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« G IL MESTIERE del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo fin dal principio» scriveva Do- nizetti all’amato maestro Simone Mayr. Si riferiva certo agli incostanti favori del pubblico, ma forse anche alle an- gherie della censura cui fu spesso sot- toposto. Particolarmente sfortunata risultò la sorte di Maria Stuarda. Fin dal periodo trascorso a Milano per Anna Bolena, nel 1830, Donizetti ave- va assistito alla messa in scena da par- te della compagnia di Gustavo Mode- na della Maria Stuarda di Schiller, nel- la traduzione di Andrea Maffei. Fu pro- prio questo a soggetto che adottò per la nuova opera che doveva dare al San Car- lo di Napoli, per la quale firmò il contratto il 12 aprile del 1834. Sperava di avere il testo da Romani, ma il «librettista principe», non accettò ulteriori collaborazioni con lui, dopo Rosmonda regina d’In- ghilterra del febbraio del 1834, forse contrariato per le mo- difiche che gli aveva chiesto il compositore. Velocemen- te approntò i versi uno studente di giurisprudenza dicias- settenne, calabrese, Giuseppe Bardari. Sicuramente Do- nizetti, che sapeva scriver libretti, come aveva dimo- strato con le Convenienze e Inconvenienze teatrali e con il completamento della Fausta, guidò la mano del gio- vane poeta. La vicenda della due regine rivali, Eli- sabetta d’Inghilterra e Maria di Scozia, fu prosciu- gata fino a ridurla ad una mera rivalità amoro- sa per il predominio nel cuore di Roberto Lei- cester. Non furono tuttavia tolte le aspre paro- le dell’invettiva della Stuarda contro la sua carce- riera, con gli epiteti di «meretrice» e «bastarda». Do- nizetti confidava che uno dei tre membri del consiglio di censura, Giulio Genoino, già suo librettista per La lettera anonima, non gli sarebbe stato ostile. Furono accolte le ri- chieste di modifica del responsabile della censura lettera- ria, Francesco Ruffo, e si partì senz’altro con l’al- lestimento. Già durante le prove però, proprio quegli insulti lanciati da Giuseppina Ronzi De Begnis furono ricevuti come intenzio- nali dall’altra interprete, Anna Del Sere, e le due cantanti vennero alle mani. Se- condo il giornale «L’Indipendente», in una ricostruzione a corredo della ri- presa del titolo nel 1865 (in una Na- poli italiana e non più borbonica), alla prova generale, la regina Maria Cristina, a sentire quegli imprope- ri, svenne. Questa versione è negata dall’Ashbrook, uno dei più eminenti studiosi di Donizetti, favorevole a ri- tenere che, per i monarchi partenopei, la Stuarda fosse una specie di martire del cattolicesimo, improponibile in atteggia- menti così sguaiati. Sta di fatto che l’opera fu proibita dal ministro di polizia Delcarretto per ordine del re, del che il compositore si lamen- tò per lettera: «È proibita! Come? Perché? La regina non ama soggetti così tristi…». Il sovrintendente del San Car- La travagliata storia di «Maria Stuarda» L'opera di Donizetti in scena alla Fenice di Massimo Contiero Agnes Baltsa nel ruolo di Elisabetta in un allestimento di Erich Grischa Asagoroff (Vienna, 1985) G a e ta n o D o n i z e t ti 10 — focus on focus on

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«Già il mestiere del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo fin dal principio» scriveva Do-

nizetti all’amato maestro Simone Mayr. Si riferiva certo agli incostanti favori del pubblico, ma forse anche alle an-gherie della censura cui fu spesso sot-toposto. Particolarmente sfortunata risultò la sorte di Maria Stuarda. Fin dal periodo trascorso a Milano per Anna Bolena, nel 1830, Donizetti ave-va assistito alla messa in scena da par-te della compagnia di Gustavo Mode-na della Maria Stuarda di Schiller, nel-la traduzione di Andrea Maffei. Fu pro-prio questo a soggetto che adottò per la nuova opera che doveva dare al San Car-lo di Napoli, per la quale firmò il contratto il 12 aprile del 1834. Sperava di avere il testo da Romani, ma il «librettista principe», non accettò ulteriori collaborazioni con lui, dopo Rosmonda regina d’In-ghilterra del febbraio del 1834, forse contrariato per le mo-difiche che gli aveva chiesto il compositore. Velocemen-te approntò i versi uno studente di giurisprudenza dicias-settenne, calabrese, Giuseppe Bardari. Sicuramente Do-nizetti, che sapeva scriver libretti, come aveva dimo-strato con le Convenienze e Inconvenienze teatrali e con il completamento della Fausta, guidò la mano del gio-vane poeta. La vicenda della due regine rivali, Eli-sabetta d’Inghilterra e Maria di Scozia, fu prosciu-

gata fino a ridurla ad una mera rivalità amoro-sa per il predominio nel cuore di Roberto Lei-cester. Non furono tuttavia tolte le aspre paro-le dell’invettiva della Stuarda contro la sua carce-riera, con gli epiteti di «meretrice» e «bastarda». Do-nizetti confidava che uno dei tre membri del consiglio di censura, Giulio Genoino, già suo librettista per La lettera anonima, non gli sarebbe stato ostile. Furono accolte le ri-chieste di modifica del responsabile della censura lettera-

ria, Francesco Ruffo, e si partì senz’altro con l’al-lestimento. Già durante le prove però, proprio

quegli insulti lanciati da Giuseppina Ronzi De Begnis furono ricevuti come intenzio-

nali dall’altra interprete, Anna Del Sere, e le due cantanti vennero alle mani. Se-condo il giornale «L’Indipendente», in una ricostruzione a corredo della ri-presa del titolo nel 1865 (in una Na-poli italiana e non più borbonica), alla prova generale, la regina Maria Cristina, a sentire quegli imprope-ri, svenne. Questa versione è negata dall’Ashbrook, uno dei più eminenti

studiosi di Donizetti, favorevole a ri-tenere che, per i monarchi partenopei,

la Stuarda fosse una specie di martire del cattolicesimo, improponibile in atteggia-

menti così sguaiati. Sta di fatto che l’opera fu proibita dal ministro di polizia Delcarretto

per ordine del re, del che il compositore si lamen-tò per lettera: «È proibita! Come? Perché? La regina non ama soggetti così tristi…». Il sovrintendente del San Car-

La travagliata storiadi «Maria Stuarda»L'opera di Donizettiin scena alla Fenice

di Massimo Contiero

Agnes Baltsa nel ruolo di Elisabetta in un allestimento di Erich Grischa Asagoroff (Vienna, 1985)

Gaetano Donizetti

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lo, principe Torella, aggiunse 600 ducati ai 1400 fissati, purché Donizetti adattasse la musica ad un’altra vicenda. Si pensò a Giovanna Gray per

utilizzare i costumi dell’epoca Tudor già pron-ti, ma anche in questo caso c’erano personaggi rea-

li, una decapitazione e alla fine l’idea fu scartata. Incredi-bilmente, si optò per un soggetto medievale, Buondelmon-te, tratto dal secondo volume delle Istorie fiorentine di Ma-chiavelli. La vicenda era datata all’epoca delle rivalità tra Guelfi e Ghibellini. Buondelmonte è colui che osa la-sciare una Amidei per scegliere una Donati e paga questo affronto, morendo di pugna-le nel giorno di Pasqua. Del libretto fu incaricato un altro studente di giuri-sprudenza, il messinese Pietro Sa-latino, che aveva già scritto, per il compositore bergamasco, San-cia di Castiglia (1832). In cinque giorni la richiesta fu soddisfat-ta. In questa versione si andò dunque in scena il 18 ottobre del 1834, perfino con un certo successo. A consolare Doni-zetti da queste disdicevoli vi-cissitudini c’era tuttavia ben altro: la richiesta di Rossini perché scrivesse un’opera per il Théâtre des Italiens di Parigi (sarà il Marin Faliero), l’appunta-mento alla Scala con la Gemma di Verg y del 26 dicembre, nella qua-le, proprio la Ronzi de Begnis si sa-rebbe meritata un clamoroso succes-so. Inoltre, la Scala chiedeva Maria Stur-da da affidare a Maria Malibran, con Gia-cinta Puzzi Toso come Elisabetta, per la stagio-ne successiva. A parte qualche adattamento, reso ne-cessario dalla diversa voce della protagonista, asseconda-te anche in questa circostanza esigenze di censura, Doni-zetti sperava di poter ottenere un’accoglienza favorevole, il giorno della prima, il 30 dicembre del 1835. Sappiamo, dal-la corrispondenza con Ricordi, che per l’occasione aveva anche scritto una sinfonia introduttiva, che doveva sosti-tuire il breve preludio composto per Napoli. Ma proprio la Malibran, che si esibì anche se indisposta, pur di non per-dere un compenso di 300 franchi, e, forte del suo prestigio, cantò le parole censurate, intuendone l’effetto plateale, finì per compromettere l’esito dell’opera, che restò in cartello-ne per solo sei recite. La sfortuna si accanì dunque nuova-mente contro questo titolo, che pure non mancò di essere ancora rappresentato negli anni successivi e per queste ul-teriori recite Donizetti, nelle sue lettere, aggiunse sugge-rimenti, come quello di sostituire la parola «bastarda» con «bugiarda». Ammaestrato da tutte queste traversie, prete-se poi, nel contratto per Lucia di Lammermoor, che l’appro-vazione della censura arrivasse con quattro mesi d’antici-po, perché, scrisse, «io son qui per la musica e non per ga-rantire la poesia alle autorità».

Siamo, con Maria Stuarda, in un periodo di decisiva evo-luzione per la creatività donizettiana. Sono innanzitutto diversi dagli esordi, gli argomenti e le predilezioni lettera-rie. L’autore ha alle spalle 46 titoli in cui le fonti principali sono state francesi, Caignez, Pixérécourt, Delavigne, Scri-be e il teatro d’intreccio l’obiettivo. In questa nuova fase l’attenzione si sposta su autori di maggior levatura e trova

spazio una più precisa penetrazione psicologica, pur sem-pre con un particolare riguardo agli aspetti sentimenta-li. In veloce sequenza, nello stesso anno 1833, ecco Parisi-na da Byron, Torquato Tasso da Goethe e Lucrezia Borgia da Hugo. Già Rossini si era rivolto a Walter Scott, cui si attri-buisce la nascita del romanzo storico, per Kenilworth e La donna del lago e a Schiller per Guillaume Tell. Donizetti pen-sa anche lui a Scott per Elisabetta al castello di Kenilworth e per The Bride of Lammermoor e a Schiller per Maria Stuarda.

Kenilworth, Maria Stuarda, Roberto Devereux, costituisco-no una sorta di trilogia inglese donizettiana,

con al centro Elisabetta, trilogia alla quale Anna Bolena fa quasi da antefatto.

Della figura tragica di Mary Stuart, imprigionata per diciotto anni,

perché accusata di complicità nel complotto per restaurare il cat-tolicesimo ordito da lord Ba-bington, s’erano già occupa-ti Della Valle e Alfieri. Schil-ler prende in considerazione i suoi ultimi tre giorni di vi-ta, prima della decapitazio-ne, e ne fa il simbolo di ide-ali di libertà, in opposizio-ne all’assolutismo della «so-vrana vergine». Come s’è det-

to, Donizetti fa prevalere la ri-valità tra le due donne causata

dall’amore di entrambe per Lei-cester, personaggio che perde nel

melodramma l’ambiguità schille-riana. La semplificazione è funzio-

nale al predominio dell’elemento musi-cale. La spettacolarità è affidata non tan-

to agli accadimenti, ma alla concatenazione di scene, arie, cabalette, concertati, cui la drammatur-

gia fa da sfondo, da elemento d’innesco. Se il romantici-smo di Hugo provocatoriamente individuava nel «brut-to» l’interesse dell’arte, sono gradualmente abbandona-ti gli apollinei canoni del belcanto, il «bello» lascia il po-sto al «vero». L’elegante ornamentazione perde spazio e si afferma una vocalità sillabica e spianata, che, con imme-diatezza, vuole comunicare le emozioni sottese alle paro-le. Una partecipazione ed un’espressività nuove sono ri-chieste all’interprete. Nondimeno il virtuosismo è sem-pre preteso, ma oltre l’agilità ora è richiesta anche di for-za: era l’epoca in cui Il tenore Gilbert Duprez (per il quale Donizetti pensò l’Edgardo di Lucia di Lammermoor) aveva trionfato con il suo «do di petto». Si abbandona l’uso ros-siniano di affidare i ruoli femminili protagonisti a mez-zosoprani, cui ora sono preferiti soprani in grado di do-minare spavalde colorature. In Stuarda il confronto è tra un soprano lirico (Maria) e quello che si definiva un «so-prano corto», capace di scendere senza sforzo verso le no-te più gravi. Alle voci scure maschili, in attesa di Don Pa-squale e della rivalutazione verdiana, è ancora riservato un ruolo da coprotagonista.

Il recupero moderno dell’opera è merito di grandi inter-preti: Leyla Gencer, con Shirley Verret e Ferruccio Taglia-vini, Montserrat Caballè (ancora con la Verret e Carreras), Beverly Sills, Joan Sutherland con la Huguette Tourangeau e Luciano Pavarotti, Janet Baker con Rosalind Plowright, Edita Gruberova con Agnes Baltsa e Francisco Arai-za, fino alla recente prova scaligera di Mariella Devia. ◼

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L’ultimo a prenderlo in considerazione come modello di drammaturgia è stato Friedrich Dürrenmatt. L’au-tore della Visita della vecchia signora e dei Fisici vedeva in

Schiller un punto di riferimento con cui fare i conti. Posizio-ne singolare, questa di Dürrenmatt, se si pensa che in quegli anni (fra il ‘50 e il ‘60) il teatro intorno a lui aveva altri modelli: Beckett, Jonesco e quello che più o meno vagamente fu chia-mato il teatro dell’assurdo. Dürrenmatt invece fin dal suo pri-mo testo teatrale aveva imboccato un’altra strada. Si chiede-va cosa mai si intenda quando si parla di giustizia, se vi sia un rapporto tra quella praticata dagli uomini e quella attribuita a Dio, e se di fronte alla violenza del potere si possa parlare an-cora di libertà dell’individuo. E tutto questo lo mostrava su un palcoscenico che aborriva l’astrattezza, il silenzio, la mise-ria della scenografia e che sguazzava invece nell’abbondanza

e nella truculenza, mescolando stili diversi, preferendo le si-tuazioni paradossali e soprattutto le grandi scene, dove i per-sonaggi si scontrano a suon di battute drastiche ed esorbitan-ti. Non l’assurdo, dunque, ma il paradosso e la risata, non la malinconia ma il grottesco. Portare una situazione all’estre-mo, renderla insostenibile e in fondo ridicola poteva aprire uno spiraglio su quella verità che il teatro, secondo Dürren-matt, doveva comunque far intravedere. Una verità non asso-luta, ovviamente, ma la verità della situazione umana, dell’uo-mo di fronte al proprio destino.

Se questa era la strada imboccata dal giovane studente di fi-losofia, l’incontro con Schiller era inevitabile. Anche quello con Shakespeare, naturalmente, ma il grande inglese non era un autore che si lasciasse imbrigliare in una disputa impernia-ta su temi connessi all’emancipazione borghese, all’idealismo e alla difesa dei diritti del singolo. Il suo teatro Friedrich Schil-ler lo aveva inserito invece entro un programma di educazio-ne estetica dell’individuo moderno che era la risposta dell’in-tellighenzia tedesca alla rivoluzione francese salutata in un primo tempo con entusiasmo, ma poi rinnegata per la violen-za dei suoi esiti.

Confrontarsi con Schiller significava per Dür-renmatt da un lato chiedersi se le idee espresse in quel programma filosofico fossero ancora valide nel mondo che aveva visto esplodere la bomba ato-mica e in cui l’individuo si sentiva sempre più inerme di fronte a un potere sempre più inafferrabile. La tragedia all’an-tica ma anche quella alla Schiller diventava impossibile. Se si voleva rappresentare il mondo contemporaneo meglio dun-que ricorrere alla commedia. Dürrenmatt si riferiva a Schiller per contestarne l’ideologia.

D’altro canto, Schiller con il suo teatro aveva creato dei per-sonaggi e delle situazioni che dalla fine del Settecento in poi erano nella memoria di tutti. Un grande autore, dunque, un fondale di riferimento, un sostrato su cui costruire ancora, pur con prospettive opposte, storie e personaggi, e sempre preferibile alle sabbie mobili del teatro dell’assurdo e dell’am-biguità. Del resto, dall’’Ottocento in poi non c’era stato autore di drammi storici che non avesse avuto presente l’eco del pa-thos schilleriano in cui si erano conservate, in fondo, le tracce del grande teatro francese del Seicento.

Un pathos sostenuto da grande abilità drammaturgica, dal taglio sicuro delle scene, dal gusto della grande eloquen-

za, ma soprattutto dal copioso ed inesausto flu-ire dei versi. Caterve di versi (3290 per il Wil-helm Tell, 4034 per Maria Stuart, 5370 per Die Räu-ber, 1107+2651+3869 per le tre parti del Wallen-stein) destinati, per la loro scioltezza, a rimanere nell’orecchio, a entrare nei programmi del gin-nasio di molte generazioni fino ad essere ripetu-ti come pillole di saggezza e trasformarsi spesso, avulsi dal contesto, nella caricatura del loro senso originale, soprattutto se si trattava di versi in rime baciate un po’ troppo prevedibili. Testi in versi che, quando si mettevano in scena, era inevitabi-le che subissero dei tagli o che l’attore non riuscis-se a mantenere per tutto il corso dello spettacolo il tono patetico che la loro pronuncia richiedeva. Ed è a questo punto che s’innestava l’interesse del compositore e del suo librettista che pur riducen-do e modificando il testo, miravano a riprodurre quel pathos che, sorretto in molti casi dalla rima e dal ritmo più che dall’invenzione poetica, ben si prestava a trovare la sua integrazione nella melo-dia. Capitò così per il Guglielmo Tell, per i Masnadie-

ri, per il Don Carlos e per altri testi ancora, fra cui Maria Stuarda.Quest’ultima, che andò in scena per la prima volta nel 1800,

fa capire molto bene come Schiller agisca su un episodio sto-rico. La trama, a grandi linee, è nota. A metà Cinquecento due regine di casa Tudor, imparentate tra di loro, Elisabetta di Inghilterra e Maria di Scozia si contendono il trono d’In-ghilterra, la prima è protestante, la seconda cattolica. Elisa-betta è figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, è nata fuori dal matrimonio, è illegittima e considerata quindi un’usurpatrice del trono d’Inghilterra. Maria vanta la discendenza diretta da Enrico VII, ma ha un passato turbolento: educata alla corte francese, fatta sposare sedicenne al fratello del re di Francia, dopo il breve regno di costui, ritorna in Scozia, dove la ragio-ne di Stato la costringe a sposare un cugino che poi, con l’aiuto di un amante, farà ammazzare, e quando per tutto questo ed altro ancora la nobiltà scozzese si rifiuterà di avere una regina cattolica, essa chiederà aiuto ad Elisabetta che, su confessioni estorte e false, le attribuisce varie congiure ai suoi danni, la te-me come concorrente al trono e la tiene prigioniera impeden-dole qualsiasi rapporto con l’esterno e condannandola alla fi-ne (dopo 19 anni!) al patibolo. È l’8 febbraio 1587.

La «Maria Stuart»di Friedrich Schiller

di Eugenio Bernardi

Katharine Hepburn in Maria di Scozia di John Ford, 1936

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Intorno al dissidio tra le due regine e al dibattito sulla loro legittimazione, gira il mondo della corte, fatto di uomini giusti e di traditori o perlomeno di

opportunisti, mentre fuori dalle mura di Westmin-ster e di Fotheringhay tessono le loro trame il re di

Francia e il Papa, cattolici e protestanti, fedeli e fanatici. Un mondo variopinto, ottimo per un appassionante sfondo sto-rico. Schiller, che da professore conosceva bene la storia, ma ne sapeva anche molto di drammaturgia, interviene sui fatti accertati e fa incontrare le due regine. Inventando l’incontro, Schiller mira evidentemente ad un grande coup de théâtre, ri-preso poi in tutte le variazioni teatrali e cinematografiche sul-lo stesso tema, ma nelle sue intenzioni quella scena doveva contenere, assieme all’emozione che la sostiene, l’idea «educa-tiva» profondamente connessa alla sua drammaturgia.

Per Schiller il teatro (e la poesia in genere) doveva mostrare l’individuo nel suo incontro/scontro con il mondo che lo cir-conda, indicare come egli possa difendere la propria libertà contro la sopraffazione (fisica ma anche psicologica, soprattutto nel modo moderno cui allude sempre il suo dramma storico) dove la violenza è anche la violenza del-lo Stato e della legge. Questo era il te-ma cruciale del tempo: di come l’uo-mo moderno che pure si era dato la legge, potesse conciliarla con la sua natura individuale, con i sentimen-ti e gli affetti. Legge e individuo, ragione e natura, necessità e liber-tà, dunque, e alla poesia e in par-ticolar modo al teatro spettava il compito di mostrarne la possibi-le (anche se utopica) conciliazio-ne. In un suo famoso scritto teori-co intitolato Il teatro come istituzione morale(1802), Schiller lo aveva spie-gato a chiare lettere.

Questa era la luce proiettata sul mo-mento dell’incontro delle due regine, incontro inventato a questo scopo. Di mezzo non c’era solo il conflitto generale tra l’individuo e la giustizia, il dramma si fo-calizza e attinge alla sua verità nel faccia a faccia tra due donne che sono nello stesso tempo anche re-gine, nel conflitto esplicito e declamato dunque tra potere e sentimento, responsabilità e passione. Questo momento cul-minante era stato del resto preceduto da scene importanti atte a scoprire l’animo dell’una e dell’altra: quella di Schiller non è una pittura in bianco e nero. Elisabetta, che sembrerebbe una sovrana di ferro, scoppia in lagrime quando legge la lettera in cui Maria prigioniera le chiede un incontro, e Maria sa quello che fa quando invia il proprio ritratto a un suo ex spasimante, ora passato dalla parte avversa. Maria vuole l’incontro con la rivale per vedere con i propri occhi se Elisabetta, nel condan-narla a morte, agisca davvero di propria volontà, mentre co-stei esita fino all’ultimo a firmare la condanna perché non sa distinguere chiaramente tra i motivi concreti e le motivazio-ni nascoste che la spingono a farlo. Le poche didascalie parla-no di sguardi penetranti, di lacrime, di gesti inaspettati e rive-latori che sostengono un’azione drammatica che fino all’ulti-mo deve oscillare, come voleva Schiller, tra il timore della ca-tastrofe e l’illusione di un suo risolversi improvviso.

L’apice della tragedia è comunque il faccia a faccia tre le due regine, perché qui si scontrano pubblico e privato, senso del-lo Stato e libertà individuale, ma nello stesso tempo e anzi so-

prattutto due donne. Anche se la cortesia dell’inizio preci-pita ben presto nell’alterco e nell’offesa, l’incontro ha avuto un risultato palesando quanto difficile sia per l’una come per l’altra separare la ragione dai sentimenti, la giustizia dai pro-pri istinti e dalla proprie esperienze di vita. E questo è anche lo spettacolo che Schiller si propone di dare e che per l’alter-narsi dei sentimenti coinvolti costituirà sempre una prova per grandi attrici. A vincere sarà Elisabetta che avrà moti-vi concreti per temere la rivale apparentemente rassegnata, eppure la sua esitazione non si attenuerà e la indurrà a per-correre vie traverse per far pervenire al boia il documento di condanna. Da parte sua Maria trasforma l’accusa di cui è innocente in un’espiazione per i suoi delitti precedenti, fa-rà cioè della condanna un atto di libera scelta diventando così, confessata e comunicata, una santa o almeno un’«ani-ma bella» capace di unire in sé legge e natura, oppressio-ne esterna e libertà interiore, come Schiller suggeriva ai te-

deschi. È sintomatico che nel momento cruciale le due regine arrivino alle stesse conclusioni sul-

la vanità delle glorie umane e sul fallimento dei propri disegni. Insieme alla grandio-

sità del progetto estetico-filosofico che sostiene l’azione scenica, è questo, os-sia l’equità con cui l’autore guarda al-la contesa, a fare di questa tragedia un capolavoro.

Dopo Schiller, chi riprende-rà questa storia di sicuro effet-to non si curerà delle intenzio-ni e del pedagogismo dell’auto-re e non avrà dubbi nel preferire Maria di Scozia. Lo fa anche il li-brettista di Donizetti. Ad appro-fittare di quel conflitto tra regine sarà poi il cinema che con inqua-

drature di primo piano cercherà di scoprire cosa si celi dietro alle loro

lagrime e alle loro parole. In un film del 1936 intitolato Maria di Scozia John

Ford fa di Elisabetta una regina incat-tivita e antipatica, mentre Maria ha il vol-

to e i palpiti di una giovane Katharine He-pburn che quando sale al patibolo non sente il

canto degli angeli, ma il suono delle cornamuse che ogni volta annunciavano l’arrivo del suo amante Bothwell/Fredric March. Quanto al finale della tragedia, con quell’in-sistenza sulla liturgia cattolica, esso aveva già creato diffi-coltà quando lo si rappresentava in terra protestante ed ave-va subito tagli se non censure. Le aveva subite anche la gran-de scena dell’incontro tra le due regine che rivelavano un po’ troppo sguaiatamente la loro femminilità offesa. Capitava anche che quei toni venissero ulteriormente accentuati come fa del resto anche il librettista di Donizetti, il diciassettenne Giuseppe Bardari, che all’angelicabile Maria fa dire versi po-co schilleriani del tipo: «Figlia impura di Bolena/parli tu di disonore?/Meretrice indegna oscena/ su te cada il mio ros-sore./ Profanato è il soglio inglese/ vil bastarda dal tuo piè». Bertolt Brecht, che prima di Dürrenmatt aveva preso di mi-ra Schiller e la sua drammaturgia per rovesciarne le premesse idealistiche confrontandole con le dure leggi della società ca-pitalistica ed aveva trasformato, in questo senso, la schilleria-na Pulzella di Orléans nella sua Santa Giovanna dei macelli, si era ricordato anche lui della famosa scena dell’incontro/scon-tro tra le due regine e ne aveva fatto una colorita scena popo-lare in cui a scontrarsi sono due pescivendole al mercato. ◼

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La tragedia lirica in tre atti Maria Stuarda, assente dal palcoscenico della Fenice dal 1840, sarà la terza opera della stagione lirica, in scena al Teatro veneziano il 24 aprile con sei

repliche il 26, 28, 29, 30 aprile e il 2 e 3 maggio. Composta da Do-nizetti su un libretto di Giuseppe Bardari tratto dalla tragedia Ma-ria Stuart di Friedrich Schiller e andata in scena al Teatro alla Sca-la di Milano il 30 dicembre 1835, il capolavoro del compositore ber-gamasco approda in laguna con la regia le scene e i costumi firmati da Denis Krief, che ci spiega la sua visione dell’opera.

Per quel che riguarda il lavoro che ho svolto non userei il termine «ambientazione», una parola che, riferita alla regia teatrale, crea confusioni estreme. Per questo vorrei scom-parisse dal vocabolario. Ho pensato prima di tutto al fatto di trovarmi innanzi a un testo: la Maria Stuarda di Donizet-ti, appunto, un’opera romantica della prima metà dell’Ot-

tocento italiano. Sono un grande estimatore di Donizetti, che nel caso della Stuarda si è ispira-to a un testo di Friedrich Schiller della fine del Settecento tedesco: quindi si tratta di altri tempi e altri luoghi. Dal canto suo, la storia narrata è mol-to antica e risale al Seicento inglese. Il preromanticismo nord europeo, infatti, nasce con la riscoperta dell’epoca di Elisabetta e di Shakespeare. Ecco quindi che abbiamo at-traversato gran parte della storia e dei luoghi dell’Europa, tutti luoghi che appartengono a questa vicenda. Ci trovia-mo ora a Venezia, nel 2009: ancora altri tempi e altri luo-ghi dunque.

Questo tipo di fascinazione mi rimanda spesso a quella bellissima frase di Pirandello che si trova nei Giganti della

montagna e che accenna al fatto che il tempo e il luogo risiedono nella memoria e nella po-esia: «Tempo e luogo indeterminati: al limi-te, fra la favola e la realtà». Quello che tengo a sottolineare è il fatto di dover affrontare un melodramma storico nato da un dram-

ma storico. La Maria Stuarda non è una sto-ria borghese. Ci sono due donne che si con-frontano fra loro e, dal punto di vista del-la regia, la difficoltà risiede nel pericolo di cadere nella trappola del dramma borghese. Ho cercato quindi di andare oltre, di astrar-re da tutto questo per concentrarmi su cosa realmente sia questa storia, cosa ponga sot-

to il fuoco dell’attenzione. Si tratta di due donne di potere, l’una prigioniera dell’altra, anche se in realtà non si com-prende in maniera chiara, netta e decisa chi sia la vera pri-gioniera. Se la Stuarda è relegata nelle prigioni di Elisabet-ta, infatti, anche quest’ultima è tutt’altro che libera e imbri-gliata invece nelle reti dalla trama psicologica della Stuar-da. Quindi una prigione reale da una parte e una gabbia psicologica dall’altra. Ecco il conflitto che emerge!

Con questa regia ho voluto dunque raccontare la storia con estremo rigore e ritornare così all’essenza del dramma di due donne di potere, due donne che vivono un proble-ma con l’amore. Se la loro sfera pubblica è ben funzionan-

Una «Maria Stuarda»per Denis KriefIl regista franco-italiano porta in scenai labirinti dell’anima

Denis Krief

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te, infatti, a fare da contraltare è quella privata. Se una delle due – che vanta alle sue spalle una folta schiera di mariti, fra i quali almeno un pa-

io ne ha fatti ammazzare – si ritrova a essere so-la e a disprezzare l’uomo che la vuol servire, perso-

na ben lontana dal suo ideale maschile, l’altra nemmeno ri-esce a farsi amare da un uomo.

Melodramma e Ottocento aiutando, possiamo pensare che si contendano un unico uomo, in realtà un qualcu-no che potrebbe anche non esistere: un uomo trasparen-te, presentato sotto una luce tutt’altro che lusinghiera. Se le donne sono magnifiche, infatti, i personaggi maschi-li sono invece terribili. Ecco quindi che la donna è perso-naggio di potere anche nei confronti degli uomini, per-

ché li usa. Sono ravvisabili una freddezza e una durez-za estreme nel modo con cui vengono raccontati i per-sonaggi, e credo di poter dire di non conoscere un’altra opera così cruda, con dei protagonisti così duri con loro stessi e con gli altri. Ho voluto quindi affrontare il dram-ma storico per evitare la proposizione del dramma bor-ghese. Per questo ho scelto di rimanere in un «vagamen-te astratto», per raccontare la psiche delle persone e i labi-rinti dell’anima. Ed è proprio la parola «labirinto» a gui-dare tutta la scenografia. Non bisogna infatti dimentica-re che il labirinto conosce un’espressione molto alta pro-prio all’epoca di Elisabetta: lo stesso giardino elisabettia-no è un labirinto, quasi una rappresentazione della mente umana. Si pensi poi all’estetica di Giovanni Battista Pira-

nesi e alle sue prigioni, strutture verticali e labirintiche. Si tratta di percorsi in cui è facile lo smarrimento che porta alla solitudine, alla tristezza e alla morte. E questo è quel-lo che racconto.

Dopo questa fatica veneziana quali progetti si aprono per il futuro?Dopo la programmazione della Maria Stuarda alla Feni-

ce, un teatro che amo molto in una città che ho nel cuore, partirò per il Regio di Torino, dove presenterò la mia pri-ma regia della Dama di picche. Successivamente ci sarà an-che un Trovatore. Questo 2009 sarà per me un anno piut-tosto pesante, ma che sto affrontando con grande gioia e piacere. I progetti a cui lavoro e lavorerò mi porteranno in teatri e strutture a cui sono molto legato, dove è possibile incontrare maestranze tecniche davvero eccelse: una pre-rogativa italiana che ha dato lezioni a tutti i teatri del mon-do. Fare teatro è una storia d’amore tra esseri umani che hanno una passione comune. E nel caso della Stuarda, la Fenice ci permetterà di partire con il piede giusto. (i.p.) ◼

Venezia – Teatro La Fenice24, 28, 30 aprile, ore 19.00

26 aprile, 2, 3 maggio, ore 15.30Maria Stuarda

tragedia lirica in tre attilibretto Giuseppe Bardari

dalla tragedia Maria Stuart di Friedrich Schillermusica Gaetano Donizetti

maestro concertatore e direttore Bruno Campanella Walter Attanasi (26/4)

regia, scene, costumi e luci Denis KriefOrchestra e Coro del Teatro La Fenicemaestro del Coro Claudio Marino Moretti

prima rappresentazione assoluta:Milano, Teatro alla Scala, 30 dicembre 1835

nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenicein coproduzione

con la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Triestela Fondazione Teatro San Carlo di Napoli

e la Fondazione Teatro Massimo di Palermo

Leonora Carrington, Labirinto

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È affidata alla bacchetta di Bruno Campanella la Maria Stuarda di Gaetano Donizetti. Abbiamo incontra-to il maestro, che ci ha raccontato gli snodi musicali dell’opera.

Maria Stuarda non fa parte di una trilogia, come molti credo-no, bensì di una tetralogia: accanto ad Anna Bolena e a Robert Devereux, infatti, non va dimenticata Elisabetta al castello di Ke-nilworth, anche se in realtà non viene rappresentata spesso. Si tratta dunque di quattro opere che il compositore ha voluto dedicare alle regine d'Inghilterra o di Scozia.

La Maria Stuarda avrebbe dovuto debuttare a Napoli nel '34. La regina della città partenopea pose però la censura, a cau-sa del legame di sangue che intercorreva tra lei e Maria Stuar-da: il fatto che la regina di Scozia fosse andata a morte, infat-ti, non incontrava certo i favori della Maestà napoletana. Esi-liata da Napoli, andò quindi in scena per la prima volta pro-prio a Venezia.

Qual è la struttura dell'opera?Si tratta di un lavoro che presenta una struttura di una sem-

plicità estrema, con alcuni accompagnamenti in cui Donizet-ti risulta essere pre-verdiano, una caratteristica che ho voluto far emergere e rendere riconoscibile.

Come ha lavorato per svolgere il materiale dal punto di vista musicale?Ho una vera predilezione per il belcanto: credo di esserne

uno dei fautori più accesi. Per questo ho voluto te-ner conto del fatto che le voci dovessero prevale-re sull'orchestra. Può sembrare quasi un'ovvietà, ma non sempre è così. Molto spesso nella partitu-ra si trovano indicazioni che suggeriscono addirittura il «fortissimo». Quasi nessuno però tiene conto del fatto che Donizetti, come anche Bellini e il primo Verdi, appuntava-no tali annotazioni tenendo conto del tipo di strumenti che si usavano al loro tempo, epoca in cui il «forte» e il «fortissimo», soprattutto per quel che riguardava gli ottoni, i corni, le trom-be, i tromboni – che erano senza né coulisse né pistoni – risul-tavano poco più di un ronzio di zanzara. Fu la rivoluzione wa-gneriana a portare sulle scene degli strumenti molto più po-tenti; poiché le voci erano rimaste le medesime – non esiste-vano certo «voci wagneriane» – fu avvertita la necessità di ide-are il cosiddetto «golfo mistico»: tutta l'orchestra veniva co-perta, i suoni smorzati e ci si poteva dedicare anche ai volumi

più alti. Proprio per questo quando mi si dice che non esisto-no più le voci di una volta, rispondo che a non esistere più so-no piuttosto gli strumenti di un tempo. Per modificare le vo-ci ci vorrebbe infatti una mutazione genetica di milioni di an-ni. Si tratta di un fattore molto importante, che va sempre te-nuto a mente: ogni volta che la partitura indica un «fortissi-mo», che andrebbe a coprire le voci, bisognerà realizzare un «forte»; quando sarà indicato un «forte», proporre un «mez-zo-forte»; al posto di un «mezzo-forte» eseguire un «piano», e così via. In questo modo le voci riusciranno sempre a emer-gere con estrema chiarezza e a non essere sommerse da que-sta enorme massa di suono orchestrale. Questo è uno dei pun-ti fermi del belcanto che ho voluto adottare anche per questa Maria Stuarda.

Altri punti fermi del belcanto?Quello di basarsi sulle vocali: la nostra bellissima lingua ita-

liana, per quel che concerne il canto, si basa appunto sulle vo-cali e non sulle consonanti. Ogni volta che i cantanti, e questo accade soprattutto agli interpreti stranieri, pronunciano ad esempio la parola «amor» sottolineando la consonante finale,

Bruno Campanella dirigela «Stuarda»L’arte di Donizettisecondole regole del belcanto

Maria Stuarda Elisabetta I

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commettono un errore. È invece la vocale che la precede, la «o», a dover emergere. Proprio questo è il belcanto italiano! Ho quindi voluto basarmi su

tutte quelle che sono le sue «stigmate», che sono in-numerevoli e che prevedono che i cantanti non venga-

no relegati a fondo palco, ma piuttosto avanti affinché le loro voci possano emergere con semplicità.

Che caratterizzazioni hanno i personaggi?

I personaggi che emer-gono sono sempre un po' a tutto tondo: ad esempio quello di Guglielmo Cecil è sempre cattivo, non c'è un chiaro-scuro che permet-ta di risolvere il suo carat-tere; anche dal punto di vi-sta musicale, ha sempre del-le frasi tali che non permet-tono di addolcirne il carat-tere. Le due figure più inte-ressanti sono naturalmen-te Maria Stuarda ed Elisa-betta, le due cugine, il cui incontro è fondamentale. Pensando all'epoca in cui la trama si svolge, una fra-

se come quella che la Stuarda rivolge a Elisabetta – «Figlia im-pura di Bolena, meretrice indegna e oscena» – è di un impatto enorme: non era certo quello il tempo che permetteva di dire «parolacce». Si tratta di un'esplosione davvero molto moder-na. Per quel che riguarda il personaggio di Elisabetta, mi ri-cordo un Robert Devereux in cui il regista la ritraeva da bambina mentre assisteva all’esecuzione capitale della propria madre, Anna Bolena. Si capiva dunque il perché di questa sua tenden-za a mandare a morte decapitandoli tutti i suoi amanti e avver-sari, perché di quella esecuzione era rimasta dentro di lei una

traccia indelebile. Come dicevo poc’anzi, quello fra la Stuar-da ed Elisabetta è un incontro determinante tra due per-sonalità molto forti, sanguinarie, ambedue detentrici e vo-gliose di potere; ma se l’una è quasi oramai ben conscia che il suo dominio le sta sfuggendo di mano nonostante si osti-ni nel continuare a cercare di alimentarlo attraverso amici-zie e intrighi, l’altra è invece ben sicura che il suo regno sta di-

ventando sempre più soli-do. È un momento molto interessante e infatti le co-se più belle di quest’opera si trovano proprio in que-sto incontro fra le cugi-ne, e in quello che una di-ce dell’altra in sua assen-za. Non va inoltre dimen-ticato che Maria Stuar-da era un’abile decrittatri-ce: sapeva decrittare i va-ri codici segreti e nel farlo si serviva anche di uno dei suoi tanti amanti, Davide Rizzio, che poi fu man-dato a morte. La Stuarda era dunque ben abituata agli intrighi, e se in realtà dovrebbe portare a muo-

vere a pietà il pubblico, in realtà bisogna riuscire a contem-perare le cose. Anche lei infatti è colpevole di tante mor-ti e di tanto sangue, quanto lo è stata Elisabetta d’Inghilter-ra. Per questo, dal punto di vista musicale, bisogna riusci-re a far sì che vengano amate ambedue alla stessa maniera. Certo alla fine chi soccombe è Maria e quindi a lei andran-no le maggiori simpatie del pubblico e anche qualche pian-to, ma in realtà quello che è importante è che anche Elisa-betta è degna sia di ammirazione che di pietà, e anche di lu-dibrio per quel che riguarda il suo essere sanguinaria. (i.p.) ◼

Anna Bolena Robert Devereux

Bruno Campanella

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