenza umana, tuttavia Dio è onnipresente in ogni sillaba della Scrittura.

L’idea di Dio assume un valore tutto diverso sul piano logico e quello fideistico. Dio, nella sfera religiosa è intimamente legato alla razionalità, all’esperienza intima dell’uomo con l’assoluto, si pensi all’esasperante razionalismo dell’Aquinate, e alla logica agostiniana. La differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio della religione[2] o della pietà, sta che il primo è un

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ente posto a strutturare il creato e ad auto contemplarsi, il secondo è un Ente (e la radice Ente, come Essente, è strettamente connessa alle ipotesi dedotte dal tetragramma sacro, Jhwh[3], che identificherebbe un’arcaica radice del verbo essere) che nel corso della storia ha progressivamente svelato se stesso.

Dio dunque passa dall’invisibile al visibile? E se si in che modo avviene? Il processo in cui Dio svela se stesso è detto rivelazione e in teologia si è soliti affermare che il luogo primario della rivelazione di Dio è la storia, in secondo luogo Dio inizia a dialogare con l’uomo sin dal principio, formulando la berith il patto di alleanza, che Dio formula e rinnova costantemente. È il NT che afferma che il Dio invisibile ad un certo punto diventa visibile: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” Gv :1:14[4].

Tuttavia la distinzione fra il Dio della fede e il Dio teorizzato dalle speculazioni sono due cose molto nette: “La filosofia giunge a Dio in altro modo. Essa poggia sull’esperienza del mondo e sull’esigenza della ragione. Il mondo comporta tutto quanto è necessario per esistere (è la sua sufficienza); ma il mondo non porta in sé questo necessario (è la sua insufficienza). Ecco: Dio è necessario per l’esistenza del mondo. Tale necessità non è un oggetto -non è il mondo e non è Dio-; è una relazione logica, è un itinerario della ragione, che esperendo il mondo è indotta ad affermare Dio. Dio è l’assente che viene chiamato in causa per spiegare il presente”[5].

Ogni domenica in tutte le chiese dell’ecumene i cristiani di ogni confessione professano il Credo di Nicea, in cui si recita: “Credo in un solo Dio…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…”, questo è il primo articolo di fede. La formulazione del Credo non fu cosa semplice, si contano molte redazioni del Credo: le più antiche furono redatte in forma dialogica, di interrogazione, ad uso liturgico il cui fine era la celebrazione del rito battesimale, che in origine era molto lontano dalla funzione in uso oggi. Eusebio (265-340) sul finire del III secolo attesta la formula del Credo che riporta il passo“…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…”. È altresì vero che il Credo ha base biblica, vetero e neotestamentaria, con pericopi che si attingono dal Deuteronomio, ai Salmi, sino alle lettere di Paolo e alle lettere Cattoliche del Nuovo Testamento.

Con il primo articolo di fede ci si raccorda alla prima delle Dieci parole: Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù Es 20:2, e non dimentichiamo che i Dieci comandamenti sono un protosimbolo di fede; è già da questo passo importante che il Dio invisibile nella storia biblica in realtà non lo è più: si manifesta ed entra nella storia, divenendo protagonista della storia patriottica dell’antico Israele.

Il carattere di Dio è di essere il creatore del cielo e della terra. Queste sono le due realtà che possiamo definire dell’aldilà e aldiquà ossia della realtà fisica e metafisica. Dio, il cui nome nell’Antico Testamento[6] è “Io sono colui che sono” come espresso in Es 3:14, è Padre in quanto è lo stesso AT a definirlo in questo modo secondo il passo di Es 4:22 “Così dice il

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SIGNORE: Israele è mio figlio, il mio primogenito”; per cui da questa affermazione divina è implicito che Dio abbia carattere paterno rispetto alla tutela delle sue creature. Ma questo non implica una sessualità di Dio, su cui peraltro sono stati spesi fiumi di inchiostro; basti qui ricordare che Dio di sé farà un paragone con la forza di una madre: “li affronterò come un'orsa privata dei suoi piccini e squarcerò l'involucro del loro cuore; li divorerò come una leonessa, le belve dei campi li sbraneranno” Os 13:8.

Dunque il nucleo, esplicativo dell’espressione “…Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili…” ha la sua ragion d’essere nella creazione stessa. Agostino chiarì molto bene questo passo del credo: “Alcuni, infatti, hanno cercato di persuadere che Dio Padre non è onnipotente… Infatti, dato che è onnipotente, non ci può essere nulla di cui non sia stato creatore. Poiché, anche se ha fatto qualcosa da qualcos'altro, come è il caso dell'uomo dal fango, non lo ha assolutamente fatto da ciò che egli stesso non aveva creato, perché la terra da cui proviene il fango l'aveva creata dal nulla. E se avesse fatto il cielo stesso e la terra, vale a dire l'universo con ciò che ne fa parte, ricavandolo da qualche materia, come sta scritto: Tu che hai fatto il mondo da una materia invisibile (Sap 11:18).oppure " informe ", come riportano alcuni manoscritti, in nessun modo si deve credere che quella stessa materia, da cui è stato tratto il mondo, anche se informe, anche se invisibile e di quale che fosse la sua natura, abbia potuto essere per se stessa, come se fosse coeterna e coesistente con Dio”.[7]

Quando in religione si tratta delle realtà invisibili l’immaginario collettivo corre verso i piani dell’aldilà, e subito si pensa alle schiere di angeli, alla gloria di Dio, al regno infernale ai demoni e ai fantasmi o spiriti benedetti che incoraggiano gli uomini nella loro vita.

Ma davvero i due piani del visibile e dell’invisibile, teologicamente parlando sono distinti? Da un punto di vista biblico i due piani sono divisi da una sottile linea, che Michelangelo ha superbamente descritto nel mancato tocco delle dita fra Adamo e Dio.

L’esperienza dell’invisibile è mistica, è la mistica del silenzio, un silenzio che inneggia a Dio, e la massima espressione di questo silenzio estremo di Dio fu mirabilmente descritta da Teresa d’Avila (1515-1582) in più parti delle sue opere.

Teresa, che visse al tempo della grande inquisizione spagnola con cui ebbe pure a che fare – i suoi manoscritti furono investigati dagli inquisitori – fu lucidissima nel delineare ciò che presumibilmente vedeva e percepiva dell’invisibile da quello che poteva esser frutto di semplice fantasia. Teresa ha sempre affermato di non aver mai veduto nulla con gli occhi del corpo, ma di aver sempre percepito l’invisibile celeste ed infernale con gli occhi dell’anima.

In età contemporanea Teresa fu oggetto di importantissimi studi; il filosofo ebreo Martin Buber ebbe per la mistica spagnola una considerevole ammirazione, poiché secondo Buber, Teresa visse l’esperienza mistica dialogica con Dio che Buber sintetizzò con l’Io-Tu e Io-Esso, in un contesto di eclissi di Dio, cioè di quel silenzio estremo provato dalla mistica spagnola che affermò di aver vissuto in aridità spirituale per oltre vent’anni. Recentemente anche gli scritti della “matita di Dio” cioè di Teresa di Calcutta sono emerse le stesse ansie spirituali vissute dalla santa d’Avila.

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L’esperienza della lotta spirituale.

“Tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo e destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno”[8] con queste parole il magistero cattolico, nei documenti del Concilio Vaticano II, si esprime sopra l’invisibile lotta che l’inferno scatena contro il mondo.

Recentemente molti teologi hanno scartato l’idea che Dio possa permettere l’esistenza di un inferno in cui i dannati infuriano coi demoni contro Dio e il creato: l’argomento oppositivo a questa teologia medievale risale sul finire dell’Ottocento, quando la riflessione teologica sulla misericordia di Dio[9], sorta in ambito protestante, ripudiava l’idea di una dannazione a priori, riproponendo in antitesi le ipotesi di Origene, secondo cui al finire del tempo il male ontologico sarà inglobato nel bene assoluto. Attualmente la diatriba intorno a una formulazione teologica siffatta è argomento di discussione seria e profonda, perché investe la morale e l’etica, ma non è questa la sede per approfondire un discorso così articolato.

Nel NT Paolo scrive: “Il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti” Ef 6:12. Interessante riguardo questo argomento fu il pensiero di Steiner, che così scrisse durante la prima guerra mondiale, più precisamente nel novembre del 1917: “Dall'anno 1841 in poi, una battaglia fu combattuta nelle regioni del mondo spirituale... Nell'autunno del 1879 questa battaglia terminò con la cacciata di certi Spiriti delle Tenebre dal mondo spirituale sulla Terra. Da allora, essi sono andati operando tra gli uomini, insinuandosi nei loro impulsi di volontà, nelle loro motivazioni, nelle loro idee: insomma, in tutti gli affari umani. E così, da allora, questi Spiriti malvagi si aggirano tra l'umanità...”[10]. Il Talmud conta oltre sette milioni di demoni, le Scritture dicono che le creature angeliche che caddero dai cieli nella battaglia primordiale descritta nel libro dell’Apocalisse erano un terzo di quelle create. Jung appellandosi a un’ antica tradizione medievale ricorda, in molti dei suoi scritti sopra la religione, che l’origine del male ontologico ebbe inizio durante i fatti accaduti nel secondo giorno della creazione: “Nel secondo giorno della creazione – era il lunedì poiché Egli iniziò la domenica – fu luce. Il lunedì furono divisi i contrari: le acque superiori furono divise da quelle inferiori. La sera di quel giorno Jahvé non disse “Osserva, questo è buono”…Ho cercato un ulteriore chiarimento nel famoso commento della Genesi di Origene. Origene afferma…che in quel giorno deve essere accaduto qualcosa di insolito, poiché non è stato lodato”[11].

La chiesa delle origini ha sempre considerato la lotta spirituale contro l’invisibile maligno come reale, poiché il primo vincitore in questa lotta fu Cristo quando affrontò Satana nel deserto, stando ai racconti dei vangeli.

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Conclusioni

La rielaborazione dell’esperienza di fede, il tentativo di definire il rapporto religione e fede e quindi esperienza fra invisibile e reale è passata attraverso diverse consapevolezze o saggezze. Nel dibattito religioso, la teologia tedesca contemporanea ha dimostrato che in linea di massima in tutti i tempi la società ha identificato religione e fede come cose identiche[12].

Da un punto di vita strettamente legato alle formae mentis degli esseri umani si prospetta la reale inclinazione dell’ homo sapiens-sapiens al criticismo, al vaglio razionale dei propri campi esperienziali, fra cui l’esperienza religiosa è primaria. Difatti altrimenti come si spiegherebbero fenomeni sociali quali il proselitismo new age, il desiderio di accostarsi alla spiritualità egiziana e delle popolazioni pre-colombiane se a monte di tutto ciò non risalissimo ad un profondo desiderio di ricerca spinto da una sana curiosità intellettuale.

Come è vero che Giano era bifronte, è vero che l’esperienza religiosa ha due risvolti: “l’estasi mistica favorisce il distacco olimpico e un gradino sotto incombe la tentazione immoralistica: gli intimi di Dio possono permettersi le cose vietate agli altri. Il misticismo implica il rischio dell’indifferenza etica. Il mistico odia la distinzione e con i distinti liquida anche l’etica in quanto le norme presuppongono ed esasperano alterità”[13]: naturalmente Cordero parla di rischio, cioè di una possibilità, in altri termini di una propria e libera scelta da parte dell’intimo di Dio. L’opposto del rischio di cui parla Cordero è l’altruismo, la filantropia.

Antonio Di Giorgio

[1] D’ora in poi NT. [2]Il primo autore che pone in modo chiaro ed evidente questa diatriba è Celso. Secondo quanto ci proviene da questo autore greco del II secolo, tramite la testimonianza di Origene, Celso sosteneva con fermezza che il cristianesimo non ha nulla a che vedere con la filosofia greca, non concependo l’idea teologica dell’incarnazione di Dio. [3] La lettura ebraica del tetragramma sacro è Adonai; è bene precisare che la bibbia ebraica masoretica, per impedire che col tempo si perdesse la corretta pronuncia ed interpretazione del testo sacro, ha formulato il sistema vocalico ideato con sistema a punti poste sotto ciascuna sillaba. [4] Le citazioni della Bibbia sono tratte dal la Nuova Riveduta, a cura della Società Biblica di Ginevra. [5]Cfr.J.B.BAUER, C.MOLARI, Dizionario teologico, Cittadella Editrice, Roma 1974; voce Dio p. 191.

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[6] D’ora in poi AT. [7] AGOSTINO D’IPPONA, La fede e il simbolo, 2.2. Edizione elettronica a cura di Augustinus.it [8] Gaudium et spes, 37. [9] Misericordia è un termine doppio d’origine latina, misericors, che traduce sommariamente un concetto biblico di estrema grandezza. La misericordia traduce in modo forse improprio l’espressione che indica “grembo materno”, che è epiteto di Dio. [10] Sta in Graal, rivista di scienza dello spirito, anno IX, n.33, Roma 1991. [11] C.G. JUNG, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in Opere, vol. XI, p. 256. [12] Cfr. J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, 1969. [13] FRANCO CORDERO, L’epistola ai Romani, Einaudi Editore, Torino 1972 pp. 209 e 282. Interessante anche il pensiero di Teilhard de Chardin su questo argomento: vedi TEILHARD DE CHARDIN, Opere, Il Saggiatore, 1981.

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(foto di Paola Pluchino)

GIARDINI

(rubrica a cura di Francesco Marotta)

- Antonella Bukovaz, Poesie inedite - Ivan Crico, Poesie inedite - Alessandro Ghignoli. Tristizia

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GIARDINI

A cura di Francesco Marotta

Antonella Bukovaz – Poesie inedite (2009)

Caro Francesco,

ti ringrazio di tutta questa ospitalità e ne approfitto per raccontare della terra nella quale vivo e su cui scrivo. La mia poesia, e soprattutto questa, nasce da lei. I suoi frammenti sono le armi di Gladio nascoste nei sagrati delle chiese, la malattia dei castagni arrivata dal cielo, precipitata dagli aerei americani durante la guerra, sono un fascismo fondamentalista e anacronistico che incita una difesa eterna che lascia senz’aria, un presente girato al passato… È terra di confine. Fine del mondo latino, da difendere, e inizio del mondo slavo, da cui difendersi. Questo confine è uno dei peggiori precipizi di quel senso d’onnipotenza di cui solo la mediocrità umana è capace. Qui le manovre di annientamento, perpetrate soprattutto dopo la seconda guerra mondiale hanno avuto grande successo: paesi abbandonati, montagne inselvatichite, schizofrenia culturale, problemi d’identità….. Essere cresciuta su un confine così massacrato dalla storia e all’interno di una minoranza linguistica (quella slovena) sempre impegnata a difendere i propri diritti, e viverci ancora oggi è per me fonte inesauribile di sentimenti contrapposti. Con la mia lingua madre, per esempio, ho una relazione complessa. Isolata per secoli da montagne arrotondate dal tempo, meticciata con il friulano e il tedesco, addolcita con sovrabbondanza di vocali dall’uso familiare e dai canti, l’ho recuperata che avevo già 20 anni. Ne ho una padronanza parziale, troppo poco per farne lingua del corpo. Così scrivo in italiano con un lieve peso sui bordi. Dalle mie parti la trattano come un tempio, ma io la penso come erranza e dimora insieme.

“Appartenere “ a una minoranza significa risolvere la propria ricerca di senso, rimuovendo le tensioni interne alla comunità per riferirle a un oggetto esterno percepito solitamente come persecutore o comunque peggiore di noi. Si sprangano le porte, ci si chiude a difesa, non si diviene mai dei curiosi. La tradizione viene intesa solo nell’atto di conservazione e trasmissione senza quella componente che prevede un tradimento e permette crescita al mondo. Situazioni così complesse formano però un bacino di energie potenti sempre in movimento, capitale per una possibile e reale cultura della diversità, elemento corroborante per chiunque viva o voglia passare da queste parti. Andrea Zanzotto, sul Piccolo di Trieste tempo fa scriveva: “La memoria è minacciata non solo dalle spinte globali, per cui si fanno sparire migliaia di piante e migliaia di lingue minori o dialetti, ma anche dalla falsa difesa delle radici, dell’identità basata sul fraintendimento e dall’ignoranza che generano per contrapposizione i fondamentalismi localistici.” E questa è proprio la mia attenzione e se qualcuno mi chiede della mia identità dirò che mi identifico con il mio corpo e basta. L’identità è un’invenzione della modernità per ottenere un controllo politico e dividere gli individui, non voglio far parte di questo gioco. E in ogni caso sono d’accordo con chi diceva che è il mondo lo spazio in cui giochiamo la nostra identità.

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L’ONDA

È imbarazzante questo sentire si sgrana nel rosario degli alberi

spinoso e denso – così impulsivo mette un seme che immediato germoglia

come le felci invade il sottobosco del mio resistere.

E tutto per il solo suono delle campane!

Il suono riguarda l’origine e all’origine rimanda per questo l’incontro con la vibrazione - cominciato nell’oscillare del battaglio delle campane di Svet Štuoblank - è una resurrezione. Prima di colpirmi così intensamente si è infilato sfilacciandosi tra i rovi arcuati cresciuti a celare i muretti dei sentieri e i filacci si sono dispersi ognuno copia in potenza del suono intatta e in acutezza. Ha cavalcato gli anni delle scarpe bucate del mattone caldo sotto la coperta in gimkana tra le litanie serali in vigile attenzione ai leternoriposo. E’ inciampato nella sua elasticità all’incrocio delle deformazioni provocate dal tempo ai volti e ai pensieri come fosse il cavo di acciaio teso sul bosco per la consegna dei tronchi. Ha la calma di un cecchino quando mira all’ombelico delle mie figlie e nell’intervallo ondeggia nella valle sparendo e riapparendo mentre portano ignare il suo seme. E poi ha bucato tutte le voglie quelle di andare e andare trasformate in colabrodo umorale che sparge impotenza all’ombra dei faggi ha caricato nel cavo dell’onda quella me stessa di ogni età perché precipiti dall’alto della sua gravità. Ora è qui mentre scendo il sentiero

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balza su di me e intorno sgocciola la vite primaverile – nella quantità che è quella della mia poesia – a disegnare una traccia verticale alla terra

***

IL PROIETTILE

Sei stato lungo la vita fermo in uno stesso luogo incantato dall’effetto che il suono vibrante - dell’appartenenza nei suoi effetti speciali quotidiani - ha sulla mente umana e così ha avuto il tempo di prendere bene la mira con calma e senza fretta approfondendo gli studi di balistica e l’arte del respiro per concentrarsi e ti ha preso in pieno. Il suo luogo di osservazione è il marmo dei davanzali il sangue dorato dei martiri la nostalgia di luoghi identificabili la ferrovia dismessa l’amore eterno e l’inferno della simulazione si confonde tra gli amici d’infanzia e spalma alcuni oggetti a caso di colla e mai più potrai dirli non tuoi e intanto prende la mira. Non si cambia mai d’abito e ha un’unica posizione che non prevede tradimento se lo sgomento penetrasse nelle polveri sarebbe un far cilecca dopo l’altro. Ama e provoca i bagliori della lontananza le voci che non può sentire teme i perfezionisti e la mancanza a destarli. Del crescere aspetta il tempo più sicuro che ognuno dedica alla propria individuazione e spara come a prede inchiodate alla necessità semplice del cielo.

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***

L’INSEGUIMENTO

Si spalanca la finestra chiamata da un temporale risucchiata dalla nuvolaglia nera in fuga dal vento e nel varco si spalanca lento – e cade – lo sguardo scorre di filo in filo d’erba e lungo orme ormai invisibili ma ancora parlanti e seguirle è un gioco da animali a caccia di cibo per il gioco dei cuccioli e siamo già lontani dalle soglie consuete dai davanzali invalicabili e inutili. Gettato alla fine delle orme – un ponte per attraversare non acque mansuete o grigi gorghi ribollenti ma una fenditura che porta dritta al cuore discontinuo della terra ma noi si passa oltre questo richiamo e andiamo – di ponte in ponte resistendo alla madre e alla sua bocca fitta di denti e di lingue pendenti come sentenze. Seguono arrampicate a mani e piedi nudi su alberi dalla corteccia parlante e salti di ramo in ramo mentre ascoltiamo la voce della linfa che ci detta geografie verticali impraticabili che non mancheremo di affrontare. L’ultimo salto dura molti anni sospesi su un atterraggio definitivo che mai avrà inizio e nello spazio di quell’attesa continuo è lo studio che tende il collo e consuma le diottrie a ridurci ricercatori mentre siamo avventori affezionati all’unico dispensatore di futuro osi mettere una bancarella nello spazio sospeso di un salto. Un acquisto si può fare barattando differenza con ripetizione(1) desiderio con parola d’ordine ma ogni volta il rischio è restare con un surrogato tra le mani a miniare

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se stessi sul calco di una moltitudine ignara e indifferente. Dietro la bancarella una pista di terra battuta e lungo i bordi cartelli segnaletici un po’ consumati decifrabili solo da chi sa già la meta. Srotolata la pista dalla pianta dei piedi verso montagne inanellate le une nelle altre confrontiamo i versanti e le cime come se da una differenza così evidente potesse scaturire una forma altrettanto indubbia e senza imbarazzo farne veste a coprire uno – nessuno – la moltitudine indecente. Una volta nel folto del bosco – la nudità illumina l’entrata della galleria a portarci sul versante orientale dove parlano una lingua che diremo non nostra e ci diversificherà. All’uscita della galleria ci trascina via l’acqua di un fiume che nasce al momento che rende liquido il tormento e porta altrove la corsa all’ombra che si sposta sempre più in là. Nel mondo subacqueo le intenzioni dei gesti simulano danza e si potrebbe prendere dimora finalmente facendo coincidere forma e sostanza. Ma non c’è pace nella definizione e il vento spazza l’intralcio acquoso sostiene lo sguardo e lo porta in alto e potrebbe – questa nuova posizione individuare la materia esatta e portare a una esatta identificazione personale non fosse per il cedimento delle ali e la caduta a precipizio di Icaro che tutti riporta con i piedi per terra e un ordine tra le creature e le illusioni. Comunque la norma è stata consolata e la necessità affilata e l’idea della vita resa più sfarzosa e svincolata la provocazione e ogni cosa avrebbe potuto essere la cosa vicina o un’altra cosa ed essere la stessa cosa e ogni granello spostato è una variante interessante variamente indagabile e preziosa. Non cercavo nulla – solo in se stesso quel cercare a spirale che è moto innato come il volo per il pesce volante.

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[(1) Afferma J. Deleuze in "Differenza e ripetizione": "tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione".]

***

IDENTIQUA’/IDENTILA’

Permanere pur variando

spostando resta

incastrata tra le dita di un nido

la casa bestemmia e fuma

acrezza asprigna esala

medesimezza e accresce

lo slancio prepara più in là

l’atterraggio a fondo pista.

A uso di corpo mediatore – ne esce

- conoscenza incorporata(1) e scienza

abusata da intreccio meticcio

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in composto-miccia appollaiata

sulla ringhiera dei balconi e indisposta

alla modificazione cristallina.

Ci tiene al caldo tra la coda e l’ano

trasuda minutissima trasparenza

che mi pensa

prima io pensi lei nei miei vaneggii invano .

Vantaggi - espunti perché spuri

- da traballanti leggii sui quali

si spalancano spartiti musicali

di canti e pruriti lodevolmente antichi.

Rovescia e lascia rotolare giù

scompare e riappare nello sgomento

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di un mio incomprensibile tradimento.

È qua –

in questo gioco tra le lenzuola

stese ad asciugare tra il fiato corto

di chi soffia e spinge e piange il tempo

e chi tende il filo come la corda

di un arco - bavaglio al bersaglio.

È là –

comparsa/scomparsa immune

hai richiami della ragionevolezza

che ci vorrebbe piuttosto carne da macello.

[(1) Il corpo è il mediatore tra noi e il mondo, una conoscenza incorporata, un "Habitus" (Pierre Bourdieu).]

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***

ALTERATA - IN TUO NOME

Merde(2)

Mi fai scrivere per come mi penso

mai mi diramerò se sarà così!

non mi resta che buttarti all’aria

e ridere delle tue gambe sguaiate

dell’inutile uso della tua conoscenza.

Mi altero e in me si esalta alterità

perché l’identità la si ha ogni tanto(3) soltanto

e mai che siano chiare le istruzioni

d’abuso e mai pronto un riparo

dopo l’uso o che ti dia una mano

a parcheggiare tra i platani quieti.

(Incarna nuova presenza il corpo

al quale altro corpo appoggia

e non si tratta di identificarsi

ma lasciarsi bere o assetarsi.

È necessario … lasciarsi

in balia del riavvolgimento

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che fa dire al vortice: torno!

e mettere un sasso sotto la ruota

aspettando il prossimo valzer

del contatto.)

Sono a un passo da me

ma è chiaro ormai che sarà per sempre.

E’ spietato il respiro della nausea

nel mio corpo che si può toccare tutto

ma fallisce nel prendere forma precisa

in tutto questo disordine

sei una dea irresistibile e barbara

a cui chiedere requie. Hai bisogno

di molte vite incatenate e spente

per far brillare te sola a illuminare

specchiato il tuo stesso riflesso fedele

vetrificato

fondamentalismo

locale.

Ho sbagliato a non prenderti prima di petto

e risolvere da aperte nemiche

la guerra stellare: delle radici

je naše… - ni naše…(4)

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dei cani che mercanteggiano interiora proprie

barattandole con estremità appropriate

del richiamo al ricamo del corredo

(unica buona abbandonata pratica

delle giovani inutili figlie della lipa)

del vomito sui riti divenuti folclore

eccetera eccetera.

Basterà un canto a vincermi e farmi trascurare

gli impegni presi recentemente

davanti alla fonte ammutolita(5)

del nulla come sola culla di vita.

[(2) in francese

(3) “L’anima la si ha ogni tanto,” incipit di una poesia di W..Szymborska

(4) è nostro…- non è nostro (tipica espressione locale per suddividere il mondo))

(5) da Francesco Marotta.]

***

IL DELITTO

Cercare un riparo dalla polvere

in scavo di trincea concepita

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per falsi tempi di pace

stare

nella scia mimetizzata

come nel riavvolgersi delle indagini.

Resta stupita la trama

nell’imprevista piega della storia

seguendo tracce scavate con le unghie

lunghe nelle radici

si arriva al corpo corrotto

del delitto.

Arrotolati nella trasfigurazione

avvolti nell’imprigionato

sentire

del non poter dire

non fino in fondo

che il fondo

non è la fine!

Duole su tutti l’arto amputato

e sarà così per sempre

dove tutto il nostro cercardire

sarà stato detto e lasciato riverso

sul bordo del palmo.

Ci ha lasciato le penne la Troppa Realtà

- era insopportabile!

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si dava arie di essere ciò che esiste

come non sapessimo il suo soccombere

alla Necessità.

Di lei rimane una sagoma di gesso

tracciata a terra per essere confine

perfetto movente

di un crimine contro l’umanità.

***

Antonella Bukovaz (Cividale del Friuli, 13 giugno 1963) è originaria di Topolò-Topolove, borgo sul confine italo-sloveno, nelle valli del Natisone. Lì ha cresciuto le sue figlie, e scritto poesie che sono confluite in un libro, “Tatuaggi”, edito da Lietocolle (2006). Dal 1995 ha partecipato a diverse rassegne di arte contemporanea in Italia e in Slovenia; dal 2005 si dedica prevalentemente alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine in forma di lettura, videopoesia e video-audioinstallazione. Ha realizzato i suoi lavori collaborando con i musicisti Sandro Carta, Marco Mossutto, Hanna Preuss, Antonio Della Marina. Nel 2008 ha scritto “Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio” con le musiche di Teho Teardo e le immagini video di Leonardo Gervasi (premio A. Delfini 2009). Collabora alla realizzazione di Stazione di Topolò/Postaja Topolove. Insegna, in lingua slovena, nella scuola bilingue di San Pietro al Natisone. Vive a Cividale del Friuli.

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Ivan Crico – L’antro ziél del mondo (Poesie inedite, 2009)

L’antro ziél del mondo

Note in fra le rame de novènbar.

De nui grandóni polsadi de stornei

ta’l negro fis gatïun dei zipressi.

Ta sto blu fondo ’l me oc’ al se sfanta,

de sto blu fondo xe fata l’ànema

che senpre de manco mea de ti,

de duti la xe; e quel che al iera

brùsia pa’l ziél ancói al se fa midàl

de ’n’antro biau, un biau se se pol

’ncora più fondo. L’antro ziél del mondo.

[L’altro cielo del mondo

Notte tra i rami di novembre. / Di immense nubi quietate di storni / nel nero fitto intrico dei cipressi. / In questo blu profondo il mio occhio si perde, / di questo blu profondo è fatta l’anima // che sempre di meno mia di te, / di tutti diventa; e ciò che era / confine per il cielo oggi si fa soglia / di un altro azzurro, un azzurro / ancora più profondo. L’altro cielo del mondo.]

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De un vént

Se te digo chi soio te digo de un vént

che alt in fra le fóie mai conpagne

al sùfia; de le corantìe zidìne

de un muso che ta’l unbrïun, al lusor

del zorno ’l xe ’n ruiùz che saldo ’l córe,

che del color de un grun de ziei ’l se tenze

ta la só curuda ’ncòntraghe del mar.

So che onde che no son mi son ’ntant

che verzo i barconi t’un mondo ’ncora

drìo drumir, ciari i lusori, al me cant

ta i ’nsonii de usei che i pisuca

ta le solità de le mace turchìne.

[Di un vento

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Se ti dico chi sono ti dico di un vento / che alto tra foglie mai uguali / soffia; delle correnti silenziose / di un viso che nell’ombra, nella luce // del giorno è un rivo d’acqua che scorre senza fine, / che del colore di tanti cieli si tinge / nella sua corsa verso il mare. // So che dove non sono io sono mentre / apro le finestre su un mondo che ancora / sta dormendo, rare le luci, il mio canto / nei sogni di uccelli assopiti / nelle solitudini delle macchie azzurre degli alberi.]

***

Tagne istriane

I. L'ìsula

Al sgorleva como 'nsunià al vìvar sora

l'ìsula, la sàlbia salvàdega e i orari, liserte

rive pelade del vént. Vìa pa'la note véa

piùvù. Le sbeleàde ta'l scur de mandre

pirdude, oni tant, dei barconi

in sfresa le riveva fin ta la cànbara

ciara de luse remandada. Me voltéuo

incontra de ti e l'era, como ta'l prinzìpio

del tenp, catar del mar al sabion sutìl,

s'ciarì del arzént zidìn de la luna

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de istà. Me voltéuo vers de ti: e in ti

recognossar i mili trozi del vìvar

lontan de onde viengo, trozi desmentegadi

che cu'i tovi i se cùbia, xe sta comódo

rivar t'un porto de onde che saldo,

sol, toche in ta oni àtin de nóu

'ndar via.

Ancói ta i òri de sta antiga

ruga ta 'l valón i se verze fati

ta 'l sol de agost i fighi; liziér al se poza

al pas tòu comòdo un slavìn de fóie

de ulìu, fresc', ta le piere inzeade...

[Litanie istriane I. L'isola

Sorvolava come in sogno la nostra vita / l'isola, la salvia selvatica e i mirti, deserti / pendii rasi dal vento. Piovve / quella notte. I belati nel buio di greggi / smarrite, ogni tanto, dalle finestre / socchiuse arrivavano nella camera / chiara di luce riflessa. Mi voltavo / verso di te ed era, come al principio / dei tempi, ritrovare dal mare la sabbia fine / della riva rischiarata dall'argento calmo della luna / estiva. Mi voltavo verso di te: e in te / riconoscere le infinite vie della vita / lontana da cui arrivo, vie dimenticate / che alle tue si uniscono, fu come / approdare ad un porto da cui sempre, / soltanto, si debba in ogni attimo / ripartire. // Ora ai bordi della strada / antica sulla vallata si aprono maturi / al sole d'agosto i fichi; leggero si posa / il tuo passo come una pioggia di foglie / d'ulivo, fresca, sulle pietre abbagliate...]

***

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II. Fóghi

Dilicà ’l són de la piova ta ’l ramo

de le gorne ’l se mistura cu’l rispìr

tóu che te drome. Se verze sbreghi

de un lusor crudo ta la tomana

de l’istà, ’l só fis gatïun de fóghi,

ancói che torno de vile cu’i nomi

stricadi. Ma no drento de mi. Cluche

serade de loghi che no i à coért.

Barconi che i fa de suaza a rame

ruspie de figari crissudi ta’l solar

sfondrà; e ’l passa ’l lusor là che no l’era

pa’le firide scundude del to ziel.

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[II. Fuochi

Delicato il suono della pioggia sul rame / delle grondaie si mescola con il tuo respiro / mentre dormi. Si aprono varchi / di luce fredda nel canestro / dell’estate, il suo fitto intreccio di fuochi, / oggi che torno da paesi dai nomi // cancellati. Ma non dentro di me. Maniglie / bloccate di case senza più tetto. / Finestre che incorniciano ruvidi / rami di fichi nati sul pavimento // sfondato; e passa la luce dove prima non passava // attraverso le ferite nascoste del tuo cielo.]

***

III. L'ùltema note

Xe l’ùltema note ta l’ìsula, l’ùltema

de lusór e vént. La luna ta i rivai

snegradi como anblemo de zorni

massa de pressa cunparidi, massa

de pressa finidi. La luna drento ta’l sol

che in ta’l insugno te vée basà pa’la tova

e de mi nova nassenza. ’L iera

al zèrcio verdo de signi del mar

a sgurlar ’ncantà ta’l lai

del pes che vemo ciot de le man

dei pescadori: anco de naltri al só rispir

’npirà de quanti sècui

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vanti de catarse, como ancói

ta albìze paradane, onde

che xe stada ’n’antra vita

scugnussuda che noma

che le bóre le savéa, che dès te scolte

- la cluca xe serada, ma no val - intant

che la vien drento e la doventa,

la doventa saldo più tóva.

[III. L'ultima notte

É l'ultima notte sull'isola, l'ultima / di luce e vento. La luna tra i crinali / oscurati ad emblema di giorni / troppo rapidamente apparsi, troppo / rapidamente finiti. La luna dentro il sole / che nel sogno baciasti per la tua / e mia resurrezione. // Era / lo zodiaco verde del mare / a ruotare immobile sul ventre / del pesce che prendemmo dalle mani / dei pescatori: anche nostro il suo respiro / trafitto da quanti secoli // prima di ritrovarci // abbracciati, come ora, / tra bianche pareti dove / si svolse un'altra vita / sconosciuta che solo / i venti conoscevano, che ora ascolti / - la porta è chiusa, ma non conta - mentre / entra e diventa, / diventa sempre più tua.]

***

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Ma ’l tenp

Como le tove saldo de remandi

difarenti inpiade le faze

del cristàl dei zorni, dès che de nóu

spiandór la remessa la nivièra cuïeta

dei frutamàri in fior al ziel net de marz.

Fòie che sol spicandose pol sgorlàr via.

Ufrida la vita tova a mi che so

noma che che no la xe de mi la mea,

la negra levada dei cavéi che la sburta

radise fonde ta’l spec’ scur del me oc’.

Ma ’l tenp par pàndarse lo disarà le fóie.

[Ma il tempo

Come le tue sempre da diversi / riflessi accese le facce / del cristallo dei giorni, ora che di nuovo / splendore intarsia la tormenta calma / degli alberi da frutto in fiore il cielo limpido di marzo. // Petali che solo staccandosi dal ramo possono volare via. / Offerta la tua vita a me che so / soltanto che non è di me la mia, / la nera alba dei capelli che spinge / radici profonde nello specchio scuro del mio occhio. // Ma il tempo per dirci lo diranno i petali.]

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Ivan Crico – Poesie inedite in lingua italiana

Binari

Le nude rive grigie e i canneti

fin dove arriva lo sguardo e il vento

diradando il respiro. Loro

poco distanti, bambini

che giocano, un laccio

di gelo l’acqua che si stringe

attorno alle caviglie. Luce

di cose che si guardano senza saperle

dire. Che si dice di vedere

e sono la memoria soltanto della corrente

che le sfiora.

Mi volto, fermo

come se qualcuno dovesse arrivare

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ancora o solo la polvere

sottile, che si spande lungo i sentieri,

di una storia di foglie. L’erba sporca

di sabbia e un forte

frastuono che si avvicina

da là in fondo.

Va’ roso di lontananze

il treno senza nessuno ( l’ultima

luce, rossa sui vetri, di file

d’automobili vuote) sopra i binari neri

ormai tra i ciottoli d’olio e ombra.

***

Nell’ombra

Il profilo scuro nell’ombra

di macchie e pini. La strada

di ghiaia. Scomparsa memoria tra i fili

e la pietra rugginosa di altre sere

ora che il buio restituisce allo sguardo

l’aria, spirata dai filari, di chi

resta ancora una domanda

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sospesa, spina

nel fondo di giorni, ferita

o polvere levitata che la mano

assorbe rapida, senza scampo,

se li avvicina. Lontano

un brusio continuo di macchine. Il cerchio

che disegna sulla pianura il faro

dell’aeroporto. Come attraverso un vetro

infranto, i lembi alzati della calce

sul muro crollato, aperto

sull’azzurro più puro dell’estate

che mi vedeva svanire

ti guardo. Ferma. Nel cono

ovale d’ambra oltre il buio

sfrangiato delle siepi

oscurate del sentiero.

***

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Giorni

Un rombo. Lontano

fra le case, forse di camion o forse

d’auto soltanto dai garage

che si immettono nelle vie

deserte della primavera

trascorsa. I fogli scritti. Le alte

pile dei libri solcate da un volo

riflesso sui vetri scuri

delle vetrine: appena

ascolti, appena la notte

tenere, appuntite scopri

le gemme del fico sul ciglio

della strada forare dura la scorza

grigia, screpolata. Giorni. Leggeri

a volte come se non ci fossero.

Sento l’aria nuova che sfiora

anche per me visi

già d'aria già ricordo

diventati, ancora

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mi porta nel sole.

***

Oltre il cielo

Mattini in cui risvegliarsi nel grido

ripetuto dei verdoni sulle antenne inclinate

dalla bora, il chiarore che allontanava oltre

gli argini la notte fredda d’aprile, le immagini

suscitate dal buio. Adesso non so cosa sei

oltre la luce riflessa sul lago, queste distese

d’acqua immaginata. Da dove prende la forza

il vento per risalire, incanalarsi fra le case

in mezzo alle doline di pietre ruggini, raccontarne

la memoria. Confusa alle traiettorie delle rondini

in alto. In un cerchio di vento ti inscrivi, di linee

che finiscono per continuare oltre

il cielo ultimo del pensarti.

***

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Nella pioggia

Non restiamo più nel viola

sbiancato dei grappoli che il glicine

distende sul muro polveroso, quasi

un cielo per i tanti strati

slavati di verderame. Cuori

lasciati incompiuti. Nomi. Scritte

e raggi di gocce esplose

dai sessi graffiti. Qualcosa

d’altro che adesso comincia

nell’aria. Di sera lontano

il dolore fuso nel cielo

blu scuro si dilata tra gli archi, l’arenaria

bagnata dalle ombre; essere qui

per dare un volto, forma

all’attesa, al rientro

delle rondini per il breve tempo

di vederle ferme tra i fili

intrecciati dei nidi. Una ghiaia

grigia che calpestiamo, trapassata da lame

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d’erba. Ruvida

erba che taglia la pelle, le dita

a strapparla. E rosso un filo

di sangue cola lungo quella linea

recisa con le estati, le corse di chi eri

nella pioggia improvvisa, luminosa.

***

Azzurro

Le nere geometrie dei cavi che segmentano l’azzurro

invaso oggi da nuvole dense, i passeri che cercano

a stormi l’ombra delle foglie. Il temporale che viene

ha la luce disegnata tra i cigolii delle imposte del tuo volto

inciso nell’aria. Le corolle si richiudono fredde, silenziose

mimano il sole che scompare. Questa la sola strada

data, la notte che si amplifica fino a sovrapporsi al giorno

schiuso in uno stupore senza confini, essere vivi con i colori

che risalgono dal vento degli uccelli venuti a posarsi

- tra le case - sulla ruggine tesa dei fili.

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Ivan Crico

Nato nel 1968 a Pieris (GO). Ha iniziato privatamente gli studi artistici nel 1981. Si è diplomato in pittura nel 1992 all'Accademia di Belle Arti di Venezia specializzandosi in incisione sotto la guida del maestro Franco Dugo.

A partire dal 1983, ha iniziato ad esporre in numerose personali e collettive in Italia e all'estero. Profondo conoscitore delle tecniche antiche, dal 1995 ha iniziato ad interessarsi inoltre anche alla decorazione antica e al restauro, diventando ben presto uno dei decoratori più apprezzati a livello nazionale, lavorando anche a grandi lavori di ricostruzione di affreschi in prestigiose ville e palazzi storici.

Dopo essersi inizialmente segnalato come poeta in lingua, nel 1989 ha cominciato ad impiegare il nativo linguaggio “bisiàc”, un'originale e antica variante veneta che si parla nei paesi del monfalconese, tra l'Isonzo, il Timavo, il Carso ed il mare Adriatico.

Suoi testi poetici e saggi critici sono apparsi, a partire dal 1992, sulle maggiori riviste italiane come "Poesia", “Lengua”, “Diverse Lingue”, “Tratti", "Frontiera”. Nel 1997 ha pubblicato Piture, a cura di Giovanni Tesio, per l'editore Boetti di Mondovì; nel 2003, per il Circolo Culturale di Meduno, con prefazione di Antonella Anedda, Maitàni; nel 2006, per le edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese, Ostane e nel 2008 De Arzent zu edito dall'Istituto Giuliano di Cultura di Trieste. Con Pierluigi Cappello ha ideato la collana di poesia “La Barca di Babele” di cui ha curato anche l'impostazione grafica.

Della sua poesia si sono occupati i maggiori critici italiani da Brevini a Tesio, da Giorgio Barberi Squarotti a Villalta, dall'Anedda a D’Elia. Figura tra i nove autori inseriti nell'antologia "Tanche giajutis" curata da Amedeo Giacomini che comprende i poeti più significativi nei dialetti e le lingue minori degli ultimi decenni del Friuli Venezia-Giulia ed è stato incluso anche all’interno della fondamentale antologia “Via Terra”, di prossima uscita, che comprende i maggiori poeti della poesia neodialettale italiana.

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Alessandro Ghignoli Tristizia

a Marco Amendolara alla sua memoria alla nostra generazione

Riconoscere chi ti è amico è la prima scienza.

Marco Amendolara 1 l’inizio di questa tristizia di core e d’amistà tra spinte e segnali a far di me di te un poco niente un corpo non più nel far delle cose e sia dolore il tuo nome allora non potevi illudere anche me anche una sola e unica amica persona ma dicendoci e dandoci un saluto a noi molto paurosi a noi tenendo il core in mano ora nell’orrore del sapere nel dì che avvenne nel poco tempo nostro di quest’ora *** 2 appresso con il tempo del tempo si fa di sgomento certezza e di certezza un dì sull’altro sul monotono dell’andare passando da un posto a un antro nascosto per coprire colle mani lo incominciamento della miseria e della fantasia malsana al pensare di vedere quanti colpevoli da così tutti lasciato sullo scalino di una mia via della cittade mi sento fragile di vita come la dubitazione di ciò che accadde come l’infimo veleno dell’annuncio o della pietade *** 3 si potrebbe pensare e detto questo è già in ritardo la parola il suo valore oramai di ragionare di questioni di mirabili cose di mancati incontri di tutto il procedere normale dal principio al principio ancora per dire ciò che il coraggio dubita di una partita tua di un gire nostro per le strade de la mente nell’incontro delle immaginazioni dove la lingua s’affatica

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dove la fine è già avvenuta *** 4 il supposto supporre e dire mi porta al niente al vuoto della mente alla ricerca vana sapendo se sapere è cosa utile o un futile incoraggiamento di una di noi storia disattenta guastando tra il velo della corruzione il narciso sempre pronto ma poi disatteso e liquidato altrove così hai deciso per un giardino che ti salva a ingannare il gioco a dar fine al dolo al mantenerci viva l’alma *** 5 eppure il non credere all’assenza alla mancanza a questo star qui senza non pensiamo possibile più il possibile il trasfigurarsi delle cose intorno il mancare l’appuntamento e avvegna che la tua imagine in una notte di sogno di spavento si faccia apparizione allora in quello caso nello specifico di un’arte di rettorica mi sopraggiunga per aiutare lo mio risveglio alla realtà al giorno per giorno all’immondo modo della verità del mondo *** 6 è inutile insistere persistere su un argomento oramai chiuso già dettato al passato al remoto andato alla forma di una salvezza che fatica e affatica alla ragione ché non c’è valore più alto che accettare il temuto sentore dell’inaccettabile della visione del presente del brevemente seguire qui

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*** 7 non so se so farcela a rinunciare al desistere dell’esistere all’astenermi di un pensiero tuo di un tuo abbandono di esso mi nego il dipoi e guardo verso lo cielo a inveire contro i destini contro mentre li occhi miei piangeano di vere lagrime m’annego nel ricordo sotto lo oscuro e senza colore sotto il peso denso dell’aria nel diniego di un dopo da avvenire *** 8 maissimo avrei pensato l’osare il gesto la volontade dell’atto preparato dal tempo dentro e noi fuori all’intemperie dell’incoscienza alla paura e remissione del vivere codardo invece tua la scelta del corpo della questione tutta dell’interiore e se sei qui stringimi il braccio per favore ché se ti avessi saputo leggere se avessi saputo avere ancora un allora *** 9 anche potendo anche truccando il dolere lo scriverti del male mondo nostro anche rispondere alle incertezze dove finiscono tutte le malvagità mai amate né condivise anche durante ne lo cammino de li sospiri insieme alla ferita dentro il dietro dentro lo spettro vivo del martirio anche la concessione della poesia nel libero tuo estivo arbitrio

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*** 10 nella verità si nasconde la cancellatura della frase nel davvero della parola quasi pronunciata il richiamo per conoscere l’intenzione il cercare per vedere i più piccoli movimenti delle labbra sul fiato è spento il perdono il suono la vocale scivola piano senza emettere nota o dono musicale *** 11 bisogna fare dell’esperienza un’abbisogna una lenta conoscenza del silenzio del cadere nell’istante prima che metta inverno prima che consumi la vita la vendetta non di sconfortare la memoria in quella piccola parte d’indugio ma nell’oratoria dell’arte che di essa ne contende il principio alla pratica dell’ostilità al fare corrotto al già deciso per questo ci convene finente la fine attraversare la gloria renderla vana mettere in atto d’opera l’opera *** 12 di viaggio si tratta alla resa dei conti alla fine superare i dove le luci tra taverne e fantasmi all’incrociare occhi parole usanze tralasciamo le critiche sentenze le minime pagine nell’altrove trovando un vantaggio ora nell’ora che pianamente ricovero al ricordo al rimpianto al poco mio aver dato *** 13

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se colpa è colpa il non aver capito l’aver mancato all’appello al grido nella mia essaminazione cerco ragione dell’erratica forsenaria che mi percuote la mente il sillabare del pensiero la fatica del festeggiar il duro alzare del dì il voler fermare sulla pagina questo mio lasciarmi nel farnetico *** 14 porre il nodo la parola dell’inizio il suo farsi sinonimo di corpo l’opposto sconfinare in territori delle tenebre esposto al rischio del parlare fabuloso dei farsanti dei lungimiranti servitori nell’ordire dello stato loro di cose loro di quello strano modo di intendere il decoro mi dismago in pieno amarore vorrei solo tu qui il tuo tutto puro dire *** 15 adesso so che è l’esserci che il rischio è nostro che il non saper intendere è un male come il parlare senza ascolto o la mano che non stringe che addosso la vita ci scivola sulla fortuna dura e picchiatrice adesso so che non sarò solo anche quando anche perché il mai crudele tacere dell’impronta sulla cenere dell’esser fabbro di sé Nota In queste poesie scritte nel settembre 2008 vi si possono notare una serie di intrecci intertestuali con l’opera amendolariana, lascio al lettore e alla sua sensibilità di svelarne le orditure e di dipanarne i sensi. Sono altresì presenti poeti e autori due-trecenteschi che sono e fanno parte del mio fare poesia. Tristizia non è e non vuole essere un ricordo né un omaggio, bensì una necessità, un obbligo morale ed etico insieme a cui voglio sottostare.

(a.g., Madrid, settembre 2008) *** Alessandro Ghignoli (Pesaro 1967), ha pubblicato di poesia: La prossima impronta (Gazebo, Firenze, 1999) e Fabulosi parlari (ibid., 2006); di prosa: Silenzio rosso (Via del Vento, Pistoia, 2003). Ha pubblicato numerosi volumi di traduzioni e studi scientifici sulla poesia, il suo ultimo lavoro: Un diálogo transpoético.

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Confluencias entre poesía española e italiana (1939-1989), (Academia del Hispanismo, Vigo, 2009). Codirige i “Quaderni di poesia europea” (Orizzonti Meridionali, Cosenza) ed è redattore della rivista “L’area di Broca

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Il tema del prossimo numero:

IL VIAGGIO

Il viaggio simula e dissimula quella singolare condizione del vivente di muoversi nello spazio e nel tempo, producendo e trasformando se stesso e il mondo. Ma non solo. Il viaggio è anche l’orizzonte di senso che si fa carico di attesa; c’è infatti chi aspetta che qualcuno arrivi, o chi, quando parte, aspetta che qualcosa sia cambiato in sua assenza. Il viaggio racconta anche dell’assenza, a volte quella ineluttabile ed estrema. Si va incontro all’altro, al fratello, al volto dell’irrimediabilmente Altro che mette in crisi familiarità e identità; perché questo tradimento del viaggio è il più bel modo di ex-sistere. Lo spostamento non è solo fisico ma, soprattutto, interiore, ecco perché i grandi affreschi della storia del pensiero occidentale ci raccontano migrazioni e avventure nelle quali ci riconosciamo, nelle quali ci lasciamo traghettare verso un altrove. I poderosi viaggi di Ulisse ma anche quelli di Don Chisciotte che parte per riparare i torti e difendere i più deboli oppure quelli del capitano Achab, che va a sconfiggere l’inaudito, insieme ad innumerevoli esempi della letteratura e della poesia antica e moderna ci spiegano di come il viaggio sia inteso come una ricerca inesausta di senso. Il soggetto nomade, in età contemporanea, che non è radicato in nessun luogo preciso, è anche il soggetto della differenza che si attua nell’esistente. Non ci sono solo Deleuze e Braidotti a ricordarcelo ma un susseguirsi di richiami della manque-a-être che costellano la storia della filosofia da Lacan in poi. Allora chi siamo? Da dove siamo costretti a partire? Ci troviamo vicini anche noi a Géricoult, anche noi su quella Zattera della Medusa che racconta del viaggio drammatico di chi vuole sopravvivere al naufragio; il viaggio è la lotta dell’uomo contro il tempo per cercare un luogo , di difficile estensione, per dirsi di

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nuovo a casa, sopravvissuti. La testimonianza di questo viaggio, di questa suprema modalità dell’esistere, è aperta alla ricerca di chi, comprendendo l’altro, vuol ritrovare se stesso.

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Il viaggio assume significati diversi riguardo i vari campi del sapere: dal cinema alla letteratura, dalla poesia alle arti visive, dalla religione alla sociologia. In ogni prospettiva analizzata accogliamo contributi nella forma di saggi, interviste, recensioni e note critiche.