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1 « Il y a au Pérou cinq saisons : l’hiver, Le printemps, l’été, l’automne et le massacre ». Manuel SCORZA. « L’homme est un être de désirs. L’Histoire-dit Hegel- est l’ensemble des Désirs Désirés. Et je pense moi : non réalisés ». Manuel SCORZA. « S’ il y a quelque chose que je hais sur cette terre, c’est la dictature. Mais l’objet de haine peut devenir un objet de fascination ». Mario VARGAS LLOSA. Mario VARGAS LLOSA e il dramma del suo mondo: le dittature. ///////////***********///////////////***********///////////// Il problema delle dittature è uno dei grandi temi della letteratura latino-americana. Nessuna delle repubbliche è sfuggita a questa forma di governo anche perché i regimi dittatoriali hanno avuto nel corso degli anni sostegno e complicità da parte delle popolazioni che sottacevano la profonda e misera realtà del proprio paese o peggio la accettavano per paura o rassegnazione. Molti letterati preferivano l’esilio ed erano sempre meno fiduciosi di potere ritornare nel loro paese di origine. Altrettanto penoso era l’esilio culturale di quelli rimasti in patria. All’epoca della dittatura militare in Argentina, per esempio, qualsiasi testo che facesse riferimento alla scomparsa di persone sul territorio non riceveva l’autorizzazione alla pubblicazione. Il grosso limite del mondo letterario di allora fu il non aver capito che per cercare una risposta al genocidio culturale che i Videla, i Pinochet e gli Stroesser stavano compiendo sarebbero state necessarie una maggiore coesione sociale e la consapevolezza di avere i mezzi per opporsi a questi regimi. Qualcuno, in verità, cominciò a credere che sarebbe stata utile, sull’onda della rivoluzione castrista e dell’ideologia sartriana, una letteratura militante e socialmente impegnata, ma non tutti erano d’accordo su questa affascinante strategia. Per lo scrittore argentino Ernesto SABATO non c’è una letteratura sociale e una non sociale, c’è semplicemente della buona e della cattiva letteratura. L’esilio interno al proprio Paese non è una situazione facile da vivere. Nei paesi ispano-americani l’oppressione, la censura e la paura hanno impedito a molti giovani di talento di avere un futuro nella scrittura, sono stati ridotti a scribacchini al servizio del tiranno di turno, a un silenzio pieno di rancore. L’offensiva intellettuale avrebbe richiesto immaginazione, invenzione, senso dell’humour, una buona dose di follia, ma soprattutto una sorta di analisi di sé per cercare di spiegare perché non si era in grado di abbattere i cattivi governi, perché si aveva la tendenza a sovrastimare gli atteggiamenti del popolo latino-americano al fine di mascherarne le incapacità e debolezze. Nel 1967, a Londra, il messicano Carlos FUENTES e il peruano Mario VARGAS LLOSA, già celebri a sinistra e legati alla rivoluzione castrista, in un pub, progettavano una raccolta di testi sull’America Latina, dopo aver letto con entusiasmo un libro di Edmund WILSON, Patriotic Gore, che presentava una serie di ritratti sulla guerra di Secessione. Chiesero perciò ad alcuni grandi scrittori di stendere un racconto breve su un tiranno da loro scelto per poi raccogliere l’insieme in una pubblicazione dal titolo “ Los Padres de las Patrias”. Si voleva conoscere l’atteggiamento della Letteratura nei confronti delle dittature. Il progetto non fu realizzato, ma ad alcuni scrittori piacque

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« Il y a au Pérou cinq saisons : l’hiver, Le printemps, l’été, l’automne et le massacre ». Manuel SCORZA. « L’homme est un être de désirs. L’Histoire-dit Hegel- est l’ensemble des Désirs Désirés. Et je pense moi : non réalisés ». Manuel SCORZA. « S’ il y a quelque chose que je hais sur cette terre, c’est la dictature. Mais l’objet de haine peut devenir un objet de fascination ». Mario VARGAS LLOSA.

Mario VARGAS LLOSA e il dramma del suo mondo: le dittature. ///////////***********///////////////***********///////////// Il problema delle dittature è uno dei grandi temi della letteratura latino-americana. Nessuna delle repubbliche è sfuggita a questa forma di governo anche perché i regimi dittatoriali hanno avuto nel corso degli anni sostegno e complicità da parte delle popolazioni che sottacevano la profonda e misera realtà del proprio paese o peggio la accettavano per paura o rassegnazione. Molti letterati preferivano l’esilio ed erano sempre meno fiduciosi di potere ritornare nel loro paese di origine. Altrettanto penoso era l’esilio culturale di quelli rimasti in patria. All’epoca della dittatura militare in Argentina, per esempio, qualsiasi testo che facesse riferimento alla scomparsa di persone sul territorio non riceveva l’autorizzazione alla

pubblicazione. Il grosso limite del mondo letterario di allora fu il non aver capito che per cercare una risposta al genocidio culturale che i Videla, i Pinochet e gli Stroesser stavano compiendo sarebbero state necessarie una maggiore coesione sociale e la consapevolezza di avere i mezzi per opporsi a questi regimi. Qualcuno, in verità, cominciò a credere che sarebbe stata utile, sull’onda della rivoluzione castrista e dell’ideologia sartriana, una letteratura militante e socialmente impegnata, ma non tutti erano d’accordo su questa affascinante strategia. Per lo scrittore argentino Ernesto SABATO non c’è una letteratura sociale e una non sociale, c’è semplicemente della buona e della cattiva letteratura. L’esilio interno al proprio Paese non è una situazione facile da vivere. Nei paesi ispano-americani l’oppressione, la censura e la paura hanno impedito a molti giovani di talento di avere un futuro nella scrittura, sono stati ridotti a scribacchini al servizio del tiranno di turno, a un silenzio pieno di rancore. L’offensiva intellettuale avrebbe richiesto immaginazione, invenzione, senso dell’humour, una buona dose di follia, ma soprattutto una sorta di analisi di sé per cercare di spiegare perché non si era in grado di abbattere i cattivi governi, perché si aveva la tendenza a sovrastimare gli atteggiamenti del popolo latino-americano al fine di mascherarne le incapacità e debolezze. Nel 1967, a Londra, il messicano Carlos FUENTES e il peruano Mario VARGAS LLOSA, già celebri a sinistra e legati alla rivoluzione castrista, in un pub, progettavano una raccolta di testi sull’America Latina, dopo aver letto con entusiasmo un libro di Edmund WILSON, Patriotic Gore, che presentava una serie di ritratti sulla guerra di Secessione. Chiesero perciò ad alcuni grandi scrittori di stendere un racconto breve su un tiranno da loro scelto per poi raccogliere l’insieme in una pubblicazione dal titolo “ Los Padres de las Patrias”. Si voleva conoscere l’atteggiamento della Letteratura nei confronti delle dittature. Il progetto non fu realizzato, ma ad alcuni scrittori piacque

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l’idea e così ora possiamo leggere alcuni autentici capolavori su grandi e piccoli tiranni locali. I testi che abbiamo preferito ri-leggere e sui quali fermare la nostra attenzione sono i seguenti: 1. El SEÑOR PRESIDENTE (1946) dello scrittore guatemalteco Miguel Ángel ÁSTURIAS; 2. El otoño del Patriarca (1975) del colombiano Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ; 3. La Fiesta del CHIVO (2000) dello scrittore peruano Mario VARGAS LLOSA; 4. Conversación en La Catedral (1969) di Mario VARGAS LLOSA.

1. Il “nuovo romanzo” inizia con El SEÑOR PRESIDENTE di Miguel Á. ASTURIAS un innovatore che partecipa vivamente e sinceramente al dramma del suo mondo. Non è possibile però parlare del libro dello scrittore guatemalteco senza menzionare TIRAMO BANDERAS di Ramon Maria del VALLE-INCLÁN la cui lettura durante gli anni della formazione parigina era destinata a lasciare in lui un’orma profonda. Tiramo Banderas è un romanzo significativo, rappresenta un momento di rilievo nella narrativa di VALLE-INCLÁN e della Spagna del secolo XX°, ma pecca di evidente superficialità per quanto attiene al dramma della condizione americana. A Tiramo Banderas manca qualcosa che El SEÑOR PRESIDENTE ha: l’esperienza diretta. VALLE-INCLÁN, infatti, vede il dramma da fuori e il panorama della dittatura è troppo schematico, il clima di violenza ha qualcosa che lo avvicina al genere d’appendice come il gran finale in cui il tiranno, sul punto di soccombere di fronte ai suoi avversari, uccide la figlia idiota e poi si uccide. Non esiste neppure negli oppositori del dittatore un vero ideale e la lotta non è qualificata dalla

prospettiva della libertà, ma scade a livello di contesa per il trionfo di egoistici interessi personali. L’unica a essere rappresentata con efficacia è la figura di Santos BANDERAS, creatura tra lo stregone e il bandito, nell’esercizio crudele del potere. Nel libro di VALLE-INCLÁN é difficile comprendere se nel tiranno sia maggiore la sete di comando o il piacere di distruggere il prossimo. La sua figura lugubre domina tutto il romanzo in un ripetersi d’immagini ossessionanti, è sempre in agguato dietro la cornice di una finestra teso a spiare il mondo come se, più che il timore di sorprese, lo inquietasse l’irriducibile indipendenza di un universo naturale che persiste libero dal suo dominio. VALLE-INCLÁN accentua i toni cupi del tiranno che è presentato come uno sgorbio di segno crudele, con l’aspetto cadaverico della morte,”una sorta di teschio con occhiali scuri e un colletto di chierico”. La finestra è la cornice preferita da Santos Banderas; la sua vita si svolge in un convento-fortezza. Crudeltà, mancanza di scrupoli si uniscono, nell’uomo, a un’innata abilità di giocatore e a una straordinaria conoscenza degli uomini. Il tiranno è una sorta di malaugurio e, per il suo aspetto, è sempre assimilato all’immagine di un uccellaccio inquietante, una civetta o un’aquila notturna. Di fronte all’uomo temibile sta un mondo di rifiuti umani, degno contorno alla dittatura, un mondo senza volontà né dignità. Ma VALLE-INCLÁN non penetra adeguatamente la portata della dittatura così come fa Á. ASTURIAS ne El SEÑOR PRESIDENTE. Il romanzo di ASTURIAS, pubblicato nel 1946, sorse prima come racconto parlato, come narrazione orale agli amici ispano-americani di episodi della dittatura di MANUEL ESTRADA CABRERA, tiranno del Guatemala per più di venti anni, dal 1900 al 1920. La scrittura dell’opera fu ultimata nel 1932 ma la pubblicazione del romanzo avvenne in epoca tarda a causa dell’avvento in Guatemala di un nuovo dittatore, JORGE UBICO. Ciò non indica mancanza di coraggio da parte di Asturias ma il ritardo nella pubblicazione de El SEÑOR PRESIDENTE rispondeva a un piano determinato, quello di poter continuare all’interno del paese una sottile opera di erosione della dittatura attraverso l’impiego del mezzo radiofonico che ASTURIAS dirigeva. Una serie di annunci pubblicitari concorreva a far scadere nel ridicolo e nel grottesco le notizie riguardanti il governo e le

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sue azioni. È opportuno sottolineare l’originalità del romanzo di Miguel Ángel ASTURIAS tanto che il libro assumerà presto, nell’ambito della narrativa ispano-americana, categoria esemplare. Disancorato dai dati di spazio e di tempo, esso diviene il testo universale contro le forme di governo disumane che incatenano l’uomo e distruggono le coscienze. Per originalità d’invenzione, per qualità di materiali linguistici, per la struttura inedita, nella quale è determinante il monologo interiore, il libro s’impone decisamente al di sopra di Tiramo Banderas, per la riuscita denuncia di una dolorosa situazione sudamericana. Malgrado il ricorrere di taluni elementi che avvicinano i due libri, in verità la sostanza de El SEÑOR PRESIDENTE è del tutto diversa da quella di Tiramo Banderas. Nel mondo sul quale domina Tiramo Banderas non esiste alcun valore umano positivo, moralmente non si salva nessuno. Nel romanzo di Miguel Angel ASTURIAS in mezzo al terrore, alla delazione, alla violenza, al delitto, sopravvivono intatti i valori umani di un popolo che, malgrado l’esperienza infernale, non ha perduto la speranza né la dignità. Ne El SEÑOR PRESIDENTE si può parlare di un mondo infernale sul quale domina come demonio principe il dittatore e Miguel Á. ASTURIAS ha cercato di dare una spiegazione al clima d’illegalità profonda, di corruzione che si instaurava con tanta frequenza e per lunghi periodi nel continente sud-americano. L’ha fatto nel saggio El SEÑOR PRESIDENTE COMO MITO in cui considera il suo romanzo più noto un racconto mitologico. “C’è il romanzo dal punto di vista letterario, c’è la denuncia politica e c’è una concezione di forza ancestrale favolosa e apparentemente della nostra epoca. C’è la figura dell’uomo mito, dell’essere superiore, di chi nelle società primitive rappresenta le funzioni del capo tribale, unto da sacri poteri, invisibile come Dio, più mitologico di quanto si pensi. Il fascino che esercita su tutti compreso i suoi nemici, l’alone di essere soprannaturale che lo circonda, tutto concorre alla reattualizzazione del grandissimo, dello straordinario al di fuori di un tempo cronologico. Sarà questa la vera essenza de El SEÑOR PRESIDENTE? Lui che in verità è un mito, che regge il peso del suo essere mito in certi paesi, che conserva il dominio semireligioso con i suoi fanatici adepti e i suoi empi imprigionatori in inferni indicibili?Non raggiungono questi Presidenti dimensioni di esseri soprannaturali? Non sono terribili realtà, spaventose, ma nello stesso tempo un po’ come castighi religiosi e come tali sono fuori dalla realtà? E intorno ad essi non si crea forse una specie di rito che implica il culto della personalità intesa come forza ancestrale?. Partendo da queste premesse, Miguel Ángel ASTURIAS conserva al suo personaggio le caratteristiche mitiche anche se inevitabilmente ne demolisce per gradi la figura fino a presentarlo come un falso fannullone. L’angolo visuale dello scrittore guatemalteco è quello di chi è inattaccabile dal contagio del servilismo, che conosce il mito e la sua suggestione, ma che rifiuta la sua influenza ed è quindi cosciente della miserabile realtà umana che è dentro il regime. Al tempo della caduta di ESTRADA CABRERA il giovane Asturias aveva avuto modo, quale membro della commissione recatasi a palazzo a esigere le dimissioni del dittatore, di osservarlo da vicino. L’uomo gli era apparso funebre, freddo, padrone di sé anche nella sconfitta, con un aspetto glaciale che ancora incuteva timore e rispetto nei suoi stessi vincitori. El SEÑOR PRESIDENTE interpreta quest’ascendente inspiegabile del tiranno, quest’alone di potenza demoniaca che lo circondava come frutto dell’isolamento in cui era vissuto. Agiva per interposta persona, quella di ministri crudeli e corrotti con effetti totalmente negativi e disastrosi, in un mondo in cui più non esistevano “né vera vita né vera morte, né vero onore né vera infamia, né vera amicizia né vero odio”. Nell’economia del romanzo l’infelice amore di Cara de Ángel, prima favorito dal dittatore e poi in disgrazia finisce per avere eccessivo rilievo. È un episodio della dittatura che accresce interesse nel lettore e finisce con un’affermazione: non esiste salvezza possibile per chi è stato crudele esecutore del male. Asturias non ammette che l’esperienza personale di dolore sia sufficiente a riscattare dalla colpa di avere servito la dittatura con la violenza. Ciò che più interessa nel romanzo è la radiografia della dittatura, il mondo violento dominato dal fantasma cupo del dittatore. Lo svincolamento dai dati geografici e temporali permette allo scrittore di dare alla condanna una dimensione che va ben oltre la contingenza dei fatti, il limite geografico della nazione guatemalteca, proponendo a fosche tinte un dramma inquietante, nel quale tanta parte del mondo s’identifica.

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L’azione de El SEÑOR PRESIDENTE si svolge in un breve periodo. Il libro si divide in tre parti e termina con un breve epilogo. I grandi protagonisti del romanzo sono la prigione e il tempo. La condizione umana, infatti, si determina in un regime di oppressione che non prevede fine. La speranza degli oppressi e l’anelito alla libertà si oppongono all’ansia di permanenza da parte degli oppressori, al loro desiderio di eternare il potere. Secondo il critico S. MENTON l’idea di tempo immobile ed eterno ampiamente presente nel romanzo è propria del cubismo, di modo tra il 1920 e il 1930 in Europa, epoca in cui Miguel Á. ASTURIAS si trovava a Parigi e scriveva il suo libro. È attraverso questa immobilità temporale che si qualifica ne El SEÑOR PRESIDENTE una struttura nuova del romanzo, assai complessa, quella che ha fatto scrivere a un esegeta di Miguel Á. ASTURIAS che il libro è risultato “un vero gioiello architettonico”. Il simultaneismo e l’unità del libro è ottenuta attraverso diversi artifici tecnici, come le allusioni molteplici, la concatenazione di

vari episodi con altri precedenti, flash backs, monologhi interiori. Alcuni capitoli hanno un’unità artistica in sé e si rafforzano internamente attraverso la ripetizione dello stesso tema. El SEÑOR PRESIDENTE è, quindi, un libro di rigorosa costruzione e di evidente novità. Questo carattere distintivo si è affermato col passare del tempo e ormai anche se tardivamente è stato riconosciuto a Miguel Ángel ASTURIAS il ruolo di precursore del rinnovamento della narrativa ispano-americana inaugurando quel fenomeno letterario che passa col nome de “real maravilloso”. Ma El SEÑOR PRESIDENTE non è importante solo per le innovazioni tecniche e formali, ma anche per l’adesione sofferta al dramma sudamericano. Nel clima lugubre che domina la vita di un paese soggetto alla dittatura frutto del sovvertimento di ogni valore morale, del prepotere in contrasto con la libertà, la vita stessa diviene un’equazione inquietante la cui soluzione sta nella morte. A questo riguardo il sillogismo denunciato da Asturias come misura costante dell’esistere è molto significativo: “…vivere, ciò che si chiama vivere, che non è ripetere ad ogni ora: penso con la testa de El SEÑOR PRESIDENTE, dunque sono, penso con la testa de El SEÑOR PRESIDENTE, dunque sono”. Con straordinaria perizia e con quel dono della lingua, dell’onomatopea, abilità ampiamente riconosciuta dalla critica ad Asturias, straordinario forgiatore di vocaboli, lo scrittore immette il lettore nell’inferno della dittatura. Il grande affresco della situazione guatemalteca che si può estendere a quasi tutta l’America Latina si apre con la lugubre scena della tortura. A ogni alba la città propone la dimensione angosciosa del dramma: “la città grande, immensamente grande per la sua angoscia, si va facendosi piccola per la sua ansia”. Gli abitanti sono costretti a vivere infelici in un mondo lugubre, sottoposti a continui tormenti e vessazioni da parte di carcerieri le cui facce sono presentate con caratteristiche demoniache e bestiali. A proposito delle prigioni il MENTON ha parlato di un inferno dantesco. I malcapitati che vi sono ingiustamente rinchiusi piangono come animali, tormentati dall’oscurità e sottoposti a ogni forma di violenza da parte di aguzzini privi di ogni sentimento come quel giudice relatore che corre su di un carro tirato da due cavalli pelle e ossa (allegoria della morte e i lampioncini sono gli occhi della morte stessa) a informare El SEÑOR PRESIDENTE dell’estorta confessione. La natura animata partecipa direttamente al dramma. Alle prime ore del giorno, quando gli abitanti escono da casa per dedicarsi alle loro faccende, sono disuguali nella lotta giornaliera perché alcuni sono obbligati a lavorare per vivere mentre altri, amici de El SEÑOR PRESIDENTE, proprietari di case, funzionari, esercenti, sfruttatori di casse di mutuo soccorso e di titoli professionali, padroni di case da gioco, di fabbriche di acquavite, postriboli, osterie e giornali sovvenzionati, vivono da parassiti. L’immagine efficace della città dominata dal tiranno proietta una luce inquietante. Tutto è già prevedibile; ciò che accadrà è già annunciato da molti particolari. E se per un istante la natura sembra benigna,”il vento scivolava leggero per la pianura, soffiava dalla città al campo, amabile e familiare…il cielo senza una nuvola brillava splendido” è

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perché si affermi ancor più il contrasto con una realtà umana negativa. Miguel A. ASTURIAS non ama le città perché su di esse vede esercitarsi più concretamente il potere. Quando presenta la figura cadaverica de El SEÑOR PRESIDENTE l’autore elimina da essa ogni tratto distintivo del volto, insistendo, per renderla più negativa, due soli colori, il nero lugubre del vestito e il grigiore della vecchiaia, “Il Presidente vestiva come sempre in stretto lutto:nere le scarpe,nero il vestito, nera la cravatta, nero il cappello che mai lasciava”. La statura crudele del personaggio è pienamente definita, mentre la sua apparente grandezza e onnipotenza sono distrutte sul piano umano con abile procedimento. ASTURIAS offre, infatti, un’immagine miserabile di quest’uomo, la cui forza sta solo nell’aver distrutto le coscienze, nell’essere circondato da assassini che diffondono il terrore in ogni angolo del paese. Nel regno de El SEÑOR PRESIDENTE ogni abitante si alza all’alba di ogni nuovo giorno con un terribile timore, quello di poter incorrere nell’ira del dittatore e quindi con l’umile proposito di farsi il segno della croce perché Dio allontani da lui i cattivi pensieri, le cattive parole e le cattive azioni contro El SEÑOR PRESIDENTE. È rilevante con quanta incisività lo scrittore penetra nella condizione del mondo sottomesso alla dittatura. La serie reboante e vuota dei titoli con i quali l’adulazione servile gratifica grottescamente il dittatore “Benemerito della Patria, Capo del Gran Partito Liberale, Liberale di cuore e Protettore della gioventù studentesca” è gridata da una donna soprannominata significativamente “la Lengua de Vaca”, nel giorno della festa in cui si celebra l’anniversario di uno scampato pericolo da parte del Presidente. Nella descrizione della festa Miguel Ángel ASTURIAS dispiega un’ironia tagliente costruendo con gran maestria un quadro compiutamente negativo. Di contro la riuscitissima immagine di vuota estasi, sta la denuncia di una concreta realtà dolorosa di sfruttamento ad opera dei dissanguatori del popolo. Durante la festa la caduta di un’urna per le scale del palazzo diffonde il terrore tra gli invitati; un fuggi fuggi generale semina confusione e nella confusione anche il dittatore si pone in salvo:”Ciò che nessuno può dire fu per dove e a quale ora si dileguò il Presidente”. La distruzione del personaggio si compie nel capitolo XXXII° della terza parte del romanzo, quando nel bel mezzo di un’orgia il despota perde il controllo e, ubriaco, copre del suo vomito l’ex-favorito. Cara de Ángel lo vede avanzare inebetito. Ora l’uomo freddo e crudele è solo un miserabile fantoccio e Asturias si accanisce contro di lui riuscendo a farlo naufragare nel ributtante. Le abbondanti libagioni mettono a nudo la natura meschina del personaggio e la sua volgarità. Significativo è che egli vomiti parte sull’ex favorito e parte in una bacinella che sullo sfondo presenta lo scudo dello Stato. I personaggi che circondano il despota sono anch’essi negativi. In particolare Miguel Á. ASTURIAS bolla la retorica caricaturale della propaganda politica. In occasione di una delle tante rielezioni “spontanee” de El SEÑOR PRESIDENTE, uno pseudo-poeta ne tesse le lodi in un’osteria definendolo con discorso sconnesso e vuoto, “Superuomo di Nietzche”, “un Super cittadino”, un “Auriga super aulico” che ora e sempre guiderà il carro della patria e prosegue con un’interessante disquisizione intorno a come debba intendersi la democrazia in America, “…la democrazia finì con gli Imperatori e i Re nella vecchia e debole Europa, occorre però riconoscere, e lo riconosciamo, che portata in America tollera un innesto quasi divino dell’essere Superuomo e dà luogo a una nuova forma di governo: la Superdemocrazia”. È interessante notare la minuziosità con cui Miguel Á ASTURIAS studia i suoi personaggi, li usa e li getta via, scaricandoli nell’immondezzaio di cui sono parte. Non si tratta solo di gente povera, moralmente povera, ma dei pilastri di tutte le dittature: esercito, polizia, magistratura. Lo scrittore illustra efficacemente la natura negativa dei militari nell’esercizio del loro ufficio: in caserma l’ufficiale di guardia siede su di una sedia di ferro “in mezzo ad un cerchio di sputi” e prima di rispondere lancia “un getto di saliva fetido di tabacco, con denti fradici”. Neppure il generale Canales, vittima designata del dittatore, sfugge all’azione demolitrice dello scrittore: il suo “atteggiamento marziale” è ridicolizzato e paragonato al passo di un indio che spinge una carretta per andare a vendere galline al mercato. E neppure gli ridà la dignità quando dall’esilio il generale prepara una

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spedizione per abbattere il Presidente. Miguel Á. ASTURIAS non crede nella democraticità dei militari; i loro movimenti non sono che tentativi di sostituirsi a chi sta al potere. Quanto alla polizia, scontata la credulità gratuita e ottusa, lo scrittore sottolinea continuamente nei suoi rappresentanti la mancanza di qualità virili. Se lo sbirro che frusta il Mosco parla con voce di donna, un altro sbirro della polizia segreta, Lucio Vásquez, si esprime con una vocina femminile molle, acuta e contraffatta, tanto che la sua stessa innamorata lo canzona quando egli scambia le grida della Chabelona con quelle di un uomo; la donna gli si rivolge con tono canzonatorio dicendo: Senor! Non senti che è una donna?Secondo voi tutti gli uomini parlano con un accento simile al merlo femmina!” Né meno negativo del Vásquez è l’informatore de El SEÑOR PRESIDENTE, “un uomo minuto, con il volto pallido e il corpo di ballerino”. Nella sua opera di distruzione del personaggio Miguel Ángel ASTURIAS insiste sulla natura venale e vile dei ministri del Signor Presidente. È ancora il Vásquez di scena; davanti alla donna che corteggia egli pensa già a come svignarsela. E il terribile giudice-relatore, nell’intimità di una casa sudicia e piena di scartafacci, dominata da una vecchia serva svanita che gli dà del tu, è un essere ributtante, goloso e sudicio. Le facoltà di osservazione di Asturias sono vivissime e con particolare efficacia egli colora negativamente gli strumenti di un potere disumano e corrotto. Il sistema è denunciato come perversione mostruosa in cui il delitto è l’unico mezzo sicuro per captare la protezione del despota. Al maggiore Farfán in disgrazia, Cara de Angel consiglia di trovare un modo per adulare El SEÑOR PRESIDENTE e il pensiero di entrambi va ai possibili mezzi per raggiungere lo scopo “ commettere un delitto è il mezzo più efficace per guadagnarsi la buona volontà del mandatario; o oltraggiare pubblicamente le persone indifese; o far sentire la superiorità della forza sull’opinione del paese; o arricchirsi dei beni della Nazione”. Il delitto di sangue era l’ideale, la soppressione di una persona costituiva l’adesione più completa del cittadino al SEÑOR PRESIDENTE. Due mesi di prigione per coprire le apparenze e poi il diritto a occupare un posto pubblico dispensato soltanto ai servitori dello Stato. Se stiamo alla documentazione di Rafael Arévalo MARTÍNEZ quanto denunciato da Asturias costituiva una costante di Estrada CABRERA nella politica di assoggettamento dell’individuo. Su un mondo terrorizzato, profondamente corrotto, ma nel quale sopravvivono, tuttavia, anche i valori puri, sui quali si fonda la certezza in un futuro di libertà e di giustizia, incombe la presenza cupa del despota, le notti insonni sono dominate dal rumore metallico delle armi d’instancabili sentinelle che vegliano sul Presidente, misterioso anche nella sua residenza, favolosamente ubiquo: se ne ignorava, infatti, il domicilio, perché abitava secondo la fantasia popolare molte case contemporaneamente, né si sapeva come dormisse, perché si raccontava che da un lato aveva il telefono e nell’altra mano una frustra, e neppure a quale ora andasse a letto perché i suoi amici assicuravano che non dormiva mai. La dimensione favolosa, mitica è sempre presente nella denuncia del male. Una selva inquietante di orecchie mostruose vigila nell’ombra su questo mondo abnorme. Il sottosegretario Cara de Ángel se ne rende conto quando, su comando del Presidente, ma con l’ordine di non farsi scoprire si accinge a favorire la fuga del generale Canales. “Una rete di fili invisibili, più invisibili dei fili del telegrafo” serviva al Presidente per conoscere le segrete cose di ogni cittadino. La mostruosa foresta surreale di orecchie è la rappresentazione più efficace della dittatura. Il mondo allucinante de El SEÑOR PRESIDENTE si costruisce su questi dettagli, in un’atmosfera ossessiva e crudele. 2. Dal 1946 anno di pubblicazione de El SEÑOR PRESIDENTE di Miguel Angel ASTURIAS la narrativa ispano-americana del Novecento si concentra sulla denuncia della dittatura. Tra il 1972 e il 1975 si verifica un’improvvisa fioritura di titoli sul tema in coincidenza con la recrudescenza del fenomeno dittatoriale in America Latina, anche se già dal 1967, anno in cui fu pubblicato Cien años de soledad , il tema della dittatura è ben presente nella narrativa sudamericana. Nel

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capolavoro di Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ esso è riassunto nella figura del colonnello Aureliano Buendía, vittima egli stesso della tirannia del potere. L’autore colombiano si proponeva di presentare il personaggio nella sua condizione di uomo perduto nella solitudine che, giunto al potere, si sarebbe visto condannato al vuoto del suo immenso e strano palazzo. L’aggettivazione di cui G. GARCÍA MÁRQUEZ si serve per qualificare il clima della dittatura è cruda volta alla messa in rilievo del popolo servile verso il potere, del disorientamento delle coscienze che si convincono alla fine della natura divina e onnipotente del despota. Altri scrittori avevano denunciato la condizione di schiavitù dell’uomo di fronte al Sistema ma il premio Nobel colombiano è uno dei primi che si avvale della fantasia, mescolando realtà e irrealtà, confondendo i dati temporali ottenendo così una dimensione temporalmente incommensurabile. Nel 1975 lo scrittore colombiano Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ porta un nuovo contributo al tema pubblicando il tanto atteso e più volte annunciato El otoño del Patriarca con il quale voleva proporre un personaggio fuori dal “cliché” adottando un nuovo tipo di scrittura: periodi di lunga estensione in cui la voce principale narrante si mescola a quelle dei vari protagonisti attivi e passivi della dittatura, monologhi o dialoghi, commenti agli avvenimenti, in un’apparente confusione che in realtà dà al periodo un’efficacia espressiva e un dinamismo straordinari. Ognuna delle parti che compongono il libro inizia facendo riferimento al momento in cui avviene la morte del dittatore per poi ricostruire, con salti indietro nel tempo, o per sommi esempi, la vita dell’uomo che per molto tempo esercitò il potere. Il primo capitolo immette nell’atmosfera attonita, incredula, della scoperta di una morte che la lunga proiezione della dittatura rende inconcepibile; la anticipa un clima divinatorio e superstizioso, dominato dal volo di grifoni che entrano ed escono dalla casa presidenziale: un’atmosfera magica si respira in questa casona presidenziale nella quale regna un tempo immobile, difesa da grosse mura e da un portone blindato che tuttavia cede alla pressione di coloro che, timidi e timorosi, si apprestano a indagare il mistero. Attraverso queste prime note il clima favoloso è già suscitato accentuato anche da una strana sensazione, come se ci si trovasse in un’altra epoca. Nelle grandi stanze di Palazzo c’è un via vai sconcertante di animali. I visitatori entrano nelle stanze dove si muovono liberamente le vacche e finalmente si imbattano nel corpo del dittatore defunto in uniforme di tela senza insegne o riconoscimenti. Il problema che subito pone il ritrovamento del cadavere è quello della verifica della sua identità. Ciò crea un’atmosfera di suspense. Il dubbio intorno alla morte del Patriarca è accentuato dal ricordo di una sua precedente finta morte. Allora non era stata, in verità, che la morte del suo sosia Patricio ARAGONÉS, del quale, in vita, il dittatore si era servito per esercitare una presenza ubiqua e, in morte, per fare strage di quanti esultarono alla notizia e fecero scempio per le strade del cadavere

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che credevano il suo. Con le medesime manifestazioni di giubilo con cui era stata accolta la notizia della sua morte era stata immediatamente festeggiata la sua ricomparsa. Con espressioni tipo “l’Unico e l’Eterno” fu esaltato sui cartelloni inalberati ovunque nella Plaza de Armas, celebrata la sua immortalità e accostato a Dio che risuscitò al terzo giorno dal regno dei morti. Nelle manifestazioni il dittatore era proclamato acquietatore dei terremoti, correttore delle eclissi, degli anni bisestili e di altri errori di Dio. Insomma era celebrato come un essere soprannaturale, circondato da infermi e lebbrosi che da lui attendevano la guarigione. La deificazione del potente, il suo avvicinamento alla figura di Cristo nella sua resurrezione è cruda denuncia del servilismo verso il potere ed è stigmatizzazione della natura aberrante della dittatura che finisce per coinvolgere anche il despota, convinto alla fine della propria natura divina e onnipotente. Le origini del dittatore sono sicure solo per quanto riguarda la madre, Benedictíon ALVARADO, come avviene per i despoti più illustri della storia, rileva Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ con insultante ironia e di nuovo i testi ufficiali del regime mitizzano il fatto, addirittura avvicinandolo alla concezione di Gesù da parte della vergine e attribuiscono alla madre del Presidente il prodigio di averlo concepito senza il concorso del maschio. Il contrasto tra la retorica del regime e la realtà diviene ancora più vivo quando apprendiamo che la madre lo aveva partorito in un androne di un monastero. Monsignor Demetrio ALDOUS, avvocato della Curia nell’intentata causa di santificazione della madre del dittatore, inviato da Roma per indagare sui suoi pretesi miracoli, trova tre atti di nascita diversi del figlio arrivando alla conclusione che era figlio di una prostituta. Fallita l’assurda impresa di farla elevare agli altari della chiesa, il dittatore ne proclama la santità civile rompendo le relazioni col Vaticano, espellendo dal paese preti, frati e monache, espropriando anche i loro beni. L’identificazione più piena del dittatore con Dio, sempre sul piano della parodia e con la finalità di distruggere il personaggio si ha quando, tormentato dalla passione per Manuela SANCHEZ scomparsa durante le eclissi, ordina che le due e cinque del mattino siano le otto per ordine di Dio. È in questo momento che i suoi adulatori lo proclamano “comandante del tempo e depositario della luce”. Lo scrittore insiste nella distruzione del suo personaggio non solo quando lo presenta nelle dimensioni di una megalomane pretesa di divinità ma anche attraverso una molteplicità di particolari, tra cui quello dell’innamoramento in età più che avanzata e la nomina del figlio neonato a generale di divisione. É anche un tipo di despota di vecchio stampo dotato di astuzia e di un fiuto straordinari. Quando le truppe inglesi lo avevano messo sul “trono”, egli non sapeva leggere né scrivere e firmava con l’impronta del pollice. Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ insiste nella descrizione di un’umanità meschina. Preso nelle sue stesse reti d’irrealtà e propaganda, il Patriarca crede nell’amore del popolo che opprime, ma al tempo stesso mantiene un’attenzione vigile verso i nemici che elimina senza pietà compreso Rodrigo AGUILAR, compagno di tutta la vita. Giunto alla fine della sua esistenza, tormentato dalla solitudine e dalla noia, dopo gli ultimi sprazzi erotici con le prostitute vestite da collegiali, il Patriarca sopravvive attraverso il “vicio solitario” del potere. Finisce per essere un povero individuo spregevole, vittima della sua solitudine e del suo abietto egoismo. Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ individua nella classe privilegiata della borghesia, nella Chiesa e nei “gringos” la responsabilità del ripetersi del fenomeno della dittatura nel mondo latino-americano. Come Miguel Ángel ÁSTURIAS, ALEJO CARPENTIER, AUGUSTO ROA BASTOS, anche lo scrittore colombiano vede nella presenza di forti interessi stranieri una delle cause del sorgere della dittatura. Il motivo anti-yankee, caratteristico del romanzo ispano-americano, risponde a una reazione naturale e inevitabile di fronte all’invadenza degli Stati Uniti, sostituitisi alle potenze europee. Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ denuncia la dipendenza assoluta del mondo latino-americano dal potere statunitense. L’arbitrio del potere si esercita in tanti modi sul tessuto della nazione: nella violenza con cui “l’uomo forte” elimina i rivali per restare unico arbitro della situazione, nella mancanza di umanità, di pietà con cui governa i suoi sudditi, nella strumentalizzazione e

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nell’asservimento dei mezzi d’informazione di massa, stampa, radio, televisione, Internet, tanto che il Patriarca diviene autore e lettore “delle sue stesse artefatte notizie”. 3.

Un quarto di secolo dopo l’incompiuto progetto ideato insieme al messicano Carlos FUENTES, anche il peruano Mario VARGAS LLOSA pubblica il “suo” romanzo sul tema della dittatura come se volesse rispettare il vecchio contratto firmato in un pub londinese. La Fiesta del CHIVO (2000) é ispirata alla vita di Rafael LEONIDAS TRUJILLO, il gran ” Benefattore, il Capo, il Generalissimo e Padre de la Patria Nueva”, che regnò su Santo-Domingo per tre decenni di selvaggia tirannia e di terrore assoluto. Un incubo interminabile che comincia nel 1930 quando questo ex sicario s’impossessa del potere

manipolando le operazioni di voto. Il suo regno termina il 30 maggio 1961 quando un commando armato dalla CIA gli tende un agguato mortale su di una stradina deserta vicino al mare uccidendolo come un cane. Il caso volle che VARGAS LLOSA nel suo appartamento parigino parlava della dittatura con amici e quello stesso giorno il presidente venezuelano Hugo CHAVEZ fu destituito in seguito ad uno strano colpo di stato ordito da una parte dell’esercito nel corso di una manifestazione popolare. La storia sembra coincidere con il libro che lo scrittore peruano ha in mente e si rallegra della caduta dell’apprendista “caudillo” anche se legittimamente eletto. Il romanzo comincia con il ritorno a Santo-Domingo di Urania, una brillante avvocatessa newyorchese, dopo trent’anni di assenza. Perché non ha dato sue notizie alla famiglia rimasta lì per tutti questi anni? Perché prova tanto odio verso suo padre ormai vecchio, afono e paralizzato? La risposta è data nel corso del romanzo che ci immerge nell’inferno della dittatura trujillista e il ritorno di Urania CABRAL, figlia di un alto dignitario e uomo forte del regime, il senatore Agustin CABRAL, ravviva il passato. L’autore ci fa condividere gli ultimi istanti del regno del Generalissimo e nello stesso tempo descrive in dettaglio le condizioni dell’esercizio del potere, la realizzazione dell’attentato, la sua repressione e il lento ritorno alla repubblica su basi un po’ più democratiche. In questa parte ben documentata, non c’è romanzo, tutti i nomi sono reali, i personaggi e le situazioni sono analizzati con precisione. Mario VARGAS LLOSA ha la capacità di raccontarci la realtà con passione e precisione dal punto di vista di differenti personaggi contemporanei dei fatti o non, sguardi che si sovrappongono come gli strati di un millefoglie. Il lettore segue il dittatore, i suoi ministri e la sua famiglia nel loro sfarzo, nella corruzione di un potere assoluto, pervertito persino nella miserabile sfera sessuale. Vive ai lati dei cospiratori che hanno pilotato il suo assassinio e accompagna con agitazione le conseguenze dell’attentato scoprendo i fatti come se fossero raccontati oggi sulla stampa. È, in effetti, tutta una storia che sfila davanti ai nostri occhi: il massacro di Parsley nel 1937 che vedrà la morte di più di venti mila haitiani, le relazioni tese e difficili con gli Stati Uniti, la fallita invasione ad opera di Cuba il 14 giugno 1959, il tentativo di assassinare il presidente venezuelano Romolo BETANCOURT, il terrore alimentato dalla SIM, la polizia politica segreta la cui crudeltà culminerà con l’assassinio su di una strada nel novembre 1960 delle tre sorelle dissidenti Mirabal. Leggendo il romanzo La Fiesta del CHIVO ci accorgiamo di essere nella dittatura più malvagia e crudele. Tutti i meccanismi della dittatura sono esposti compreso il culto della personalità. Farsi chiamare il “Benefattore”, dare a sua madre il ridicolo titolo di “Sublime Matrona”, a sua moglie quello

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di “Onorabilisssima donna” fa toccare gli estremi della mitomania. Quanto ai collaboratori più prossimi di Trujillo, essi hanno diritto a soprannomi simpatici quali “Caboche (zucca)” per il presidente del Senato,”Ivrogne constitutionnaliste (ubriacone costituzionale)” per il senatore Chirinos, per non parlare di suo figlio, generale a sette anni e Capo di stato maggiore a dodici. È la chiara ostentazione del regime. Mario VARGAS LLOSA descrive con il romanzo un momento chiave della storia della Repubblica Domenicana. Il funzionamento del regime di Trujillo, archetipo di tutte le dittature sanguinarie, è ne La Fiesta del CHIVO analizzato minuziosamente e con maestria senza voli fantastici ma con aderenza piena alla storia. I temi sono ricchi e vari: la vigliaccheria, il coraggio, la condizione della donna, la nostalgia, la libertà, la follia, il potere, la paura, la manipolazione, l’umiliazione, la vendetta. L’autore peruano fortemente impegnato si è ben documentato per offrirci un ritratto clinico di un regime blindato ma arrugginito, sul punto di essere demolito in ogni momento. Un capitolo su tre si svolge al passato: esso racconta l’ultima giornata di TRUJILLO, dal suo risveglio fino al suo assassinio, sulla strada che lo portava al palazzo dove lo aspettava una ragazza. Questi capitoli sono i più gradevoli, l’autore descrive l’uomo e il suo entourage e in particolare l’arrogante e superbo Rasputín Johnny ABBES GARCÍA, Direttore de El Servicio de Inteligencia, il cane da guardia del Capo, il boia del regime. ABBES GARCÍA è sicuramente uno dei più stravaganti esempi del potere, colui che vivendo in Messico protetto dal leader sindacalista e politico di sinistra Vicente LOMBARDO TOLEDANO comunicava informazioni segrete al Benefattore e Padre de la Patria Nueva su fatti e comportamenti relativi a persone dominicane esiliate in Messico e America Centrale. Più tardi venderà, dopo la morte di Trujillo, i suoi servizi a Papa Doc dittatore di Haiti prima di complottare contro di lui: gli agenti di Papa Doc faranno irruzione a casa sua e in dieci minuti uccideranno lui, sua moglie, i suoi figli, i suoi cani, le galline e i suoi due domestici prima di incendiare la casa. Un capitolo è scritto all’imperfetto, tempo della lentezza e dell’attesa e descrive l’introspezione degli assassini di TRUJILLO mentre aspettano la “bestia” sulla strada. Mario VARGAS LLOSA non li ha inventati, erano vicini a Trujillo, tutti avevano le mani sporche. Come quel militare che per superare la prova di lealtà a TRUJILLO è costretto a uccidere suo cognato prima di recarsi al bordello per incontrare Juanito BALADEUR che meglio di uno psichiatra gli avrebbe suggerito come avere un maggiore equilibrio mentale, serenità e sangue freddo, doti importanti per il suo lavoro. Quali sono i metodi dell’ex satrapo di Santo-Domingo? Un abile dosaggio di demagogia e di perfidia, di finzione e di spionaggio, di corruzione e di repressione. Ricchissimo, totalmente paranoico, TRUJILLO non è soltanto quel “caprone fornicatore” che Mario VARGAS LLOSA ritrae in modo goyesco e felliniano. Fu uno stratega temibile, feroce che creò un partito unico nella Repubblica dominicana, confiscò quasi tutte le terre dell’isola, costituì un impero zuccheriero gigantesco, assoldando la piccola borghesia locale. Ordinò il massacro di venti mila haitiani, armò la sua guardia del corpo con manganelli chiodati, manipolò subdolamente la stampa, strinse rapporti disonesti con dignitari della Chiesa cattolica, finanziò l’attentato contro Rómulo BETANCOURT e riuscì a rendere, ispirandosi a principi che esaltavano l’astuzia e la mancanza di ogni scrupolo, tutti i dominicani complici di un sistema demoniaco e utilitaristico. “ L’orrore diventa mito” scrive Mario VARGAS LLOSA prima di puntare la sua

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attenzione sugli ultimi giorni di Trujillo, quando giovani congiurati, vicini al regime, decidono di affrettare la fine del “Borgia dei Caraibi”. Quella notte, il figlio del dittatore Ramfís sta facendo bisbocce a Parigi al Lido. Questo fallito isterico che si fa vedere al volante delle sue Mercedes o mentre invita ragazze dell’alta borghesia americana sul suo panfili privato e che gioca a fare il Rambo dietro i suoi grossi occhiali Ray-Ban, sarà lui che si incaricherà di punire gli assassini di suo padre con la morte dopo una selvaggia tortura. In questo infernale romanzo-testimonianza, Mario VARGAS LLOSA mette in mostra la raccapricciante mostruosità di cui si è nutrita la dittatura di Rafael LEONIDAS TRUJILLO, di colui che rese la sfortunata Repubblica dominicana specchio della sua grave demenza.

4. Con la pubblicazione di Conversación en La Catedral , suo terzo libro, Mario VARGAS LLOSA poco più che trentenne conclude il primo periodo della sua intensa attività di narratore. Era la fine del 1969 e il libro, alla cui scrittura, in prevalenza a Londra, dedicò tre anni della sua vita, uscì a Barcellona in due volumi per le edizioni Seix Barral. Arrivava dopo due significativi romanzi La ciudad y los perros (1963) e La Casa verde (1966) e dopo alcuni testi brevi, Los Jefes (1959) e Los cachorros (1967). I due primi romanzi, usciti quando lui non era ancora trentenne, presentavano tematiche e ambientazioni molto diverse e strutture narrative sorprendenti, innovative che richiedevano il coinvolgimento e la partecipazione attenta del lettore. Una nuova concezione della lettura che implicava un “lettore complice “. Dopo aver affrontato nel primo romanzo l’ambiente urbano e la

complessa stratificazione sociale del Perù attraverso il microcosmo del collegio militare Leoncio Prado di Lima e nel secondo zone e personaggi appartenenti alla cittadina di Piura e alla selva amazzonica peruviana, nel suo terzo romanzo Conversación en La Catedral (1969) Vargas LLOSA decide di confrontarsi con un nuovo tema. Il romanzo ricrea il clima di oppressione di Manuel Á. ODRÍA (1948-1956) e viene così a integrare quell’importante filone della narrativa ispano-americana conosciuto come romanzo della dittatura. La dittatura del generale Odria che perseguì spietatamente i partiti di sinistra, l’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) fondato da Victor Raúl HAYA de la TORRE e il comunismo, sequestrò e esiliò molti scrittori di quella generazione che trovarono asilo in altre nazioni perché non c’era per loro altro modo di vivere che in un clima di democrazia e libertà. Tuttavia , in un ambiente tanto sfavorevole, alcuni giovani della generazione del ’50 restarono nel loro paese, rinunciarono all’impegno di avventurarsi nella creazione di una nuova letteratura che proponesse nuovi e sconosciuti sforzi stilistici e tecnici del linguaggio, in sintonia con una nuova sensibilità o visione iniziando un nuovo e nazionale processo culturale. La dittatura di Manuel Á. ODRÍA dal 1948 al 1956 spinse, per reazione, i cambiamenti nella decade degli anni ’50 non solo in ambito intellettuale e politico ma anche in quello sociale. La città di Lima si stava urbanizzando sempre più sulla base di un processo d’industrializzazione e di massiccia migrazione andina. Il forte impatto migratorio intorno alla metà del XX° secolo è alla base di un decisivo cambiamento che investì Lima tanto che passerà dall’essere conosciuta come “ciudad jardín” all’essere percepita dalle alte classi medie e dall’oligarchia “Lima e l horrible” (titolo di un breve scritto satirico di Sebastian Salazar BONDY e di un capitolo del testo autobiografico El pez en el agua di M.V.LL.). Questo esodo dall’interno verso le città è chiaramente denominato “cholifivación”, fenomeno che è oggetto della conversazione tra don Fermín ZAVALA e CAYO BERMÚDEZ sull’iscrizione di suo figlio Santiago Zavala all’Università San Marcos di Lima (M.V.LLOSA, Conversación en La Catedral, testo tradotto in italiano per i tipi Einaudi, ET, Torino, 1998, Libro secondo, Capitolo IV): teme che i “cholos “ influenzino negativamente le belle maniere del figlio. È per questo motivo che don Fermín non si

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capacita della decisione del figlio di voler entrare in quel “ginepraio” di San Marcos invece di iscriversi alla Cattolica. Don Fermín e anche sua moglie donna Zoila non accettano la scelta del figlio Santiago non solo e non tanto perché al San Marcos si fa della politica sovversiva e quindi pericolosa ma anche perché l’Università era caduta di prestigio da quando era frequentata da “una bolgia di tipi mezzosangue, una choleria infetta” (p.303). Mario VARGAS LLOSA sosteneva che quella era un’epoca di problemi politici atroci, di dittature soprattutto di natura militare, di chiari segni in tutto il Continente sudamericano di sopraffazioni e di soprusi. Le democrazie erano molto misere e fragili e davano l’impressione di essere sul punto di sfasciarsi a causa di un golpe militare. Le società latino-americane erano logorate e i contrasti tra ricchezza e povertà, tra cultura e ignoranza, tra modernità e conservazione finivano per accrescere le disuguaglianze sociali e ridurre ancor di più per le nuove generazioni le già poche possibilità d’inserimento nei meccanismi produttivi. Sono questi gli anni in cui il credo rivoluzionario sartriano cominciò a diffondersi anche nel mondo sudamericano e nei giovani universitari del San Marcos tra cui anche Mario VARGAS LLOSA (i suoi amici e compagni lo chiamavano ironicamente il sartriano valiente) che cominciò insieme ad altri suoi colleghi a far parte di un gruppo di studio per fare ricerche sui problemi della censura prima di entrare con lo pseudonimo di Alberto nella cellula marxista La CAHUIDE. Con l’esilio e la chiusura dell’APRA e del partito comunista durante la dittatura di ODRÍA, la sinistra peruana restò paralizzata e disintegrata. Soltanto dal 1956, con la caduta del governo militare, nel Perù comincia una nuova tappa, una nuova sinistra in cui il Partito comunista non era l’unico spazio chiuso d’idee progressiste. L’APRA elaborò una nuova teoria, il trotzkismo acquisì più rilevanza e una più radicale sinistra impose nuove e più incisive azioni politiche che portarono nel 1959 al trionfo della rivoluzione cubana. Il successo di Fidel Castro ebbe un enorme significato per gli intellettuali e scrittori, non solo peruani, che rapidamente e quasi unanimemente manifestarono le loro simpatie per il processo cubano che si trasformò nel paradigma politico dell’intero Continente sudamericano. A prova di quest’atmosfera sono da segnalare le numerose guerriglie urbane condotte nelle città del Perù dal MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) e dall’ELN (Ejercito de Liberatión Nacional). Questo movimentato periodo si concluse nel 1967 con la morte del Che Guevara in Bolivia, la generazione del ’50 fu una generazione intellettualmente vicina alla sinistra con un nemico comune da contrastare, la dittatura militare.

“Dalla porta de La Crónica Santiago guarda l’avenida Tacna, senza amore: automobili, edifici disuguali e scoloriti, schelitri di pubblicità luminosa che ondeggiano nella nebbiolina, il mezzogiorno grigio. In que momento si era fottuto il Perù” (Conversazione.., op.cit., Cap.1, p.5). Così comincia Conversación en La Catedral il romanzo che il Nobel peruano dice di essere l’unico testo che avrebbe salvato dall’incendio. Santiago nel centro di Lima manifesta un cupo stato d’animo che manterrà per

tutto il racconto. La Catedral non è un luogo sacro d’elevazione e di purificazione ma un “barcito” misero e decadente nel centro di Lima dove ha luogo una lunga conversazione tra Santiago Zavala e Ambrosio, l’ex autista di colore del padre e che diventa il simbolo di un mondo dannato, di un antimondo. Questa conversazione è l’asse centrale sul quale ruotano altre e la trama stessa del romanzo. Tutte unite, con la tecnica dei vasi comunicanti, daranno forma a un universo oscuro e

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privo di speranza. Ambrosio lavorava nel canile municipale, dove Santiago era andato a riprendere la sua mascotte, il cagnolino Batuque, che due accalappiacani avevano preso credendolo randagio. In questa conversazione di quattro ore Santiago vuole sapere se suo padre don Fermín Zavala ordinò a Ambrosio di uccidere la “Musa”, l’ex amante di don Cayo BERM ÚDEZ , braccio destro e ministro del governo del dittatore ODRÍA. Gli altri dialoghi sono quelli che sostengono Ambrosio e don Fermín e quelli di Santiago con il suo collega a La Crónica Carlos. I dialoghi, i tempi e il narratore onnisciente si sovrappongono e si intercalano in tutta la narrazione. Santiago, fedele al suo lavoro di giornalista, vorrebbe sapere se Ambrosio è il vero assassino di La Musa, se la donna era a conoscenza della relazione omosessuale intercorsa tra lui e suo padre e se la stessa conosceva don Fermín con lo pseudonimo di “Bola de oro”. La Musa, un tempo cantante e attrice notturna, ricattava don Fermín, minacciandolo di rivelare segreti delle notti di festa che si organizzavano nella casetta di San Miguel quando lei era l’amante dell’uomo forte e Ministro dell’Interno del regime di MANUEL A. ODRÍA, Cayo BERM ÚDEZ. Santiago vuole sapere la verità per quanto cruda e orribile possa essere e s’impegna a tenere segreta la sua confessione. La vita di Santiago è di un giovane limeno di classe sociale alta e agiata. Finito il Collegio, entra all’Università di San Marcos con le sue sole forze, studia il marxismo, conosce Jacobo e Aída, diventa comunista e con questi frequenta la cellula sovversiva la CAHUIDE senza provare vergogna delle sue origini. Santiago, il “supersabio”, come lo chiamano abitualmente in seno alla sua famiglia, delude i suoi genitori che mai desistono dal recuperarlo. Don Fermín Zavala era senatore della dittatura dalla quale riceveva benefici per i suoi laboratori farmaceutici, per le medicine che forniva alle forze armate e per le sue imprese di costruzione. L’aristocrazia da dove proviene il padre di Santiago detestava per tradizione i militari, tuttavia don Fermín Zavala non rinuncia a collaborare con il regime traendo notevoli vantaggi economici dalla situazione. L’avventura politica di Santiago finì quando suo padre lo liberò dal carcere grazie alle sue autorevoli influenze. Cayo BERM ÚDEZ era a conoscenza dell’organizzazione comunista la CAHUIDE e informato dai suoi sbirri infiltrati dello sciopero dei tranvieri sostenuto e appoggiato dai movimenti studenteschi operanti presso l’Università San Marcos. I telefoni di casa della famiglia Zavala erano intercettati perché BERM ÚDEZ sospettava che don Fermín facesse parte attiva di una cospirazione volta a rovesciare ODRÍA e il suo governo. Per questa sua situazione familiare problematica Santiago non si iscrisse al Partito Comunista ma lavorò come giornalista nel giornale La Crónica. Non frequentò la sua famiglia e non capì il motivo che spingeva suo padre a tenersi nascosto per i sospetti che aveva suscitato nel regime. Per Santiago è un periodo, questo, dominato da un modo di vivere assolutamente libero che culmina con l’allontanamento definitivo da ogni ideologia politica e con il suo matrimonio con Ana, un’infermiera che Santiago conobbe nell’ospedale in cui era stato ricoverato in seguito a un incidente automobilistico. La madre, la signora Zoila, non ha mai approvato quest’unione e al primo incontro con gli sposini di ritorno dal viaggio di nozze rivolgendosi ad Ana come a una huachafita la insultò definendola “piccola zotica”. Santiago capisce che nulla è cambiato nel rapporto con la sua famiglia e che un suo riavvicinamento è pressoché vano quanto impossibile. Molte cose lo tenevano lontano dalla sua famiglia e dalla sua classe sociale e arrivò a decidere di non partecipare al matrimonio di sua sorella più piccola “la Teté” e a rifiutare, orgoglioso, l’eredità che avrebbe ricevuto alla morte del padre. Ora per quanto variegata possa risultare, Conversación en La Catedral marca la prima e sincera incursione dello scrittore peruano nel campo del romanzo politico che più avanti sarà una presenza costante nella sua opera. Questo terzo testo è una tormentata e severa indagine morale di un paese costretto a vivere sotto dittatura che segnò profondamente la gioventù e l’adolescenza dell’autore e definì meglio la sua formazione intellettuale. Il virtuosismo tecnico che si manifesta in questo ambito narrativo con le sue innumerevoli avventure e peripezie, più visibile soprattutto nelle transizioni del tempo e dello spazio presenta al lettore un apparente caos che va spiegandosi gradualmente fino a scoprire che questa vertiginosa dispersione ha un ordine, una simmetria, una

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disposizione rigorosa e come tutti i labirinti, un’uscita che dà senso all’insieme testuale. C’è comunque in questo romanzo apparentemente frammentario un chiaro malessere esistenziale incarnato in Zavalita, il giornalista consumato dalla sua “mala consciencia” (nel senso che Jean-Paul SARTRE dà a questa espressione) che gli impedisce di riconoscersi in ciò che dice o scrive: sa di non essere un ribelle autentico e di non sapersi staccare dai legami che lo uniscono alla piccola borghesia peruana. Il romanzo tocca tutti i livelli della realtà sociale, dagli alti circoli del potere fino ai margini dove sopravvivono le guardie del corpo, gli autisti, i domestici, le prostitute, i frequentatori dei postriboli. Questo sotto bosco di gente emarginata e sfiduciata appare a volte come ciò che resta della potenziale clientela del regime. Un sistema di vasi comunicanti permette al narratore di spostarsi su distinti livelli spazio-temporali con estrema fluidità come se la realtà fosse un unico e continuo piano. Un ritorno caratteristico di una “démarche” che fu usata diffusamente ne La casa verde (e in modo molto esplorativo ne La ciudad y los perros) e che raggiunge il suo apogeo in questo terzo e faticoso lavoro; una strategia narrativa che possiamo chiamare “diálogo telescópico “ che consiste nell’inserire in una conversazione di due personaggi la voce di un terzo o quarto interlocutore che comincia a dialogare con i primi due attori facendo riferimento a più situazioni che non modificano sostanzialmente l’istanza narrativa centrale.

Conversación en La Catedral raggiunge il punto più alto del procedimento di dialoghi telescopici al punto che in certi momenti gli interlocutori simultanei sono in numero di diciotto. Se a questo si aggiungono altre tecniche quali l’uso del dialogo interiore, i toni e i segni verbali di ogni personaggio o sequenza (niño, don e altri..), la composizione per cerchi concentrici che si allargano, si comprimono, si sovrappongono o s’incrociano, allora si capirà perché il testo produce nel lettore un effetto ipnotico. Oltre alla forza torrenziale dell’azione, l’opera si distingue per la persistente ansia d’introspezione e di analisi cui si sottomettono i comportamenti dei personaggi creando così un perfetto equilibrio tra la veemenza e la lucidità. Il male che si nasconde dentro le viscere del Sistema ha contaminato irrimediabilmente il paese intero e non c’é uscita possibile. Il tetro inizio del romanzo riassume mirabilmente la realtà della situazione.

Conversación en La Catedral segnala il momento di massima espansione dello sforzo di VARGAS LLOSA nella creazione di un universo fittizio capace di rivaleggiare in complessità e ricchezza con il mondo reale da cui emana. Senza dubbio, l’insieme di queste tre prime opere presenta un definitivo profilo estetico che può chiamarsi realista. L’autore non vuole essere un realista d’imitazione, un semplice testimone e critico delle contraddizioni sociali, ma uno sperimentatore del linguaggio creativo per rappresentare in modo artistico la realtà e ciò marca la sua distanza dal realismo sociale. Mario VARGAS LLOSA non si accontentò di fare del documentalismo né di denunciare ciò che non funzionava dal punto di vista politico-sociale nella sua epoca. Ciò spiega come ne Conversación en La Catedral non leggiamo un ritratto ipertrofico del dittatore come simbolo mostruoso del potere assoluto. Il generale MANUEL A. ODRÍA appare solamente in una riga del romanzo “si affacciò al balcone del Palazzo e uscì il Presidente” ( Libro II, Capitolo II), e il suo efficace controllo del paese non porta a una mitizzazione delle sue facoltà individuali, ma è il frutto del buon

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funzionamento di un’oscura e servile galleria di servizievoli intermediari esecutori degli ordini impartiti dalla figura cinica, corrotta e abietta di don Cayo BERM ÚDEZ o CAYO MIERDA come viene spesso soprannominato a scherno da Queta nel romanzo, vero cervello della repressione politica della dittatura di ODRÍA. Lui e suoi scagnozzi e, non il dittatore, sono i veri protagonisti del romanzo che è una sorta di ritratto sociale, di degrado morale di questa fauna umana durante i lunghi e tragici anni di governo di MANUEL A. ODRÍA. Cayo BERM ÚDEZ o CAYO MIERDA era nato a Chincha dove si occupava della tenuta La Flor dopo la morte del padre noto col nomignolo di El Condor poiché era uno strozzino che si era arricchito durante il governo Benavides rivendendo le abitazioni di molti apristi incarcerati o deportati. Rapisce Rosa, la figlia della lattaia Túmula, una ragazza bruttina che soleva frustare un asino vendendo zucche da casa a casa (così racconta Ambrosio), per portarsela a Lima, poi l’abbandona per la sua sciatta presenza. Nominato Ministro dell’Interno Cayo lascia il suo mondo provinciale e represso per iniziare una brillante carriera costellata di successi. Si trasferisce nella casetta di San Miguel, un luogo di feste, uno spazio di eccessi frequentato spesso da amici politici, da personalità del regime e da ragazze di facili costumi. Ha una relazione sessuale e convive con Hortensia, la Musa, una prostituta, ex attrice, ex ballerina dedita all’uso di alcol e di droghe e anche lesbica. BERM ÚDEZ sale così nella scala sociale nascondendo un indecoroso passato di uomo socialmente discriminato, “chiquito, cara curtida y pelo amarillento “, descritto da Queta come “ un impotente lleno de odio, un asqueroso “, tanto piccolo che la parte anteriore del suo sterno quasi toccava quella posteriore. Cayo BERM ÚDEZ è un personaggio strano e inquietante. Piuttosto taciturno non salutava mai e ostentava impegni che non gli permettevano nemmeno di pulirsi le sue sudice unghie. La rivoluzione di Arequipa del dicembre 1955 che Cayo BERM ÚDEZ non riuscì a controllare segnò la sua fine e quella del governo. Il generale ODRÍA fu costretto a destituire il suo Ministro dell’Interno e a indire nuove elezioni generali nel 1956 alle quali il generale non prese parte e che vedranno la vittoria dell’ex Presidente MANUEL PRADO UGATECHE. Destituito, Cayo BERM ÚDEZ andò in esilio trovando asilo in un paese straniero e vi rimase fino a quando si calmarono le acque. A causa dei suddetti eventi, La Musa, sua ex amante, è abbandonata al suo destino, attraversa un periodo di povertà piuttosto lungo, riprende la sua professione di prostituta nei bordelli più noti di Lima e anche nelle strade dove trova la morte ormai indigente. Ritornato a Lima Cayo BERM ÚDEZ si lega a Ivonne la tenutaria di un noto postribolo limeno. Con l’allontanamento da Lima ha evitato i guai giudiziari ma non è certo immune da responsabilità morali. Anche con il governo Prado continuò a manipolare il sistema e a basarsi sulla corruzione. Don Fermín vive ancora grazie alle forniture militari e farmaceutiche al governo e la casetta di San Miguel serve a CAYO per cattivarsi gli amici politici fornendo loro facili incontri sessuali. Nel frattempo la repressione di gruppi studenteschi e di protesta aumenta la confusione e il disagio sociale. L’orizzonte politico sperimenta il degrado e i personaggi sono vittime di questo regno dell’iniquità. Il personaggio di Cayo BERM ÚDEZ o CAYO MIERDA è chiaramente ispirato ad Alejandro ESPARZA Zañartu Ministro dell’Interno nel governo di MANUEL A. ODRÍA, noto uomo politico che durante gli otto anni del dittatore, conosciuti come “ el Ochenio” riuscì corrompendo, terrorizzando, imprigionando, torturando gli avversari, a cancellare ogni intenzione di rivolta contro il regime. ESPARZA da semplice commerciante di vini era arrivato a ricoprire il prestigioso ruolo di Ministro della Sicurezza grazie all’equivoca amicizia con gerarchi del regime. Si scoprì un talento particolare per l’imbroglio e la repressione politica. Oggi, in pensione, vive nella sua casa a Chaclacayo dedito all’agricoltura e alla filantropia.

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È conosciuto pure come il Wladimiro MONTESINOS TORRES di ODRÍA, il Rasputín di ODRÍA, una figura falsa e immorale, simbolo degli errori della dittatura. Durante la dittatura di ODRÍA aveva il compito come l’ex assessore, Direttore del SIN (Servicio de Inteligencia Nacional) e assistente del Presidente Alberto FUJIMORI 1, di indebolire in tutti i modi e con tutti i mezzi leciti e illeciti la resistenza dell’opposizione con il controllo dei mezzi di comunicazione, con una fitta rete di spionaggio e un’organizzazione capillare degli enti statali. Mario VARGAS LLOSA ha raccontato nel suo libro di memorie El pez en el agua (1993) che il suo incontro con ESPARZA ZAñartu, all’epoca Direttore ministeriale e cervello della repressione politica di ODRÍA, gli diede l’idea di scrivere un romanzo sulla dittatura. In quell’epoca lo scrittore frequentava per sua scelta l’Università San Marcos e partecipava con impegno ai circoli di studio che il partito comunista, con il nome di CAHUIDE, organizzava clandestinamente al fine di riorganizzare le sue rappresentanze politiche sul territorio. L’episodio cui l’autore peruano fa riferimento avviene nel 1954: VARGAS LLOSA e altri suoi amici-compagni chiesero di essere ricevuti da ESPARZA ZAñartu per chiedergli di poter portare materassi e coperte agli studenti-compagni chiusi in carcere dentro celle piccole, umide e affollate. Ciò che colpì subito VARGAS LLOSA fu il suo sguardo severo, indifferente, l’aspetto rozzo. Non si alzò, difatti, per salutare e non li fece sedere. VARGAS non può dimenticare il suo volto incartapecorito e il suo sguardo annoiato. Era un omino piuttosto sgraziato, di quaranta o cinquant’anni, modestamente vestito, il corpo striminzito, a petto scoperto, un uomo insignificante e senza qualità che alle motivazioni della loro presenza in quel luogo non aprì bocca, sembrava che avesse la testa altrove e che scrutasse quei giovani come si fa con gli insetti. Poi, infine, con la stessa espressione di fastidio misto a sgarbo, aprì un tiretto da cui estrasse dei fogli e dei numeri del giornale clandestino la CAHUIDE e cominciò a recitare un sermone, assolutamente inaccettabile e risibile, con il quale sottolineava che l’Università era un luogo di studio e di saperi e non di preparazione alla rivoluzione comunista. Mario VARGAS LLOSA ricorda di essere rimasto sbalordito nell’ascoltarlo. Aveva una voce monotona, povertà di linguaggio da fare spavento con una profusione di errori propria di chi non ha mai letto un solo libro dopo gli studi del collegio. Insomma si toccò con mano la discrepanza tra l’idea che il Perù si faceva dell’oscuro responsabile di tanti crimini, censure, dilazioni, imprigionamenti e la mediocrità di quest’uomo che nascondeva dietro un modo di presentarsi severo e altero tutta la meschinità e la rozzezza di un individuo servile per calcolo e interesse personali. Ne Conversación en La Catedral Cayo BERM ÚDEZ o CAYO MIERDA é chiaramente identificabile con ESPARZA Zañartu, ma nella fiction é originario di Chincha e il suo compagno di scuola e amico d’infanzia che lo raccomanda a ODRÍA è il colonnello Espina, alias il “serrano” (il montanaro), personaggio ispirato alla figura storica del generale Zenón NORIEGA. Nel testo vargasllosiano è riproposto nel Libro III, Capitolo IV, l’episodio storico dei giorni 21-22-23 dicembre 1955 nei quali la città di Arequipa fu al centro di una gigantesca manifestazione in difesa della libertà e della democrazia, repressa nel sangue, contro la dittatura di A.ODRÍA ma che ebbe come inevitabili conseguenze non solo l’accelerazione della crisi del governo che stava frantumandosi, la caduta-dimissione del Ministro dell’Interno, Cayo BERM ÚDEZ/ Alejandro ESPARZA Zañartu ma soprattutto la fine della dittatura stessa con la convocazione di nuove elezioni generali che si svolgeranno nel 1956 con l’obiettivo di dare al Perù un nuovo ordine di giustizia sociale e di sviluppo.

1 Sui dieci anni della dittatura FUJIMORI-MONTESINOS (1990-2000) tra i più neri e drammatici nella storia del Sudamerica e di tutto il Perù, si rimanda alla lettura sul sito www.webiamo.it del mio commento all’ultimo romanzo-denuncia del Nobel peruano per la letteratura (2010), Mario VARGAS LLOSA, da quattro mesi presente nelle migliori librerie spagnole e sudamericane, dal titolo CINCO ESQUINAS.

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Già nel giugno del 1950 era esploso a Arequipa uno sciopero di studenti che si estese all’Università e alla città con la conseguente e selvaggia repressione da parte delle autorità governative. Il 14 giugno l’esercito entrò nella città di Arequipa conquistandola strada per strada. Due giovani arequipeni che erano andati a parlamentare furono fucilati e il governo incolpò della rivolta la Liga Nacional Demócratica di Francisco MOSTAJO. Il generale Ernesto MONTAGNE, riconosciuto come il principale oppositore, fu imprigionato e confinato. ODRÍA rimase così come unico candidato e vincitore delle elezioni che furono un’autentica farsa. La rivolta del dicembre 1955 condotta da un’opposizione più determinata e da una mobilitazione civica più diffusa era stata anticipata verso la metà del 1955 da un manifesto intitolato Invocación a la Ciudadanía, una sorta di documento preciso e conciso con il quale si chiedeva al governo la deroga della Legge di sicurezza interna della Repubblica, la riforma dello statuto che regolava lo svolgimento delle elezioni e l’amnistia politica generale. A partire da questa richiesta di cambiamenti, un gruppo di cittadini organizzò la Coalición Nacional e invocò per il 21 dicembre una riunione da tenersi nel Teatro Municipal di Arequipa. La contro-operazione fu progettata a Lima dal Ministro dell’Interno don Cayo BERM ÚDEZ/ Alejandro ESPARZA Zañartu e, sul posto, Chino MOLINA si era impegnato ad attuarla anche se si rendeva conto della pericolosità dell’azione di contenimento data l’esiguità degli uomini impegnati nel difficile intervento. Era stata scelta la cittadina di Arequipas perché la rivoluzione di ODRÍA era stata fatta in quella località. Si voleva dimostrare al paese che Arequipa era odriista e che il popolo di Arequipa impediva il raduno della Coalición Nacional. L’opposizione era così ridicolizzata e il partito al governo avrebbe avuto via libera alle imminenti elezioni generali del 1956. Non tutti però erano convinti del successo dell’operazione. La confusione serpeggiava e il problema dei rinforzi a sostegno della contro- manifestazione era d’immediata evidenza. Dei cinquanta sgherri infiltrati previsti, soltanto cinque erano sul posto e con l’aggiunta di diciassette uomini reclutati in loco il numero complessivo risultava largamente insufficiente a far fronte ad una manifestazione che si annunciava imponente e particolarmente ostile. C’era anche chi affermava che il problema non era il governo ma qualcuno che non era più in grado di operare con efficacia (l’allusione al Ministro dell’Interno era fin troppo chiara) e che se il piano fosse andato in fumo, il Ministro sarebbe stato l’unico responsabile. Tutto ciò spinse MOLINA a chiedere inutilmente e con insistenza rinforzi consistenti e truppe d’assalto. Intanto il teatro cominciava a riempirsi e la gente cominciava a ritmare due parole: Libertà e Legalità. Gli animi s’infervorarono in un baleno e il grido di Viva ODRÍA! proveniente dalla platea originò un vortice caotico. Agitazione, subbuglio, insulti e botte, tutti oramai si accapigliavano. Ci fu un fuggi fuggi generale per raggiungere l’uscita del teatro. Fu allora che successe il finimondo. Spari, lacrimogeni e fumo rendevano la scena apocalittica. La città era in rivolta, le strade erano ostruite, il centro barricato. Il Prefetto si rese subito conto che occorreva impiegare l’esercito perché era quasi una rivoluzione e le forze dell’ordine non erano più in grado di ristabilire l’ordine. La decisione tardava. Il Ministro dell’Interno e alcuni esponenti del governo non erano per niente convinti che alla presenza dei carri armati i rivoltosi sarebbero tornati nelle loro case. La verità era che l’esercito non doveva sporcarsi le mani per il signor Cayo BERM ÚDEZ/ Alejandro ESPARZA Zañartu, e c’era qualche senatore (i senatori Landa e Arévalo) che riteneva questo tragico fatto una buona occasione per liberare il regime da un individuo, don Cayo BERM ÚDEZ/ Alejandro ESPARZA Zañartu che stava compromettendo tutti e se non ci si liberava di lui ciò che era successo ad Arequipa poteva coinvolgere tutto il Perù. Dal canto loro, i signori della Coalición Nacional si erano impegnati a placare la situazione soltanto dopo le dimissioni del Ministro dell’Interno che non tardarono. E finalmente il 24 dicembre 1955 la cittadinanza ricevette giubilante la notizia della rinuncia di Cayo BERM ÚDEZ/ Alejandro ESPARZA Zañartu. Il successo del 1955 fu un fatto politico rilevante e aprì la strada alla speranza del ritorno alla democrazia e di un inizio per il Perù con libertà per tutti e spazi per i nuovi partiti come Acción Popular, Democracia Cristiana e Social Progresismo.

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“La letteratura è rivelazione…”. RICHARD FORD, La Lettura del 10 luglio 2016, p. 3. CONCLUSIONI o la LETTERATURA come racconto della condizione umana.

******************** I grandi scrittori latino-americani hanno tutti raccontato la difficoltà di vivere in una società dominata dall’assurdo e dalle ingiustizie delle dittature politico-militari. I soprusi e le violenze portarono a una presa di coscienza e furono il germe del sentimento di rivolta degli intellettuali e degli scrittori. Carlos FUENTES, Julio CORTAZAR, Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ, Ernesto SABATO, Mario VARGAS LLOSA hanno trattato tutti i dolori e le rivolte dell’uomo schiacciato dal meccanismo infernale dell’autorità assoluta. La scelta tematica ci appare come imposta dall’universo stesso che ha prodotto questa letteratura. Cercando di sottrarsi a un universo fondamentalmente frustante, i personaggi del romanzo sudamericano sono permanentemente alla ricerca della propria identità. I suddetti autori non hanno mai pensato di tralasciare o di esaminare in modo superficiale il destino dell’America Latina, le sue illusioni, le sue attese, la sua amarezza, le sue rappresentazioni deformate e i suoi sogni calpestati sotto gli stivali dei dittatori. Pur mantenendo intatte differenti visioni del mondo e della condizione umana, tutte le opere dei grandi scrittori ispano-americani restano solidamente ancorate alla storia, in altre parole tengono vivo anche nei periodi più incerti e oscuri, in assenza di prospettive di cambiamento e di un serio processo di emancipazione, il rapporto dialogico tra il test-documento-denuncia e il lettore perché sono convinti che l’affermazione dei sistemi dittatoriali sia legata alla mancanza di cultura. Atteggiamenti servili poco dignitosi e spesso dettati anche da stupide superstizioni sono una logica conseguenza della povertà intellettuale e della scarsa coscienza morale. Tutti questi scrittori sostengono che una società senza Letteratura o meglio dove la Letteratura-Cultura è stata relegata ai margini della vita di relazione, è condannata a barbarizzarsi spiritualmente e a compromettere la propia libertà. Non è solo la limitazione verbale, aggiunge l’autore de Conversación en La Catedral , ma anche la limitazione intellettuale che lascia poco spazio all’immaginazione. Se la democrazia è mediocre, non ispira, non è epica né apocalittica, non è in grado di competere con le storiche dottrine rivoluzionarie allora è semplicemente il meno peggio come ha insegnato Karl POPPER. E se l’arte non è riserva di riflessione e meditazione sull’establishment non è nulla. Una Letteratura di puro intrattenimento è destinata a soccombere, essa necessita di idee nuove e realizzabili, generose e realiste. Così la politica rimane nelle mani dei professionisti della parola che ancora oggi in America Latina aprono le porte alle peggiori ideologie totalitarie. Per Mario VARGAS LLOSA come per SOLGENITSIN la dittatura è un male relativo, storico, generato però da un potere assoluto. C’è una responsabilità umana, quella di chi lo esercita e una responsabilità collettiva di chi subisce e non si oppone. È proprio a questi ultimi che gli scrittori sudamericani devono rivolgersi per far loro osservare con occhi diversi e in modo più profondo situazioni del loro passato perché si stabiliscano rapporti più determinati e costruttivi con l’identità collettiva, con la memoria storica e con altre culture. Sicché la letteratura politica che il Sistema considera erroneamente una “ littérature imbécile et pamphlétaire “ è invece utile a recuperare la memoria della gente, la sua identità. Artisti come Miguel Ángel ASTURIAS, Gabriel GARCÍA MÁRQUEZ, JUAN RULFO, ROA BASTOS e Mario VARGAS LLOSA hanno fatto della politica senza saperlo, parlando della quotidianità e illuminando le zone d’ombra di un passato e facendo emergere situazioni e grandi questioni riproposte con spirito critico. L’altra letteratura. Quella che confonde le tracce e cancella la consapevolezza dell’appartenenza a una realtà è solo fine a se stessa. È vero. La memoria può essere dolorosa perché abitata da vittime della voracità di un sistema costruito sulle prevaricazioni e sulle menzogne.

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Per argentini, uruguagi, cileni e brasiliani gli anni ’70 sono anche gli anni in cui parecchie centinaia di bambini sono sottratti ai loro genitori naturali o nati in campi di concentramento clandestini o allevati da coloro che sono responsabili o complici dell’assassinio dei loro genitori. Si tratta di un vero “plan de récupération” immaginato dai militari che ricorda in scala ridotta il fenomeno della “ germanisation” dei paesi dell’est in cui i nazisti sottraevano duecento mila bambini cechi e polacchi di “bonne race “ per farli adottare da coppie naziste sterili. Sono stati necessari l’ostinazione, il coraggio e la determinazione di una cinquantina di madri che si rivolsero al generale Videla per avere notizie sui loro figli “desaparecidos “ perché l’interesse e l’attenzione su questo squallido episodio di “malaise dans la civilisation” non si indebolissero e ne rimanesse un ricordo sempre vivo. Dal giorno delle prime manifestazioni di protesta messe in atto tutti i giovedì sulla Plaza de Mayo a Buenos Aires (30 aprile 1977), quelle che la stampa di regime definiva le “locas de Plaza de Mayo “ divennero le “Madres de Plaza de Mayo”, ossia il movimento morale più significativo di quegli anni, la prima vera e ferma opposizione alla dittatura e alle leggi incostituzionali e prevaricatrici della giunta militare capeggiata del generale Jorje Rafael VIDELA. Solo con i successivi governi del Presidente Kirchner e di De la Rúa (10 dicembre 1983) si affrontò il tema del recupero completo della democrazia sostanziale proponendo riforme in direzione di un maggior rispetto delle regole e dei diritti umani, politici e sociali. Tra le tante proposte una rappresentò uno spartiacque nella storia dell’America Latina “tout court” violentata per decenni a partire dalla metà degli anni ’60 dalle giunte militari, quella approvata durante la delicata “transición a la Democrazia “ dal primo governo democratico di Raúl Alfonsín che decretò l’abolizione della Ley de Obediencia Debida (1987) e di Punto Final (1986) che sancivano l’impunità dei militari. Conoscere quest’amara realtà è il punto di partenza per ripristinare il diritto di sognare senza il quale né l’essere umano né la Letteratura sopravviverebbero. Ciò non vuol dire assolutamente di “dé-faire la littérature “ intendendo per letteratura un luogo in cui convivono forme vuote e ripetitive, ma costruire una letteratura che nasca dai più profondi e fondamentali bisogni dell’uomo e che cerchi di unire i popoli attorno ai valori di umanità, di solidarietà, di libertà e di rispetto delle minoranze e diversità. La sola prova dell’utilità di un libro è data dall’effetto che provoca sul lettore. Se, dice lo scrittore uruguagio Eduardo GALEANO, la lettura di un testo scatena un processo di cambiamenti a livello prima individuale e poi collettivo, vuol dire che il libro ha in sé energie tali da provocare nel lettore-destinatario un meccanismo d’immaginazione, d’intelligenza, di viva memoria. Siamo convinti che scrivere è qualcosa di tanto difficile che non crediamo che valga la pena farlo per puro piacere individuale. Non è per consolarsi che lo scrittore scrive le sue opere, si scrive per gli altri, per quell’enorme massa di persone insoddisfatte e inquiete che hanno bisogno di riconoscersi in una letteratura che esprima i loro disagi, le loro contraddizioni, le loro attese. Aiutare, cioè, altre e nuove generazioni a saper leggere-interpretare la vera storia del nostro tempo non è una ricerca d’immortalità, è un tentativo di comunicare, un atto di speranza. E raccontare fatti e personaggi di un passato anche se recente non è atto di nostalgia, è ricerca di quelle tracce che servono a trovare nuove piste da percorrere, a elaborare nuove utopie dove il mondo si ritrovi più sereno e pacificato. Prof. Raffaele FRANGIONE _____________________________________