Vincenzo Pinto, Un Cristo Ebreo. Alberto Lecco e La Tragedia Ebraica Novecentesca

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Vincenzo Pinto Vincenzo Pinto Un Cristo ebreo Un Cristo ebreo Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca vincenzo ISBN 978-88-909147-5-1 Vincenzo Pinto Vincenzo Pinto Un Cristo ebreo. Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca Free Ebrei - 4 Un Cristo ebreo. Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca Free Ebrei - 4 Dostoevskij come rappresentante insuperabile della condizione ebraica contemporanea? Una rilettura originale del grande romanziere russo ottocentesco consente ad Alberto Lecco (1921-2004) di scrutare le profondità dell'animo ebraico contemporaneo, traendone una sola, grande lezione: avere il coraggio di essere se stessi. Vincenzo Pinto, uno die massimi studiosi italiani di sionismo e identità ebraica, dirige la rivista web „Free Ebrei“ (www.freeebrei.com). 7.00 7.00

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Dostoevskij come rappresentante insuperabile della condizione ebraica contemporanea? Una rilettura originale del grande romanziere russo ottocentesco consente ad Alberto Lecco (1921-2004) di scrutare le profondità dell'animo ebraico contemporaneo, traendone una sola, grande lezione: avere il coraggio di essere se stessi.

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Dostoevskij come rappresentante insuperabile della condizione ebraica contemporanea? Una rilettura originale del grande romanziere russo ottocentesco consente ad Alberto Lecco (1921-2004) di scrutare le profondità dell'animo ebraico contemporaneo, traendone una sola, grande lezione: avere il coraggio di essere se stessi.

Vincenzo Pinto, uno die massimi studiosi italiani di sionismo e identità ebraica, dirige la rivista web „Free Ebrei“ (www.freeebrei.com).

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Un Cristo ebreo

Alberto Lecco e la tragedia ebraica novecentesca

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I edizione, ottobre 2013

© 2013 by Pinto Vincenzo

ISBN 978-88-909147-5-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,è vitato riprodurre questo volumeanche solo parzialmente e con qualsiasi mezzo,

compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

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Indice

Introduzione. Alberto Lecco e l’identità ebraica postbellica..........................III

Capitolo I. Il dilemma tra impegno (comunista-popolare) e disimpegno (ebraico-borghese): “Anteguerra” (1955).....................................................................3

Capitolo II. Comprendere oltre la diversità: “L’incontro di Wiener Neustadt” (1978)........................................................................................15

Capitolo III. Libertà e morte: l’America quale locus horridus della condizione umana (1979-1991).....................................................................31

Capitolo IV. L’impossibile redenzione: “L’ebreo” (1981)..........................55

Capitolo V. Una via di salvezza al femminile: “Ester dei miracoli” (1987)...........................................................................................................65

Capitolo VI. Ebraismo agli “estremi”: “I buffoni” (1998)........................71

Capitolo VII. Cinema e storia: la «rappresentabilità» di Auschwitz nell’Italia postbellica.......................................................................................................79

Capitolo VIII. Fra Israele e la diaspora: la costruzione del «mito» ebraico............................................................................................................91

Conclusione. La tragedia come realtà dell’ebraismo novecentesco?...............103

Bibliografia................................................................................................121

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Introduzione

Identità ebraica e letteratura nell’Italia novecentesca: il caso di Alberto Lecco

Alberto Lecco è stato un romanziere piuttosto prolifico e tuttavia poco noto agli studi d’italianistica nella seconda metà del Novecento. Può essere considerato – fatte le debite proporzioni – uno degli autori che ha maggiormente espresso in Italia il problema dell’individualità ebraica dopo la disumanizzante esperienza di Auschwitz e l’epopea nazionale israeliana. Nato a Milano nel 1921 da madre ebrea e da padre cattolico, dopo la parentesi bellica il giovane Alberto si laurea in medicina ed esercita la professione di medico nella città natia, che abbandonerà nel 1952 per dedicarsi completamente all’attività letteraria. Nel 1950 prepara una tesi di laurea in filosofia intitolata Le categorie del realismo estetico da Diderot in poi, sotto la guida di Antonio Banfi, che non discute. Nel 1955 pubblica il suo primo grande romanzo-fiume: Anteguerra, ritratto della tramontante Italia fascista riletto attraverso le lenti di due adolescenti, uno di madre ebrea e l’altro di fede comunista. Nel 1956 si trasferisce a Roma, nel cuore di Trastevere. Dai primi anni Sessanta si reca più volte a New York per cercare ispirazione letteraria. Dopo un ventennio di sostanziale silenzio, Lecco ritorna sulle scene alla fine degli anni Settanta pubblicando i suoi romanzi più noti: L’incontro di Wiener Neustadt (1977), Un Don Chisciotte in America (Milano 1979) e L’ebreo (1981). La produzione letteraria prosegue negli anni Ottanta e Novanta con I racconti di New York (1982), La città grida (1985), Don Chisciotte ebreo (1985), Ester dei Miracoli (1986), La vera storia di Baby Moon (1988), Il cantore muto (1989), La casa dei due fanali (1991), L’uomo del libro (1991), La morte di Dostoevskij (1994) e I buffoni (1998). Lecco ha collaborato con periodici e quotidiani come «Shalom» e «L’Unità» durante gli anni Ottanta. Lo scrittore milanese muore a Roma nel maggio 2004. Rimasta incompiuta è la prosecuzione di

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Anteguerra, intitolata Guerra1.Lecco è stato un romanziere ebreo italiano poco noto al

circuito dei lettori dei «maggiori» (Levi, Bassani e Ginzburg), né è annoverabile tra i «minori» (Vigevani, De Benedetti, Lattes, Voghera e Rosselli)2. Questo si deve in parte alla sua prosa non particolarmente stilizzata, alla struttura romanzesca vetusta e alla marginalità del tema della persecuzione ebraica. Lecco ha cercato di costruire percorsi di normalizzazione identitaria alla luce della rimozione politica e culturale del passato fascista e di un’ebraicità tutta da scoprire, da inventare e – soprattutto – da affermare pubblicamente3. La resa dei conti con l’identità ebraica malcelata, rinnegata o elusa riguarda quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi: da Anteguerra sino a Prima del concerto, dove l’amore tra i due protagonisti sboccia sotto il cielo della difficile re-integrazione

1 I migliori contributi sulla produzione letteraria di Lecco sono di G. Amoroso, Alberto Lecco, in Letteratura italiana contemporanea, diretta da G. Mariani e M. Petrucciani, Roma, Lucarini, 1979, vol. 4, t. 1, pp. 335-341; G. Manacorda, Letteratura italiana d’oggi (1965-1985), Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 303. Scarsa rilevanza è stata data nel mondo ebraico alla sua produzione: G. Romano, Ebrei nella letteratura, Roma, Carucci, 1979, p. 27; R. Speelman, Dall’argon al carbonio. La letteratura italiana ebraica del dopoguerra, in S. Vanvolsem, F. Mussara, B. Van den Bossche (a cura di), Gli spazi della diversità. Atti del convegno internazionale “Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992” (Lovanio-Namur-Bruxelles 3-8 maggio 1993), vol. I, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 91-92. Sulla morte di Lecco si vedano i seguenti necrologi: N. Riccobono, Muore Alberto Lecco. Raccontò le miserie del fascismo, «L’Unità», 18 maggio 2004, p. 24; È morto Alberto Lecco, una vita dedicata alla Shoah, «La Repubblica», 21 maggio 2004, p. 52; J. Severi Silvestrini, Morte di uno scrittore. Lecco, memoria, Shoah, «Corriere della Sera», 21 maggio 2004, p. 57 .2 Cfr. H. Stuart Hughes, Prigionieri della speranza. Alla ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1983 M. Carlà, L. De Angelis (a cura di), L’ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, Palermo, Palumbo, 1995; L. De Angelis, Qualcosa di più intimo. Aspetti della scrittura ebraica del Novecento italiano (da Svevo a Bassani), prefazione di A. Cavaglion, Firenze, Giuntina, 2006; R. Speelmann and M.M. Jansen (ed.), Contemporary Jewish Writers in Italy. A Generational Approach, Utrecht, Utrecht Publishing & Archiving Services, 2007; C. Tenuta, Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Profili ebraici tra cultura e letteratura nell’Italia del Novecento, prefazione di A. Cavaglion, postfazione di A. Brandalise, Roma, Aracne, 2009.3 Cfr. L. Weinberg (a cura di), L’unità d’Europa. Storia di un’idea , prefazione di F. Colombo, Empoli, Ibiskos Risolo, 2006, pp. 103-106.

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post-bellica; dal Don Chisciotte in America alla Casa dei due fanali, dove lo sbarco in un nuovo continente significa anche la ricerca di una donna-madre-terra più vicina, ma anche più lontana dalla «mediocre» impasse italiana; dall’Ebreo a Ester dei miracoli, dove la sofferenza ebraica viene testimoniata dal sacrificio di una donna o dal suicidio di un uomo incapace di chiamarsi tale. Se Dostoevskij può essere considerato il grande modello della poetica lecchiana, lo è nella misura in cui il problema religioso dello scrittore russo si trasforma nella ricerca di un nuovo legame ebraico di sofferenza e redenzione da parte degli «umiliati» e degli «offesi» del XX secolo: gli ebrei. Questa ricerca socio-psicologica avviene tramite una fonte privilegiata: il romanzo4. Gli eroi lecchiani sono personaggi tragici, privi di un solido legame con la tradizione religiosa, che sentono l’ebraicità come un fardello pesante da concepire storicamente, da vivere quotidianamente, da collocare nella propria memoria individuale, ma anche da «agire» e da rielaborare pubblicamente: vogliono avere il diritto a «raccontare» se stessi.

Se l’identità ebraica è il topos pressoché onnipresente in tutte le opere di Lecco, non rappresenta il nucleo centrale della sua poetica. L’assenza di un filo conduttore ben preciso, cioè di una struttura capace di unificare ed esemplificare i topoi ricorrenti della sua produzione letteraria, può essere riconducibile al bisogno quasi fisico avvertito dai suoi protagonisti di dirsi finalmente ebrei e alla struttura polifonica dei suoi romanzi. Testimoniare pubblicamente la propria ebraicità, ovvero la sofferenza derivante da un percorso storico alienante, è un’esigenza espressa di continuo nelle pagine dei suoi romanzi. Lo scrittore ha voluto rivolgere una critica nemmeno troppo velata alla poetica ebraica diasporica, accusandola di scarsa inclinazione verso il particolare e, dunque, verso l’universale concreto, troppo concentrata su di sé e incapace di uscire dal recinto culturale imposto dalla cultura maggioritaria cristiana «gentile». Il realismo tragico lecchiano parte, dunque, da una prospettiva estetica dostoevskiana-rabelaisiana per sottolineare come l’identità ebraica

4 Cfr. A. Lecco, Romanzo chiuso romanzo aperto, «L’informatore librario», XI, 6, giugno 1981, pp. 22-23.

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contemporanea (occidentale) manchi di un senso d’appartenenza pubblico e pubblicizzato, abbia preferito aggrapparsi ad altri scogli (come l’intimità autobiografica) di fronte alle burrasche psicologiche e sociali contemporanee. Burrasche non solo ideologiche, politiche o economiche, ma anche e soprattutto individuali, coscienziali, legate cioè all’alienazione e all’auto-percezione di sé nel mondo (all’ansia di essere-per-la-vita, prepotente dopo la Shoah e la nascita dello stato d’Israele). Questo peccato d’omissione, però, non comporta una morale dell’impegno nel proprio tempo-condizione (nel senso sartriano del termine), ma semplicemente una morale dell’espressione di sé in una situazione storica ben precisa (come dimostrano le prese di posizione degli alter ego letterari di Lecco). Lo scrittore esprime una sorta di nietzscheano «sì» alla vita ebraica dopo le tragedie novecentesche, una sorta di superamento del nichilismo in vista di una «speranza» messianica.

Quest’affermazione vitalistica non si riverbera – come potrebbe sembrare – nella ricerca di sensazioni forti (spesso di natura sessuale) o nel superamento della ragione in vista di un anti-intellettualismo di maniera (quello che, grosso modo, potrebbe sembrare l’attivismo del sabra rispetto all’inettitudine dell’«ebreo» diasporico). Lecco non esprime una «volontà di potenza» di natura edonistica o distruttiva. L’esigenza dei suoi protagonisti ebrei è soprattutto quella di non sentirsi più «errori», di poter dunque errare senza avvertire più quell’ineffabile senso di colpa verso la propria esistenza mondana. L’ebreo lecchiano – come ha scritto nella raccolta di saggi Don Chisciotte ovvero l’identità riconquistata (1985) – vuole essere radicalmente diasporico per «errare», con la sua «tragica allegria» e «sfrenata tristezza», all’interno di un mondo finalmente redento. Vuole cessare – riferendosi a Kapò di Pontecorvo – di essere antisemita per conto terzi (come ha scritto Sartre), per «ritornare in mezzo agli “altri” cosi com’è e non come la debolezza e la viltà degli “altri” vogliono che sia». Quest’uomo un po’ dostoevskiano (umiliato e offeso), un po’ nietzscheano (risentito e «immorale») aspira a non essere più prigioniero dello sguardo proprio e altrui, a vivere un’esistenza

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autentica e completa in mezzo agli altri, senza più scontare una presunta colpa originaria: quella di non essere un uomo. Un’esigenza, questa, che i personaggi lecchiani riusciranno a soddisfare al meglio nei larghi spazi culturali americani, lontani dalla «vecchia» Europa e da un immobilismo spirituale assolutamente intollerabile: qui potranno finalmente abbandonarsi alle proprie passioni amorose e affrontare l’«inferno» e il «paradiso». La libera espressione della propria passione non significa, però, il conseguimento di una sorta di quadratura esistenziale, il superamento della propria «prigione» identitaria, ma la nemesi di un sentimento tragico della vita, ben espresso dalla passione di Lecco per la patetica figura di Don Chisciotte. Il senso della morte viene trasfigurato in una sorta di «suicidio» esistenziale, in cui i protagonisti lecchiani, una volta denudati se stessi, pongono scientemente fine alla propria finzione scenica riacquistando, di proprio pugno e non per conto terzi, la propria dignità umana.

Lecco non è stato solo un romanziere italiano «minore» e «sui generis», ma ha anche partecipato pubblicamente all’elaborazione di una nuova concezione dell’identità ebraica diasporica novecentesca. Se i romanzi e i racconti hanno tentato di ridare vigore all’esperienza letteraria del realismo tragico (nella forma di auto-denudamento coscienziale quale base di ogni esistenza autentica e autonoma), i suoi articoli e saggi apparsi su riviste e quotidiani fra gli anni Sessanta e Novanta hanno sempre posto all’attenzione del lettore il tema dell’universalità dell’identità ebraica e l’esigenza di impedire qualsiasi deviazione o rimozione della tragedia novecentesca. La profonda partecipazione emotiva riscontrabile nelle caratterizzazioni dei personaggi letterari e nella difesa delle proprie tesi (spesso ortodosse nella «moralità» dell’Olocausto), rende lo scrittore milanese un «corpo» parzialmente estraneo al panorama letterario e pubblicistico del secondo dopoguerra. Questa estraneità ha contorni autobiografici e intellettuali: la sua esperienza della persecuzione antiebraica, il difficile dopoguerra, i «viaggi» americani e un marcato impegno pubblicistico negli anni Ottanta e Novanta permettono di

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delineare il profilo di uno scrittore che ha tentato di superare artisticamente, culturalmente e politicamente una visione «socratica» e consolatoria della condizione ebraica postbellica, rappresentata in Italia dall’icona di Primo Levi. La rinascita dell’ebreo in quanto uomo nasce dall’accettazione piena, completa e storica della propria identità come costrutto di «altri»: solo il grido di disperazione dell’ebreo contemporaneo, sopravvissuto all’Olocausto, può alzare il velo di fronte al «nazismo perenne» e all’autodistruttività umana.

L’obiettivo di questa monografia storica è quello di analizzare in prima battuta la produzione romanzesca di Alberto Lecco dedicata all’identità ebraica (che non è stata il centro di tutte le sue opere letterarie ma – a partire dagli anni Settanta – ne ha rappresentato larga parte). Partiremo dal citato Anteguerra, l’opera autobiografica che indurrà lo scrittore milanese ad abbandonare la professione medica per intraprendere la carriera di romanziere a Roma. Ci soffermeremo poi su quello che, forse, è il suo capolavoro (ed è il romanzo più «noto» al pubblico): L’incontro di Wiener Neustadt, dove, in posizione critica verso l’immagine dell’ebreo «carnefice di se stesso» passata nell’immaginario culturale italiano degli anni Sessanta e Settanta (si pensi a Kapò di Gillo Pontecorvo e a Il portiere di notte di Liliana Cavani), Lecco ripresenta in termini filosofici e psicologici il problema del rapporto fra «vittima» e «carnefice» in chiave dostoevskiana quale scontro di «tipi». Affronteremo poi il cosiddetto «filone americano», rappresentato dai tre romanzi ambientati nel Nuovo Continente (dove Lecco trascorse lunghi periodi negli anni Sessanta alla ricerca della propria ebraicità): Un Don Chisciotte in America (1979), La casa dei due fanali (1991), L’uomo del libro (1991). Passeremo al romanzo d’argomento ebraico – a detta dell’autore – più vicino all’insegnamento dostoevskiano: L’ebreo (1981). Faremo una piccola digressione romana: Ester dei miracoli (1986), la storia romanzata degli ultimi giorni degli ebrei romani, dai contorni fortemente autobiografici. Analizzeremo l’ultimo romanzo lecchiano, ambientato in un’America ormai d’amarcord: I buffoni, che segna la rappacificazione dell’autore con la sua storia

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personale. Al termine di questa lunga carrellata letteraria ci sposteremo sulla produzione pubblicistica e saggistica di Lecco, sempre legata all’attualità e incentrata sul tema della rappresentazione dell’ebreo nell’arte e nella cultura contemporanea, dalla diaspora sino al nuovo stato di Israele.

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Capitolo I

Il dilemma tra impegno (comunista-popolare) e disimpegno (ebraico-borghese): Anteguerra (1955)

Il primo romanzo di Alberto Lecco (Anteguerra), profondamente autobiografico, narra la storia di due famiglie milanesi che vivono nello stesso stabile: la famiglia borghese Dominedò, composta dal padre Carlo, dalla madre Lucilla e dal figlio Augusto; e quella dei portinai Rajoni, composta dal padre Toni, dalla madre Sibillina Mastrogiacomo e dal figlio Gianni1. Siamo alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Romanzo-fiume secondo i canoni classici del realismo ottocentesco, Anteguerra presenta alcuni topoi della narrativa classica ebraica italiana: l’immagine dell’ebreo borghese «inetto» o «indifferente», la sua incapacità di reagire costruttivamente al «rifiuto» fascista2. La differenza rispetto ad altri autori di tema ebraico consiste nel tentativo di smascherare l’inadeguatezza del personaggio di fronte al mondo. La scelta del periodo storico (l’interstizio fra il varo delle leggi razziali e lo scoppio della Seconda guerra mondiale) è emblematica: l’ebreo italiano deve decidere da che parte stare. Alla fine sceglie di non decidere e finisce morto per una triste fatalità (come, alcuni anni dopo, il protagonista di Un ebreo nel fascismo di Preti)3. Lecco non intende sfatare lo stereotipo ebraico-borghese italiano, che descrive il personaggio ebreo come colto, raffinato e «malato di vivere»4, ma vuole mettere in evidenza i meccanismi performativi della sua tragedia storica ed esistenziale (l’ontogenesi

1 Cfr. G. Rimanelli, Il mestiere del furbo. Panorama della narrativa italiana contemporanea, Milano, Sugard, 1959.2 Cfr. V. Pinto, La terra ritrovata. Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento, Firenze, Giuntina, 2012, cap. 4.3 Cfr. ivi, cap. 3.4 Cfr. ivi, cap. 5.

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e la filogenesi freudiane). L’ebreo non può semplicemente farsi comunista per combattere il fascismo, sfuggendo così alla sua «ebraicità» in vista di un’universalità umana astratta e sradicata. Deve anzitutto prendere consapevolezza di come la sua immagine sia stata forgiata e modellata dagli «altri». Questo processo fenomenologico non è affatto scontato e tutt’altro che «formativo»: il personaggio scopre di non essere mai stato se stesso, di essere prigioniero di una maschera che non riesce più a levarsi, finendo per morire della propria inconsistenza e futilità.

Anteguerra segue le vicende esistenziali delle due famiglie (in particolare, i diversi rapporti coniugali tra i due «borghesi», gretti, egoisti e autoreferenziali, e i due «proletari», cordiali, altruisti e pronti al sacrificio), ma si concentra sull’«educazione sentimentale» dei due giovani: Gianni, l’«eroe», e Augusto, l’«antieroe». Lecco ha cercato di ritrarre non soltanto le vicende adolescenziali dei due ragazzi in un particolare momento storico, ma anche e soprattutto la sua visione del mondo ebraico e del fascismo. Augusto e Gianni possono essere considerati le due facce di una stessa medaglia: il primo è un inetto borghese, il secondo è un inetto proletario alla vita. La condizione sociale si riverbera sulla posizione politica e sul diverso modo di reagire alla catastrofe bellica. Entrambi coltivano una visione romantica e poco pragmatica dell’esistente: il primo si rinchiude progressivamente in una realtà di mondi possibili (realizzando la nemesi del materialismo borghese), il secondo, posto di fronte a difficili scelte esistenziali, si sobbarca sulle proprie spalle il «dolore del mondo» e intraprende una lotta personale per il miglioramento della società. L’idealismo dell’uno è destinato allo scacco come l’universalismo del secondo: la morte e l’esilio segnano il commiato dal loro mondo adolescenziale. Sullo sfondo di questi conflitti adolescenziali si staglia non soltanto il progressivo abbraccio mortale tra la Germania nazista e l’Italia mussoliniana, ma anche la promulgazione della legislazione razziale (che riguarda in prima persona la famiglia di Augusto) e l’attività comunista e antifascista (che riguarda in prima persona quella di Gianni). Assume particolare rilevanza il percorso esistenziale di Augusto (una sorta di alter ego dell’autore), di madre

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ebrea e padre cattolico, che propone il rapporto fra la sua condizione sociale, la sua appartenenza etnico-religiosa e la sua reazione di fronte alla conflagrazione bellica.

Il lungo romanzo di Lecco è suddiviso in tre parti. La prima (Autunno) precede l’inizio del nuovo anno scolastico. Siamo nell’autunno del 1938. Augusto è stato bocciato agli esami di riparazione5. La madre Lucilla, donna sensibile, romantica, fragile, è preoccupata per le sorti del figlio. Il padre Carlo, azionista di una società d’olio, uomo pragmatico e fondamentalmente privo di ideali (fascista per opportunismo, pieno di sé e gretto nei rapporti umani), legge con preoccupazione i giornali riguardanti la prossima visita del Duce a Milano e la piega antisemita del regime fascista6. Lucilla litiga furiosamente col marito, che ha appena ottenuto per il figlio il «riconoscimento della non appartenenza alla razza ebraica»7. Augusto, posto di fronte allo squallore crescente della vita coniugale (i genitori si rinfacciano i rispettivi amanti)8, viene spedito dal padre al Reale Collegio d’Italia, istituzione statale, laica e piuttosto lontana da casa, dove confida che possa migliorare il rendimento scolastico9. La vita di Carlo è scandita dal lavoro nella ditta d’olio, dall’appuntamento con l’amante Luisa in un pied-à-terre e dal «triste» ritorno all’ambiente familiare10. Augusto si reca col padre a sentire il discorso di Mussolini a Milano proprio il giorno della sua bocciatura (il 19 settembre). Carlo cerca di catechizzare il figlio spiegandogli com’era l’Italia prima dell’avvenuta «normalizzazione» fascista: un paese caotico, disordinato e «infettato» dai rossi11. Vorrebbe che il figlio guardasse in faccia la realtà, abbandonando ogni illusione adolescenziale: «“Caro mio – osserva –, homo homini lupus, ricordartelo. Lavorare o far lavorare gli altri. Questo è un mondo

5 Cfr. A. Lecco, Anteguerra. Storia di due famiglie, Milano, Edizioni di scienze e arti, 1955, pp. 7 ss.6 Cfr. ivi, pp. 14 ss.7 Cfr. ivi, p. 32.8 Cfr. ivi, pp. 23 ss.9 Cfr. ivi, pp. 38 ss.10 Cfr. ivi, pp. 50 ss.11 Cfr. ivi, pp. 65 ss.

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sporco, ma è così: o si lavora per gli altri o gli altri lavorano per te. E tu nella vita cerca sempre di far lavorare gli altri per te, si sta meglio”»12. Carlo non vuole che Augusto faccia lo scrittore (attività poco remunerata e «virile»), vuole istruire il figlio sui veri piaceri della vita: un lavoro solido, una donna e poche illusioni sul prossimo. Ma il ragazzo è irremovibile: sentendo le parole del Duce sulla «questione ebraica», spera che la madre affermi la propria ebraicità e, con essa, la propria dignità13.

Mentre la vita borghese dei Dominedò è scandita dalle inquietudini adolescenziali di Augusto e dall’incomunicabilità fra i coniugi, ben diversa è la situazione della famiglia Rajoni. Qui prevalgono le preoccupazioni pratiche di tutti i giorni: il padre Toni, oltre a fare il portinaio, sbarca il lunario come vetturino; la madre Sibillina è costretta a sbarcare il lunario con il meretricio. Gianni è stato presente alla parata in onore di Mussolini. Dopo un’iniziale infatuazione per la folla, inizia ad assumere una posizione critica verso la nuova politica fascista: non capisce l’odio verso gli ebrei (Lucilla è la sua insegnante di pianoforte, e Augusto suo amico)14. Fa visita alla fidanzata Maria, un’umile lavoratrice che sogna per lui un futuro da grande pianista15. Gianni, per aiutare la famiglia ormai in ristrettezze finanziarie, decide di andare nello stesso collegio di Augusto per terminare gli studi liceali, ma anche per proseguire i suoi studi musicali16. In portineria suona il piano per Toni, Sibillina e la sorellina Gelso: i genitori, che si vogliono molto bene, sperano che il loro figlio si emancipi dalla loro indigenza17. Mentre Augusto si prepara a lasciare la casa per il collegio, Carlo e Lucilla discutono dell’avvenire del loro patrimonio: il marito (convinto dal battage propagandistico antisemita) vuole che la moglie glielo intesti per evitarne la prossima confisca18. Lucilla, dopo averne discusso con le amiche a

12 Ivi, p. 82.13 Cfr. ivi, pp. 85 ss.14 Cfr. ivi, pp. 89 ss.15 Cfr. ivi, p. 96 ss.16 Cfr. ivi, pp. 107 ss.17 Cfr. ivi, pp. 126 ss.18 Cfr. ivi, pp. 139 ss.

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un circolo letterario, confessa al figlio un dubbio che l’ha sempre lacerata: che lui, forse, sia figlio di un altro uomo (un critico musicale di nome Marcello Manchiuri), l’amore della sua vita19. Carlo, dopo aver letto sul giornale i nuovi provvedimenti assunti dal Gran Consiglio del Fascismo contro gli ebrei, parla nuovamente con Lucilla della situazione politica. La donna, pur riluttante, decide di firmare la cessione dei suoi beni per metà al marito e per metà al figlio20. Lucilla confessa alla domestica Francesca tutte le sue frustrazioni affettive e lavorative: non era riuscita a diplomarsi al conservatorio per via delle sue mani troppo piccole e non aveva potuto amare l’uomo della sua vita21.

La seconda parte del romanzo (Inverno) s’inaugura con l’inizio dell’anno scolastico nel collegio milanese. Augusto, giunto alcuni giorni prima di Gianni, ha subito modo di entrare a contatto coi perversi meccanismi comunitari: l’accettazione del «branco» e le voci intorno ai comportamenti poco «consoni» di sua madre22. Gianni, invece, non ha bisogno di rincorrere il riconoscimento altrui: riesce facilmente a conquistare la stima dei compagni, ma anche l’invidia del più debole amico. Le idee troppo libertarie del giovane figlio del popolo cominciano a preoccupare gli insegnanti del collegio: Gianni si scontra, in particolare, col docente d’italiano, che non gradisce il suo umanesimo ingenuo e poco «virile»23. Augusto continua a combattere la sua personale battaglia per un posto nel mondo: il padre Carlo lo vorrebbe «sverginare» con la sua amante; un giorno si azzuffa con un compagno di collegio per essere stato chiamato «sporco ebreo»24. Augusto si riavvicina all’amico Gianni: progettano di andare a vivere insieme dopo il collegio e di dedicarsi alle loro rispettive passioni (la musica e la letteratura)25. Sopraggiungono le vacanze natalizie: Augusto torna finalmente a casa, dove lo attendono la madre

19 Cfr. ivi, pp. 147 ss.20 Cfr. ivi, pp. 164 ss.21 Cfr. ivi, pp. 175 ss.22 Cfr. ivi, pp. 187 ss.23 Cfr. ivi, pp. 206 ss.24 Cfr. ivi, pp. 215 ss.25 Cfr. ivi, pp. 249 ss.

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commossa e il padre, orgoglioso per il figlio nella zuffa26. Durante il pranzo di Natale, in cui Gianni suona alcune melodie al pianoforte, Augusto conosce l’amante del padre (Luisa Santoliquido)27. Mentre il giovane Dominedò fantastica sul corpo di una «vera» donna e sull’esistenza o meno di un suo sentimento amoroso, l’amico Gianni affronta un Natale di ristrettezze: il padre lavora nelle fredde serate invernali, aiutato dal meretricio materno, pur di sostenere l’avvenire del loro figlio pianista28. Durante le vacanze incontra anche l’amata Maria: lei, come il padre, teme che le ardite idee politiche di Gianni possano metterne a repentaglio la permanenza in collegio e la sua stessa libertà29.

La posizione politica di Gianni (che si intreccia con la sua condizione umana di proletario colto milanese) comincia a definirsi: la lettura di molti testi di autori «pericolosi» come Marx ed Engels lo spingono verso il comunismo politico30. Il vice-direttore del convitto convoca Toni per metterlo in guardia di fronte alle pericolose idee del figlio. Ma il padre vuole che Gianni inizi ciò che la sua generazione non era stata in grado di concludere col «biennio rosso»: un cambiamento radicale della società italiana. Gianni fa visita a un vecchio intellettuale comunista, che lo avvia a uno studio sistematico delle opere rivoluzionarie31. L’«educazione sentimentale» di Augusto affronta lo scoglio rappresentato dall’amante del padre: conosce Luisa e s’innamora follemente della sua «maturità»32. Nel frattempo, Carlo intende prendere alcuni provvedimenti sulla «questione razziale» in ambito familiare: è convinto che gli affari della sua azienda vadano male a causa di un azionista ebreo; vorrebbe far battezzare Augusto e divorziare dalla moglie, per non rimetterci ulteriore denaro e rispettabilità «fascista-borghese»33. Lucilla non ne vuole

26 Cfr. ivi, pp. 258 ss.27 Cfr. ivi, pp. 277 ss.28 Cfr. ivi, pp. 308 ss.29 Cfr. ivi, pp. 318 ss.30 Cfr. ivi, pp. 327-328.31 Cfr. ivi, pp. 329 ss.32 Cfr. ivi, pp. 341 ss.33 Cfr. ivi, pp. 352 ss.

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sapere di convertirsi al cristianesimo, ma teme le azioni ritorsive del marito: Carlo sta studiando un modo legale per costringerla alla separazione consensuale per poterla spogliare di tutti i suoi beni34. L’avvocato le consiglia di sorprendere il marito in flagranza con l’amante, ma Lucilla, recatasi nel suo pied-à-terre, finisce per trovarvi inaspettatamente il giovane figlio!35 Carlo si ammorbidisce e cerca di trovare un accordo con Lucilla, che si sente tradita da tutti i familiari e dall’amica Luisa36. Augusto comincia a sviluppare una strana e bipolare consapevolezza di sé: appagato grazie al rapporto con Luisa e alla sua scrittura, ritiene che questa superiorità edonistica lo renderà più amabile agli occhi del mondo37. Dopo che il vice-rettore del collegio ha scoperto un gruppo di volantini propagandistici antifascisti38, l’insegnante di religione Don Rivoli cerca di far ravvedere il comunista Gianni, prima dell’incontro decisivo col vice-direttore39.

La terza e ultima parte del romanzo, intitolata Primavera, racconta l’epilogo storico-esistenziale di Augusto e Gianni. Il Rettore del convitto è chiaramente antisemita: ritiene che gli ebrei siano una minoranza «maledetta» e complottarda40. Crede anche che Gianni, amico di Augusto, sia ebreo in quanto comunista41. Un lungo collegio docenti sancisce l’espulsione del giovane Rajoni per attività sovversive42. Il padre Toni non s’infuria con Gianni, ma lo mette in guardia di fronte al rischio di essere pedinato fino all’abitazione del vecchio comunista43. La frequentazione del figlio costa al padre la revoca della licenza di vetturino da parte della corporazione fascista44. Gianni comincia seriamente a pensare all’esilio per evitare di continuare a essere un peso economico e 34 Cfr. ivi, pp. 360 ss.35 Cfr. ivi, pp. 378 ss.36 Cfr. ivi, pp. 389 ss.37 Cfr. ivi, pp. 410 ss.38 Cfr. ivi, pp. 417 ss.39 Cfr. ivi, pp. 440 ss.40 Cfr. ivi, pp. 459 ss.41 Cfr. ivi, pp. 472 ss.42 Cfr. ivi, pp. 482 ss.43 Cfr. ivi, pp. 512 ss.44 Cfr. ivi, pp. 527 ss.

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politico per la sua povera famiglia45. Il legame con la famiglia Dominedò si fa sempre più forte: Carlo, che ormai ha rinunciato a divorziare da Lucilla, viene convocato in questura per fornire alcune informazioni sul «contegno» del portinaio Rajoni e del figlio46. Lucilla è costretta a cedergli tutti gli immobili per evitare che vengano sequestrati dallo Stato47. Augusto continua a frequentare Luisa, ma vorrebbe anche conservare un rapporto d’amicizia con Gianni, che è osteggiato dal padre Carlo in quanto membro inferiore nella scala sociale48. Luisa persuade Augusto a deporre in questura sulle idee sovversive dell’amico. Accompagnato dal padre, il giovane Dominedò finisce per confessare tutto ciò che sa: Gianni è sempre stato antifascista e lui no, semplicemente perché non è abbastanza «intelligente»49. Il mondo ideale di Augusto comincia improvvisamente a incrinarsi: l’amore per una donna e per la letteratura si scontra con la tradita fedeltà all’amico fraterno50 I genitori di Gianni lo accusano di aver tradito il suo più caro amico (Gianni è stato portato via dalle forze di polizia)51. Luisa confessa ad Augusto che è stato Carlo a spingerlo alla deposizione, semplicemente perché gli vuole bene. Augusto non sa se togliersi la vita oppure se uccidere il proprio padre, reo di averlo portato sulla cattiva strada52.

Augusto è infuriato con i suoi genitori, ma alla fine – da buon borghese «vile» – non ha il coraggio di rompere definitivamente i legami con loro53. Gianni, che ha saputo da un milite fascista che è stato «tradito» dall’amico Augusto54, ha modo di pensare in prigione al significato del fascismo e al suo rapporto con l’amata Maria55. Improvvisamente – senza alcun motivo apparente – viene 45 Cfr. ivi, pp. 537 ss.46 Cfr. ivi, pp. 545 ss.47 Cfr. ivi, pp. 556 ss.48 Cfr. ivi, pp. 567 ss.49 Cfr. ivi, pp. 576 ss.50 Cfr. ivi, pp. 597 ss.51 Cfr. ivi, pp. 585 ss.52 Cfr. ivi, pp. 597 ss.53 Cfr. ivi, pp. 604 ss.54 Cfr. ivi, pp. 611 ss.55 Cfr. ivi, pp. 623 ss

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rilasciato56. Torna a casa a prendere i suoi effetti personali e si appresta a partire per l’esilio francese57. Il padre, che ha venduto il suo calesse per pagargli il passaporto, lo avverte del ravvedimento dell’amico e cerca di riavvicinarlo al figlio58. Gianni saluta Maria e promette di sposarla59. Augusto, invece, dopo la scenata a casa, è tornato in collegio. Pensa alla scelta di Gianni e al suo comportamento ingenuo e vile60. Mentre assiste a una manifestazione fascista a Milano, pensa all’impegno politico e alla guerra ormai imminente61. A casa si respira un ambiente surreale: Carlo e Lucilla sembrano aver stipulato un armistizio per il bene del figlio, ma Augusto sembra ormai aver perso ogni speranza per il futuro62. La madre lo mette al corrente della sua esperienza amorosa con M.M., ma gli offre anche una visione della vita alquanto mortificante e fatalistica63. Augusto si reca a salutare Gianni, che tiene un piccolo concerto per i suoi familiari64. Augusto e Gianni fanno la pace: il giovane Dominedò vorrebbe partire con l’amico, ma non è possibile65. L’addio di fronte al piazzale della Stazione è anche il commiato dalla sua breve e disgraziata esistenza spirituale: «Io sono perduto e devo morire – si dice. E poi sono già morto. Adesso capita che sono qui, in questa piazza, e fra poco mi alzerò e mi ucciderò, ma in realtà da quanto tempo sono già morto? Forse dal principio di quest’anno. […] Bisogna che non pensi più a niente. Se penso soffro e non voglio più soffrire»66. Ma proprio mentre sta pensando che ci sia ancora un futuro e che tutto non sia perduto, Augusto incespica sull’orlo del marciapiede e cade:

56 Cfr. ivi, pp. 630 ss.57 Cfr. ivi, pp. 638 ss.58 Cfr. ivi, pp. 646 ss.59 Cfr. ivi, pp. 659 ss.60 Cfr. ivi, pp. 673 ss.61 Cfr. ivi, pp. 684 ss.62 Cfr. ivi, pp. 698 ss.63 Cfr. ivi, pp. 706 ss.64 Cfr. ivi, pp. 726 ss.65 Cfr. ivi, pp. 738 ss.66 Ivi, p. 746.

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L’autobus gli fu sopra inaspettato e veloce. Augusto sentì un soffice urto sul fianco destro e udì ancora un lacerante stridio. Poi gli sembrò di scivolare e che qualcuno lo trascinasse per le gambe sull’asfalto bagnato; ma non faceva male, era consolante e meraviglioso non sentire alcun dolore. «Senza dolore da questo mondo» pensò67.

Anteguerra, pubblicato a spese dell’autore per un piccolo editore milanese, presentava in nuce il tema del conflitto tra «bene» e «male» nella società italiana fascista. È sintomatico che entrambi i protagonisti siano, a loro modo, degli sconfitti: l’antieroe ebreo muore per viltà, l’eroe proletario abbandona la propria patria. Augusto e Gianni sono «figli» del loro tempo e della loro rispettive famiglie: la piccola borghesia dei Dominedò, che mescola il romanticismo spirituale (Lucilla) con una meschinità materiale (Carlo), e il sottoproletariato dei Rajoni, che mescola il realismo tragico (Sibillina) con la pavidità politica (Toni). La critica ha apprezzato l’ampio affresco realistico di Lecco, la pluralità delle voci umane e la caratterizzazione dei personaggi68, mentre meno accondiscendente è stata verso l’eccessiva analiticità e il linguaggio (vedi la netta stroncatura di Dario Grossi)69. La forte impronta autobiografica ha reso allo stesso tempo realistica e tipica la figura di Augusto, che incarna la figura tragica dell’ebreo sotto il fascismo poi sviluppata in altri romanzi. Lecco, che avrebbe voluto pubblicare la prosecuzione Guerra70, ha tentato di rappresentare la condizione ebraica non come un fenomeno meta-storico e meta-fisico ma come l’esito di un processo storico ben preciso: l’incapacità da parte dell’ebreo di ritagliarsi uno spazio individuale nel mondo e di affermare la

67 Ivi, p. 750.68 Cfr. M. Fazi, Anteguerra. Ottimi inizi nel regno della narrativa per Alberto Lecco, «Il secolo XIX», 30 agosto 1955, p. 3; «Libri e riviste», LXVIII, ottobre 1955, pp. 1840-1841; «Almanacco italiano», 58, 1956, p. 319; «Letterature moderne», VI, 3, maggio-giugno 1956, p. 374; [G.T.] Due libri di un narratore, «Il Popolo», 27 luglio 1961, p. 5.69 Cfr. «Il Ponte», XI, secondo semestre 1955, p. 2185; XII, primo semestre 1956, p. 319.70 Una sorta di prosecuzione di Anteguerra è il racconto Morte di un padre («Paragone», 330, agosto 1977, pp. 41-62), vincitore del premio Teramo nel 1977.

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propria particolarità. Se il fascismo è inaccessibile perché contiene i germi della negazione dell’ebraicità, anche il comunismo non rappresenta una soluzione realizzabile. Augusto fallisce nell’imboccare il sentiero stretto fra la distruzione dell’identità ebraica da parte del fascismo e l’affermazione dell’identità comunista: la sua età, la sua sensibilità, la sua famiglia «mista», la società del suo tempo gli impediscono di essere ebreo e uomo in pari misura. Se essere ebreo ed essere uomo è la stessa cosa, allora il problema non è unicamente individuale o familiare, ma diventa anche sociale. Indagare sui meccanismi psicologici e sociali che hanno distrutto l’ebraicità nel corso della storia diventa il compito primario dell’attività letteraria di Alberto Lecco.

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Capitolo II

Comprendere oltre la diversità: L'incontro di Wiener Neustadt (1977)

«Chiuso in una esemplare unità di azione, tempo e luogo», L’incontro di Wiener Neustadt (1978) s’inserisce nel bel mezzo della quarantennale produzione letteraria lecchiana, caratterizzata dal bisogno di testimoniare pubblicamente il Dasein ebraico nel secondo dopoguerra1. Dopo il romanzo-fiume autobiografico Anteguerra, lo scrittore milanese aveva dato alle stampe altri tre romanzi e una raccolta di racconti: Un’estate d'amore (1958), dove si consuma un amore epistolare fra due villeggianti2; Prima del concerto (1961), dove un medico insoddisfatto della propria esistenza familiare e lavorativa ha un fugace incontro amoroso con una ragazza davanti a una biglietteria lirica3; I quindici (1963), che racconta la viltà di un giovane mezzo ebreo ucciso involontariamente dai partigiani comunisti4; Vieni notte! (1963), che raccoglie alcuni racconti d'argomento ebraico (poi citati nei romanzi semi-biografici del «ciclo americano»)5. Vieni notte! presenta alcuni topoi della sua produzione successiva: la difficoltà a ritrarre la tragedia dell’Olocausto senza un processo di profonda immedesimazione nella storia ebraica (Vieni notte!), il suicidio come testimonianza di una disperata richiesta d’amore (Come si incontrarono, si amarono e morirono Giulia Frankel e Ladislao Levi) e il problema del senso di colpa tedesco (Motek). Mentre I quindici sono la naturale prosecuzione di Anteguerra (dove il protagonista

1 Su questo romanzo si veda il mio saggio, La parola ebreo”. “L’incontro di Wiener Neustadt” di Alberto Lecco (1978), «La Rassegna mensile di Israel», LXXXV, 2-3, agosto-settembre 2009, pp. 99-116.2 Cfr. A. Lecco, Un'estate d'amore, Roma, Carucci, 1958.3 Cfr. id., Prima del concerto, Roma, Carucci, 1961.4 Cfr. id., I quindici, Roma, Canesi, 1963. Sulla ricezione di questo romanzo-breve si veda [t.r.] I quindici, «L’Unità», 4 agosto 1963, p. 6 «Cultura popolare», 35-36, 1963, pp. 217-218; «Le cronache di Civitas», 1965, p. 1755 Cfr. id., Vieni notte!, Milano, Ceschina, 1963.

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amleticamente indeciso tra essere ebreo oppure no, sceglie la fuga e quindi la morte per mano dei «giusti»), la raccolta di racconti del 1963 mostra un’evoluzione narrativa nella poetica lecchiana, meno analitica e più incentrata sulla caratterizzazione morale dei personaggi. Il tema del «male» e il rapporto dostoevskiano tra vittima e carnefice vengono trasposti dalla Russia ottocentesca nell’Europa occidentale novecentesca.

L’incontro di Wiener Neustadt, composto nei primi anni Sessanta (ma rielaborato probabilmente negli anni Settanta sulla scorta di alcuni «eventi» cinematografici come La morte a Venezia di Visconti e Il portiere di notte della Cavani), può essere paragonato a una pièce teatrale, non solo per la forma unitaria aristotelica ma anche per la struttura rigidamente dialogica dell’intreccio. Lo scenario è decisamente mitteleuropeo, quasi manniano per l’andamento nebuloso, il gelo, la brevità e la coltre filosofica che avvolge i tre protagonisti: la coppia di deportandi ebrei e un capitano delle SS. Un ragazzino ebreo e un ferroviere sono le uniche compresenze in carne e ossa che accompagnano i tre protagonisti, quasi a segnare la partenza per gli inferi da parte degli ebrei. Il romanzo si apre con i due protagonisti ebrei in attesa del treno-merci che li deporterà a Bergen-Belsen. Siamo nella stazione di Wiener Neustadt, cittadina a sud della capitale austriaca e centro ferroviario nevralgico. Qui e non da Vienna – commenta l’io narrante – le autorità naziste hanno deciso di far partire il convoglio degli ebrei, perché, oltre ai problemi derivanti da un recente bombardamento alleato sulla stazione della capitale austriaca, «un numero di bambini inspiegabilmente alto», biondi e con gli occhi azzurri, avrebbe rappresentato uno «spettacolo poco edificante e forse persino deprimente» per i benpensanti della vecchia città imperiale: avrebbe messo in discussione lo stereotipo «ariano»6. I deportandi, prevalentemente «ariani» per aspetto fisico, sono in tutto e per tutto austriaci nel comportamento e nelle speranze (come quella nel ritardo del convoglio, tipico della

6 Id., L’incontro di Wiener Neustadt, Milano, Mondadori, 1978, p. 9.

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democrazia antecedente l’Anschluss del 1938). Gli ebrei accovacciati sul piazzale della stazione non sembrano mostrare più alcun interesse verso il proprio futuro, tanto è vero che le SS di sorveglianza («indecifrabili idoli in uno stato di quiete») bivaccano qua e là, avvolti nei loro lunghi mantelli neri: la resa al loro destino tragico è ormai completa7.

La descrizione della scena iniziale viene arricchita dall’irruzione di un bambino di dieci anni, vestito alla marinaretta e con un taglio alla maschietta, che corre qua e là svolazzando con il suo aeroplanino, mentre si diffonde nell’etere una musica proveniente dall’ufficio del capostazione. Il bambino, come Ermes, accompagna gli ebrei verso la morte nei campi di concentramento. Un altoparlante, forse inavvertitamente lasciato acceso dal capostazione, diffonde le note di un compositore classico tedesco (Bach o forse Gluck). Il capitano delle SS Oscar Schelling, originario di Hannover (l’equivalente di Firenze nella storia della lingua tedesca), amante della musica classica e di Goethe, decide di non interrompere il collegamento audio con l’esterno, perché è convinto che, nonostante la dolce melodia del grande compositore tedesco, non sarebbe mutata la distanza-differenza «genetica» che separa ebrei e ariani. Schelling ascolta la musica leggendo le Affinità elettive di Goethe, un romanzo di cui ammira la «misteriosa complicità» dei protagonisti e la loro lontananza «dal sottomondo degli uomini comuni, quelli per così dire che si incontrano ogni giorno per la strada». Apprezza il radicamento costruttivo dei personaggi dell’opera goethiana, ricchi borghesi privi di angosce materiali, intenti unicamente a progettare e a costruire sulla «propria» terra la casa del loro futuro. Schelling spera un giorno di poter essere come loro, perché – pensa rivolgendosi alla «soluzione finale della questione ebraica» – non è il gesto orribile che conta ma l’intenzione meravigliosa che lui e il popolo tedesco stanno cercando di realizzare a danno dei

7 Cfr. ivi, p. 11.

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«diversi»8. Dopo aver sbirciato fuori la massa «grigia e informe dei prigionieri» e il ragazzino con l’aeroplanino, che gli infonde una «indulgente tranquillità», conclude fra sé e sé: «A un vero uomo tedesco non resta che questo da fare»9.

L’«entusiasmo» tedesco (vittorioso sul «logos» ebraico-illuministico) è spinto da una visione della bellezza unilateralmente classica, volta a contrapporre l’obbligo morale alla bellezza plastica, il rigore etico all’estetismo pseudo-platonico, la vita (mobile) alla non-vita (immobile). Il «messaggero della morte», il ragazzino con il suo aeroplanino, abbandona la visione del capitano nazista per dirottarsi verso due persone rannicchiate per terra al limite estremo del raggruppamento, protagoniste dell’intera vicenda. Un uomo e una donna, che si distinguono fra loro non per l’abbigliamento ma per la civetteria dello scialle di lei, discutono «con grande animazione, come se avessero fretta e, pur senza ridere, quasi con allegria». La vivacità del ragazzino interrompe bruscamente la loro discussione: il suo aeroplanino tedesco non vola più in cielo, perché lui ha ucciso il pilota tedesco. La donna è felice non perché l’aeroplano bruci, ma perché il ragazzino «voglia ucciderlo» (il pilota tedesco): comprende impercettibilmente e con un certo sgomento quale bellezza possa esserci nell’annientamento di una vita umana. Peter Jung e Anna Rosenberg, la coppia di coniugi ebrei austriaci, s’interrogano sul fatto che il ragazzino, così come la maggioranza degli ebrei fermi nella stazione di Wiener Neustadt, parli una lingua a loro ignota: lo yiddish, quintessenza della sintesi diasporica fra tradizione e integrazione, fra rigore e passione, fra etica ed estetica, avvenuta nell’ebraismo orientale. Inizia uno scambio di battute sul rapporto fra identità ebraica e germanicità, in cui i due ebrei austriaci non si chiedono «socraticamente» cosa sia l’una o l’altra, ma «menippeamente» la loro «ragione» più intima e segreta10.

8 Cfr. ivi, pp. 12-13.9 Ivi, p. 14.10 Ivi, p. 24.

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La fine della loro vita è segnata indelebilmente dal naufragio della ragione. Peter e Anna erano studiosi di filosofia a Vienna. Non hanno nemmeno trent’anni. Hanno sempre «parlato», sin dai primi giorni in cui si erano conosciuti11. Malgrado i consigli del professore di Peter, i due coniugi avevano deciso di restare in Austria, di non abbandonare la loro casa per cercare rifugio altrove (in America o in Palestina, per esempio). Convinti che il loro professore non fosse antisemita perché ha «studiato» (cioè ha spazzato via tutti i pregiudizi e le verità tradizionali prive con il «lume della ragione»), braccati, senza un posto in cui andare e senza una speranza nel futuro, hanno deciso di comune accordo di consegnarsi alle SS. Il destino vuole che gli ebrei apolidi debbano morire. Abbracciati su una panchina della stazione di Wiener Neustadt, Peter e Anna si pongono un interrogativo filosofico molto importante: dov’è finito il libero arbitrio? Hanno effettivamente potuto scegliere il loro destino? Come i cristiani di duemila anni prima, così gli ebrei europei del XX secolo attendono di varcare col sorriso sulle labbra le porte della vita eterna. Peter e Anna discutono animatamente di un manoscritto che il marito porta nella sua borsa di pelle. Un saggio su Hegel che, forse, non vedrà mai la luce (viene in mente il tragico destino di Walter Benjamin). Peter e Anna sono pieni di odio verso se stessi, perché non hanno capito niente di ciò che stava accadendo in Europa. Anna traccia un ritratto puntuale dell’animo umano. L’unica eccezione è rappresentata dal piccolo ferroviere occhialuto che cammina nella stazione di Wiener Neustadt, che forse ha sorriso loro, che forse si muove, che forse ride e piange, che cerca di persuadere i nazisti a «desistere, a rinunciare a quella immobilità che uccide tutto, intorno. Insomma, si tratta del fatto che se non li persuaderà, sarà egli stesso ucciso. È la sua ultima difesa, il suo testamento, la sua domanda di grazia»12. Ma Anna sogna anche di un uomo capace di far loro spazio nella sua vita, di rompere

11 Ivi, p. 23.12 Ivi, p. 42.

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l’immobilismo degli uomini, dei nazisti, di un uomo capace di accogliere Hegel dentro di sé, di non essere più una cosa, ma qualcuno. Peter è rincuorato dalle parole consolatorie di sua moglie. Sente che la vita passata non è stata nient’altro che una corsa senza fine, un cammino verso una mèta che non esiste e che non poteva esistere: il voler essere qualcun altro che non esiste. Pensa agli anni trascorsi a Vienna nel suo istituto di filosofia, dove lavorava a un nuovo progetto editoriale e cercava di crearsi una posizione lavorativa solida13.

Lo sfogo senza speranza di Peter e Anna termina non appena intravedono tra la folla dei prigionieri la sagoma immobile del capitano delle SS. Il gelo pungente di quel gennaio 1942 (lo stesso della conferenza del Wannsee, dove fu decisa la soluzione finale del popolo ebraico) penetra nelle loro ossa e nei loro animi. «La sua gentilezza non soltanto era fatua, ma anche del tutto inutile e rivolta addirittura agli spettri, come dire a gente inesistente»14. A Peter viene in mente la figura di suo zio Enrico, che preferiva essere considerato una persona furba piuttosto che importante, un uomo e non un modello: «Se ci pensi bene, è giusto. Chi è importante può esserlo in quelle particolari circostanze e in un momento particolare della sua vita. Ma chi è davvero furbo può sempre diventare importante e rimanere furbo per sempre»15. Improvvisamente il capitano nazista scompare dal loro raggio visivo, ma ricompare la voce di un uomo dal perfetto Hochdeutsch: «Non sono d’accordo con voi», perché – continua – «chi era davvero importante si sarebbe dimostrato tale in qualsiasi circostanza, anche sfavorevole, sarebbe stato eroe o delinquente appunto secondo le circostanze, ma importante sempre, se per importante si intendeva protagonista di qualche fatto sufficientemente eccezionale»16. Peter osa rispondere al capitano nazista, con tono e pronuncia simile all’ufficiale nazista (non

13 Ivi, p. 46.14 Ivi, p. 51.15 Ivi, p. 54.16 Ivi, pp. 55-56.

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sappiamo cosa gli dica, perché conta la forma espressiva!): «E aveva parlato nel modo giusto; non nel solo modo che gli fosse consentito – e cioè con il più prudente ossequio – ma nell’unico modo nel quale fosse in generale possibile parlare, anche in circostanze del tutto diverse e per così dire normali. Era riuscito a trascinare la follia dentro lo spazio della saggezza e della quiete». Il sorriso dell’ufficiale nazista scompare, guarda con aria turbata la coppia di ebrei e dice loro: «Voi esistete in quanto io vi faccio esistere per distruggervi»17. A Peter sembra per un attimo di avere avuto in pugno il nazista, di averlo finalmente dominato. La scena viene bruscamente interrotta dall’ululato delle sirene d’allarme aereo.

Termina così la prima parte del romanzo, ambientata nello spiazzo della stazione di Wiener Neustadt. Il bombardamento aereo alleato sembra presagire un radicale capovolgimento dei ruoli, ma non è così. Prigionieri e soldati nazisti scappano in tutte le direzioni, tentando di trovare un riparo di fronte alle bombe. Peter e Anna seguono misteriosamente l’ufficiale delle SS, portando con sé la valigetta contenente il manoscritto filosofico. Un ordigno scoppia vicino a Schelling, che sviene e cade in una fossa. Anna e Peter si ridestano nella buca insieme all’ufficiale nazista. Si chiedono se non sarebbe meglio morire lì, colpiti da una bomba, piuttosto che sopportare il peso di un viaggio mortale in Germania. Si ritrovano insieme all’ufficiale nazista svenuto, ma non sanno perché l’abbiano seguito (amore, comprensione, paura, ricerca della «forma»?). Peter prende la pistola di Schelling, ma non ha il coraggio di sparargli o di fuggire via con la moglie. La pusillanimità di Peter, malgrado lo sprone di Anna18, testimonia l’assenza totale di prospettiva futura ormai radicata nei due ebrei austriaci. Incapaci di reagire fisicamente e privi di qualsiasi volontà (eccetto, come vedremo, Anna), i due ebrei attendono supinamente che il loro carnefice riapra gli occhi. Il capitano

17 Ivi, p. 58.18 Ivi, p. 70.

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nazista si risveglia e, in maniera piuttosto pigra, recupera la pistola portagli cortesemente da Peter. Anna e Peter seguono docilmente Schelling, che li riporta nella stazione di Wiener Neustadt. Prima di seguirlo nell’ufficio del capostazione, vedono intorno a loro i volti degli ebrei, «soltanto stanchi, anzi sfiniti». Vedono anche il ragazzo dell’aeroplanino, che li guarda «con occhi sbarrati e apparentemente distratti», ma nessuno del piccolo plotone sembra interessarsi a quello sguardo provocatore19.

La terza e ultima scena del romanzo si svolge nel casotto del capostazione. In questo luogo separato e lontano dagli occhi indiscreti degli altri deportandi, i tre protagonisti imbastiscono un dialogo tra sordi, anche se in realtà il ruolo di indiscusso protagonista l’assume il capitano nazista, vero «demone» dostoevskiano. Schelling apre le danze chiedendo perché non lo abbiano ucciso. Non capisce la comunicazione emotiva imbastita dai due ebrei, che si scambiano semplici sguardi. Ma intende comunicare ai due ebrei che li ha «eletti» unicamente in base alle loro competenze linguistiche. L'elezione non avviene per mano delle due persone davanti a lui ma della sua coscienza riflessa, interlocutrice del suo dialogo-monologo, «logicamente» impeccabile. La spiegazione offerta da Schelling non è altro che una serie di «nomi giusti. Ogni cosa, ogni persona, ogni fatto a questo mondo deve avere dei nomi. Ogni nome dev’essere quello e basta. Il nome giusto»20. Il capitano delle SS cerca di capire la propria coscienza attraverso una matematizzazione della ragione strumentale. Cerca di capire se gli ebrei sono convinti «del fatto di dover soccombere» e se ritengono «giusto questo fatto», se essi sono «l’altro da sé», cioè «quasi uguali a quelli che li vogliono morti, spariti, cancellati, e cioè uguali a noi», rassegnati e rivoltosi, «due cose sorde, empie, due cose che stanno insieme molto più di quanto non si creda e molto spesso». Gli ebrei sono quello che gli altri dicono che siano? Può un ufficiale delle SS laureato in

19 Cfr. ivi, pp. 77-78.20 Ivi, p. 87.

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filosofia «vedere e capire in modo diverso dal solito»?21 Questa è l’idea balenata a Schelling mentre, disteso e inerme nella buca, viene fissato dai due ebrei incapaci di tirare il grilletto22.

La resa dei conti fra gli ebrei e il nazismo trova una sordida espressione nel monologo di un ufficiale tedesco nella cabina della stazione di Wiener Neustadt. Schelling continua a parlare, interrotto qua e là da Peter e Anna, all’evidente ricerca di un punto di contatto: «Sotto di noi – e dico “sotto” apposta e non “dentro”, dico “sotto” come se pensassi a un vulcano – sotto di noi c’è la disperazione. […] Ma sotto di voi c’è una illusione. Saranno vulcani soltanto spenti i nostri? Il vostro Mosè, il vostro Spinoza, il vostro Marx e, perché no, il vostro Cristo. [...] Ma forse una sola vostra parola stava diventando più forte di mille nostre armate. E in ogni modo, noi sapevamo che, con quello che avevate, siete riusciti a distruggere quasi tutto»23. Peter e Anna nutrono il desiderio di reagire a questa sadica e risentita confessione di Schelling. Fuori dalla finestra si vedono gli occhioni blu del ragazzino vestito alla marinaretta, l’arcangelo-messaggero pronto a portare la notizia della parola ai loro correligionari. Anna si rende improvvisamente conto, con una certa dose di raccapriccio, di voler ancora vivere, che laggiù nella fossa aveva desiderato solo la propria sopravvivenza, non quella di lei e del marito insieme, perché sente che per il suo Peter non c’è più niente da fare, da tempo. Getta un’occhiata interessata verso Schelling, avvertendo per qualche attimo un certo fascino nell’uomo; non per un particolare anatomico o per un comportamento, ma per il «tutto», per quella forma di bellezza che non conosce il dubbio della ragione, che è quello che è. Questa strana consapevolezza solleva improvvisamente un sentimento di curiosità nei confronti del capitano nazista: Anna cerca di scoprire il bambino «tra le rughe più ignobili», magari per scoprire come sia diventato così, cioè un

21 Ivi, pp. 88-89.22 Ivi, p. 90.23 Ivi, pp. 94-95.

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nazista, tra le innumerevoli possibilità e probabilità della vita. Per colpa della madre, forse?24

Peter ripensa a una sua compagna di scuola, di cui si era invaghito e che non faceva altro che parlargli della bellezza di un altro loro compagno, come se essa gli fosse naturalmente preclusa. È sconcertato, il giovane studioso di filosofia, dal comportamento della moglie, che prima l’ha incitato a uccidere il nazista e ora cerca di sedurlo. Schelling, invece, è irritato dalla comunicazione non verbale dei due coniugi ebrei, da un’«introversione» che non conosce «pubblicità». Si rende conto che la sua rabbia deriva dalla sfida lanciatagli dai due ebrei, che si sono buttati allo sbaraglio per vincere25. Peter sta tentando di salvare sé e sua moglie, attraverso la sua «storia» personale. Spiega a Schelling di come si sia pagato gli studi lavorando in una fabbrica di bottoni, di come abbia desiderato con tutte le forze non una divisa ma una scrivania Chippendale, di come abbia fiducia nella parola, nel suo dattiloscritto che protegge con tanta cura e attenzione. Ma Schelling non prova alcuna compassione per loro o per quella cultura della rassegnazione che incarnano all’ennesima potenza26. Peter è alle corde. Cerca in tutti i modi di uscire dall’angolo in cui si è cacciato con la sua parola, raccontando di un delitto avvenuto nella sua città natale. Schelling sa che Peter è ai suoi piedi, qualunque cosa egli dica; si rende conto che, inavvertitamente, l’ebreo sta offrendo il fianco alla sua tesi di fondo: che ciò che conta è il metodo, non il fine che si realizza. Anna non inorridisce di fronte al teatrino cui assiste, anzi: «Il capitano Oscar Schelling le era piaciuto. Lei forse per un attimo lo aveva perfino amato. E adesso voleva confessarlo a Peter. […] Toccava a Peter di volere, a suo modo, catturare il nazista. Toccava a lui, ora di doverlo amare e sedurre. E tutto ciò era così dolce e così folle che le inteneriva e la faceva vivere come in quel momento che aveva incontrato Peter

24 Cfr. ivi, pp. 97-100.25 Cfr. ivi, pp. 104-105.26 Ivi, pp. 108-109.

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per la prima volta»27.Peter continua nel suo vano tentativo di soverchiare il nazista.

Cerca di eliminare ogni forma di bellezza nella morte, per riportarla a quello che è: la sofferenza per una perdita (paterna, in questo caso)28. Ma Schelling non pare proprio impietosirsi di fronte a questo espediente psicanalitico: «Mio padre è morto nel suo miserabile letto piccolo borghese a due piazze. È morto di nefrite». Anna si rende finalmente conto che il capitano nazista non li vede, non li ascolta sul serio: «quando tu parli non sta dentro di te che parli e perciò le parole che gli dici gli arrivano da chissà dove, ma non da te. E niente di tuo gli arriva come se fosse anche suo»29. Peter è ormai consapevole del suo «delitto»: quello di aver voluto onorare l’universalità umana nel dialogo con il nazista rinnegando il suo io più profondo30. Felice di sentirsi ebreo, avverte la propria complicità in un evento storico ineluttabile come la Shoah. Il suo volto è triste e invaso di silenziosi e invisibili lacrime31. Le parole di Peter trasmettono calore e sicurezza alla moglie Anna. I due coniugi decidono di non parlare più al capitano nazista, che «sorrideva in modo fatuo come quando si gioca con una certa idea vergognosa e perciò, non potendo né buttarla fuori né sbarazzarsene, la si seppellisce in se stessi come se fosse assolutamente privata. Egli poi si sforza in tutti i modi di far esprimere al proprio volto qualche segno di pazienza. Ma il suo volto appare perfino incapace di inventare e traduceva invece una generale vacuità di sentimenti e di affetti in un unico ghigno atroce»32. Schelling si riprende dall’unità d’azione, d’intenti e di sentimenti ritrovata dalla coppia di ebrei, tornando ad attaccare il loro legame indissolubile nell’unico modo che ha a disposizione. Affermando che, essendo morto Dio, tutto è permesso:

27 Ivi, pp. 109-110.28 Ivi, p. 110.29 Cfr. ivi, pp. 111-112.30 Ibidem.31 Ivi, p. 113.32 Ivi, pp. 114-115.

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Il fatto è che non c’è né dio, né uomo, non c’è niente ed è tutto un gran zero. Prima o poi, anche ciò che esiste ora, sarà distrutto. Tanto vale anticipare questa distruzione. Poiché non si può vivere, tanto vale distruggere. E noi seppelliremo tutto proprio qui, nel centro di questa Europa dove è nato tutto, per lo meno dove è nato quello che voi chiamate tutto, la ricerca della verità, la strada verso la libertà. […] Il nostro problema non è di vincere o di sopravvivere, ma di gettare questo seme nella maggiore quantità possibile di luoghi abitati, facendo magari finta lì per lì di perdere e annullando, spostando sempre più in là, la ricerca della verità e la strada verso la libertà, queste due follie; finché esse non arrivino ai confini del mondo. […] Il ricordo della nostra vittoriosa sconfitta li persuaderà a questo, prima o poi. E anche se non lo faranno in nome nostro, anche se lo faranno per ragioni che sembreranno diverse, in realtà lo faranno a causa di noi nella loro memoria. E tu ebreo, piccolo ebreo intelligente, impotente e noioso, mi vieni a parlare di complicità e mi dici che basterebbe inchinarti. Ma con chi dunque credi di avere a che fare? Noi siamo gli ultimi uomini grandiosi, non te ne sei dunque accorto? Ma sì, te ne sei accorto. Se tu non te ne fossi accorto, non ti lasceresti fare quello che ti lasci fare da noi. Noi siamo spietati della vostra verità e della vostra grandezza. Perché non è detto che un comportamento sottomesso e remissivo non possa essere anche dispotico, e che la bontà non possa diventare cattiveria. Ci avete chiamato a questo banchetto e noi che avevamo fame, abbiamo accettato l’invito. Credi che io non sappia che ogni tanto quel ragazzo, là fuori, quel ragazzo ebreo vestito alla marinara, quel vostro arcangelo fanciullo, ogni tanto veniva alla finestra? Ho capito fin dal primo momento quel che avrebbe fatto. Ma non potrà annunciare niente al popolo. Gerusalemme non è mai qui e il suo muro del pianto invece circonda tutta la terra e non come una muraglia cinese ma come una sconfinata ragnatela. Non vi sarà nessun annuncio. L’ebreo e il tedesco ancora una volta non hanno parlato, non si sono detti niente. E avrete notato, spero, che ho nominato l’ebreo per primo33.

L’epilogo è vicino. Peter continua a parlare attraverso una voce non sua, alla vana ricerca di una conferma del proprio destino nella maschera della morte nazista: «Tu ci credi che non abbiamo paura di morire?», gli chiede senza però ricevere risposta alcuna. Improvvisamente, fanno il loro ingresso sulla scena due soldati, che intimano ai due ebrei di alzarsi e li accompagnano verso l’uscita di scena. Schelling restituisce a Peter il manoscritto su Hegel, che ha un impeto di inutile universalità dialogica34.

33 Ivi, pp. 117 ss..34 Ivi, p. 127.

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Schelling sente di aver paura, avverte per un istante la propria nudità di fronte alla propria coscienza. Ma non fa altro che gridare con voce pazza e bestiale: «Fuori! Fuori! Fuori!» Da «quel buio affollato e gelato che li aspettava e che ormai li stava inghiottendo», si sente la voce di Peter rimbombare nell’etere, come se chiamasse qualcuno: «Noi ti abbiamo perfino amato, nazista!», mentre viene soffocata da un’infinita onda di lacrime e dai baci di Anna, che lo segue incespicando nella neve «alta e incredibilmente soffice»35.

Romanzo forse troppo cerebrale nella sua parte finale, L’incontro di Wiener Neustadt ha mietuto generali consensi fra la critica giornalistica e letteraria: vinse il premio Salerno nel 1979 e giunse nella cinquina del Premio Strega. Rispetto all’interminabile Anteguerra, questo romanzo-breve è più facilmente leggibile e inquadrabile da parte del pubblico colto: contiene molti topoi della cultura mitteleuropea (più noti agli studiosi e ai critici rispetto ai topoi russi), offre un’identità morale complessa ma riconoscibile dei personaggi in campo, ambienta la tragedia ebraica nell’Europa bellica (né prima né dopo) e – soprattutto – fa morire i protagonisti ebrei. Attilio Bertolucci rileva nel manoscritto filosofico di Peter un segnale di speranza e di riscatto per il mondo postbellico36. Antonio Debenedetti mette in evidenza la complicità fra vittime e carnefici. Giorgio De Rienzo punta l’attenzione sul martirio ebraico come strumento per superare una visione falsamente manichea della realtà e per approdare a una reale conoscenza del «diverso»37. Giovanni Raboni si concentra sul tema del «nazismo eterno», riletto alla luce dei due modelli lecchiani (Dostoevskij e Kafka) attraverso una tonalità da operetta morale38. Mario Biondi individua nel rapporto fra vittima e carnefice una

35 Ibidem.36 Cfr. A. Bertolucci, Non è andato perduto il manoscritto di Wiener Neustadt, «La Repubblica», 28 gennaio 1978, p. 12.37 Cfr. G. De Rienzo, Sulla strada del lager, «La Stampa», 24 febbraio 1978, p. 12.38 Cfr. G. Raboni, Un’atroce vacanza aspettando la morte. Inquietudini d’oggi sullo sfondo del nazismo, «Tuttolibri», 4 febbraio 1978, p. 7.

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possibile chiave di lettura politica aggiornata39. Daniele Del Giudice vede nel martirio dei coniugi ebrei un’estrema dichiarazione d’amore verso l’umanità irredenta40. Roberto Cantini rilegge il rapporto tra il «filosofo» Schelling e la coppia di ebrei alla luce del sonno ammaliatore della ragione41. Domenico Porzio si concentra sul rapporto della «comprensione» che s’instaura fra vittima e carnefice42. Giorgio Romano rileva il retaggio dostoevskiano di Lecco, capace di amplificare e diversificare la tragedia della deportazione43. Giuliano Manacorda, infine, rileva la vicinanza nella struttura dialettica alla satira menippea44.

Lecco ha deciso di pubblicare questo romanzo solo alla fine degli anni Settanta, spinto dall’esigenza di rispondere pubblicamente a una certa immagine (a suo giudizio deleteria) sul rapporto tra ebreo e nazista che andava circolando nella cultura popolare italiana. In particolare, criticando la visione semplicistica e freudiana offerta del rapporto tra «vittima» e «carnefice» nel Portiere di notte di Liliana Cavani, lo scrittore milanese sottolinea l’esigenza di evitare facili assoluzioni dell’Olocausto e di concentrarsi, piuttosto, sulle caratterizzazioni morali dell’ebreo e del nazista45. L’incontro di Wiener Neustadt non tenta di avvicinare gli ebrei ai nazisti per instaurare una sorta di correità di fronte alla storia, ma ambisce a mettere in luce il sottile e perverso meccanismo inconscio presente nell’animo umano: il capitano delle SS e la coppia di ebrei rappresentano chiaramente identità morali incarnate, che discutono su alcuni problemi filosofici, come la «nietzscheana» esistenza di Dio, la bellezza mondana e il senso

39 Cfr. M. Biondi, Il gioco ambiguo del carnefice e della sua vittima, «L’Unità», 17 aprile 1978, p. 7.40 Cfr. D. Del Giudice, Il caso di Alberto Lecco, scampato al destino di inedito, «Paese Sera», 11 febbraio 1978, p. 3.41 Cfr. «Epoca», 29, dicembre 1978, p. 93.42 Cfr. «Panorama», 7 marzo 1978, p. 13.43 Cfr. «La Rassegna mensile di Israel», XLIV, 7-8, 1978, pp. 534-535. 44 Cfr. G. Manacorda, Incontrarsi a Wiener Neustadt, «Rinascita», XXXV, 16, 21 aprile 1978, p. 21.45 Cfr. infra, capitolo VII.

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del giusto. Pur compiendo una scelta di campo piuttosto chiara, Lecco vuole portare alla superficie il «nazista» e l’«ebreo» dentro di noi, ricorrendo volutamente a figure ideali e a un’ambientazione volutamente estrema, tipicamente menippea. La stazione ferroviaria rappresenta la porta degli inferi: il treno condurrà i condannati a morte nelle viscere della terra. Il dialogo fra i protagonisti non è socratico ma – come insegna Rabelais - è una satira menippea, non punta cioè al raggiungimento di una verità condivisa ma alla manifestazione di punti di vista estremi, tragici e grotteschi in egual misura. Questa rilettura tragica consente a Lecco di delineare realisticamente la complessità psicologica dei personaggi, senza sentenziare sul «bene» o sul «male» ma mostrando il «bene» e il «male» incarnati. Solo in questo modo – a suo giudizio – era possibile superare la dialettica tra vittima e carnefice per un’umanizzazione completa di entrambe le categorie.

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Capitolo III

Libertà e morte: l’America quale locus horridus della condizione umana

La conclusione de L’incontro di Wiener Neustadt segna una svolta nella poetica lecchiana. La sconfitta della ragione di fronte alla barbarie nazista è anche il segnale tangibile della lenta deriva di uno spazio politico privo di vita e rinchiuso in se stesso. Forse è proprio l’incomunicabilità dei protagonisti ad aver indotto lo scrittore milanese a trasferire le nuove storie sul Nuovo Continente1. L’America diventa nella poetica lecchiana l’«altra» Europa: il luogo ideale dove gli ebrei possono raccontarsi «come essi sentono di essere, come sognano di diventare e come veramente sono»2. Nel 1968 Lecco aveva pubblicato un poemetto intitolato Mia America Judith, ripubblicato presso Guanda nel 19803, dove esprimeva chiaramente la propria visione di quel mondo attraverso una fittizia quanto ossessiva figura femminile ebraica, creatrice e distruttrice del «vecchio mondo»4. L’America diventa – come osserva Walter Mauro nella premessa a L’uomo del libro – una terra «disinibita e crudele, rigurgitante inferno di uomini vivi e vitali, che scontano quotidianamente la pena dell’esistere sul fragile progetto dell’essere»5. Judith, una giovane ebrea newyorchese amata per alcuni mesi negli anni Sessanta, rappresenta il conseguimento di quell’unità esistenziale auspicata e paventata dall’autore: l’identificazione totale tra carnefice e vittima in una realtà piccolo-borghese6. Proprio il tema di una vitalità inquieta e contraddittoria, fatta di ampi spazi fisici e psicologici percorsi alla ricerca di

1 Cfr. G. Massara, Americani. L’immagine letteraria degli Stati Uniti in Italia, Palermo, Sellerio, 1984.2 Cit. A. Lecco, L’uomo del libro, notizia di W. Mauro, Roma, Città Armoniosa, 1991, p. 16.3 Cfr. «Tuttolibri», 12 luglio 1980, p. 20.4 Cfr. id., Mia America Judith, Roma, Carucci, 1968.5 Cit. id., L’uomo del libro, cit., p. 16.6 Cfr. ivi, pp. 17 ss.

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un’irraggiungibile mèta, rappresenta il filo conduttore di alcuni romanzi lecchiani dedicati all’America: Un Don Chisciotte in America (1979), La casa dei due fanali (1991) e L’uomo del libro (1991). In queste opere lo scrittore milanese ha cercato di mostrare, in una cornice psicologica dostoevskiana (senza, però, l’afflato mistico-religioso del russo), una nuova «possibilità» dell’identità ebraica: il conseguimento di una vitalità della parola, assente – per ragioni storiche e culturali – nel «vecchio» continente. L’America diventa una terra dove storia, vita e parola sono di casa, dove il paradiso tocca l’inferno e viceversa.

1. Un Don Chisciotte in America (1979)

Il primo romanzo della trilogia americana racconta le avventure picaresche di Davide Moroni, un «mezzo ebreo» italiano che, a distanza di dieci anni, torna in America per riassaporare la storia d’amore con una ragazza di nome Judith. Questo primo romanzo americano, dai chiari elementi autobiografici, viene pubblicato poco dopo L’incontro di Wiener Neustadt, anche se la sua gestazione era più che decennale: risaliva ai soggiorni newyorchesi dell’autore fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Davide, uomo sposato con figlia, sente l’irresistibile bisogno di abbandonare il tranquillo nido familiare italiano per avventurarsi in un mondo nuovo, quel mondo dove crede di poter realizzare appieno il proprio bisogno di una vita interamente ebraica e «zigana», sulle orme di un amore completo e perduto. La sua piccola «odissea» è costellata da una serie di incontri particolari. Il primo avviene sull’aereo che lo porta in America. Qui Davide conosce una biologa ebrea newyorchese di nome Ellen, alla quale racconta la sua storia attraverso un poema intitolato alla sua amata: Judith Liedermann, ragazza ebrea che aveva incontrato nel suo secondo viaggio oltreoceano proprio mentre ne cercava un’altra7. Davide ed Ellen vivono una breve ma intensa relazione sentimentale. Ellen, donna «spezzata» dalla vita, gli racconta del suo tragico

7 Cfr. id., Don Chischiotte in America, Milano, Mondadori, 1979, pp. 9 ss.

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matrimonio con Thomas, figlio di un professore di storia di Harvard morto suicida8. Davide la porta in giro per la città alla ricerca dei luoghi del suo amore ebraico: la «casa dei due fanali» («“mia gracile casa svuotata e divenuta covo di serpenti ignari”, recitò Ellen sottovoce»)9 e un vecchio caffè al Greenwich Village, dove l’ebreo italiano ritrova la firma dell’amata Judith nel quaderno-album dell’inaugurazione del locale10. Dopo aver regalato a Ellen una copia del suo poemetto, Davide decide di proseguire il proprio viaggio verso San Clemente, in California, dove l’attende Judith, in pullman11.

Il lento avvicinamento di Davide all’amata Judith è costellato da altre figure «picaresche», tutte espressioni di un mondo diverso e – apparentemente – poco incline alla sterile introspezione. Sulla corriera incontra Tom, un cow boy ammalato di cancro, ma schietto e vitale come un ragazzo di vent’anni12. I due conversano allegramente del passato e delle differenze fra i due continenti: Tom gli racconta della sua esperienza bellica in Europa e della sua amata Anita lasciata prima di partire per il fronte, mentre Davide gli spiega la ragione del suo viaggio13. Durante la tappa a Indianapolis, Tom presenta a Davide una giovane ragazza di nome Minnie, amica di Anita14. Davide, che ha appena avvertito Judith del suo lungo viaggio in pullman, inizia la sua avventura nel cuore dell’America profonda attraverso gli occhi di persone comuni: racconta del suo «folle» ritorno per una donna; prova a spiegare la vita di Don Chisciotte e il suo rapporto con le donne; saluta la prostituta che l’ha amato per un giorno intero15. Mentre il pullman fa tappa a Saint Louis, Davide chiama Judith e Paola, la moglie che

8 Cfr. ivi, pp. 15 ss.9 Ivi, p. 49 .10 Cfr. ivi, pp. 27 ss.11 Cfr. ivi, pp. 39 ss.12 Cfr. ivi, pp. 53 ss,13 Cfr. ivi, pp. 60 ss.14 Cfr. ivi, pp. 74 ss15 Cfr. ivi, pp. 87 ss.

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ha lasciato a Roma: la prima comincia a temere l’incontro dopo tanti anni, mentre la seconda lo vorrebbe al fianco suo e della figlia Giuditta16. Sulla corriera Davide, mentre sogna di essere Ulisse nel suo viaggio di ritorno a Itaca, si sveglia a fianco di una bella ragazza di colore di nome Moon17. Sconcertato e sorpreso dalla vitalità di quella Nausicaa, Davide se ne invaghisce e la segue a casa con le due cugine18. Qui conosce il padre: il predicatore texano John Moses Arlem. L’uomo gli racconta del precedente fidanzato di Moon (un altro scrittore di mezza età di nome Richard, che lei seguì a Parigi) e gli svela di essersi innamorato anch’egli di una ragazzina per paura della morte: «“Amare i giovani – dice – non è diverso da amare Dio. Una illusione”»19. Davide legge un libro di poesie trovato lì per caso, sotto gli occhi vigili di un giovane nero20. Riesce a possedere Moon una sera su un prato, ma, mentre lei cerca di far luce con una torcia, l’uomo fugge come se si fosse avvicinato troppo a un segreto indicibile: « “Non posso. Non so”», pensa tra sé e sé21.

Il viaggio verso Judith riprende. A Phoenix Davide incontra un vecchio italo-americano in compagnia della sua «amante» (in realtà, è sua moglie), ai quali racconta per filo e per segno tutta la sua vicenda amorosa: il viaggio a New York nel 1965, l’innamoramento per Judith (molto simile alla madre appena morta), l’andirivieni fra Roma e l’America, il soggiorno italiano di Judith, le minacce del padre, il ritorno di lei negli Stati Uniti, il pensiero omicida di Davide, il matrimonio di Judith con Philipp e il trasferimento in California con la figlioletta Mary Jo22. Davide raggiunge finalmente Judith a San Clemente: di fronte al suo «desiderio» si rende conto di quanto sia ancora bella a distanza di

16 Cfr. ivi, pp. 104 ss.17 Cfr. ivi, pp. 118 ss.18 Cfr. ivi, pp. 130 ss.19 Ivi, p. 154.20 Cfr. ivi, pp. 157 ss.21 Ivi, pp.178-179.22 Cfr. ivi, pp. 180 ss,

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dieci anni, ma è più che certo che non l’ama più, che non intende più ucciderla e che il suo soggiorno californiano sarà molto breve: «Adesso Davide seppe di non aver fatto le due sole cose che si possono fare e forse si debbono fare in caso di passione; e cioè tentare, in mille modi diversi, di ottenere l’oggetto amato oppure, in caso di sconfitta o di perdita, annientarlo anche fisicamente»23. Davide ha solo una curiosità da soddisfare: vuole sapere dove si trovava Judith dieci anni prima, la sera che lui decise di partire per Roma24. Ma la donna vuole semplicemente affrontare i piccoli problemi quotidiani: se non l’ama più, può anche andarsene e restituirgli il denaro delle chiamate interstatali25. Dopo un lungo sfogo, Davide si rende conto di non aver mai amato Judith come donna concreta, ma di averne fatto una sorta di feticcio idealizzato, di totem della sua ispirazione poetica: non l’aveva sposata quando avrebbe potuto, facendola finire nelle mani di Philipp. «Aveva, fin dall’inizio, voluto fuggire da lei, amandola, e per la sua eterna paura che lei non corrispondesse al suo amore, o perché, fin dall’inizio, si era accorto di non amarla più?»26 Quella notte decide di andarsene via e di tornarsene in Italia:

Davide svoltò un angolo di strada e perfino la casa di Judith sparì alla vista. Camminava adagio adesso, mezzo piegato dal peso della borsa, sicuro di non avere altro orizzonte ormai, davanti a sé, che quel muro grigio di pioggia fine fine che gli inumidiva la faccia, né altra mèta che la stazione dei pullman dove un pullman uguale a mille altri lo avrebbe ricondotto, in lunghe e vuote giornate grigie come quella pioggia che lo illudeva di avere il viso bagnato non di lacrime, fino a New York; e poi, il pullman, divenuto il solito jet, lo avrebbe ricondotto in poche ore affollate ormai di sola malinconia generica e inutile, dalla quale qualsiasi nostalgia precisa e qualsiasi speranza sarebbero state bandite per sempre, fino all’Italia, fino a Roma, fino a casa27.

23 Ivi, p. 226.24 Cfr. ivi, pp. 228 ss.25 Cfr. ivi, pp. 242 ss.26 Ivi, p. 251.27 Ibidem.

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Un Don Chisciotte in America è il primo e, forse, più riuscito «romanzo americano» di Alberto Lecco: non si presta all’ansia di morte e alla mitogenesi dell’ebraicità. Rispetto ai suoi due precedenti romanzi «ebraici» si nota una sorta di privatizzazione della memoria: lo spazio aperto del Nuovo Continente pone lo scrittore ebreo di fronte a una realtà che sembra ignorare le categorie del «bene» o del «male» ma presenta la ricerca tragica e comica della felicità nelle memorie degli improbabili protagonisti. La tipizzazione morale dei personaggi, molto forte nell’Incontro di Wiener Neustadt, lascia letteralmente lo spazio a una mera esposizione nostalgica delle loro memorie vissute: il viaggio verso l’amore perduto diventa un viaggio verso la morte, mentre la vita diventa una corsa affannosa verso qualcosa che non c’è più. La ricezione del libro, sulla scorta del successo dell’anno precedente, fu complessivamente buona sulla stampa quotidiana e periodica. Come confessa lo stesso Lecco in un’intervista a Elio Pecora, la differenza di età tra i due protagonisti è una sorta di risposta al «mito della giovinezza» dell’Occidente, che ha dimenticato la tragedia e la catartizzazione della morte28. Giorgio De Rienzo si sofferma sulla scrittura istintiva dello scrittore milanese, capace di incantare nella sua immediatezza ma poco incline ad affrontare la complessità dell’intreccio29. Giovanni Raboni nota il legame tra il tema del viaggio e l’illusione della meta30. Alberto Barberis lo definisce come il primo romanzo on the road della letteratura italiana contemporanea, pur privo del forte impatto emotivo dell’Incontro di Wiener Neustadt31. Giuseppe Prezzolini evidenzia il carattere quasi onirico del viaggio americano e la struttura del

28 Cfr. E. Pecora, “Non si supera mai il bisogno di sedurre”, «Tuttolibri», 24 marzo 1979, p. 10.29 Cfr. G. De Rienzo, I sogni di un Don Chisciotte. Un cinquantenne vagabondo per fuggire dalla sua malinconia, «La Stampa», 29 giugno 1979, p. 11.30 Cfr. G. Raboni, Attraverso l’America per una more finito. Viaggio sentimentale e picaresco di Lecco, «Tuttolibri», sabato 24 marzo 1979, p. 10.31 Cfr. A. Barberis, Alla ricerca di una “vecchia fiamma”, «Corriere della Sera», 11 novembre 1979, p. 8.

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romanzo a scatole cinesi32. Domenico Porzio si concentra anch’egli sul rapporto tra viaggio picaresco e amore di mezza età quale chiave di lettura di questo romanzo d’amore americano33.

2. La casa dei due fanali (1991)

La chiusura di Don Chisciotte in America non pose la parola fine al ciclo americano. Nel 1982 Lecco pubblica una raccolta di racconti ambientati nella città della grande mela, dove ritorna in primo piano il rapporto tra amore spezzato e memoria34. Nel 1988 appare un romanzo-breve dedicato a questa città e a un intreccio cinematografico: La vera storia di Baby Moon35. Nel 1991 lo scrittore milanese torna a dedicarsi alla sua amata città, «approdo per i perseguitati d’Europa», con La casa dei due fanali, romanzo mastodontico di quasi mille pagine, ritratto psicologico dell’umanità contemporanea attraverso l’amore di due ebrei novecenteschi. L’elemento religioso si estrinseca nella presenza di pulsioni contraddittorie all’interno dell’animo umano, in particolar modo nell’eterna lotta fra amore e morte, fra beatitudine e dannazione. Ispirandosi all’amato Dostoevskij e sviluppando i personaggi di Don Chisciotte in America, Lecco ha cercato di trasformare l’evento storico negativo per eccellenza del secolo passato (l’Olocausto) nella realizzazione delle pulsioni di morte presenti in tutti gli uomini. L’ebreo contemporaneo, incatenato al proprio destino storico di uomo «senza una propria identità», può limitarsi a testimoniare il male umano attraverso le proprie scelte di vita estreme. Scelte che può fare soltanto in America, vista non tanto come la terra dei sogni ma come quella delle innumerevoli

32 Cfr. G. Prezzolini, Don Chisciotte innamorato, «Il Resto del Carlino», 2 aprile 1979, p. 3.33 Cfr. «Panorama», 22 maggio 1979, p. 20.34 Cfr. id., I racconti di New York, Torino, SEI, 1982. Su quest’opera si vedano [m.r.] Intellettuale a New York, «Tuttolibri», 6 novembre 1982, p. 2; «Libri e riviste d’Italia», XXXIV, 1982, p. 205; «Letture», XXXVII, 392, dicembre 1982, pp. 851-853; «Idea», XL, 1984, pp. 66-68.35 Cfr. id., La vera storia di Baby Moon, Bari, Bracciodieta, 1988.

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espressioni umane, emotivamente parlando. «Matteo e Judy – scrive l’autore nella quarta di copertina – affondano sempre più nel vortice della loro passione e nell’inferno della loro memoria di ebrei sopravvissuti allo sterminio, “comunque e nonostante le loro giovani età li esonerino da un ricordo diretto”. Questa memoria li innamora, li lega, ma inevitabilmente li provoca a percorrere tutte le stazioni esilaranti e dolorose della consapevolezza e impedisce loro di vivere quel disperato amore». Il prologo ci racconta proprio la tragica conclusione del romanzo: Matteo, che ha esaudito il desiderio di Judith di essere uccisa per mano sua, ne è stato in realtà il suo mandante. L’ebreo italiano, poco prima di seguirla come novello Romeo «ebreo», ripensa a quell’eterna lotta fra bene e male che c’è dentro ogni uomo:

Lei, la mia Judith, è di nuovo bellissima. Il suo pallore non appartiene più a chi non ne ha il diritto. Nella morte, lei si è ridata la dignità di quella bellezza che, da viva, non sapeva accettare e che a poco a poco aveva finito col distruggere. Di quella bellezza che è un enigma e che salverà il mondo.

Non dovrò chiederle più nulla, né seguirla nel vuoto dei suoi fantasmi, né aspettare da lei parole impossibili, inesistenti, né correrle addosso, né fuggire da lei. Io dovrò solo guardarla e ripetere dentro di me i momenti della strada che percorremmo insieme. E quale strada fu mai!

Ed è questa una storia che ha il potere di esaurire, nel proprio racconto, il senso stesso di coloro ai quali fu dato di viverla. Come un gomitolo di misteri e di segreti che affondi e si aggrovigli per sempre nel deserto del cielo; che affondi e si aggrovigli al punto che non si possa, poi, nel più lontano avvenire, nemmeno proclamare l’utopia del suo semplice essere stato36.

Il romanzo è articolato in quarto parti. La prima (Incontro e salvezza) si apre con l’arrivo a New York del protagonista: Matteo Viterbi, che rimette piede nella sua amata città dopo due anni d’assenza. È il primo aprile del 1966. La madre è morta proprio mentre il protagonista giungeva in America a bordo di una nave. Al suo capezzale è rimasta la fedele moglie Paola, la sua «metà» rassicurante e «vecchia», contrapposta alla «giovane» amante

36 Cfr. id., La casa dei due fanali. Cronaca di una passione, Milano, Spirali/Vel, 1991, p. 8.

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americana37. Matteo, un uomo cinquantenne, giunge a New York per poter realizzare un film partendo da alcune sue opere letterarie (in particolare, il racconto Come si incontrarono, si amarono e morirono Giulia Frenkel e Ladislao Levi)38. Qui l’aspettano gli amici Michele, sceneggiatore cinematografico, e Riccardo, una sorta di fotografo hippy mantenuto da una signora di mezz’età, alle prese con alcuni guai giudiziari39. Matteo, che descrive il suo racconto a una signora italo-americana e a un libraio, è in cerca di un agente letterario40. La scoperta di New York lo pone di fronte a un’autodistruttività umana in precedenza solo immaginata: un giorno Matteo ha un alterco con un barista greco, che accusa di essere antisemita e razzista41. Il motivo professionale è una scusa per tornare in questa città e respirarne l’atmosfera culturale, in fuga dall’oppressione «materna» (non a caso ormai debole) e dal silenzio europeo. Ma non solo: Matteo ha lasciato in sospeso una storia d’amore con Janet42. Ma questa storia appartiene solo al passato: una sera Matteo conosce Judith a casa di Grace, amica di Riccardo43. Judith Liedermann, che lo confonde con un altro Matteo di sua conoscenza, di cui è innamorata l’amica Grace, è una ragazza-madre di poco più di vent’anni, debole e indifesa, che ha paura della sua città, considerata un «inferno» di cristallo44. Matteo se ne innamora all’istante, ravvisando in lei un’affinità spirituale ed emotiva assai profonda: è anch’essa «umiliata e offesa» in quanto donna e in quanto ebrea. Inizia a fantasticare sul loro viaggio futuro:

“Verrà in Italia con me e sarà la mia donna. E Ann sarà mia figlia” pensavo. “Io le salverò da questo inferno. Per tutta la sera, fin dal primo momento, lei ha

37 Cfr. ivi, pp. 19 ss.38 Cfr. id., Vieni notte!, cit., pp. 84 ss.39 Cfr. id., La casa dei due fanali, cit., pp. 22 ss.40 Cfr. ivi, pp. 33-34.41 Cfr. ivi, pp. 35 ss.42 Cfr. ivi, pp. 41 ss.43 Cfr. ivi, pp. 63-64.44 Cfr. ivi, pp. 65 ss.

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cercato di farmi capire che stava aspettando qualcuno che la salvasse da questa città. Lei è ebrea, lei è un’ebrea come mia madre e questa città è il suo campo di concentramento. Quante volte io ho pensato che questa città è l’inferno? Tutte le volte. Così, ecco, è deciso. Dunque è lei. Tanti anni e tanto andare e venire. E tutto era qui e era pronto. È deciso, e è lei, con quei suoi occhi e con quel suo vasto seno. Sarà il mio cuscino, come dice sempre Michele, il cuscino del mio dolore e della mia gioia. E quella incredibile bambina che dorme, di là”45.

La complicità fra Matteo e Judith si fa più forte quando la ragazza gli confessa di sapere che cosa ha provato a essere «come ebreo durante la guerra»46. Matteo le parla di un sogno ricorrente: «incontro una ragazza come te, non importa dove, e me ne vado così, semplicemente a morire come sono morti tutti gli altri». Il suicidio di due ebrei «sopravvissuti» rappresenta una disperata richiesta d’amore verso il suo offensore storico: l’uomo «nazista». Matteo sogna di morire con la sua amata Judith:

Perché noi siamo anche morti una volta, tu lo sai Judy? Qui poi si tratta forse di voler morire a causa di un eccesso di vita, non sarà così? E così, domani ricominceremo a morire per lo meno finché non avremo capito come e perché tutto questo è accaduto, come è potuto accadere. E poi c’è sempre qualcuno che muore domani e noi siamo anche quel qualcuno. Dove sono e chi sono le vittime? E dove sono e chi sono i carnefici? Beati quelli che riescono ancora a vederli, a distinguerli! Beati e dannati! E se vittime e carnefici fossero soltanto la nebbia dolorosa di un nostro sogno disordinato e confuso? Se vittime e carnefici fossero soltanto un nostro sogno perduto e che non vogliamo più ritrovare, e una nebbia benevola nella quale ci siamo potuti rifugiare e nascondere? E se le vittime e i carnefici fossero dentro ciascuno di noi e essere ebrei non fosse altro che un esempio, un modo d’essere come un altro, uno dei tanti nel mondo? Tu, Judy, sapresti rispondermi? No certo, nessuno saprebbe. Ma tu sei ebrei e sai che saresti potuta morire proprio in quel modo e per questo, e ti crogioli. Come potresti non crogiolarti? E quanta gente c’è in giro, come noi, sì, proprio come noi, che si crogiola? Perché il mistero è qui, nel significato che possono avere quelle morti, quel modo di morire può avere avuto un significato oppure può non averne avuto nessuno. E se qui c’è un mistero, noi questo mistero non saremo mai capaci di rivelarlo. E tu? Tu pensi di sicuro a quei morti ebrei laggiù, in Europa, come se fossero tuoi, li pensi con nostalgia. E la tua nostalgia è già desiderio. Un vortice

45 Ivi, p. 90.46 Cfr. ivi, pp. 100 ss.

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come questo non si vince affermando che non esiste, ma precipitando fino in fondo con gli occhi spalancati, bruciati, trafitti da mille aghi di dolore ma spalancati47.

Matteo sente di poter rivelare a Judy ciò che ha fatto alla madre malata prima di partire: le ha fatto firmare il passaggio delle sue azioni sul proprio conto corrente, pur di potersi permettere quel viaggio americano; ma non ha saputo dirle altro che Shemagn Israel, le uniche due parole ebraiche che conosce48. Judy e Matteo sentono di essersi «salvati» nell’amore reciproco. Matteo, che ha lasciato l’albergo squallido in cui viveva per trasferirsi dall’amico Michele49, comincia a riscuotere un certo consenso di critica: mentre Judy rimane profondamente commossa dal racconto di Giulia e Ladislao, uccisi dal rabbino prima della discesa agli inferi50, due agenti letterari sembrano disposti a curarne un’edizione inglese51. Matteo ha ormai rotto definitivamente con Janet, la donna per cui era giunto a New York, ormai disponibile a lasciare il suo nuovo compagno Martin52. Lo scrittore italiano, che sogna spesso di portare Judy in Italia lontano dall’inferno americano53, si rende conto, trascorrendo sempre più notti nella casa dei due fanali, che non c’è un buon rapporto fra la giovane amata e il padre gioielliere: una sera lo incontra a casa di Judy, ma fra loro non c’è dialogo54. La sua storia d’amore comincia a incrinarsi: Michele confessa a Matteo di trovare profondamente vacua Judy; Matteo stesso rifiuta di fermarsi a dormire da lei, perché ospita l’ex marito Bruce; un’amica di lei confessa a Matteo che loro due non si amano, vorrebbero amarsi ma non ci riescono:

47 Ivi, p. 102.48 Cfr. ivi, pp. 108-109.49 Cfr. ivi, pp. 111 ss.50 Cfr. ivi, pp. 141 ss.51 Cfr. ivi, pp. 177 ss.52 Cfr. ivi, pp. 188 ss.53 Cfr. ivi, pp. 217 ss.54 Cfr. ivi, pp. 237 ss.

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troppo forte è la sofferenza nelle loro vite55. Matteo, dopo essersi riavvicinato a Judy, assiste a una lunga discussione col padre Sammy, contrario alla sua intenzione di portare con sé la figlioletta Ann nel viaggio in Italia: «Tu mia cara sei molto malata. […] Smettila di correre di qua e di là. Da troppo tempo tu non fai che correre. […] Anch’io ho corso per tanto tempo. Ma poi non si può. Credimi, non si può. E alla fine ci si ammala. Tu sei molto malata. Tu non ha avuto mai nessun altro interesse che questo correre continuo da un posto all’altro, dietro uno o l’altro. Ma non si può. Non te lo lasciano fare. Adesso sei malata...»56

L’inquietudine di Judy non fa che avvicinarla ulteriormente a Matteo: gli racconta dei timori paterni verso l’ex marito Bruce (forse afflitto da pulsioni pedofile) e di un ragazzo ebreo che ha amato (un pilota di nome Roy)57. È a questo punto che Matteo le confessa di essere profondamente autobiografico nei suoi libri58.

La seconda parte del romanzo (Paradiso e dilemma) narra l’organizzazione del viaggio in Italia. Judy e Ann preparano le foto per il passaporto59. Il rapporto fra Matteo e Judy prosegue fra alti e bassi. Lo scrittore italiano continua a visitare agenti letterari per piazzare i suoi racconti60. La giovane ebrea americana è piuttosto instabile e volubile: la freddezza e il calore si alternano in un continuo emotivo che ferisce profondamente il protagonista. Matteo, che ha ricevuto da Judy il cucchiaio di un ebreo deportato in un lager, riflette sul significato di quel cimelio storico:

Pensavo all’idiozia di cercare negli oggetti una qualsiasi spiegazione e una qualsiasi premonizione. Infatti non sarei mai riuscito a sapere qualcosa, di quel cucchiaio, né a conoscere il volto degli uomini ebrei e delle donne ebree che lo avevano usato, prima di morire nei campi di concentramento. Sapevo soltanto che erano morti e che questo cucchiaio li aveva aiutati a vivere solo per

55 Cfr. ivi, pp. 289 ss.56 Ivi, p. 310.57 Cfr. ivi, pp. 313 ss.58 Cfr. ivi, pp. 318 ss.59 Cfr. ivi, pp. 343 ss.60 Cfr. ivi, pp. 346 ss.

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raggiungere la tappa senza gloria della loro morte. E questo era tutto. Così come sapevo che, prima o poi, sarei morto io. Adesso lo sapevo. Adesso ero sicuro che con Judy era tutto finito, sapevo sul serio e forse per la prima volta in tutta la mia vita, che anch’io sarei morto, un giorno. E mentre lo sapevo, capivo anche perché fossi fuggito con tanta ignominiosa premura dalla morte di mia madre61.

Judy si è trovata un lavoro come parrucchiera da Alexander’s, ma, essendosi emancipata finanziariamente dalla famiglia, il padre le taglia completamente i fondi (compresa la linea telefonica)62. Matteo comincia a rendersi conto di quanto grande sia l’affinità spirituale tra lui e la ragazza ebrea. L’amico Michele cerca di persuaderlo a lasciarla, ravvisandovi elementi fatali e mortiferi63. Sammy Liedermann, invece, cerca di persuaderlo a portarsela con sé in Europa:

Se a lei, signor Matteo Viterbi, fosse importato dei miei soldi nella maniera più usuale, diciamo così tradizionale, se lei questi soldi li avesse voluti così come li volevano gli altri uomini di Judy, o così come li vorrebbero gli altri uomini in generale, non le avrei nemmeno chiesto del testamento. Ma lei, signor Matteo Viterbi, vuole i soldi per accendere un falò sotto il pianeta. Io sarò anche uno che ha capito tutto, così come lei dice. Ma lei è anche uno che, oltre a aver capito tutto, vuole anche fare tutto, vuole fare quello che ha capito. Ma non si può fare quel che si è capito. È troppo pericoloso. E chi ci prova, finisce crocefisso su una collina. E non serve a nessuno finire crocefisso su una collina, nemmeno al crocefisso, nemmeno ai chiodi. Per questo io sarò sempre contro di lei. Ma esserle contro non significa impedirle di portare via Judy. Anzi, forse può significare proprio il contrario64.

Matteo non riesce a vivere serenamente la sua storia con Judy. La loro affinità spirituale deve fare i conti con i rispettivi «amori»: lei vuole imparare ad amare Roy, un pilota ebreo di stanza in Germania, lui la propria moglie65. Paola gli scrive che deve tornare

61 Ivi, p. 356.62 Cfr. ivi, pp. 381 ss.63 Cfr. ivi, pp. 399 ss.64Ivi, pp. 437-438.65 Cfr. ivi, pp. 441 ss.

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subito in Italia per sbrigare alcune faccende testamentarie66. Matteo, mentre guarda con Judy la vecchia sinagoga dove si recava da bambina, ha modo di riflettere sull’identità ebraica nel corso dei secoli:

Zingari, ecco chi siamo. Con dentro questa fasulla giustificazione di appartenere al popolo più antico della terra. Abbiamo costruito sinagoghe grandi come questa, abbiamo accumulato denaro e scienza e sapere e molte altre cose. Ma dentro di noi abbiamo sopra tutto voluto conservare intatta una parolina miracolosa: pogrom. È una parolina magica. Ci dà la morte, ma ci dà anche la fuga da ogni tipo di sistemazione definitiva in mezzo agli altri. Abbiamo costruito palazzi immensi e accumulato riserve di denaro per secoli di vita. Ma è sempre come se camminassimo con un sacco sulle spalle. Da un momento all’altro possiamo morire o andarcene chissà dove, perché in realtà rifiutiamo qualsiasi posto e di essere definiti in qualsiasi posto. Siamo zingari e forse dentro di noi aspettiamo sempre che si accendano i fuochi sacri del nostro accampamento e che le nostre donne escano dalle tende e i loro ventri larghi e rotondi comincino a ondeggiare e a ballare e i loro piedi, nudi come quelli delle statue, comincino a battere sulla madre terra il tempo dei loro balli e dei loro canti67.

Matteo s’ingelosisce di un commediografo amico di Judy68, ma non ha intenzione di riprendere la relazione con Janet, che ha fatto visita all’amico Michele per cercare consiglio e sostegno69. Dopo aver comprato il biglietto per la nave diretta a Napoli e aver sognato di essere arrestato a New York per l’assassinio di Judy, Matteo incontra in un locale una giovane ebrea (Muriel Davis), che gli fa un ritratto. Scoppia una strana complicità fisica tra di loro: Matteo gli racconta di Judy, Muriel del suo fidanzato David70. Mentre la partenza per l’Italia si avvicina, Matteo riesce finalmente a trovare un agente letterario per le sue opere narrative71. Gli amici continuano a consigliargli di non tornare a New York e di

66 Cfr. ivi, pp. 461 ss.67 Ivi, p. 491.68 Cfr. ivi, pp. 509 ss.69 Cfr. ivi, pp. 513-514 ss.70 Cfr. ivi, pp. 527 ss.71 Cfr. ivi, pp. 581 ss.

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riavvicinarsi alla devota moglie Paola, suo vera e concreta ancora di salvezza nella disperazione esistenziale di quell’«inferno» di asfalto72. Muriel gli confessa che, alcuni anni prima, ha convissuto con Judy e che fra loro, due deboli e fragili creature in cerca d’affetto e di comprensione umana, si era instaurata una relazione amorosa73. Ma non solo: Judy ha provato a suicidarsi insieme alla figlioletta Ann74. La notte prima della partenza Judy non si fa trovare a casa. Matteo teme che le sia successo qualcosa di grave. Judy lo tranquillizza poco prima dell’imbarco. Matteo sale sulla nave diretta in Italia, mentre sulla banchina «l’abbraccio di Judy e Ann si confuse nelle nebbie delle mie lacrime insieme con la folla che salutava e con tutto il resto di quella partenza»75.

La terza parte del romanzo (Inferno e dannazione) narra del breve periodo trascorso da Matteo in Italia per sbrigare i problemi legati all’eredità materna. Durante il lungo viaggio in nave, Matteo ha modo di leggere e rileggere una lunga lettera di Judy e di pensare al significato del loro tragico amore76. Durante la sosta a Palma de Maiorca, Matteo scrive all’amico Michele per confermargli che non intende più fare un film con lui, perché si sente mortificato dal disprezzo nutrito verso la sua Judy77. All’arrivo a Napoli, Matteo incontra la moglie Paola. La donna si rende subito conto che un’altra persona è entrata nella vita del marito: Matteo parla di Judy come della propria madre, attraverso di lei si è innamorato di un intero paese (l’America)78. Paola, la sua fedele compagna di una vita, desidera che il marito ritorni a New York per risolvere il «nodo» amoroso con la giovane ebrea79. Matteo ha modo di incontrare la figlia Giuditta e il fidanzato di lei

72 Cfr. ivi, pp. 629 ss.73 Cfr. ivi, pp. 653 ss.74 Cfr. ivi, pp. 657-658.75 Ivi, p. 663.76 Cfr. ivi, pp. 667 ss.77 Cfr. ivi, pp. 687 ss.78 Cfr. ivi, pp. 705 ss.79 Cfr. ivi, pp. 729 ss.

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Massimo, con cui si confronta sui problemi della letteratura contemporanea e d’Israele80. Poi si reca nella casa materna in Liguria, dove riflette sul suo rapporto con l’ebrea americana: «Judy è la mia resurrezione o la mia morte, e la morte definitiva?»81. Di ritorno a Roma, riparte subito dopo in aereo per New York. Ha lasciato la casa vuota, senza la moglie e la figlia: Paola teme che dietro la sua creatività letteraria si nasconda un desiderio di morte82.

La quarta e ultima parte del romanzo (Caduta e mito) narra il ritorno nella sua amata America e la resa dei conti con Judy. Nel viaggio aereo Matteo ha modo di ripensare a tutte le figure femminili della sua vita, che definisce una «monotona ripetizione di un inutile tentativo di sopravvivenza»83. Tornato a New York, Matteo ha modo di riabbracciare l’amata Judy: lei vuole rimanere incinta di lui84. Quella stessa sera ha lungo una festa di benvenuto. Matteo, ridestatosi dopo un breve sonnellino, pensa al triste epilogo di un film di Sydney Pollack (Non si uccidono così anche ai cavalli?, 1969) e alla sua nemesi letteraria85. A cena conosce David, un cugino di Judy, reduce dal Vietnam. Matteo discute con i commensali di alcuni film e della sua passione inusitata per lo scrittore russo: si sente «un terzo Cristo, un terzo Dostoevskij e un terzo Don Chisciotte»86. Sandra, un’amica di Judy, vuole che Matteo si allontani da lei per un po’ di tempo: dopo la sua partenza si sente confusa e ha bisogno di fare chiarezza sul suo futuro87. Lo scrittore italiano, irritato per aver dovuto sorbirsi la cena dei suoi «protettori», la colpisce e se ne va88. Si rifugia nel vecchio albergo di Broadway, dove aveva alloggiato al suo arrivo a New York. Judy riesce a stanarlo grazie a Michele: gli confessa 80 Cfr. ivi, pp. 755 ss.81 Ivi, p. 784.82 Cfr. ivi, pp. 792 ss.83 Cfr. ivi, pp. 799 ss.84 Cfr. ivi, pp. 811 ss.85 Cfr. ivi, pp. 849 ss.86 Cfr. ivi, pp. 895 ss.87 Cfr. ivi, pp. 902 ss.88 Cfr. ivi, pp. 922 ss.

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che, dopo la sua partenza in mare, avrebbe voluto togliersi la vita con la figlioletta perché non aveva rispettato la promessa di parlare fino in fondo. «Tu – continua – mi hai parlato di tua madre in un certo modo, di come era morta, e che era morta come in un campo di concentramento nazista, da ebrea, laggiù, nell’Europa della guerra, e che intanto lei moriva così, mentre la guerra era finita da vent’anni. E però tu me ne parlavi come se si trattasse di un antefatto. Il resto stava sotto. E quello che tu mi raccontavi di tua madre lì per lì era solo l’antefatto. Tu, quello che stava sotto, me lo avresti raccontato dopo»89. Matteo le racconta di come sua madre l’abbia contagiato da ragazzo, gli abbia fatto pesare la sua «viltà» di fronte agli ebrei morti nei campi di concentramento: un giorno, a guerra finita, ha ammesso di fronte a una donna estranea di provare ribrezzo per gli ebrei ortodossi del ghetto di Varsavia, consentendo, per paura di «essere smascherata come ebrei, con quelli che prima delle spade […] avevano usato le parole per ucciderli, per massacrarli. E adesso che so che le parole possono assassinare, so anche di essere stata un’assassina»90. E Matteo?

Il senso di colpa è un marchio che loro hanno inventato per ereditare meglio il patrimonio degli assassini di prima e per manovrarti meglio adesso. Loro, e non sono solo gli psichiatri a pensarlo, tirano fuori lo spettro del senso di colpa per nascondere, per camuffare e per capovolgere una verità ben più semplice e più pericolosa. E invece, ecco di cosa si tratta. Della scoperta dell’orrore... dell’orrore impossibile... e di quel che un essere umano è capace di fare a un altro essere umano. Credi davvero che si possa vivere da soli, senza gli altri dentro di sé? No, non si può. Tu insomma vivi finché senti che riesci a far vivere anche gli altri dentro di te. E poi ti capita di capire che d’un tratto e quando meno te lo aspetti, questi inevitabili altri che vivono dentro di te, ci vivono solo per distruggerti, e che magari anche quelli che dentro di te e fino a un momento prima ci vivevano per edificarti, per aiutarti a nascere ogni giorno alla vita magari chiedendo il tuo aiuto e nascendo alla vita loro stessi, insomma per aiutarti a esser vivo insieme con loro, adesso tutto a un tratto cominciano a volerti distruggere e magari al prezzo della loro stessa distruzione. Ecco, da questo momento tu non ce la fai più, e tu stesso vuoi distruggerti. Mi a madre, ecco, mi ha forse persuaso che

89 Ivi, p. 950.90 Ivi, pp. 955-956.

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vivere è impossibile. Per questo mentre lei moriva, io la straziavo con la mia fuga91.

Sia la madre di Matteo, sia il padre di Judy hanno trasmesso l’idea che la vita sia qualcosa di vergognoso, che una colpa immane pesi sulle spalle degli ebrei sopravvissuti al genocidio nazista: «Non pensi – diceva Sammy a Judy quando era ragazzina – che a far l’amore e intanto là, in Europa, noi ebrei siamo morti ammazzati. Se io non fossi emigrato in America […] sarei stato ammazzato anch’io e tu non saresti nemmeno nata»92. Judy ha affidato a Matteo il cucchiaio di un reduce dai campi affinché faccia parte di una storia93. Matteo e Judy sanno di esser giunti al capolinea: si sono distrutti a poco a poco mentre credevano di amarsi, denudandosi sino all’autodistruzione94. La giovane ebrea gli confessa che attende un bambino da lui e che ha il visto per l’Europa. Ma entrambi non possono fare a meno di fissare quel cucchiaio di stagno95. Judy conosce il tragico finale del film di Pollack (dove la protagonista si fa uccidere da un ragazzo per non aver ottenuto il premio di un’infinita maratona di ballo), ma che, «dopo il primo momento di sbigottimento, aveva capito e il sentimento che aveva provato era stato di sollievo. Dopo tutto, chi lo aveva detto che si dovesse vincere a ogni costo?»96. Judy vuole che Matteo frughi nella sua borsa. Qui lui trova la pistola a tamburo d’argento e di madreperla di suo nonno, che aveva usato per cercare di suicidarsi durante la guerra e che credeva irrimediabilmente perduta:

La mia mano adesso esitava. Judy, con tutto lo splendore del suo corpo ormai muto, mi stava bisbigliando qualcosa. E con il silenzio di quel corpo mi comunicava una forza che io non potevo rifiutare, per un invito, a lei e a me insieme, che ormai io non avrei più potuto rinnegare. E così allungai la mia mano

91 Ivi, pp. 957-958.92 Ibidem.93 Cfr. ivi, pp. 960-961.94 Cfr. ivi, p. 965.95 Cfr. ivi, pp. 966 ss.96 Cfr. ivi, pp. 970 ss.

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stanchissima ma ancora fin troppo viva verso quella borsettina di Judy che mi era familiare al punto di provocarmi un’assurda fantasia: quella di averla portata io stesso, quasi io stesso in un altro pianeta e in un altro tempo fossi vissuto come una donna. Allungai la mia mano stanca e decisa, e decisa proprio a causa della sua infinita stanchezza, verso la borsetta come se dovessi raggiungere la più lontana nuvola del cielo più lontano. E affondai la mia mano nella borsetta...97

3. L’uomo del libro (1991)

Il tragico epilogo de La casa dei due fanali indicava chiaramente il senso della poetica lecchiana sviluppatasi nel corso degli anni Settanta e Ottanta: l’esigenza di affermare la propria ebraicità come bisogno vitale primario, come processo catartico di redenzione fisica e spirituale dal fardello della propria nascita, come testimonianza della «falsa coscienza» occidentale. L’uomo del libro, uscito anch’esso nel 1991, sembra proporsi come anello di congiunzione tra il Don Chisciotte in America e La casa dei due fanali: ripresenta il tema del viaggio purificatore americano in un’atmosfera meno claustrofobica e più distaccata. La storia narra il viaggio a New York da parte di una giovane giornalista di nome Anna (come la figlia di Judy!) per «intervistare» Elizabeth, l’ex amante di Matteo alla quale aveva dedicato un libro di poesie quindici anni prima98. «L’uomo del libro» si trova in Italia, ma Anna vuole conoscere di persona una parte della sua vita a lei sconosciuta, l’effige di un libro tradotto in tutto il mondo99. È curiosa di sapere se l’ebraicità abbia avuto un ruolo importante nella loro storia d’amore: le parla di un romanzo in corso di gestazione, dove lei (Judith) gli regala un cucchiaio di stagno. Elizabeth ritiene che dietro l’ossessiva esigenza di ebraicità da parte di Matteo si nasconda il bisogno di ritrovare una figura materna di riferimento ormai mancante100. Il colloquio tra le due

97 Ivi, pp. 975-976. Su questo romanzo di Lecco si veda la recensione di N. Riccobono, L’amore, la morte, gli ebrei. Delirio a New York, «L’Unità», 8 aprile 1991, p. 15.98 Cfr. id., L’uomo del libro, cit., pp. 23 ss.99 Cfr. ivi, pp. 33 ss.100 Cfr. ivi, pp. 48 ss.

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donne procede tra alti e bassi: Anna cerca di carpire il maggior numero d’informazioni possibili sul protagonista del suo articolo, ma si rende conto che Elizabeth, che ignora la produzione letteraria del protagonista, non ha molte cose da dirle101. Parlano di Matteo, delle sue speranze di scrittore frustrate (non di fama ma dall’avvenuta consapevolezza dell’irrilevanza della parola) e del suo incessante bisogno di innamorarsi102. Dopo averle porto l’ultima edizione delle poesie, Anna si accomiata da Elizabeth103.

La seconda parte del libro è una sorta di monologo di Anna, impegnata a tirare le fila del suo incontro con Elizabeth, del suo rapporto con Matteo e della sua tragica condizione umana. La giornalista vaga per New York alla ricerca dei luoghi di Elizabeth e dell’«uomo del libro». Si reca in un bar dove i due amoreggiarono nel 1966 e lasciarono una firma su un quaderno104. Alla redazione newyorchese del «Giorno» prepara il suo articolo sulla musa di Matteo Viterbi, lo scrittore che aveva sfiorato il Nobel l’anno precedente. Prepara il pezzo e lo spedisce al direttore della redazione newyorchese105. Anna ritorna in albergo, dove l’aspetta Richard, un ragazzo di colore conosciuto alcuni giorni prima. Insieme mangiano e fanno all’amore106. Anna mente a Richard sulla musa ispiratrice di Matteo, forse perché crede che lui sia incapace di capirne l’importanza nella vita dello scrittore107. La giornalista ha modo di riflettere su ciò che sta facendo e sul ruolo che l’«uomo del libro» riveste nella sua vita: «Non posso essere né un tipo di donna né un’altra, sono sicura di questo, e la sicurezza mi ammazza. Questo sì, lo avevo capito da lui, dall’uomo del libro, e da dove veniva quel suo continuo ossessionante creare, avevo capito la sua potenza, che era la sua insicurezza, il suo vivere nel

101 Cfr. ivi, pp. 58 ss.102 Cfr. ivi, pp. 66 ss.103 Cfr. ivi, pp. 70-71.104 Cfr. ivi, pp. 72 ss.105 Cfr. ivi, pp. 91 ss.106 Cfr. ivi, pp. 95 ss.107 Cfr. ivi, pp. 103 ss.

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dubbio, il suo continuo emergere dal dubbio. Io vivo almeno in una sicurezza, nella sicurezza... c’è insomma una cosa nella quale io vivo che è sicura. E dunque adesso so che non potrò mai ereditare il suo dubbio. E questa è la mia impotenza. Io non scriverò mai né un libro, né niente, io non potrò mai credere in una cosa fino al punto di avere tutti i dubbi e dunque farla. Ecco, questo non lo avevo mai detto a nessuno. E neanche a me. E adesso l’ho detto a te. Ma, adesso che te l’ho detto, che cosa succederà? E tu, poi, hai capito quel che volevo dirti?»108

La terza e ultima parte del romanzo narra del progressivo commiato mondano di Anna. La giornalista, rimasta sola nella sua camera d’albergo, ripensa a Elizabeth e alla sua storia109. Decide di chiamare Paola, la moglie di Matteo, in Italia. Parlano del suo articolo e del suo incontro con la famosa musa ispiratrice. Paola sembra serena: adesso ha una vita propria che non immaginava mai di poter avere prima, non è più rosa dal senso di colpa di dover «essere-per-gli altri»110. Anna si rende conto di appartenere a un’altra generazione e di essere una sorta di testamento-epitaffio vivente dell’«uomo del libro». Riceve anche la chiamata di Mary Jo, la figlia di Elizabeth. La ragazza è turbata dal comportamento materno. Teme che lei voglia andarsene in Europa per trovare l’uomo della sua vita. Confessa ad Anna che la madre le ha sempre proibito di leggere il libro di poesie, ma che lei, di soppiatto, è riuscito a farlo. La incolpa di volerla separare dalla madre111. Anna, però, è tranquilla, perché sa che la separazione non potrà mai esserci: Matteo, infatti, come dice al redattore newyorchese del «Giorno», è morto un anno prima d’infarto112. Anna sogna di essere lui e di possedere contemporaneamente Elizabeth e la figlia113. Mentre ascolta una canzone di Dionne Warwick al

108 Ivi, pp. 118-119.109 Cfr. ivi, pp. 127 ss.110 Cfr. ivi, pp. 133 ss.111 Cfr. ivi, pp. 141 ss.112 Cfr. ivi, pp. 156 ss.113 Cfr. ivi, pp. 154-155.

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magnetofono, legge l’ultima lettera dell’«uomo del libro», con cui si accomiata da lei e dal mondo intero: le parla di un sogno in cui lui la difende a costo della sua vita dai nemici che cercano di ucciderla114. Anna è ormai pronta: ingurgita alcuni barbiturici insieme a un bicchiere di whisky: «A occhi chiusi, la voce di Dionne Warwick le sembrava a tratti quella di Matteo, di sua madre, di sua sorella piccola, di suo padre – morto all’improvviso quando lei aveva quattordici anni e soltanto adesso se lo ricordò per la prima volta dopo molti giorni – e poi, subito ancora, quella di Matteo. […] E tutto questo accadde quando Dionne Warwick cantava: Ti sto amando un po’ da troppo tempo / per favore non farmi smettere adesso / per favore non farmi smettere adesso / per favore non farmi smettere adesso»115.

La trilogia americana presenta grossomodo uno stesso filo conduttore: la libertà e la ricerca dell’amore sembrano condurre all’autodistruzione morale e fisica. Il Nuovo Continente non è rappresentato come la terra della felicità o della realizzazione personale ma come il luogo in cui poter essere se stessi. L’esigenza di autenticità dei protagonisti, però, determina un denudamento progressivo senza ritorno: Davide si scopre «giovane» solo nella sua ricerca dell’amore perduto, Matteo pone fine alla sofferenza ebraica (materna) morendo insieme a Judy, Anna affonda nella memoria dell’«uomo del libro». Il sogno americano diventa un vero e proprio viaggio agli inferi, dove la morte è l’unico esito possibile: senza barriere culturali c’è la «nuda vita». La tragedia della condizione ebraica viene amplificata e allo stesso tempo ridimensionata negli ampi spazi americani: il viaggio verso la California di Davide lo mette a contatto con una realtà tragica e vitale, che lo salvaguarderà dall’incontro con Judith; la ricerca letteraria di Matteo a New York, città ebraica per eccellenza, si tramuterà nella riproposizione della tragica fine dei protagonisti del suo racconto; l’intervista di Anna sempre a New York sarà la

114 Cfr. ivi, pp. 161-162.115 Ivi, p. 166.

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presa di coscienza della sua impotenza creativa e dunque della sua «morte» spirituale. L’ansia di libertà e l’amore sono rappresentati come sentimenti così estremi da non essere vitalisticamente tollerabili a New York, dove forte è il legame con il passato europeo, dove il ricordo dello sterminio nazista è ancora presente nella memoria individuale e negli oggetti (come il cucchiaio di latta). Solo chi ha il coraggio di muoversi veramente dalla propria casa ha la possibilità di sopravvivere: Davide ha il coraggio di andare sino in California, per poi tornare fra le braccia della moglie; Matteo non riesce a farlo, perché ritrova in Judith una sorta di doppio della madre; Anna non riesce a staccarsi dall’«uomo del libro» e dal suo poema. Solo chi ha il coraggio di essere autenticamente se stesso e di purificarsi dal senso di colpa del passato può ambire alla vita. Ma si tratta di un privilegio ristretto a pochi e, soprattutto, di un’aspirazione che può nutrire solo chi ha veramente saputo essere tragicamente ebreo sino in fondo116.

116 Cfr. G. Manarcorda, Verso il cuore della città-metafora di Bleecker Street. New York e gli ebrei in primo piano in due romanzi di Alberto Lecco, «L’Unità», 13 giugno 1991, p. 19.

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Capitolo IV

L’impossibile redenzione: L’ebreo (1981)

Nel 1981 Lecco pubblica il romanzo che, forse, racchiude al meglio la sua concezione d’identità ebraica nel mondo contemporaneo, l’esito di un incrocio fra la caratterizzazione realistica ottocentesca e la fenomenologia esistenziale novecentesca. Il titolo è alquanto sibillino: L’ebreo. Non un ebreo in generale, ma l’ebreo come carattere morale novecentesco. In un’apologia critica apparsa sul «Giornale d’Italia» il 17 maggio 1981, lo scrittore milanese sostiene, infatti, di aver scritto il romanzo «più fedele e più obbediente all’insegnamento del mio maestro Dostoevskij», di aver scritto «“una satira menippea”, cioè a dire di aver colto un momento drammatico nel quale quattro personaggi, due giovani donne e due giovani uomini del nostro tempo, a Roma, si rivelano e si denudano amandosi e odiandosi reciprocamente fino all’estremo limite della vita e della morte»1. Rispetto ai romanzi americani, regna una maggiore claustrofobia spaziale e la sensazione che il peso della storia sia preponderante nella memoria individuale. Il titolo del proprio romanzo, che ha suscitato «scandalo» per quel nome in particolare, vien motivato in questi termini:

Il primo scopo era quello di comunicare drammaticamente e narrativamente, cioè emozionalmente e razionalmente, agli ebrei e ai nonebrei, quel che ha significato e che tuttora significa essere ebrei diasporici, ebrei del galùt, cioè ebrei esiliati fisicamente, psicologicamente e culturalmente e contro il loro volere in una società composta da una maggioranza di cittadini nonebrei, quelli detti «gentili» in linguaggio «paolino» oppure «goy» in linguaggio giudaico. Il secondo scopo era quello di far capire che io stesso, ebreo per parte di madre (e cioè per molti, ebrei compresi, ebreo solo a metà, ma per me stesso ormai ebreo totale) avevo capito in lunghi e dolorosi ma anche vitalissimi decenni di riflessione e di esperienza di questa condizione esistenziale e culturale assai più che etnica o addirittura antropologica; e cioè di far capire che essere ebrei significava soltanto essere «diversi» in una società che li viveva come diversi, veramente diversi e non

1 Cfr. A. Lecco, "Questo è il mio ebreo", in, id., Don Chisciotte ebreo, cit., p. 82.

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per finta, se per diversità si intendeva soprattutto lo spessore del rifiuto da parte del mondo circostante.

Essere ebrei per me, scrittore e narratore, diventava così un fatto soprattutto metaforico, dal momento che il lusso della democrazia vietava che diventasse qualcosa di più pericoloso. E diventava un fatto metaforico anche in quanto, se l’ebreo si rivelava, si denudava, si confessava, doveva farlo dando di se stesso quel ritratto che «l’altra parte» si era già prefigurata e che in definitiva conteneva sempre i termini di una propria autogiustificazione e di una propria autodifesa. […] Dunque essere ebrei era soltanto essere diversi davanti e in mezzo a chi ostinatamente si affrettava e insisteva a voler vedere questa differenza come un dato discriminante invece che come un elemento unificatore e vivificante dello stesso processo multiforme e pluralistico della vita; a voler vedere in tal modo questa differenza e naturalmente a rifiutarla con lo scopo, ignobile, di «sentire» la propria identità. La tendenza a sentire l’identità, anziché nella coesistenza armoniosa delle varie forme e nel confronto creativo, nella aspirazione a una massificazione assoluta e uguale degli umani, avviene sempre per iniziativa di chi in quel dato momento storico vive se stesso come il più forte ed è perciò tra i sogni più ricorrenti e più deliranti dei leaders egemoni dei popoli-guida2.

L’ebreo è ambientato a Roma alla fine degli anni Cinquanta (grosso modo in corrispondenza dell’arrivo di Lecco e dell’abbandono della professione medica)3. L’io narrante si chiama Mario Benvenuti ed è uno sceneggiatore cinematografico (come Lecco nella collaborazione all’Oro di Roma di Carlo Lizzani). Mario ha una peculiarità: è «mimetico». Antesignano dello Zelig di Woody Allen, Mario si adatta a tal punto all’ambiente da non essere visto da nessuno: è solo ciò che gli altri vogliono che lui sia, è un tipico ebreo diasporico schiacciato dall’«identità» gentile, piccolo-borghese (e antisemita)4. Mario, che sembra attraversare una fase di stanca nella sua produzione artistica, conosce una sera in un bar Estella, una ragazza che cattura la sua attenzione. Dopo aver parlato delle loro rispettive esistenze (anche se la ragazza evita di dare informazioni specifiche su di sé), i due si separano, forse per

2 Ivi, pp. 80-81.3 Un’anteprima del romanzo è apparsa su «L’informatore librario», XI, 5, maggio 1981, pp. 11-13.4 Cfr. A. Lecco, L'ebreo, Roma, Città Armoniosa, 1981, pp. 13 ss.

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sempre5. Mario, rimasto colpito dalla sua bellezza e dalla sua inconsapevole richiesta d’aiuto (è una ragazza «umiliata o offesa» in cerca di «redenzione»), rivede per caso Estella a Villa Borghese, in compagnia di un uomo, probabilmente il suo compagno. Assiste alla loro discussione animata, che termina con uno schiaffo di lui6. Dopo che l’uomo se n’è andato, Mario si avvicina alla ragazza per aiutarla. Estella le racconta che è sposata e che il suo amante non intende più tollerare la presenza del marito. Mario l’accompagna a casa, non senza averle messo nella borsa il suo numero di telefono7. Tornato a casa sua, non fa che pensare a Estella, ma non riceve l’auspicata chiamata. Riesce a litigare con un’inserviente del Teatro dell’Opera nel tentativo di aiutare la figlia di un’amica a iscriversi a un corso di danza8.

Quella sera Mario, attivo politicamente nella sinistra filo-ebraica romana, si reca al caffè Michelangelo per firmare un proclama contro le manifestazioni razziste del MSI (pochi giorni prima si era recato alla prima di Kapò di Pontecorvo, rimanendo profondamente scosso dal pianto di alcuni spettatori, al punto da aver chiesto scusa per il suo «non essere ebreo»)9. Qui incontra Massimo Bevilacqua, un critico d’arte squattrinato, che aveva l’abitudine d’attaccar bottone col primo arrivato, un «nessuno» – osserva l’io narrante – che «si pasceva della vicinanza di coloro che supponeva, se non potenti, importanti»10. Bevilacqua è alle prese con Mauro Borsellino, un aspirante scrittore quasi sessantenne11. Mario cerca d’imbastire una discussione su Kapò, sostenendo che il film sia antisemita: lo sbaglio di Pontecorvo consiste nel credere che il fascismo non sia «in realtà che un demonio miserabile, un demonio poi addirittura bambino» e che sia fuori, non «dentro

5 Cfr. ivi, pp. 17 ss.6 Cfr. ivi, pp. 27 ss.7 Cfr. ivi, pp. 35-36.8 Cfr. ivi, pp. 41 ss.9 Cfr. ivi, pp. 47 ss.10 Ivi, p. 52.11 Cfr. ivi, pp. 61 ss.

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ognuno di noi»12. Lo sceneggiatore firma il proclama e, dopo una meditazione a tu per tu davanti allo specchio della toeletta, riconosce seduto a un tavolo l’uomo che aveva visto il mattino seduto con Estella sulla panchina di Villa Borghese. L’uomo lo ringrazia per le parole usate a commento del film: Mario, «felice e trionfante di questo clandestino e inaspettato riconoscimento», non vuole sapere nulla di lui13. Mentre ritorna a casa, finisce per giungere davanti alla casa di Estella. Lei è lì e lo invita a salire per parlare14.

Estella gli svela l’ordito del suo triangolo amoroso: Marcello, suo marito, e il suo analista Giacomo Mayer, suo amante. La donna ha cercato di essere vicina a Marcello, malgrado le sue frustrazioni professionali e la relazione con una sua collega di nome Annabella15. I primi mesi Marcello sfogava tutto il suo risentimento sulla moglie e sull’analista, accusandolo di essere un ebreo indegno di vivere, anche se finisce per scusarsi con lui16. Proprio in quell’istante giunge a casa di Estella lo psicanalista ebreo, che è lo stesso uomo che aveva elogiato l’intervento di Mario al caffè Michelangelo. Giacomo, sposato a sua volta con Marta, confessa di aver sofferto dell’attacco mosso dai danni degli ebrei sin dalla sua infanzia. Freud in sedicesimo, rivela a Mario la sua profonda ferita narcisistica: «“La cosa che mi avevano gettato addosso con odio e con sarcasmo era diventata la mia pelle. E io, poiché non avevo che quella, me la portavo in giro con amore. Ho perfino odiato mio padre e mia madre, per questo. Quando l’ho saputo, li ho odiati. Ma era inevitabile che prima o poi lo sapessi. Anche loro sono ebrei? mi chiedevo angosciato, e li odiavo. Potrete mai capire che cosa significa?”»17 Mario, sorpreso dalla lunga confessione di Giacomo, sveste per un momento i panni di

12 Ivi, p. 65.13 Cfr. ivi, p. 70.14 Cfr. ivi, pp. 71 ss.15 Cfr. ivi, pp. 75 ss.16 Cfr. ivi, pp. 82 ss.17 Ivi, p. 90.

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«Zelig» italiano e si denuda di fronte a lui e all’amante in un impeto di autenticità:

Voglio diventare me stesso, anche se per un ebreo diventare se stesso significa diventare un martire. […] Sì, cerco l’ebreo, lo trovo e subito vado a caccia, sul suo volto, delle somiglianze con il mio, e io addirittura lo imito e mi sforzo di anticipare, in me, tutto quello che lui sarà o farà tra poco. […] Ma subito dopo cerco nel volto dell’ebreo le differenze. E lo stesso ardore che poco prima avevo messo nel cercare le uguaglianze, e adesso mi consuma, mi annienta nel processo opposto18

Sommerso da quella confessione fluviale, Mario saluta la coppia e ritorna al caffè Michelangelo. Qui ritrova Bevilacqua, che discute con uno scrittore rumeno e un critico letterario di nome Scarpini sulle sue stravaganti posizioni politiche19. Improvvisamente fanno la loro comparsa Estella e Giacomo, coi volti «segnati da una decisione»20. Se ne vanno, dopo aver semplicemente veduto e – forse – conosciuto l’ambiente di Mario, impegnato a discutere animatamente con gli altri frequentatori del caffè i limiti verbali dell’antisemitismo: «Potrete mai capire che cosa significa essere ebrei?»21 Dopo quest’affermazione, Mario se ne va. Fuori del locale, incontra Estella e Giacomo, che se ne va per conto suo «come un cane». Estella invita Mario a casa sua. Le parla di Marta e della loro intima amicizia. Il piano di Estella è quello di lasciare per sempre Marcello per iniziare una nuova vita lontano da quel mondo di dolore e di debolezza. Non ama Giacomo, contrariamente alla moglie22. La coppia viene raggiunta da Marta, su invito di Estella. La donna parla di Giacomo: è un uomo disperato, che soffre paradossalmente perché la guerra non gli ha lasciato alcun segno. Racconta a Mario di come ha conosciuto Estella e di come Marcello tormentava Giacomo

18 Ivi, pp. 94-96.19 Cfr. ivi, pp. 99 ss.20 Ivi, p. 105.21 Cfr. ivi, pp. 108 ss.22 Cfr. ivi, pp. 113 ss.

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durante le sedute psicanalitiche. Mentre Marcello si è ripreso, Giacomo si è incupito e ha iniziato a sentirsi «investito della responsabilità di persuadere il mondo degli orrori nazisti»23. Marta è felice che Estella stia con Giacomo, perché così non ne ha compassione24. Il trio si separa, dandosi appuntamento il giorno dopo sotto il portico d’Ottavia per un comizio sull’antisemitismo25.

Mario torna nella sua pensione per riposarsi. Gli capita di sognare quando, da ragazzino, andò a sciare per la prima volta, provando una trepidazione mista a timore26. In piena notte, però, sopraggiunge Giacomo. Mario, sorpreso della visita, gli racconta di aver sognato un bambino che prendeva l’ostia e di aver provato una sorta di nostalgia per quell’evento liturgico27. Giacomo ha bisogno d’aiuto:

la mano di Giacomo, tutta ammorbidita da quei suoi cari peluzzi biondi, stringeva un lungo coltello e me lo porgeva dalla parte dell’impugnatura. E mentre il sorriso sulla sua bocca diventava di attimo in attimo il più seducente invito che io avessi mai ricevuto, un invito al quale diveniva sempre più impossibile sottrarsi, io sentii con orrore e con dolcezza la mia stessa mano avanzare adagio ma inesorabilmente verso quella impugnatura, sfiorare il legno del manico e poi aprirsi, in tutte le sue innumerevoli dita, già disposta a tutto e dunque a quella sola che le veniva chiesta28.

Mario si sveglia improvvisamente, ma non sa se ha sognato Giacomo oppure no29. Si reca al comizio, dove incontra Marta ed Estella. Giacomo è sul palco pronto a parlare. Racconta al pubblico della sua esperienza a Dachau, di un ebreo che, su invito del Kapò, avrebbe dovuto impiccarsi30. La narrazione

23 Ivi, p. 137.24 Cfr. ivi, pp. 138 ss.25 Cfr. ivi, p. 142.26 Cfr. ivi, pp. 143 ss.27 Cfr. ivi, pp. 147 ss.28 Ivi, p. 151.29 Cfr. ivi, pp. 153 ss.30 Cfr. ivi, pp. 159 ss.

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s’interrompe: Giacomo è visibilmente commosso. Marta se ne è andata. Mario, insieme a Estella e a Giacomo stesso, se ne vanno a pranzo. Lo psicanalista gli fa leggere il discorso che avrebbe voluto fare sulla condizione umana e su quella ebraica, sua esasperazione contemporanea: «Ma qualunque cosa l’ebreo faccia, qualunque cosa riesca a escogitare per difendersi da quella catastrofe che sa imminente e inevitabile, per lui il ghiaccio del giudizio non muterà il proprio stato, non si scioglierà mai in acqua.31. Mentre cenano, Giacomo paragona gli ebrei diasporici ai musicanti zigani che intrattengono il pubblico32. Mario si rende conto che a Estella non interessa la sorte di Giacomo: voleva vendicarsi del marito e difendere la propria rispettabilità33. Mentre Giacomo si assenta un momento per parlare col direttore d’orchestra, Estella confessa a Mario di non amare più quell’uomo e di voler tornare dal marito a ogni costo34. Giacomo, tornato al tavolo, racconta a Mario la storia della sua vita: nel dopoguerra ha sposato Edith, anch’ella reduce dai campi di concentramento, che poi si è suicidata dopo aver ucciso la loro figlioletta Bruna (nome alquanto evocativo del trauma irrisolto). Estella ride in modo sguaiato: non crede affatto a questa storia35. La situazione assume toni carnevaleschi: Giacomo suona con la banda gitana, mentre Estella gioca con un naso da clown. Mario chiama al telefono Marta, che, giunta nel locale, uccide con una pistola il marito36.

Mario scappa via da quella folle notte. Si ferma nei pressi del manifesto posto vicino al comizio, dove trafuga la foto di una fanciulla ebrea massacrata dai nazisti:

Mi chiedevo: “Che cosa vorranno sapere domani e come potrò raccontarlo?”

31 Ivi, p. 167.32 Cfr. ivi, pp. 169 ss.33 Cfr. ivi, pp. 171 ss.34 Cfr. ivi, pp. 175 ss.35 Cfr. ivi, pp. 179 ss.36 Cfr. ivi, pp. 182 ss.

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Arrivai al ponte e mi affacciai alla spalletta. Il fiume era ancora lì. Cavai dal portafoglio la fotografia della ragazza. Lei era mia, adesso. Era la mia lontana ragazza perduta durante la guerra. E questo era il suo ultimo sorriso, il suo saluto a me, a me solo. Toccava soltanto a me di doverlo decifrare.

Piangevo e la vedevo male. Il suo volto affettuoso si perdeva nella nebbia delle mie lacrime. E intanto le bisbigliavo. “Quale domanda dovrò farti? E quale sarà poi la tua risposta?”37

Pur essendo considerato dall’autore il suo romanzo più «riuscito» ed essendo finito nella cinquina finale del Premio Strega, L’ebreo non ha riscosso il successo di critica e di pubblico auspicato. Roberto Cantini, pur apprezzando la vena pedagogica del protagonista (condividere con gli altri il proprio senso di colpa), evidenziava la debolezza del tessuto narrativo e stilistico del romanzo, che avrebbe causato la morte finale dello psicanalista ebreo38. Preparato con ogni probabilità contemporaneamente all’Incontro di Wiener Neustadt e Don Chisciotte in America, L’ebreo narra di una Roma da «vita amara» alla fine del «miracolo economico», dove l’intelligenza è posta unicamente al servizio dell’autodistruzione di sé e l’antisemitismo non è stato affatto compreso e sentito dalla società italiana. Il patetico Giacomo Mayer, incapace di venire a patti con la dura e angusta realtà della vita moderna, è alla ricerca di un amore totale capace di redimere la sua colpa, le sue difficoltà e i suoi problemi personali39. Come altri personaggi ebrei lecchiani (gli «americani», per esempio), Giacomo è arso da una sete di vita insaziabile e irrisolta, letteralmente castrata dalla sua identità ebraica materna, che lo sospinge verso il baratro. La condizione ebraica viene riletta alla luce della tragedia dell’Olocausto: non esiste alcuna forma di redenzione (statale, etica o personale) o alcuna figura di riferimento (il Cristo dostoevskiano) alla quale aggrapparsi in questo mondo irredento e irredimibile. C’è solo colpa e rimorso

37 Cfr. ivi, p. 186.38 Cfr. R. Cantini, Giacomo il disperato, «Il Giornale», 2 agosto 1981, p. 2.39 Cfr. G. Nogara, Quell’ultimo sguardo, «Il Tempo», 3 luglio 1981, p. 18; «Libri e riviste d’Italia», 33, luglio-agosto 1981, pp. 415-416.

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per non essere stati tutti «ebrei» (vicari di Cristo) in un’epoca che chiedeva il sacrificio di sé per «amore» dell’umanità. L’unica forma di rivolta ammissibile per l’ebreo contemporaneo è l’espiazione della propria esistenza, ovvero il suicidio o la morte indotta. L’inferno dell’uomo ebreo consiste nell’incapacità di essere ciò che è e di lottare contro l’identità in una forma positiva e assertiva. Anche in questo romanzo Lecco dimostra di aver utilizzato alcune categorie della poetica dostoevskiana (come il rapporto fra amore e redenzione), ma di non poterle svolgere e sviluppare in maniera esaustiva, prigioniero delle categorie fenomenologiche sartriane.

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Capitolo V

Una via di salvezza al «femminile»: Ester dei miracoli (1986)

Il successivo romanzo di Lecco cerca di tirare le fila fra Anteguerra, romanzo di formazione milanese, i racconti americani e il problema della tragedia ebraica contemporanea. Mentre in La città grida (1985) ritorna il tema dell’«intuizione dell’amore»1, Ester dei miracoli (1986) sembra fornire una risposta «terapeutica» alle sofferenze nutrite dalla condizione ebraica dei suoi personaggi: solo da una profonda e dolorosa resa dei conti con la storia personale (che è anche storia collettiva) è possibile costruire il proprio futuro esistenziale. Lo scenario del romanzo è l’attentato alla sinagoga romana del 1982, che permette all’autore di rafforzare la propria ebraicità di fronte all’antisemitismo contemporaneo. Il protagonista in prima persona è l’ormai noto Matteo Viterbi, un regista cinematografico ultracinquantenne alle prese con il soggetto di un nuovo film: la storia di due amanti che si uccidono. Matteo ha avuto una storia con l’ebrea americana Judy, dopo essersi separato dalla «storica» compagna Paola. La scena iniziale lo vede in un albergo romano insieme a una giovane ebrea askhenazita di nome Maude, sua fresca sposa. È giunto nella capitale per preparare la sceneggiatura e per riassaporare i luoghi della sua adolescenza. Ma, inconsapevolmente, vuole rimettersi sulle tracce della madre Caterina scomparsa proprio nei giorni della razzia nazista del ghetto2. Dopo aver parlato lungamente al telefono con Luisa, futura protagonista femminile del suo film, Matteo si reca in una libreria nei pressi del ghetto per cercare un libro: la biografia di Nino Galizzi del musicologo Mario Mori, che ha scoperto essere il suo padre naturale3. Matteo ritorna in albergo, dove porta la colazione a Maude e gli parla di «Emmeemme» (soprannome vagamente kafkiano del musicologo,

1 Cfr. A. Lecco, La città grida, Roma, Lucarini, 1985.2 Cfr. id., Ester dei miracoli, Genova, Marietti, 1986, pp. 1 ss.3 Cfr. ivi, pp. 6-7.

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che ricorda l’amante materno di Anteguerra). È ancora vivo? Matteo scopre che abita lì vicino. Lo chiama e si danno un appuntamento: vuole sapere qualcosa di quel 16 ottobre 1943 e della misteriosa scomparsa di sua madre4.

Matteo racconta a Emmeemme di stare preparando un film: è la storia di due amanti che vogliono amarsi in un mondo senza amore, ma che vengono perseguitati e uccisi dai loro aguzzini. Aleggiano vaghi riferimenti alla storia dei suoi genitori (e al Portiere di notte della Cavani, di cui discuteremo più in là). La storia del film è ambientata durante la Seconda guerra mondiale, ma avrebbe potuto svolgersi tranquillamente oggigiorno, perché – secondo l’autore – il passato non è affatto «passato»5. La visita di cortesia è l’occasione per parlare della madre: Emmeemme si rammenta di quando, nel 1931, vide Caterina e lui di soli due anni nei pressi del Gianicolo; di fronte al ricordo melanconico paterno, Matteo ha modo di pensare come sarebbe sua madre se fosse ancora viva6. Il regista e la giovane Maude stanno per lasciare la casa del musicologo per fare una passeggiata nel ghetto di Trastevere, quando sentono un grosso trambusto: assistono all’attentato terroristico contro la sinagoga ebraica e ai megafoni che chiedono il sangue per le trasfusioni a favore dei bambini feriti7. Matteo ripensa alla madre, che fu riconosciuta e catturata nei pressi del Ponte Garibaldi prima di condotta a morire ad Auschwitz8. Proprio in quel frangente rivede l’ex moglie Paola, da cui si era separato oltre sei anni prima. Hanno modo di riparlare del loro presente (della figlia Giuditta) e del loro passato (di Judy). Matteo confessa a Paola di sentirsi ancor di più ebreo dopo l’attentato alla sinagoga e dopo i fatti di Sabra e Chatyla; inoltre, non comprende affatto la relazione di Luisa con l’«arabo» Omar9. Paola non vuole

4 Cfr. ivi, pp. 10 ss.5 Cfr. ivi, pp. 14 ss.6 Cfr. ivi, pp. 40 ss.7 Cfr. ivi, pp. 56 ss.8 Cfr. ivi, pp. 60 ss.9 Cfr. ivi, pp. 68 ss.

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che Giuditta riveda il padre sposato con una ragazza più giovane di lei10.

Matteo e Maude si recano a cena da Luisa, attrice protagonista della pellicola in fase di allestimento. Inizialmente il discorso gravita sul tema dell’infelicità umana e sull’impegno politico. Omar, politicamente impegnato a favore della causa palestinese, sostiene che nei film di Matteo si nasconda «un non so che di elusivo» (vago riferimento alla «questione ebraica»)11. La discussione si sposta poi sul passato dell’ex moglie di Matteo e sul concetto di famiglia. Omar interloquisce spostando il discorso su Israele e accusando Matteo di essere un reazionario, per la sua posizione chiaramente filo-israeliana12. Andandosene via, Matteo confessa a Luisa che la parte di Judy non sarà più sua: «Io non ho più bisogno di te, adesso, perché non farò più il film su Judith. Ho scoperto forse un minuto fa e definitivamente che Judith era solo mia madre e che solo mia madre era Judith. Così sto cercando mia madre, quella mia madre ebrea che anche lei si innamorava dei goym. Il film semmai verrà dopo»13. Il giorno dopo Matteo si reca alla sinagoga, dove si terranno i funerali di un bambino di due anni14. Durante il tragitto di avvicinamento si chiede che cosa significasse per sua madre essere ebrea in quegli anni, a maggior ragione di fronte all’intenzione di convertirsi al cattolicesimo per sposarsi con Emmeemme15. Giunto sotto casa del padre, incontra una vecchia portiera che gli dice di rammentarsi di sua madre e gli consiglia di rivolgersi a una giovane giornalista che si era occupata del rastrellamento nazista16. Anna Dominicini gli racconta tutta la storia: un vecchio fascista ha approfittato del rastrellamento per «liberarsi» dell’amante ebrea. Anna ne ha sposato il figlio legittimo,

10 Cfr. ivi, pp. 74 ss.11 Cfr. ivi, pp. 79 ss.12 Cfr. ivi, pp. 83 ss.13 Ivi, p. 98.14 Cfr. ivi, pp. 99-100.15 Cfr. ivi, pp. 101 ss.16 Cfr. ivi, pp. 104 ss.

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ma la loro figlioletta è morta di epatite virale17.La matassa comincia finalmente a dipanarsi. Tre sono le

versioni sugli eventi di quella notte. Matteo decide di andare a far visita al fratellastro Claudio, docente di filosofia all’università di Roma. Claudio, che odia profondamente Emmeemme, gli dice che suo padre era molto amico di Kappler e che non si capacita di come abbia fatto uscire l’amante da casa sua propria la notte della razzia nazista18. Mentre Emmeemme chiama Caterina-Giuditta, Matteo comincia a immaginarsela nei panni di Ester, la salvatrice del popolo ebraico nell’immaginario cristiano19. Si reca dal padre naturale, fantasticando di essere un novello Raskolnikov pronto a ucciderlo per la sua malvagità20. Dopo varie resistenze e reticenze, Emmeemme gli racconta la sua versione dei fatti: lui era amico di Kappler per via della comune passione musicale; il comandante delle SS, che aveva conosciuto Ester a casa sua, gli aveva consigliato di mandarla fuori Roma quel 16 ottobre del 1943 per evitare che fosse catturata; Caterina, sentendosi un po’ Ester e un po’ Giuditta, aveva invece deciso di restare a Roma per aiutare i suoi correligionari a sfuggire dalle grinfie naziste21. Matteo si reca dalla «maga», una donna che ha conosciuto assai bene sua madre, per avere la terza versione della storia. La «maga» gli racconta che conosceva assai bene Caterina-Ester, di cui era diventata la confidente in quei tragici giorni: le aveva raccontato di come Kappler potesse far ottenere a Emmeemme un ambito posto accademico in Germania, di come questi volesse spingere lei nelle braccia del nazista e, infine, come la novella Ester avesse deciso di darsi a lui la notte del 16 ottobre per evitare la razzia del ghetto22.

Matteo e Maude si recano al funerale del bambino in sinagoga. Mentre si trova alla funzione religiosa, Matteo non può fare a

17 Cfr. ivi, pp. 111 ss.18 Cfr. ivi, pp. 126 ss.19 Cfr. ivi, pp. 133 ss.20 Cfr. ivi, pp. 140 ss.21 Cfr. ivi, pp. 150 ss.22 Cfr. ivi, pp. 161 ss.

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meno di pensare a tutte le figure femminili che hanno popolato la sua vita e a pensarle come ebree. Ripensa anche allo sguardo di una studentessa ebrea polacca trucidata a Treblinka, ritratta su un poster del ghetto alcuni anni prima23. La figliastra si trova fuori sede. Ormai si è deciso a uccidere il suo padre naturale24. Dopo aver accompagnato il feretro lungo le strade romane, Matteo si reca a casa di Emmeemme, prima che rientri la figliastra25. Il padre naturale l’aspetta e sa che Matteo potrebbe ucciderlo. Decide di raccontargli la versione di Caterina: lei andò da Kappler per cercare di salvare gli ebrei del ghetto, ma non capì che non era l’Haman biblico. Caterina chiamò Mordechai-Mario proprio per quella notte, poco prima di morire: «Kappler non c’entra, non è lui che decide. […] Questo diavolo-angelo che sta sopra Kappler e che dirige le azioni è uno che ha capito tutto di lei, di quello che lei voleva, ha capito che lei voleva essere Ester come nella Bibbia e sacrificarsi a Haman per salvare il suo popolo e, con ciò, modificare addirittura la Bibbia»26. Matteo desiste dal suo tentativo vendicatore. Saluta per l’ultima volta suo padre, chiama Paola per parlargli della storia del suo film. Non ci saranno né una Judith né una Luisa né una Maude, ma solo lei. «E si avviò lentamente, come pregustando ogni passo, alla casa di Paola, al di là del ponte Garibaldi. Quella casa che era stata anche la sua fino a qualche tempo prima. Un tempo che ora gli sembrava ridicolmente e allegramente esiguo»27.

La ricezione di Ester dei miracoli è stata più positiva rispetto all’Ebreo. Il motivo principale consiste in una trama più sofisticata, basata sulla «vendetta» sognata e poi non realizzata dal protagonista, e sull’assenza di eccessi patetici. La Roma decadente e notturna dei primi anni Sessanta (in palese controtendenza con l’immagine cinematografica) ha lasciato il posto a una città più

23 Cfr. ivi, pp. 184 ss.24 Cfr. ivi, pp. 189 ss.25 Cfr. ivi, pp. 194 ss.26 Ivi, p. 210.27 Ivi, p. 212.

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viva e luminosa, seppur toccata dalla tragedia dell’attacco alla sinagoga28. Questa immersione nella contemporaneità ha trovato buoni consensi sulla stampa quotidiana. Antonio Fasola apprezza la struttura «pirandelliana» della trama, dove la verità cresceva e sfumava progressivamente con l’aggiunta di nuove testimonianze sulla sorte della madre29. Luciano Tas osserva lo stretto legame tra la produzione del film e la ricostruzione del passato: la presa di coscienza della propria identità ebraica con l’attentato rendeva inutile lo sforzo creativo e terapeutico di Matteo30. Al centro del romanzo vi è infatti la storia degli ebrei italiani e la storia di un’ebrea italiana: la madre del protagonista, deportata ad Auschwitz. L’indagine sulla fine di Caterina finisce per rendere obsoleta la vendetta di Matteo: pur di fronte alla tragedia della sinagoga e al nuovo rigurgito antisemita e antisionista, il regista assiste di fronte ai suoi occhi a una scomposizione della realtà, che sfilacciandosi in tante versioni finisce per rendere impossibile un’accurata e «positivistica» ricostruzione dei fatti. La profonda empatia verso la figura materna, comune a tutti i personaggi lecchiani (anche a quelli in fuga verso l’America), rappresenta la principale spinta creativa di Matteo, anch’egli in colpa per non essere morto al posto di Caterina. Ma, una volta venuto a patti con le storie della sua fine, decide di lasciare la giovane Maude («Maddalena») per tornare dalla storica compagna Paola, simbolo di una sorta di rappacificazione con il suo «femminino».

28 Cfr. «Libri e riviste d’Italia», XXXIX, 1987, p. 190.29 Cfr. L. Tas, Cercando Ester. Memoria e verità storica nel romanzo di Alberto Lecco, «Il Tempo Libri», 21 febbraio 1987, p. 20.30 Cfr. A. Fasola, Il dubbio è ebreo, «L’Unità», 15 gennaio 1987, p.

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Capitolo VI

Ebraismo agli “estremi”: I buffoni (1998)

L’ambizione non troppo segreta di Alberto Lecco è stata quella di essere annoverato quale allievo dei grandi narratori realisti ottocenteschi, in particolare di Dostoevskij. La lezione del grande narratore russo, combinato con l’analisi fenomenologica dell’ebreo contemporaneo, ha permesso allo scrittore milanese di ridare centralità al tessuto narrativo e all’estremizzazione dei processi coscienziali dei protagonisti. I tre piani della satira menippea vengono volutamente trapiantati nell’Ottocento russo nella Morte di Dostoevskij (1994). In quest’opera, assolutamente originale nel panorama letterario italiano, Lecco tenta di rappresentare le questioni ultime della sfera astratto-filosofica nel piano concreto d’immagini e avvenimenti carnevaleschi e surreali, rompendo i margini fra i diversi generi letterari e mostrando come la «vera» letteratura non abbia una dignità inferiore alle altre scienze umane o filosofiche. Questa menippea in un prologo, dodici quadri, un epilogo e una postazione ragionata narra dell’incontro a San Pietroburgo fra l’io narrante e il maturo Dostoevskij all’indomani dell’apparizione dei suoi Demoni. L’io narrante diventa il compagno inseparabile del maestro russo durante una lunga discussione «ellissoidale» che avrà luogo nella sua abitazione con altre undici figure intorno al valore del suo romanzo politicamente più impegnato. Sono presenti le donne di Dostoevskij, l’editore, alcuni scrittori (come Turgenev e Tolstoj) e il rivoluzionario russo Sergej Nečaev. L’animata discussione termina con la progressiva uscita di scena di tutti i protagonisti del circolo e con l’apparizione del segretario di Dostoevskij, il suo «sosia», che prenderà il posto del maestro e che morirà di lì a poco. L’epilogo della menippea vede Dostoevskij e il suo fedele allievo separarsi a Tula, perché il maestro, ritenuto morto, intende trascorrere serenamente gli

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ultimi anni della sua vita in Svizzera. L’io narrante, autore della cronaca della «morte di Dostoevskij», ottiene da un giovane medico ebreo la confessione di aver assunto a sua volta le sembianze del maestro russo1.

La tragedia apocalittica può trasformarsi in una catarsi liberatoria «carnevalesca». L’ultimo romanzo di Lecco mescola abilmente il lato tragico e quello comico della vita all’interno di un night notturno newyorchese, approdo ideale dei suoi «tipi» letterari. I buffoni (1998), ambientato nella New York dei primi anni Ottanta, narra la storia di due coppie di amici che, nell’arco di una notte, smascherano se stessi di fronte al pubblico e accettano «gaiamente» la loro tragica dipartita. Il quartetto è composto dall’io narrante (l’ebreo italiano Matteo), dalla sua amante Jenny e dalla coppia composta da Walter e da Odette. Matteo è un ex architetto italiano finito a preparare i copioni per lo spettacolo cabarettistico del ventriloquo Walter e del suo burattino. Il quartetto è, in realtà, un quintetto legato da sentimenti profondi e contraddittori: Odette divide tranquillamente le proprie notti fra il letto del marito e quello di Matteo, che vive nello stesso loft mansardato; Jenny, la cameriera di colore del Big Paradise, ex prostituta salvata dalla strada, ha preso letteralmente il posto di Caterina, la moglie di Matteo morta suicida poco tempo prima. La storia consiste nello sgretolamento di questa unione particolare attraverso lo smascheramento catartico delle loro ipocrisie. Tutto ha inizio una sera quando Walter, dando vita al nuovo burattino Walterino, decide di non seguire il copione di Matteo e di intraprendere un sottile, perverso e crudele smascheramento della

1 Cfr. A. Lecco, La morte di Dostoevskij, ovvero La morte della tratedia. Quel giorno di dicembre di sette anni fa. Menippea in un prologo, dodici quadri, un epilogo e una postfazione ragionata, Milano, Spirali Vel 1994. Sulla figura di Dostoevskij si veda Id., Antinichilismo e magistero artistico nell’opera di Fjodor Dostoevskij, «Il secondo Rinascimento», 73-74, novembre 1999, pp. 136-145. Su quest’opera di Lecco si veda N. Riccobono, Il grande ritorno di Dostoevskij. L’uomo e lo scrittore , «L’Unità», 14 novembre 1994, p. 28; G. Manacorda, Il sosia di Dostoevskij. Il nuovo romanzo di Alberto Lecco, «L’Unità», 2 marzo 1994, p. 2; A. Debenedetti, Dostoevskij, un demone per mito, «Corriere della Sera», 11 aprile 1994, p. 29.

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sua vita amorosa: Walterino, in compagnia della burattina Odotte (alter ego di Odette) rivela al pubblico inebetito la storia della loro «comune» utopica, dall’incontro con gli arredatori italiani sino alla creazione di uno spettacolo a quattro2. Le rivelazioni del burattino spiazzano Matteo (il vero deux ex machina del quartetto), la moglie Odette e i proprietari del locale3. Dopo lo spettacolo, Matteo porta con sé la giovane Jenny a casa e, in un impeto di auto-denudamento, le racconta la storia della sua amicizia con Walter e Odette4. È l’inizio della fine dell’utopica convivenza antiborghese: Jenny confessa all’amante che il giorno successivo sarebbe uscito dalla prigione il suo fidanzato-pappone e che li avrebbe uccisi5.

Il processo di smascheramento iniziato sul palco del night prosegue in quella mansarda newyorchese. Improvvisamente Walter fa irruzione nell’alloggio di Matteo, sostenendo di aver strangolato Odette per gelosia6. Questa notizia spaventa Jenny, che fugge via7. Walter tenta di giustificare il suo «atto» agli occhi di Matteo: Odette avrebbe convinto Caterina al suicidio in seguito a una falsa diagnosi di tumore ai polmoni con la complicità di medico tedesco-polacco (il padre di Odette era un austriaco nazista). Ma, con profondo stupore dei due uomini, Odette ricompare viva e vegeta. Walter accusa la moglie di aver distrutto il suo burattino Walterino, colpevole di «autenticità»8. Dopo che Walter se ne va a dormire, Odette trascorre la parte restante della notte in compagnia di Matteo. Il gioco sottile, perverso e crudele dello smascheramento prosegue: Odette pungola l’amante Matteo perché non la amerebbe più dopo la morte di Caterina. Matteo

2 Cfr. A. Lecco, I buffoni, Milano, Spirali Vel, 1998, pp. 11 ss.3 Cfr. ivi, pp. 31 ss.4 Cfr. ivi, pp. 89 ss.5 Cfr. ivi, pp. 107 ss.6 Questa scena descrive esattamente quella di un racconto lecchiano intitolato L’uxoricidio del ventriloquo René Benjamin apparso nei Racconti di New York.7 Cfr. Lecco, I buffoni, cit., pp. 138 ss.8 Cfr. ivi, pp. 172 ss.

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confessa che Caterina fu per lui la sua unica madre («manipolatrice»), mentre Odette che Matteo è per lei l’altra parte del padre (quella «ebraica» e «passiva»)9. Matteo rivela a Odette la sua folle concezione dell’ebraicità, emersa durante un incontro viennese fra le due coppie e il suo vecchio padre nazista alla vigilia di un Natale di alcuni anni or sono:

Io posso fare l’ebreo o non farlo, a seconda di quel che succede, a seconda di come mi prende. Per lo più si tratta di una metafora o di un travestimento. Sai niente del carnevale? Ecco, il carnevale della vita. Io posso essere il più implorante, lercio, petulante, ammaliante buffone ebreo col violino o il più atroce goj con la spada, quella fiammeggiate in una mano o con il libro mastro nell’altra o addirittura con addosso la toga del sacerdote o del giudice, di qualsiasi sacerdote e di qualsiasi giudice si tratti, a seconda di come mi prende. Ma quella notte, a Vienna, con tutta quella neve e quel buio fuori delle finestre – come adesso, del resto – era davvero possibile, secondo te, che io non facessi l’ebreo con uno come tuo padre che aveva cacciato Caterina, che poi non era nemmeno ebrea, nell’angolo, per dirle quel che le avrebbe detto? Lui, tuo padre, era stato abbastanza astuto. Aveva cacciato lei nell’angolo e non me, ebreo. Aveva cacciato lei, che era moglie di un ebreo. È chiaro, no? Ma sì, è chiaro. Tutt’e tre, tu io e Walter intanto udivamo bene quel che tuo padre stava raccontando a Caterina, là, in quell’angolo dove l’aveva cacciata. Ma chi di noi sarebbe intervenuto? Credi magari che qualcuno di noi sarebbe potuto intervenire? Facevamo perfino finta di non udire. E sai perché? Non certo per paura di tuo padre o di quel che sarebbe successo se qualcuno di noi fosse intervenuto per far cessare quella scena disgustosa. Ma perché ci piaceva troppo ascoltare e soprattutto ascoltare facendo finta di non ascoltare per niente, anzi, di occuparci di altre cose. Ti ricordi? Noi tre guardavamo e dovevamo pensare: ecco, siamo qui e vediamo e udiamo tutto e però facciamo finta di non vedere e di non udire niente e sappiamo benissimo che stiamo facendo finta ma non ce ne importa niente lo stesso e non ce ne importa niente lo stesso perché dopotutto è Caterina che è stata cacciata nell’angolo e noi che cosa c’entriamo con Caterina? Noi siamo qui e qui non c’è nessun angolo, qui si sta comodi e in pace . Ti ricordi? Là, nell’angolo, tuo padre sussurrava, sì, certo, sussurrava, ma era come se urlasse, per il silenzio in cui stavamo tutti. E noi ascoltavamo, ascoltavamo e udivamo. Ed è stato proprio in quel momento che Caterina ha cominciato a morire, mentre ascoltava tutte quelle cose che tuo padre le stava dicendo, apparentemente solo a lei, e in realtà a tutti noi. E noi tre, tu, Walter e io, abbiamo capito anche questo. Che Caterina in quel momento cominciava a uccidersi. Del resto, come si poteva non cominciare

9 Cfr. ivi, pp. 197 ss.

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a morire ascoltando tutte quelle cose che tuo padre stava dicendo? Come si poteva non cominciare a morire non per finta, ma sul serio?10

Caterina ha iniziato a «morire» perché, mentre il padre di Odette le raccontava con minuzia di particolari ciò che era successo nei campi di concentramento, Matteo e gli altri voltavano lo sguardo dall’altra parte: l’agnello, lasciato in preda del lupo, inizia a morire per solitudine: «uno decide di morire, cioè di essere quello che è, cioè di non essere, dal momento non tanto che qualcuno lo vuole morto, ma che quelli che potrebbero farlo essere, si sottraggono». Caterina si era resa conto che il padre di Odette aveva ucciso ebrei già morti, che gli ebrei dei lager erano morti in quanto ebrei11. Come in Ester dei miracoli, anche in questo caso la morte di Caterina è oscura e poco chiara: fu l’immedesimazione nella sorte degli ebrei ad averla uccisa? Fu effettivamente il tumore? Fu la stessa Odette? Fu la loro idea di «comune» smascheratrice della morale borghese?12 La mattina successiva giungono nell’appartamento Mary Rose e Federico, i proprietari del night club. L’improvvisazione della sera precedente non è piaciuta al pubblico, in particolare al governatore dell’Oregon. Mary Rose e Federico vogliono che il numero ritorni al copione prestabilito, che Walterino la smetta di essere «autentico» e che Odotte non faccia più la sua comparsa13. Odette difende il marito dalle accuse di Mary Rose: «Walter sarà anche un coglione, ma se è un coglione è senz’altro un coglione di quel tipo lì, del tipo di quei coglioni che conoscono la verità e che dovrebbero parlare»14. Matteo ammette che il nuovo burattino di Walter è molto simile al buffone Calabacillas ritratto da Velazquez: «E i nostri giochi, lo sappiamo, servono soltanto a travestire quella cosa assolutamente

10 Ivi, pp. 217-218.11 Cfr. ivi, pp. 227-228.12 Cfr. ivi, pp. 233 ss.13 Cfr. ivi, pp. 248 ss.14 Ivi, p. 268.

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bella, assolutamente orrenda, assolutamente indispensabile, assolutamente inutile che si chiama verità. Verità e spettacolo. Quella cosa che è soltanto la vita e il gioco»15.

Improvvisamente la scena – come a teatro – si svuota dei suoi protagonisti. Matteo, rimasto solo nel suo appartamento, si appisola e sogna i volti delle tre donne della sua vita: la madre, Caterina e Odette16. Quando si sveglia, nel tardo pomeriggio, trova Odette al suo capezzale, preoccupata della scomparsa improvvisa di Walter. Matteo si getta per strada alla ricerca dell’amico. Dopo esser passato un mezzo a un comizio, ritrova Walter nel bar di un loro comune amico (soprannominato per antifrasi «Jack lo squartatore» per la sua amabilità e bontà). Walter accusa Matteo di parlare di «cristiani» pur essendo ebreo, che in Europa non c’è più spazio per comici come loro («vivevamo come in vuoto»), desidera che lui sposi Jenny perché potrà fare quello che non è riuscito a Caterina: essendo una prostituta come Maria Maddalena, sarà la prima a vedere Cristo17. Mentre i due si incamminano verso il Big Paradise, Walter fa perdere le sue tracce a una fermata della metropolitana18. Matteo si reca al locale, dove scopre che Jenny le ha chiesto di ospitarla temendo le reazioni del suo fidanzato-pappone Thomas19. Walter fa la comparsa sul palco, riprendendo il numero di «smascheramento» da dove l’aveva interrotto la sera prima. Il pubblico, però, sembra gradire questo gioco di auto-denudamento: è come se il «buffone» osasse fare qualcosa che non è concesso a nessun filisteo. Il gioco, però, finisce per tramutarsi in tragedia: Walterino si spara alla tempia perché non è stato amato da Odotte. Stessa sorte tocca poco dopo a Walter20. Matteo prende con sé Jenny e si reca a casa della giovane, non di Odette.

15 Ivi, p. 279.16 Cfr. ivi, pp. 283 ss.17 Cfr. ivi, pp. 307 ss.18 Cfr. ivi, pp. 337-339.19 Cfr. ivi, pp. 339 ss.20 Cfr. ivi, pp. 384 ss.

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Intende trascorrere da lei l’ultima notte della loro vita, prima che siano raggiunti da Thomas. «E io d’un tratto ebbi come la viscerale sensazione che una grande risata da una folla, come un’allegra cascata dal cielo di quegli scherzanti bioccoli di neve bagnata, fuoriuscendo a vampata dalla sala del Big Paradise, raggiungesse e me e Jenny in corsa verso la morte per mano di Thomas, procurando anche a me e a Jenny una gran voglia di ridere almeno un’ultima volta»21.

L’ultimo romanzo di Lecco, pur privo di una fortuna critica22, contiene i principali topoi della sua narrativa e, in un certo senso, li compendia al meglio: vi è la struttura menippea del romanzo, l’estremizzazione dei sentimenti quale luogo di verità della condizione umana, l’apoteosi e il fallimento del sentimento amoroso in «questo mondo», il rapporto tra evasione ed eversione nella società borghese, la polifonia, la tendenza alla triplice unità aristotelica, il tema del sosia, il rapporto fra artista e filisteo e il problema dell’ebraicità. La figura di Matteo è tipica nelle opere lecchiane: una sorta di deux ex machina che favorisce l’auto-denudamento dei protagonisti e, con la sua sete di verità, finisce per uccidere se stesso e gli altri. La condizione ebraica è riletta alla luce dell’analisi fenomenologica sartriana: l’ebreo è una sorta di agnello sacrificale che deve morire per espiare i peccati dell’umanità. Si tratta di una posizione assolutamente atea e non credente, perché il «peccato» dell’ebreo non è l’abbandono del patto sinaitico oppure la conversione al cristianesimo: è la sua esigenza di universalità e di veracità portata alle estreme conseguenze. L’ebreo non rappresenta se stesso come membro di un popolo, di un’etnia, di una cultura o di una religione, ma è l’emblema del «femminino» umiliato e offeso dal «mascolino» senza cuore. Matteo, però, come l’autore del vangelo sinottico più vicino all’ebraismo, è una sorta di portavoce dell’esigenza di

21 Ivi, p. 388.22 Cfr. S. Disegni, Chi sono i buffoni, in ivi, pp. 391-400; G. Calciolari, Il respiro narrativo di un Dostoevskij del Tremila, «Transfinito», 3 luglio 2001, http://www.transfinito.eu/spip.php?article345.

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«cristianizzare» l’ebreo diasporico, per renderlo finalmente più consapevole della sua storia e renderlo così pronto ad affrontare la speranza messianica futura. Ebreo non è semplicemente chi nasce da madre ebrea ma il simbolo moderno dell’umanità offesa: Caterina inizia a morire dopo aver assistito al lugubre racconto del padre di Odette, Walter mette in scena una sorta di «complotto ebraico» bachtiniano, mentre Matteo e la sua giovane «prostituta» decidono di porre fine alle loro esistenze dopo aver raggiunto la verità in Cristo. Morire per la «verità» rappresenta dunque l’apoteosi del sogno martirologico e cristianizzante dell’ebreo contemporaneo di Lecco.

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Capitolo VII.

Cinema e storia: la «rappresentabilità» di Auschwitz nell’Italia postbellica

L’attività pubblicistica di Alberto Lecco è stata ampia, variegata e innovativa. È iniziata agli inizi degli anni Sessanta su riviste culturalmente non schierate (come «L’Europa letteraria e cinematografica» di Vigorelli e Javarone, «Il Dramma» di Ridenti, «L’informatore librario» di Luisi) ed è proseguita negli anni Ottanta e Novanta su quotidiani come «L’Unità», mensili come «Shalom» e riviste come «Il secondo Rinascimento» di Verdiglione. L’interesse dello scrittore milanese si è concentrato sul cinema, sulla letteratura e sulla politica. Non si può dire che ai suoi occhi questi domini dello scibile umano fossero distinti ed esclusivi. Al contrario, la tesi di Lecco era che bisognasse abbattere le barriere che separavano la «finzione» (letteraria) dalla «storia» (scientifica) per una conoscenza onnicomprensiva dell’uomo ebreo. Quest’apertura non intende assolvere le pseudo-costruzioni storiche (e quindi «giustificare» tutto e il contrario di tutto, come il «negazionismo»), ma riconoscere dignità alle forme espressive umane popolari nel Novecento, come lo è il cinema. Di questo tenore è il lungo saggio apparso nel 1997 sulla rivista «Critica sociologica», intitolato Sciovinismo, corporativismo, paura del confronto con lo “straniero”, dove lo scrittore milanese individua tre problemi nella letteratura (e cultura) italiana contemporanea: il mancato confronto con «prodotti» letterari e culturali stranieri, la scarsa considerazione verso la letteratura di «finzione» derivante dal corporativismo e dal settorialismo della cultura italiana ed europea; il giudizio di «non scientificità» formulato dalle altre discipline «scientifiche» verso la letteratura.

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Se l’immaginazione è momento insostituibile del percorso umano alla conoscenza di sé, allora l’immaginazione è uno dei mattoni fondamentali del romanzo e, in generale della poesia, intelligibile, realistica e chiara sotto le parole più metaforicamente simboliche; e dunque il romanzo è anche uno dei più grandi ed efficaci farmaci consolatori di ogni inevitabile accadimento vissuto come sconfitta, dal momento che l’essere umano è finora sempre riuscito a “leggere” quell’accadimento come una occasione sacra di conoscenza1

Partendo dalla centralità del romanzo e della «finzione» più in generale, Lecco si è cimentato con una forma espressiva molto popolare nel secondo dopoguerra: il cinema. Le sue opere letterarie pullulano di riferimenti in tal senso: dal racconto Vieni Notte! sino a Ester dei miracoli il tema al centro della narrazione è la «rappresentabilità» dell’essere umano in generale, e di Auschwitz in particolare, all’insegna del realismo tragico2. Nel 1970, recensendo il film di Valerio Zurlini Seduto alla sua destra, lo scrittore milanese constata proprio la differenza tra un realismo «sano» e un realismo «malato»: il primo si esprime nell’opera del regista bolognese, che «riesce a raggiungere con la ragione la propria passione e a conferirle dignità e rappresentazione»; il secondo appare nelle opere di Pasolini, che «si rifugia inevitabilmente nella allegoria dell’intelligenza sola, fredda e vuota come un deserto»; il primo «ama il mondo per quello che è, ne

1 Cfr. A. Lecco, Sciovinismo, corporativismo, paura dello “straniero” e sostanziale disprezzo di sé, della letteratura, degli scrittori e degli intellettuali italiani, in tre casi esemplari , «La Critica Sociologica», 82-83, estate-autunno 1987, pp. 12-31.2 Cfr. Ebrei e antiebraismo. Immagine e pregiudizio, presentazione di C. Luporini, Firenze, Giuntina, 1989; M. Brunazzi e A.M. Fubini (a cura di), Ebraismo e cultura europea del Novecento, Firenze, Giuntina, 1990; M. Marcus, Italian Film in the Shadow of Auschwitz, Toronto, University of Toronto Press, 2007; G. Lichtneer, Film andn Shoah in France and Italy, London etc., Vallentine Mitchell, 2008; A. Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Roma, Bulzoni, 2010; E. Perra, Conflicts of Memory. The Reception of Holocaust Films and TV Programmes in Italy, 1945 to the Present, Bern, Peter Lang, 2010; R.S.C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), traduzione di G. Olivero, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

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tenta la modificazione nella ricerca appassionata di esso e nella sua rappresentazione», mentre il secondo «presume di sapere quel che il mondo dovrebbe essere e con intelligente arroganza gli detta le cifre – aride, squallide, prive di fantasia – del suo prossimo, inevitabile divenire»; il primo è un artista, il secondo un predicatore3. Oltre vent’anni dopo, in un lungo saggio di critica del «gramscismo», Lecco ritorna a criticare la cultura egemonica della sinistra italiana nel secondo dopoguerra. I Quaderni dal Carcere di Gramsci, che ambiscono a creare una «letteratura popolare» in Italia, ignorano quasi del tutto il cinema: «Ne parla – osserva lo scrittore milanese – in modo astratto, cita appena Charlie Chaplin! Ma a quei tempi, non passava certo inosservato Charlot! Rimane sempre sul generale, nella sua difesa del cinema. Non ne esamina dettagliatamente i valori simbolici, metaforici, né parla del modo in cui un film viene accolto dal pubblico, non analizza mai un film in particolare. I film di Charlot erano popolari e non si chiede perché. […] Ci sono films, libri di cui bisogna per forza parlare bene. Si parla di democrazia ma non si dà nessuna importanza al giudizio del pubblico quando accetta o rifiuta un film. No. È la critica a decidere»4.

L’esordio critico-cinematografico di Alberto Lecco avviene nel 1960, discutendo l’edizione cinematografica di un racconto di Checov su «L’Europa cinematografica»5. L’esordio «ebraico» avviene l’anno successivo su «Il Contemporaneo», dove lo scrittore milanese recensisce il film Kapò di Gillo Pontecorvo. Lecco parte discutendo l’immagine dell’ebreo nella letteratura otto- e novecentesca: la sua condizione di «vittima innocente» è stata universalmente compresa che nessuna cultura «degna di questo nome» ha attaccato l’ebreo in quanto tale e in termini drammatici, né l’ha distrutto col veleno del sarcasmo. Dostoevskij

3 Cfr. A. Lecco, “Seduto alla sua destra” di Zurlini, «Il dramma», XLVI, 5, maggio 1970, pp. 124-127.4 Cfr. Id., Gramsci e il gramscismo culturale del PCI, «Il Cannocchiale», VIII, 3, 5 Cfr. Id., Il regista Checov, «L’Europa cinematografica», 1, 1960, pp. 280-281.

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non ha pensato di ricorrere a un ebreo come personaggio negativo, anche se il suo protagonista delle sue opere (l’umiliato e l’offeso) è un cristiano «ma sembra un ebreo diasporico ed è certo più angelo che diavolo»6. A cosa si deve il degrado morale dell’ebrea protagonista di Kapò? Raccontare la trasformazione di una ragazza ebrea in criminale significa dare «troppo potere ai condizionamenti esterni o raccontare la storia di una criminale». Come si può sostenere che una ragazza ebrea divenuta kapò avrebbe potuto evitare la propria degradazione? Chi divenne kapò nell’universo concentrazionario si sarebbe degradato, «anche in condizioni normali di vita», verso qualche forma di aberrazione e di criminalità. Il personaggio di Pontecorvo non è credibile, in un senso o nell’altro: manca di una profonda comprensione della condizione ebraica sotto il fascismo e il nazismo. L’ebreo che diventa kapò non è – in termini lucácciani - tipico: potrebbe esserlo un ebreo che vuole diventarlo senza riuscirlo, in mezzo a una moltitudine di ebrei morti ammazzati come vittime. L’ebreo diasporico è «mimetico», «ironico», «antisemita per conto terzi». Pontecorvo intende dimostrare che il senso di colpa ebraico non esiste, ma ci crede «perché gli altri ci credono e perché sa che per stare insieme agli altri bisogna credere a ciò in cui credono gli altri. L’ebreo più tragico è quello che cerca sempre il non-ebreo, il goy, cerca questi “altri”, mettendosi a livello dei loro pregiudizi e accettando le loro richieste, per distruggere la colpa e illudendosi di un avvenire purificato». Dopo la remissione sarà purificato e accettato: «Alla fine l’ebreo deve tornare in mezzo agli altri così com’è e non come la debolezza e la viltà degli altri vogliono che sia»7.

Al centro della critica di Lecco vi è l’immagine eteronoma dell’ebreo circolante nel cinema italiano: l’ebreo è immaginato da

6 Cfr. Id., Osservazioni sul generoso e patetico antisemitismo di un film filosemita, antirazzista e democratico, in Id., Don Chisciotte ebreo, cit., p. 30. Su queste considerazioni di Lecco riguardo si veda Perra, Conflicts of Memories, cit., pp. 64-65.7 Ivi, p. 41.

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non-ebrei o da ebrei «mimetici». Come abbiamo detto, lo scrittore milanese collaborò alla stesura della sceneggiatura dell’Oro di Roma di Carlo Lizzani. Il film, come è noto, narra le convulse vicende della comunità ebraica romana nell’autunno del 1943, dal ricatto nazista sino al tradimento della promessa di salvezza e alla deportazione nei campi di sterminio. Una testimonianza indiretta di tale partecipazione vi è nel racconto Vieni notte! e nell’Ebreo, ambientato proprio agli inizi degli anni Sessanta. Il racconto del 1963 descrive la storia di una dattilografa (Gloria) che partecipa alla scrittura della sceneggiatura del film di Lizzani e che ripensa a come lasciò il suo amante ebreo durante la guerra (Guido). La tragedia di Gloria (comune alle donne «goy» lecchiane) consiste nell’incapacità di sentire il dramma della solitudine del suo amato e di esser tentata dal denunciarlo8. Lecco ritorna sul tema del film di Lizzani nella pubblicazione di Cappelli dedicata alla stesura della sceneggiatura. Unico ebreo a partecipare alla preparazione del film, il suo contributo doveva limitarsi alla parte «esterna» del mondo ebraico, ovvero a descrivere il modo in cui i «non ebrei» vedevano i loro concittadini: «Parlare di ebrei è cosa molto grave, quasi impossibile e spesso indecente. Il discorso sugli ebrei e la verità su di essi e su ciò che accadde nella storia sono ricacciati in una lontana e invisibile solitudine». Più che una storia bisognava trovare alcune variazioni sul tema. Le domande principali riguardavano la fiducia da parte degli ebrei romani nel ricatto nazista. Gli autori decisero di affidarsi ad alcuni personaggi-chiave che presentassero il sentimento dell’amore, della rivolta e della rassegnazione attraverso il suicidio. «L’unico modo che l’offeso sapeva escogitare per punire l’offensore era una disperata, estrema richiesta d’amore. E non era forse tipicamente ebraico tutto questo?»9

La produzione letteraria di Lecco è strettamente collegata all’immaginazione cinematografica italiana in tema ebraico. Il tema

8 Cfr. Id., Vieni notte!, Milano, Ceschina, 1963, pp. 9-84.9 Cfr. Id., L’oro di Roma, in Id., Don Chisciotte ebreo, cit., pp. 43-51.

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del rapporto fra vittima e carnefice, riletto tutto in chiave fenomenologica e dostoevskiana, viene presentato nel suo romanzo più noto L’incontro di Wiener Neustadt. Il libro, uscito nel 1977 ma preparato alcuni anni prima, appare per certi versi una risposta a un noto film di quegli anni che affrontava lo stesso tema: Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974). Lo scrittore milanese dedica una recensione ragionata a questo film su «Dramma» nel gennaio del 1975. Questo film è «un esempio di come è facile, ambiguo e pericoloso il gioco della semplicità cosiddetta psicanalitica. Le ambiguità e pericolosità sociale del film sono tali da chiedersi se il presupposto religioso-freudiano della conoscenza di sé come liberazione da un male inevitabile e oscuro dentro di noi sia di qualche utilità». Ciò che Lecco non accetta è il rapporto amoroso da operetta fra un’ebrea e un «ariano» nella Vienna degli anni Cinquanta, presentato come una corsa verso la redenzione e la condanna del loro «perverso passato». «L’ansia del successo e la paura di uscire dal salvifico schema antico colpa-perdono aggiornato in quello moderno autocoscienza-guarigione hanno impedito alla Cavani di affrontare il tema autentico e insidioso della complicità tra vittima e carnefice», forse perché «l’essere umano continua ancora a credere che il nemico sia “esterno” e quindi più facile da combattere e da vincere». Il successo del film consiste nell’aver sollevato problema della complicità fra ebrei e nazisti. Ma questa complicità psichica e inconscia, se esiste, presuppone la comprensione del legame «fra l’esagerazione storica del problema e la microscopica presenza della sua analisi». Si tratta di uno sprone a «cercare di vedere l’ebreo di ogni giorno in ognuno di noi e il nazista di ogni giorno in ognuno di noi, decifrando e scorgendo l’ebreo e il nazista non solo nei fatti della storia ma anche nella compromettente realtà della nostra vita quotidiana». Solo in questo modo – conclude l’autore – sarà possibile risarcire le vittime staccandole per sempre dai loro stessi carnefici ed evitando che in futuro i loro nomi siano associati nella riflessione quotidiana e nella memoria storica10.

10 Cfr. Id., Alcune riflessioni su “Portiere di notte” di Liliana Cavani, in ivi, pp. 63-69.

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Nei primi anni Ottanta, dopo gli attentati parigini e romano contro le locali comunità ebraiche, Lecco torna a occuparsi di rapporto fra cinema e identità ebraica contemporanea su «Shalom», mensile della comunità ebraica romana, in particolare di come l’antisemitismo sia interstiziale e subdolamente presente nella narrativa e nella produzione cine-televisiva e sulle difficoltà che l’ebreo deve affrontare per potersi liberamente raccontare. Nel dicembre del 1982 discute la stereotipizzazione antisemita di Jack Ruby, che giustiziò Lee Oswald, assassino di Kennedy11. Nel marzo del 1984 saluta Oltre il ponte di Brooklyn di Golan per essere uno dei primi film dove una minoranza etnica, sociale e religiosa è analizzata e narrata dal punto di vista delle minoranze12. Due mesi dopo nota le ambiguità presenti nella riduzione cinematografica di Yentl, racconto di Singer trasformato nel noto musical con Barbra Streisand, dove gli ebrei giocano come gli «altri», mentre appaiono di poco conto rispetto allo spettacolo i due steccati del film (la soggezione verso la sacralità della leadership religiosa e la vocazione patetica all’integrazione)13. In giugno osserva mestamente, riferendosi a Lucky Star di Fischer (dove un bambino trasforma la stella gialla in quella di sceriffo di film western), come gli ebrei parlino di sé solo per parlare di tutti, attraverso un universalismo che sminuisce la loro storia14. C’era una volta in America di Sergio Leone è una sorta di processo di redenzione «cristiana» dell’ebreo, dove la salvezza del protagonista (Noodles) – contrariamente a Raskolnikov – viene guadagnata col perdono e con l’amore per il proprio «carnefice»; si tratta di un film che mostra un mondo ebraico in tutto e per tutto simile a quello «gentile», stemperando così il mito dell’eccezionalità ebraica: «La qualità assurdamente diabolica dell’antisemitismo consiste

11 Cfr. Id., Sull’antisemitismo di uno sceneggiato televisivo, in ivi, pp. 101-105.12 Cfr. Id., A Manhattan e a Brooklyn gli ebrei hanno cominciato a raccontarsi? , in ivi, pp. 73-177.13 Cfr. Id., Da un racconto di J.B. Singer a un film di Barbra Streisand , in ivi, pp. 179-183.14 Cfr. Id., Lucky Star, mito ebraico e dintorni, in ivi, pp. 189-192.

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nell’attribuire agli ebrei gesti e atti nefasti dell’intera umanità»15. Non altrettanto positivo è il giudizio su Oltre le sbarre di Uri Barbash, dove la solidarietà tra galeotti ebrei e galeotti palestinesi avviene a scapito del misconoscimento dei diritti ebraici sulla Palestina16.

Il rapporto fra le «vittime» non va mai disgiunto da quello con i «carnefici», che non ha bisogno di sterili dicotomie ma da uno scavo più profondo negli abissi della condizione umana. In un importante intervento apparso su «Shalom» nel febbraio del 1987, Lecco interpreta criticamente la messinscena di Mario Carotenuto nelle vesti di Shylock. L’ebreo shakespeariano non appare un personaggio «schiacciato» ma dotato di una propria dignità. Nel famoso monologo del Terzo Atto, l’ebreo veneziano non urla la propria ferita di fronte al mondo, ma la bisbiglia come se fosse un mugugno e una lagna. L’antisemitismo è certificato dal mancato coinvolgimento del pubblico nell’assolo salvifico di Shylock e nel plauso di fronte all’ingiunzione a convertirsi al cristianesimo17. Ben diverso è il giudizio sul film per la tv Fuga da Sobibor diretto da Jack Gold (1989), dove Lecco intravvede una caratterizzazione tragica (e «realistica») delle vittime e dei carnefici. Se nella rappresentazione dei nazisti il regista è uscito dalla tesi arendtiana del «banale» burocrate per testimoniare invece la presenza di un lato oscuro nell’animo umano, in quella degli ebrei rivoltosi è mancato, forse, del coraggio necessario per ritrarne i sentimenti più profondi: dalle scelte amorose a quelle politiche18. Il coraggio di Gold è stato sorpassato da Costa Gravas in Music Box (1989). Questo film rappresenta forse il miglior tentativo postbellico di

15 Cfr. Id., “C’era una volta in America” di Sergio Leone, una storia di ebrei come se non fossero ebrei, in ivi, pp. 201-208.16 Cfr. Id., Quando i figli non sanno opporsi creativamente ai padri. Lo scandalo di un film ebraico-israeliano antisemita, in ivi, pp. 211-219.17 Cfr. Id., Uno Shylock più Shylock che mai. In una discutibile edizione romana, «Shalom», 2, febbraio 1987, p. 17.18 Cfr. Id., Una rivolta chiamata fuga. “Fuga da Sobibor”, un drammatico film che pochi hanno visto, «Shalom», 3, marzo 1989, p. 15.

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sfatare la tesi deresponsabilizzante della «banalità del male» o di criticare le versioni decadenti o pseudo-freudiane del rapporto fra «vittima» e «carnefice». Il centro del film – osserva Lecco – consiste nella sottile e magistrale «sdemonizzazione» della figura paterna, narrata nel modo in cui l’«altro» (la figlia), dopo aver accertato la verità, diventa giudice del padre e rifiuta la dimenticanza della colpa. La duplicità del padre (bonario come nonno e aguzzino come nazista) viene compensata anche dalla coesistenza di sentimenti nella figlia: condanna assoluta per il suo passato e legittima nostalgia. Chi riuscirà ad accettare il duplice volto della figlia – chiosa lo scrittore milanese – potrà accettare un possibile «doppio» in se stesso e liberarsene19.

Il tema della rappresentabilità dell’Olocausto è stato affrontato da Lecco anche nel decennio successivo. Dell’aprile 1994 è un articolo su «L’Unità» dedicato proprio alla rappresentazione artistica della Shoah in occasione del cinquantenario della razzia del ghetto romano. Con Schindler’s List di Steven Spielberg la memoria della Shoah ha «di nuovo superato la barriera di una interdizione solenne: quella che le impediva di essere testimoniata anche come fiction, invenzione, anche di trama». Mentre il libro di Giacomo Debenedetti sulla razzia del ghetto era un racconto verosimile, quello recente di Fausto Coen stimola l’idea che la memoria della Shoah «sia supportata anche da mezzi del racconto artistico e realistico finora interdetti»20. La commistione di generi, però, va fatta sempre all’insegna di una finzione «reale». Non così accade per La vita è bella di Roberto Benigni, recensito sulla rivista «Il secondo Rinascimento» di Spirali, dove il protagonista Guido non si connota mai come ebreo se non per lo stereotipo della bruttezza fisica. «La realtà storica che si pretende di narrare in questo sciagurato film è precisa e assoluta e reclama una fedeltà precisa e assoluta. Nessun bambino ebreo, arrivato in un lager,

19 Cfr. Id., Quando il mostro è quel papà così buono. “Music Box”, un film straziante e rigoroso, «Shalom», 5, maggio 1990, p. 23.20 Cfr. Id., Shoah come arte. È possibile?, «L’Unità», 22 aprile 1994, p. 2. Il volume di Debenedetti era già stato recensito in «L’Europa letteraria», 1,1960, pp. 184-185.

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poteva essere salvato dalla immediata gasazione postselezione ineludibile»21. Ben diverso è il caso di Train de vie di Radu Mihaileanu. Questo film «non è una favola come La vita è bella» ma «un insieme di un perfetto, calibrato racconto dove il momento del riso è sempre abbracciato al momento del pianto». Mentre Train de vie «è un film variegato e aggiornato dalla scala di valori e dal supremo modello fantastico-onirico, rabèlesiano e carnevalesco», La vita è bella «è un film variato, canalizzato e derivato da un nulla culturale, storico e affettivo sul tema della Shoah». Merito principale di questo film è quello di raccontare «l’“ebreo” in quella sua particolarità specifica, non certo biologica, ma connotata dalla sua storia assolutamente unica e dal carattere suo proprio. Ecco un racconto sull’“ebreo” dove l’ebreo “risponde”. Mentre il cosiddetto ebreo Guido, non manifestando in nulla la sua “ebreità” e la sua “ebraicità”, si esplicita con frammenti di battuta estranei all’umorismo yiddish ed ebraico, servirà a un indecoroso e pericoloso oblio della Shoah»22.

Il cinema ha una funzione catartica e pedagogica: deve saper trasmettere allo spettatore una visione reale o verosimile del passato tale da permettergli di comprenderlo e di sentirlo come proprio, come evento sempre attuale di «carne e sangue» e non come evento estraneo o lontano dalla vita di tutti i giorni. Questo vale a maggior ragione per il tema della Shoah e dello spinoso rapporto fra vittima e carnefice. L’analisi critico-cinematografica di Lecco ha attraversato un’evoluzione profonda dagli esordi nei primi anni Sessanta sino agli anni Novanta. Se nei primi interventi il problema principale consisteva nell’universalizzare la tragedia ebraica, nel farla diventare un problema umano di tutti (ebrei e non ebrei), la critica all’establishment culturale di sinistra italiano lo ha portato a una maggiore comprensione della condizione ebraica e al suo legame ineludibile con lo Stato di Israele. Questo,

21 Cfr. Id., A proposito del film “La vita è bella”, «Il secondo Rinascimento», 53, marzo 1998, pp. 124-127.22 Cfr. Id., Train de vie, di Radu Mihaileanu. Un evento nel racconto cinematografico della Shoah, «Il secondo Rinascimento», 65, marzo 1999, pp. 110-149.

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però, è andato avanti di pari passo con una valutazione positiva della diaspora ebraica, riletta come storia di una minoranza etnica e culturale che non ha più paura di raccontarsi o di dirsi «ebraica» anche al di fuori dello steccato dello Stato nazionale o dell’establishment religioso. Mentre la produzione narrativa lecchiana si è sempre concentrata sull’individuo ebreo quale «tipo dostoevskiano» per eccellenza del ventesimo secolo, la produzione pubblicistica ha risentito di una sorta d’ansia di comunità. L’atomismo del carattere romanzesco, che, nel tentativo di sopravvivere al di fuori della propria comunità, aspira a un’utopica catarsi collettiva che si risolve nel suo martirologio finale, fa da contrappunto a una visione meno tragica e più ottimistica sulla condizione ebraica storica, che si rifà indiscutibilmente alla tradizione culturale yiddish, capace di recuperare e di salvaguardare appieno l’aspetto carnevalesco positivo (anche se al di fuori della «ragione» illuministica) e nell’orgoglio nazionale e culturale postbellico. Le urla silenziose dell’ebreo atomizzato borghese degli anni Cinquanta e Sessanta, incapace di avere voce e spazio nell’arena pubblica italiana, si trasformano nell’allegro chiacchiericcio dell’ebreo comunitario di Train de vie o nei sogni americani di Oltre il ponte di Brooklyn.

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Capitolo VIII

Fra Israele e la diaspora: la costruzione di un «mito»

ebraico

La figura al centro della poetica lecchiana è stata indubbiamente quella dell’ebreo «umiliato e offeso», in particolare l’incomunicabilità tra la «vittima» per eccellenza della storia (l’ebreo) e il suo «carnefice» (una sorta di «demone» nazista), l’impossibilità da parte della «vittima» di poter esprimere la propria tragedia esistenziale e umana se non nella forma dell’auto-dissoluzione. L’esigenza di sostenere una narrazione realistica nasce dal timore che la crisi della soggettività e dell’oggettività novecentesche abbia reso labili o inesistenti i confini fra le due categorie e, così facendo, annulli di fatto la speranza (ebraica) di una futura umanità redenta. Ma tale narrazione non intende fornire risposte al problema dell’identità ebraica bensì mettere in mostra i meccanismi performativi che agivano e agiscono nell’elaborazione della discriminazione storica. Se è vero che Lecco ha trovato nei grandi maestri russi ottocenteschi e, seppur in misura minore, negli scrittori americani novecenteschi i suoi modelli di riferimento, lo è altrettanto che la sua immaginazione dell’ebreo è andata formandosi nell’Italia postbellica. In un articolo apparso su «L’Informatore librario» nel giugno del 1980, lo scrittore milanese ripercorre a ritroso l’appropriazione induttiva della teoria sartriana sull’antisemitismo1. Dopo aver constatato la «morte» del realismo letterario classico nel secondo dopoguerra (confuso con un becero naturalismo dallo stesso Pasolini)2, soverchiato dagli «esorcismi letterari da élite piccolo-borghese mascherati da intellighenzie radical-chic che usavano le tecniche

1 Cfr. J.-P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, traduzione di I. Weiss, Milano, Edizioni di Comunità, 1960.2 Cfr. A. Lecco, In che cosa può essere maestro un maestro del pensiero, in Id., Don Chisciotte ebreo, cit., pp. 71 ss.

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del linguaggio per nascondersi dietro il problema reale della creatività artistica e letteraria»3, lo scrittore milanese non ha ceduto alle lusinghe dell’esistenzialismo à la mode. Ritiene, infatti, la narrativa sartriana priva di poesia, passione e affettività, troppo «intelligente» per essere ironica; in sintesi, sarcastica, razionalista e volgare. Ma l’incontro con il suo testo sull’antisemitismo gli ha fornito gli strumenti per capire la «diversità» dell’ebreo in tempi di razzismo antisemita:

Dai suoi “Ebrei” tutto ciò che avrei scritto sul problema ebraico sarebbe stata una lunga, straziante metafora di altre e ancora più totali condizioni di sofferenza, uno sviluppo del pensiero sartriano. Lui mi aveva fatto trovare lo strumento culturale e creativo con cui potevo coinvolgere gli “altri” di oggi fino al punto che questi “altri” mi risarcissero di quell'odio che gli “altri di ieri” mi avevano dato. La possibilità metaforica consapevole e spontanea mi aveva dato la forza e il coraggio di tentare di attingere il nocciolo tragico di ciò che era accaduto all'uomo ebreo e per poter sperare e credere che avrei raggiunto il nocciolo tragico di ciò che era accaduto e poteva ancora accadere a ogni uomo in certe circostanze possibili della sua vita. Lo avrei raggiunto e “raccontato”. Che della tragedia scritta vi fosse necessità, era convinto allora come lo sono oggi e lo sarò domani4.

L’attività saggistica e pubblicistica di Lecco è legata a doppio filo con il problema dell’antisemitismo esistenziale nella cultura letteraria e popolare dell’Italia repubblicana. Le sue figure romanzesche sono quasi sempre l’espressione di una piccola borghesia che accetta sartrianamente il rischio del «nulla», che prova a non aver paura, a non essere vile, a non giudicare in maniera semplicisticamente manichea la realtà, a essere responsabile; in una parola, prova a superare l’immobilismo della propria condizione umana per essere «autentica». L’esigenza di «autenticità», che trova la sua espressione quintessenziale non nella «rivoluzione» universale per l’«umanità» astratta, ma nell’«amore» per le persone in quanto tali, è la chiave di lettura privilegiata per avvicinarsi alla produzione letteraria lecchiana postbellica, in

3 Cfr. ivi, passim.4 Ivi, p. 78

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palese polemica con il «gramscismo» culturale ufficiale5. Dissacrante è stata una recensione di Lecco al Lamento di Portnoy di Philip Roth, apparsa su «Dramma» nel marzo del 1970, dove l’ebreo resta prigioniero dell’immagine antisemita del padrone6. Nel novembre del 1981 prende posizione sul «caso Céline», sostenendo che i suoi libri, essendo «antiromanzi», sono «antisemiti in quanto antiumanisti»: malato di risentimento per non essere ebreo e tedesco, lo scrittore francese ha tentato di distruggere «il tempio tragico e romanzesco, sostenendo il più sordido, bieco e antiumanistico assassinio di massa»7. Nel giugno del 1983 Lecco critica apertamente la riduzione cinematografica di Alan Pakula del romanzo La scelta di Sophie di William Styron: «come si può credere che i nazisti mettessero a morte i cittadini polacchi, tra i migliori antisemiti della storia europea»? Il protagonista ebreo Nathan appare come un «demone ebreo a tutto tondo», un «Golem “ristrutturato” a uso del nuovo antisemitismo raffinato e colto della libera America»8. Pochi mesi dopo, in Ebrei senza mito, lo scrittore si chiede se gli ebrei saranno in grado di uscire dalla dannazione-salvezza del loro ghetto culturale «per trasmettere al mondo un’immagine di sé», per costruire «un mito di sé all’altezza di tutti gli altri suoi eroismi e di tutte le sue bravure»9.

La costruzione di questo mito di sé passa attraverso il recupero di un «senso laico del tragico»10. La presenza di un mito ebraico nella storia universale è testimonianza dalla figura di Don Chisciotte. Al termine della raccolta di saggi su letteratura e cinema del 1985, Lecco pone una lunga fantasia dove cerca di

5 Cfr. Id., Gramsci e il gramscismo culturale del PCI, cit..6 Cfr. Id., Un Muro del Pianto della civiltà dei consumi, in Id., Don Chisciotte ebreo, cit. pp. 53-61.7 Cfr. Id., Il caso Céline, in ivi, pp. 85-92.8 Cfr. Id., L’antico, eterno ebreo nel mito rovesciato di una nuova storia al limite della verità, della bellezza e dell’antisemitismo, in ivi, pp. 125-135.9 Cfr. Id., Ebrei senza mito, in ivi, pp. 137-151. 10 Cfr. Id., Sul convegno “Ebrei e Mitteleuropa” di Gorizia del dicembre 1982 e sul libro antologico che ne riassume gli interventi, in ivi, pp. 221-230.

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dimostrare il «cripto-marranesimo» del personaggio cervantesco11. L’attentato alla sinagoga romana del 1982 sembrava aver indotto gli ebrei a un nuovo discorso sul legame fra la recente tragedia e la persecuzione diasporica. Don Chisciotte potrebbe essere un ebreo travestito, «un patetico ebreo metamorfosizzato in cavaliere errante supercristiano». Lo studio di Baioni su Kafka dimostra come il prezzo che un ebreo deve pagare per essere scrittore è quello di «astrarre la concretezza dell’autobiografia e concretizzare l’astrazione della storia con l’anonimia di luoghi e di persone». Il silenzio ebraico sull’identità di Cervantes-Don Chisciotte deriva da un mondo sommerso e silenzioso da venti secoli che ha sempre parlato e scritto in categorie astratte e generiche del pensiero: «Tale mondo frantumato, prima del 1948, parla come l’ospite goy volesse che parlasse e, di sé, tace. O assume una maschera ridicola e divertente oppure tace». L’idea di Don Chisciotte nacque da un doppio sogno di Cervantes: vagabondare per il mondo ristabilendo giustizia e verità, convincere qualcuno ad accompagnarlo: «Che così il messianesimo se non questo voler vagabondare per la terra con qualcuno persuaso a farlo per tutto ciò che occorre e ci salva?» Nel morisco Ricote Cervantes «tradisce il suo tentativo di travestire un ebreo sotto un moro». Don Chisciotte, come altri tipi umani, si collettivizza nella coscienza del mondo che si espande «irrorando la terra dei suoi più specifici semi e generalizzandosi in questa sua espansione». Cervantes potrebbe essere stato un purissimo cristiano, ma fu «tale artista da amare la condizione esistenziale ebraica fino al punto di incarnarla nel suo eroe, fino al punto di lasciar libero il suo eroe di raccontarsi, sotto i travestimenti come un eroe ebreo»12.

11 Per una sorta di apologia del marranesimo si veda Id., Identità ebraica e identità marrana tra storia e letteratura, «Il secondo Rinascimento», 57, luglio 1998, pp. 96-107.12 Cfr. Id., Don Chisciotte ebreo. La maschera convertita e il legittimo vagabondo, in ivi, pp. 333-312.

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Nel lungo saggio Il cantore muto (1989), esito di un seminario storico-letterario tenuto presso l’Università di Lecce, Lecco si interroga sul problema di una «laicizzazione» della narrazione in ambito ebraico attraverso il suo rapporto con la religione ebraica e il mondo «gentile». Nella lunga prolusione introduttiva lo scrittore milanese spiega innanzitutto i motivi che lo hanno indotto a pensarsi come «ebreo tout court» e non come semplice romanziere: l’idea di scrivere un romanzo divenne «non solo un’ossessione ma anche la sola difesa da quell’autorità da cui mi sentivo oppresso, umiliato e offeso». Grazie all’ottusità fascista vennero pubblicati vari autori ebrei nel periodo interbellico, ma nessun autore ebreo era riuscito a trasmettergli «quell’unicità della grandezza dell’umano che ricava se stessa dalla spietata raccolta di quei dati anche minimali della realtà quotidiana per farli confluire in un grandioso disegno aperto e chiuso nel medesimo tempo». Due erano i motivi: i romanzieri ebrei letti non scrivevano nella loro madrelingua, la religione ebraica rende inconcepibile il dissidio tra fede e vita. «L’assenza di compromesso col “reale” ha portato alla demonizzazione di quella parte umana che agli occhi di un pio e religioso potesse apparire solo spregevole». Il popolo ebraico è quello di un solo libro: i grandi artisti ebrei erano restii per autocensura a pronunciare la parola «ebreo» in quanto parola sacra e quindi scrivevano solo per «altri ebrei». Evitando di raccontare i loro personaggi come ebrei tout court, i grandi narratori ebrei hanno tentato di universalizzare le loro opere. Ma, così facendo, sono diventati scrittori per un pubblico di soli ebrei oppure sono stati classificati come scrittori folcloristici. Salvaguardando l’intimità di se stessi hanno rinunciato alla confessione pubblica e quindi all’universalità. La specificità storica (e non «genetica») della condizione esistenziale ebraica può essere mutata solo «nazionalizzandola»: in questo modo «l’ebreo diverrà uomo fra uomini e riuscirà a elaborare quella libertà che gli consentirà davvero di edificare anche quelle somme e uniche opere dell’arte di un nuovo Rinascimento»13.

13 Cfr. Id., Il cantore muto. Sono stati gli ebrei liberi di raccontare se stessi?, prefazione di

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La condizione necessaria ma non sufficiente per l’universalità ebraica è la narrazione della tragedia storica dell’Olocausto. Partendo da un seminario tenuto a Gerusalemme sul tema della memoria storica del genocidio, Lecco sottolinea l’importanza dei monumenti e della loro funzione in ambito ebraico quali genius loci, come feste nel lutto di foscoliana memoria. Il tema dell’universalità del genocidio è legato alla nascita dello Stato di Israele, da molti considerato una sorta di risarcimento del «mondo colpevole». Lo pseudoconcetto della coincidenza e analogia delle due catastrofi – osserva l’autore – «consola gli uni cancellando una “persecuzione particolare” e assolve gli altri di una colpa antisemita inesplicabile». Se il nazismo non ha concesso alcuna attenuante all’ebreo perché ha esasperato ciò che altri dicevano e pensavano di lui, questo comporta la logica aberrante di un bene redentore opposto a un male esorcizzabile. Mentre in passato gli ebrei potevano scegliere tra conversione, integrazione, fuga o morte, con il nazismo dovevano scomparire per sempre senza lasciare traccia. I nazisti volevano cancellare e, allo stesso tempo, trasmettere lo sterminio: «il mondo doveva non solo dimenticare ma ignorare l’esistenza dell’ebreo». Mentre altri popoli sono stati cancellati dalla storia (vedi gli Incas o gli Etruschi), gli ebrei sono ancora vivi, perché hanno saputo trasmettere e far accettare dal mondo la memoria dei loro tormenti. I nazisti potrebbero aver sognato che perdere la guerra significasse anche vincerla in una perversa trasmissione verso il più probabile dei più lontani futuri, «per morire con la coscienza dei demoni convinti che qualcuno li avrebbe ereditati e ripetuti». Il modo di non dimenticare gli ebrei è l’antefatto per esplorare il modo di ricordare il genocidio14. «Il cupo mistero e il miracoloso oltraggio» sono le quattro parole coniate dallo scrittore ebreo George Steiner che permettono di avviare un discorso sulla scrittura degli ebrei in età contemporanea, alla luce dei limiti storico-religiosi imposti dal pudore interno e dalla censura esterna. Attraverso quattro

L. Tas, postfazione di S. Di Cori, Milano, Spirali Vel, 1989, pp. 19-40.14 Cfr. ivi, pp. 43-70.

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«zattere» letterarie gli ebrei hanno tentato metaforicamente di superare il fiume maledetto dell’antisemitismo verso una terra promessa di salvezza: George Steiner, Bruno Bettelheim, Jean-François Steiner e Jerome David Salinger15.

La prima «zattera» è rappresentata dal saggio Una specie di sopravvissuto di Georg Steiner, dedicato a Elie Wiesel. Il titolo rivendica il diritto a equiparare l’esperienza diretta e quella del ricordo, per salvaguardare le istituzioni democratiche future dell’Occidente liberale. Steiner contraddice tutto ciò che aveva scritto sull’aspirazione al silenzio di fronte a eventi troppo grandi: sembra dimenticarsi «che per rendere testimonianza del genocidio ci sarebbe bisogno di una “retorica tragica” come sintassi della scrittura in generale e della tragedia classica in particolare». Il nucleo dell’opera steineriana è un gomitolo aggrovigliato di dubbi che si contraddicono, come l’utilizzo di molte parole per difendersi dalla paura del silenzio. Il suo dilemma nel narrare secondo l’unità d’azione classica e utilizzando personaggi più tipici che esemplari corrisponde all’assenza di senso tragico nella tradizione religiosa ebraica. Steiner invita agli ebrei a parlare di sé e del proprio dolore di sopravvissuti, in un diverso rapporto tra mondo laico e religioso. Ma è possibile esprimere l’esperienza dello sterminio e la reticenza a una testimonianza tragica, «garantita dalla più perfetta classicità del lessico e dalla leggibilità del contesto»?16 Nel Prezzo della vita Bettelheim sostiene che il genio dell’artista è in grado di ricreare l’azione reciproca fra uomo e ambiente e che l’immagine degli altri influenza la propria. Per definire la parola «olocausto», lo scrittore austriaco ricorre alle teorie di Erich Fromm, Hannah Arendt e Simone Weil. Come il linguaggio di Bettelheim e Fromm convalida la necessità di fornire informazioni per una rappresentazione più globale del problema, così il metodo della Arendt «sostanzializza» gli ebrei e la loro condizione sociale. Bettelheim e gli altri tre autori ebrei sono accomunati dalla ricerca di un «codice dei nomi», dal nominalismo,

15 Cfr. ivi, pp. 73-86.16 Cfr. ivi, pp. 87-99.

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cioè da una ragione astratta, dalla tendenza antirealistica del pensiero che va osteggiata per salvaguardare gli ebrei dall’antisemitismo e l’uomo dall’antiumanesimo e da se stesso: «Il nominalismo riduce la conoscenza a un appagamento accademico e bizantino di soli nomi [...] e deprivando la conoscenza della possibilità di trasformare il caos disordinato della vita nell’ordinato caos dell’arte»17.

Dopo le ambiguità di Steiner e l’astrattezza di Bettelheim Lecco passa alla «terza zattera» di Jean-François Steiner. Lo scrittore francese, autore di Treblinka, fortunato romanzo degli anni Sessanta, ha l’indubbio merito di aver avanzato il tema del rapporto ambiguo fra vittima e carnefice ma pecca anch’egli di astrattezza: «In questo volume l’anima delle vittime e quella dei carnefici rimangono sospese a un impegno testimoniale che non diventa né promessa di catarsi liberatoria né di risurrezione. L’orrore e l’abisso, dove vengono raccontati, lo sono “genericamente”. Ciò che leggiamo di un personaggio non ha quello spessore capace di renderlo coinvolgente e indimenticabile». Gli ebrei organizzano la rivolta solo perché sopravviva un testimone, ma il dilemma tra l’inevitabile catastrofe e il tempo necessario per l’organizzazione della rivolta non è sostenuto da un crescendo di carne e sangue di personaggi concreti. «Quando e come si sarà tanto liberi da attribuire [...] ai nazisti la dignità, seppur demoniaca, di personaggi, anziché congelarli manicheisticamente e inutilmente in una qualsiasi casella classificatoria?»18 Non è un caso che la quarta e ultima zattera sia rappresentato da un racconto ambientato in America nel secondo dopoguerra. Giù al dinghy di Salinger «affronta e risolve alla maniera classica il grande tema dell’“umiliazione e offesa” dell’ebreo diasporico». Il racconto, in tre parti, narra l’emersione dello stereotipo, l’azione dello stereotipo e la sua catarsi finale. La grandezza tragica del racconto consiste nell’individuazione intellettiva dell’offesa e dell’insulto al “diverso ebreo” nel suo

17 Cfr. ivi, pp. 100-112.18 Cfr. ivi, pp. 113-122.

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nascere e germogliare, e nel “modo” in cui viene descritto questo processo. Salinger è l’unico scrittore moderno che abbia letto e capito Dostoevskij nella triplice unità tragica, nella commistione tra pubblico e privato, tra storia collettiva e sentimenti personali. Il grande padre ebreo insultato e assente sarà ricordato come un eroe scomparso leggendario: «Il preannuncio finale del suo arrivo va accolto con la consolazione e speranza da tutti coloro che vogliono non accada mai più, nella premonizione profonda ed esente da ogni patteggiamento, che ciò finora fatto agli ebrei possa essere fatto domani a chissà chi nel mondo»19.

La capacità di sapersi narrare presuppone una coscienza ebraica della propria storia e del proprio posto nel mondo, ovvero dello Stato di Israele e della diaspora. Dopo l’attentato alla sinagoga del 198220, Lecco ha cominciato a intervenire direttamente nell’arena pubblica per rimarcare i pericoli di un nuovo antisemitismo nascosto sotto l’antisionismo. Nel febbraio 1983 ha commentato su «Shalom» le conclusioni dell’inchiesta israeliana sulle stragi di Sabra e Chatyla. «Gli ebrei diasporici – osserva – devono riesaminare il concetto e la pratica della “mania di persecuzione, il primo dei demoni da esorcizzare dalle astute mani degli “altri”». Lo spettro di Auschwitz deve tornare nella mani ebraiche e varcare il «confine vietato tra memorialismo e tragedia». Gli ebrei devono imparare a non temere la parola «poesia» per rivendicare col mito i suoi legittimi diritti: «Se Israele e gli ebrei della diaspora riusciranno a edificare il proprio mito, avranno guadagnato la più sicura delle sopravvivenze»21. Pochi mesi dopo Lecco critica un servizio su Israele del settimanale «Panorama», dove Israele viene descritto come uno stato che, avendo tradito la sua essenza religiosa, ha conservato solo la

19 Cfr. ivi, pp. 123-158.20 Cfr. A. Marzano, G. Schwarz, Attentato alla sinagoga: Roma, 9 ottobre 1982. Il conflitto israelo-palestinese in Italia, Roma, Viella, 2013.21 Cfr. A. Lecco, Nuovo antisionismo e nuovo antisemitismo in occasione delle conclusioni dell’inchiesta israeliana sulle stragi di Sabra e Chatila, in Id., Don Chisciotte ebreo, cit., pp. 107-117.

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patina cinica, superficiale e fanatica della religione22. Nel marzo 1984 lo scrittore milanese commenta sull’«Avvenire» il rapporto tra ebrei e cristiani nell’area mediterranea, evidenziando come il compito di mediare tra le grandi religioni monoteistiche sia affidato al sionismo e allo stato di Israele23. Nel giugno 1985 Lecco ha criticato la «generalizzazione» antinglese dopo i fatti dello stadio Heysel di Bruxelles: il più nefasto giorno dell’umanità – osserva – è quello in cui «si osa escludere un popolo o una minoranza etnica da questa sicura e orrenda possibilità storica – la possibilità di essere anche “cattivi” – pretendendo da questo popolo e da questa minoranza una impossibile innocenza totale e globale»24. Nel 1987 lo scrittore milanese ha recensito con favore una raccolta di novelle di Israele, edita da Spirali: la nuova letteratura ebraico-israeliana esce dal folclore in direzione del senso tragico e ironico, di un’universalizzazione della rappresentazione di sé. Si tratta di una piccola rivoluzione nell’autopercezione ebraica, perché suggerisce una mitologia di sé al mondo:

Il mondo ha sempre vissuto di una eterna e continua mitologizzazione di sé. Un popolo che non si celebra e che non canta se stesso, corre rischi gravissimi. Ed ecco, il popolo ebreo, per bocca di questi suoi undici rappresentanti israeliani ha infine trovato voce per la proposta mitica di sé al mondo. E la proposta mitica di sé al mondo è una delle migliori mani tese in cerca di pace25.

Strettamente legato al tema del raccontarsi pubblicamente è quello della «normalizzazione» della condizione ebraica di fronte alla storia contemporanea. Nel settembre 1987 Lecco è intervento nel dibattito storico tedesco («Historikerstreit») circa le responsabilità del nazismo criticando la posizione dello storico

22 Cfr. Id., Il sedicente rapporto su Israele di “Panorma”, ottobre 1983, in ivi, pp. 153-161.23 Cfr. Id., Alcune riflessioni su ebraismo e giudaismo, in ivi, pp. 163-171.24 Cfr. Id., “Perfida Albione” come “perfidi giudei”. Per un momento dopo Bruxelles la caccia all’inglese ha ricordato tempi infausti, «Shalom», 6, giugno 1985, p. 11.25 Cfr. Id., Israele, raccontami questa novella. Una piacevole scoperta: i nuovi scrittori israeliani, «Shalom», 5, magio 1987, p. 7.

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Joachim Fest, tendente a liquidare l’unicità dell’Olocausto attraverso l’analisi della forma meccanica e amministrativa con cui fu attuato lo genocidio. Bisogna passare dall’esame del «come» al segreto del «perché» e cessare di accampare un’universalità aprioristica e intenzionale della colpa, che potrebbe reintrodurre la criminalizzazione dei sopravvissuti26. Nel gennaio 1988 Lecco recensisce la prima edizione italiana di Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry. Il miglior farmaco contro la «coazione a ripetere» deve evitare il «fair play» della memoria per riguadagnarsi il doloroso cammino della sincerità che legittima se stessa. Pur apparendo come un libro di guerra, il grido di Améry è la più grande proposta di rappacificazione avanzata dalla vittima ebrea: se il risentimento non trova modo di uscire allo scoperto per rivendicare il suo risarcimento, il rischio della ripetizione, con nomi ed etnie diverse, sarà altissimo27. Pochi mesi dopo Lecco passa in rassegna la polemica legata al discorso di condanna del nazismo pronunciato al Bundestag tedesco dal deputato Jenninger: la demonizzazione generica e la colpevolizzazione specifica sono legate l’una all’altra, perché enfatizzare l’una al posto dell’altra impedisce l’inevitabilità della seconda, ma impedire la seconda significa impedire di far luce «sulla metà di quell’orizzonte che da decenni si afferma di voler esplorare»28. Alcuni anni dopo, sull’«Unità», Lecco interviene in compagnia del matematico Giorgio Israel per condannare la tesi di una certa sinistra benpensante che tenderebbe ad assimilare il problema della discriminazione verso gli immigrati a quello dell’antisemitismo. «Un conto è colpire tutte le forme di intolleranza, altro è distinguere con precisione fra cittadini italiani e non italiani. [...] Si abbia il coraggio di dire che l’appartenenza degli ebrei alla comunità nazionale è considerata qualcosa di “aggiuntivo” o come

26 Cfr. Id., Perché il passato non può ancora passare. Nel cuore dell’Olocausto continua il dibattito, «Shalom», 8, settembre 1987, p. 19.27 Cfr. Id., Ti regalo il mio risentimento. Tradotto in Italia “Intellettuale ad Auschwitz”, «Shalom», 1, 1988, p. 27.28 Cfr. Id., Un discorso che si è voluto contestare ma che nessuno ha voluto leggere, «Shalom», 11, dicembre 1988, pp. 13-14.

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una manifestazione di “tolleranza” e “generosità” o peggio ancora che gli ebrei sono un gruppo di “rifugiati”». Gli ebrei italiani sono e saranno sempre in prima linea nella lotta contro il razzismo e l’intolleranza non in quanto ebrei ma in quanto italiani29.

29 Cfr. Id. e G. Israel, In Italia l’antisemitismo è ancora vivo e forte, «L’Unità», 1 dicembre 1992, p. 2; Id., Lecco replica a Manconi e Magiar, «L’Unità», 5 dicembre 1992. Sulla polemica si veda anche M. Collura, Ebrei in prima linea? Sì, ma da italiani, «Corriere della Sera», 2 dicembre 1992, p. 37.

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Conclusioni

La tragedia come realtà dell’ebraismo novecentesco?

La produzione romanzesca di Alberto Lecco ha fornito una particolare casistica di personaggi: l’irredento, il vinto, l’offeso, l’idiota, l’incompreso, il ribelle e l’amoroso. Ma non solo: il carnefice, l’indifferente, il cinico, il demone, il dannato. Lo scrittore milanese ha voluto letteralmente traslare le principali e più importanti connotazioni esistenziali della grande letteratura ottocentesca nei suoi personaggi. Gli ebrei rappresentano il «sentire» in sé e per sé, sono vere e proprie incarnazioni idealtipiche, rappresentano l’eccezionalità morale che conferma la regola, sono la «metafora» della condizione umana1. Agiscono in un mondo sartriano dell’«in sé», di ciò che è identico a sé, immodificabile2. A fronte dell’immobilità della società-statua si pongono i protagonisti del «per sé», cioè coloro che sono presenti a se stessi, che hanno la coscienza di essere «nulla» e, come tale, soffrono la loro «inutilità». I personaggi lecchiani ambiscono a essere i nuovi «eroi» dostoevskiani del palcoscenico novecentesco. Questa loro caratteristica, però, li rende «vinti» di fronte alla storia e alla società: tutti i protagonisti lecchiani sono spezzati dalla vita, portano su di sé un fardello di colpe che li schiaccia e che li porterà alla «morte». Non si tratta, però, di «peccati originali» nel senso religioso e cristiano del termine, ovvero non pagano la propria inettitudine di fronte a un Dio, ma portano su di sé il peso della propria coscienza in un mondo dell’«in sé» che ne è privo. Sono l’espressione di una brama di vivere che si scontra con una realtà immobile. La sofferenza esistenziale è incarnata al meglio nell’«ebreo», condizione privilegiata per poter scrutare senza

1 Cfr. G. Gagliozzi, Mettiamo il punto. L’opinione di Alberto Lecco, «L’informatore librario», X, 12, dicembre 1980, pp. 22-232 Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, traduzione di G. Del Bo, revisione e cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Milano, Il Saggiatore, 2008.

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ipocrisie la violenza-immobilità dei rapporti umani. I protagonisti lecchiani sono tutti «ebrei» e «non ebrei» allo stesso tempo: rappresentano la contraddizione della natura umana e il suo tentativo di esprimersi di fronte al mondo. Questo comporta l’esigenza di apparire, l’ansia di affermare continuamente l’ebraicità nella propria esistenza, a parole e nei fatti: «l’ebreo» è l’essere umano concreto, sia perché è «quella persona lì» e non «una persona qualsiasi», sia perché è l’«altro» per antonomasia dell’immaginario collettivo occidentale.

L’universalità dell’ebreo è dettata anche dalla storia e dalla società ma – da buon narratore realista “russo” – questo non comporta un cambiamento di prospettiva. Ciò che a Lecco interessa è l’ebreo concreto e gli eterni problemi della condizione umana. Non vuole descrivere la realtà sociale della gente comune oppure descrivere la tragedia dell’Olocausto. Vuole rappresentare l’ebreo hic et nunc, quello che è sopravvissuto e che cerca di crearsi una propria vita. La sua realtà è anzitutto una realtà psicologica (una Realität) e non certo materiale: i suoi «eroi» sono tutti gravati da profondi conflitti psicologici, in larga parte riconducibili alla loro alienazione dalla realtà effettiva (la Wirklichkeit). L’ansia di autenticità li porta a intraprendere un viaggio agli inferi dentro se stessi attraverso lo «sguardo altrui» che conduce inevitabilmente alla morte: sotto le maschere si cela la profonda tristezza per la propria impotenza esistenziale e un profondo quanto incompreso bisogno d’amore3. Proprio l’amore è il tema centrale delle opere lecchiane: l’eros è il sentimento contemporaneo per eccellenza, che poco ha a che spartire con la giustizia ebraica o l’agape cristiana. Ma l’eros è destinato al fallimento perché è un sentimento «borghese», unilaterale e incompleto, un’aspirazione a un bene irraggiungibile. La letteratura non è in grado di rappresentare la tragedia degli ebrei contemporanei senza sentimenti di «elevazione», perché rappresenta la realtà contemporanea alienata

3 Cfr. A. Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Torino, Einaudi, 2003.

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e alienante della piccola borghesia italiana, spaccata tra gretto materialismo e astratto romanticismo. L’inserimento della «tragedia ebraica» nella vita piccolo-borghese non ha fatto altro che esacerbare la ricerca ossessiva dell’eros quale modo per sfuggire all’alienazione sociale e per raggiungere la propria autenticità nel denudamento della propria tristezza profonda. Questo processo è stato rappresentato in modi e tempi diversi nelle diverse figure romanzesche, che ripercorriamo ora brevemente.

Augusto Dominedò e Carlo Rajoni: l’eroismo della debolezza

Augusto e Carlo, i protagonisti di Anteguerra, che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto avere un seguito «espiatorio» (Guerra e Dopoguerra), sono le due facce esistenziali dell’«ebreo» nell’Italia delle leggi razziali. Augusto rappresenta la «debolezza» borghese, mentre Carlo rappresenta la «forza» proletaria. Entrambi non fanno parte dell’«in sé», ma sono «rivoluzionari», cioè dotati di una coscienza «infelice» che li porterà ad agire, rompendo l’«opacità» dell’Italia fascista e borghese. Augusto cerca in tutti i modi di spezzare la sua coscienza di sé per agire nel mondo: ecco l’esigenza di acquisire una virilità e un senso di appartenenza in mezzo alle dinamiche collegiali. Entrambe queste strade termineranno in un fallimento esistenziale: l’amante paterna si dimostrerà essere unicamente lo «strumento» e non il fine della sua crescita sessuale e amorosa; l’affermazione di sé avvenuta con la zuffa in collegio non lo porterà a nessuna forma d’integrazione sociale. Carlo è l’altra faccia di Augusto: è figlio di una famiglia proletaria, cerca di emanciparsi dalla «bruttura» attraverso la «bellezza» della musica. Inizialmente inconsapevole della condizione politica italiana, è felicemente innamorato di una sua coetanea (Maria), figlia del popolo. Non sente l’esigenza di affermare in qualche modo la

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propria virilità. Pratica un’ingenua libertà di spirito che creerà sconcerto e irritazione fra i suoi insegnanti di collegio. Realizza indirettamente l’aspirazione paterna a lottare per un mondo più «giusto» (comunista), ma pagherà lo scotto di doversene andare in Francia. Augusto è arso dal senso di colpa: «dice la verità» al commissario di polizia per viltà (e non «autenticità»), ma mette nei guai l’amico. Al termine del romanzo, sentendosi tradito da tutti (dalla madre frustrata per la vita familiare e da un padre sin troppo pragmatico), penserà al suicidio finendo ucciso quasi per sbaglio. La sua morte è inscritta nella partenza di Carlo, suo braccio «armato»: l’uno non può vivere senza l’altro al crepuscolo dell’Italia fascista.

In presenza di queste maschere idealtipiche si fa strada anche l’identità ebraica. In due sensi: Augusto e Carlo sono a loro modo «ebrei», sia perché rappresentano la sofferta presa di coscienza della barbarie fascista, sia perché sono a loro volta legati all’unica «vera» ebrea del romanzo. Lucilla Sanseveri è la madre di Augusto e l’insegnante di Carlo: all’uno ha dato la vita, al secondo ha trasmesso l’arte. Ha scelto di sposarsi con un uomo concreto ma gretto e privo di spirito, rinunciando all’amore della sua vita, all’uomo che è anche il padre naturale di Augusto. Si vede costretta a cedere tutti i suoi beni al marito pur di non perderli a favore dello stato. La sua sensibilità è emblematica della condizione esistenziale dell’ebraicità pre-bellica ma anche la manifestazione più compiuta della tragedia ebraica contemporanea: rappresenta una sorta di «eroismo della debolezza», un «sì alla vita», l’affermazione della propria volontà di vivere una vita «malata» trovandovi, talora, rari ma intensi attimi di felicità. Questa prospettiva nietzscheana, comune a tutti i personaggi lecchiani, è l’espressione più compiuta dell’identità ebraica contemporanea. Essa comporta, a sua volta, la formazione di una particolare appartenenza: l’ebreo «vinto» appartiene al proprio paese di nascita, sente di essere parte di qualcosa, ma quel qualcosa è assolutamente difficile da vivere. Gli «ebrei» di

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Anteguerra non provano orrore per la vita politica e privata italiana dell’epoca, non si sentono di appartenere a un’umanità diversa. Hanno semplicemente la coscienza di essere dei «puri»: Carlo è un ingenuo sognatore che ambisce alla giustizia sociale, senza conoscerne i mezzi; Augusto sogna di sentirsi finalmente vivo e amato, senza conoscerne il fine; Lucilla, la madre putativa di questo scontro fra arte e natura (dove prevale, per una strana nemesi storica, la prima), vorrebbe rivivere la propria vita così com’è, senza conoscere la realtà politica del suo tempo. Questa purezza di sentimenti distrugge le barriere spirituali, ma si scontra con quelle fisiche: i due adolescenti scappano dalla vita adulta, mentre gli adulti contemplano nostalgicamente il passato.

Anna, Peter e Oscar: il triangolo maledetto di Wiener Neustadt

Se Augusto e Carlo ruotano intorno alla figura di Lucilla, vera creatrice di «vita» (spirituale), in L’incontro di Wiener Neustadt sono i due veri ebrei a ruotare intorno al «carnefice» nazista. Le posizioni si sono capovolte: questa volta è l’ebreo a non essere più tale, ma a essere «riempito» di coscienza dall’«ebreo» immaginario, cioè dal carnefice. Il romanzo più noto di Lecco ci presenta uno scenario onirico-teatrale, fatto di unità di tempo, luogo e azione, dove è più facile mostrare le diverse maschere coscienziali della condizione umana. Anna e Peter rappresentano due facce della «debolezza» ebraica: sono entrambi borghesi cresciuti nel culto della ragione, incapaci di fuoriuscire dall’ordinaria routine per l’«azione esemplare». Quando hanno l’opportunità non tanto di salvarsi dalla morte (perché altrimenti sarebbero emigrati o avrebbero continuato a nascondersi), quanto di affermare la propria dignità, si tirano indietro: non uccidono il «carnefice», rassegnandosi a essere le «vittime sacrificali» dell’olocausto nazista per «amore della verità». Di contro Oscar, quello che potrebbe apparire il personaggio più lontano dall’etica ebraico-cristiana, incarna la «propria ebraicità» (nel senso dostoevskiano assunto dallo scrittore

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milanese) nel rifiuto totale della parola e nell’affermazione della disperazione «sotto di sé». Oscar decide di incontrare i due ebrei reali per affermare la propria ebraicità psicologica: il proprio sadismo non è soltanto la nemesi dei valori piccolo-borghesi, ma anche un monito di ritrovata vitalità, di una vitalità forse sopita, che si esprime nell’ansia di morte. Mentre Anna e Paul vanno incontro alla morte in maniera rassegnata, Oscar l’accetta e attivisticamente la riafferma esprimendosi di fronte ai suoi due interlocutori. L’incontro invernale in quella stazione di transito austriaca diventa teatro di un nuovo sentimento della morte, che testimonia paradossalmente la brama di vivere dei protagonisti: le vite spezzate cercano di ricomporsi senza successo in quegli istanti di parole, riescono a esprimere se stesse anche nella loro palese incomunicabilità.

I tre protagonisti de L’incontro di Wiener Neustadt sono persone colte, così istruite da esprimersi nella «perfetta» parlata tedesca, nella «pura forma» esanime. È questo senso di compiutezza linguistica ad attrarre il capitano nazista, appassionato cultore di musica classica. Sulla stazione aleggia una musica, quasi a monito della compatibilità tra bellezza estetica e degrado morale che realizza il carnefice nazista. L’«in sé» è dunque la classicità tedesca, di fronte alla quale si pongono le coscienze dei protagonisti in lotta fra loro. Anna e Peter appartengono alla nazione tedesca ben più di quanto sentano di essere «ebrei». Oscar se ne rende conto assai bene. È questo che lo induce a esporre la propria filosofia di vita e tutto il proprio risentimento verso la morale ebraico-cristiana. Che qui rappresenta la «falsa» positività della vita, la vita che ha annullato il sentimento tragico della morte, che Oscar cerca di riaffermare in se stesso e negli altri. L’«ebreo» nazista ha realizzato l’obiettivo che si è posto: apostrofare e catechizzare le «vittime» (i «vincenti» ebrei, coloro che hanno sposato la morale del perdono e dell’amore) per porli di fronte alla realtà in tutta la sua interezza, frustrante, amara e patetica. Il suo «memento mori» è un monito che sembra estendersi a tutta la nazione tedesca, che

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deve perire per testimoniare la propria vitalità di fronte alla storia umana. Anna e Peter non sono semplicemente le due vittime, i due masochisti esecutori del disegno distruttivo nazista, ma rappresentano un mondo borghese assolutamente privo di vita e d’ideali, o, quantomeno, ricco di false certezze e di ipocrite convinzioni. Mentre in Anteguerra gli adolescenti tentano di fuggire dal loro mondo ormai privo di speranze (immobile e allo stesso tempo pronto all’azione bellica), qui Lecco non concede neanche quella possibilità ai suoi protagonisti: devono morire, ma devono morire proprio tutti, anzitutto dentro di sé. Perché solo così avranno saputo accettare quel «nulla» che è dentro di sé e che li rende umani, quel nulla infernale che è sotto di loro, sotto i loro piedi, su quella terra che erutta e che, bruciando, consuma tutta l’energia vitale dell’uomo contemporaneo.

Davide, Matteo, Judith, Elizabeth e Anna: l’America come locus horridus dell’«eroismo della debolezza»

Il tema della tragedia umana contemporanea, prima trasposto nei luoghi giovanili e nello scenario bellico europeo, si sposta in un periodo più vicino a noi sul continente americano. I tre romanzi lecchiani dedicati alle avventure tragico-picaresche dell’ebreo Davide-Matteo propongono tre diverse letture della sua crescente e cangiante consapevolezza. Don Chisciotte in America narra la fine di un «sogno» d’amore: Davide ritorna nel Nuovo Continente dopo molti anni per abbracciare Judith, percorre le strade americane come una sorta di via amorosa, fino a comprendere che – come direbbe il poeta greco Kavafis – non conta la mèta ma il viaggio. La casa dei due fanali narra invece l’apoteosi tragica di un amore: Matteo trova a New York quell’ebraicità avidamente ricercata per tutta la vita, quell’«affinità elettiva» che realizza l’affermazione della vita nella sua tragica – e consapevole – finitudine. L’uomo del libro narra, infine, il lungo viaggio di Anna sulle orme di Matteo a New York: l’incontro con Elizabeth aumenterà a dismisura la consapevolezza di ciò che è, di ciò che la

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donna è in sé e per sé, per ciò che sente di essere e per ciò che è nel mondo maschile, sino a indurla al suicidio rigeneratore. Tutte e tre le storie americane sono caratterizzate dall’attivismo della figura maschile: Davide e Matteo sono gli attori delle rispettive avventure, cercano disperatamente l’amore nella donna e finiscono per rimanerne scottati in maniera indelebile. Le figure femminili sono descritte come passive e bonariamente ricattatrici (l’onnipresente moglie Paola, l’angelo del focolare che sopporta tutto) oppure come inquiete e inconsapevoli donne fatali (Judith, Anna ed Elizabeth). Ma tale fatalità segna la realizzazione di ciò che l’autore ebreo cercava, non la propria fine scritta nelle stelle: Davide e Matteo aspirano infatti a sentirsi nuovamente vivi, aspirano a una vitalità che manca loro. Sono dei semplici mariti fedifraghi? No, perché dietro quest’ansia di nuovo amore si cela il bisogno di rievocare il proprio passato e di rappacificarsene per sempre.

I racconti americani segnano il superamento di una prospettiva storica europea sentita come un fardello insopprimibile. L’America è il continente del movimento, della vita che scorre, dei sentimenti che nascono e muoiono, è la patria del «per sé», della coscienza libera di creare e di distruggere, di diventare sempre – per dirla in termini sartriani – quel nulla che essa è. È la terra degli «eroi deboli», che prima abbiamo visto negli adolescenti vinti nella Milano prebellica: qui la condizione adolescenziale sembra diventata la norma, non l’eccezione come nella vecchia Europa. Qui il mutamento repentino degli stati d’animo comporta il vero cambiamento, la vera vitalità, l’accettazione della vita per quello che è, un nugolo di gioie e tristezze, di paradisi e inferni individuali. Davide-Matteo è un vecchio europeo alla ricerca di questa giovinezza infinita dello spirito: non aspira solo a nuove avventure sessuali e amorose, ma a suscitare sentimenti forti. Quei sentimenti forti che innescano nei suoi lettori le pagine del racconto sull’amore tra Ladislao Levi e Giulia Frenkel. Quei sentimenti forti innescati dalla continua messa in discussione della

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propria storia d’amore fra Matteo e la sua Judith, vero personaggio centrale dei racconti americani. È lei l’ebrea europea americanizzata, scampata solo apparentemente all’Olocausto: grazie a Matteo avrà la forza di riabbracciare il proprio passato e di accettarlo per quello che è. Judith avrà modo di trovare pace, quella pace che lei, una cavalla pazza, non ha mai avuto, impegnata in una vera e propria maratona da ballo (come la protagonista del film di Pollack) alla ricerca di un premio finale che non c’è. Anzi forse quel premio è proprio la fine, realizzata grazie alla pistola del nonno di Matteo, che non riuscì a togliersi la vita allora, ma che oggi lei, figlia adulterina di un mondo che non la desidera, può finalmente esaudire. Judith si suicida per le motivazioni di molti adolescenti: far vedere che essi c’erano e ora non ci sono più. Ma compie il gesto anche per sottolineare al mondo degli adulti la forza e la vitalità della tragedia ebraica.

Giacomo Mayer, l’ebreo «senza frontiere»L’ebreo è, forse, il romanzo filosoficamente e teoreticamente

più caricato di Alberto Lecco. Vi sono, infatti, i riferimenti più diretti al film Kapò, dall’autore pesantemente criticato per la sua faciloneria, per non aver saputo – e, forse, voluto – mostrare i veri contorni dell’identità ebraica contemporanea4. In questo romanzo vanno in scena varie figure lecchiane, deboli e incostanti protagonisti della vita quotidiana, alla ricerca di una vitale affermazione del loro destino. Abbiamo il narratore, un «nessuno» mimetico (forse anch’egli ebreo) che vuole semplicemente descrivere la vita, ma non «viverla». C’è poi Estella, il mito-motore delle storie altrui: Mario ne è invaghito, Giacomo la usa come propria analista, Marcello la usa come proprio angelo del focolare, mentre Marta la usa come «tranquillante» del marito. Giacomo Mayer è l’ebreo analizzante che diventa analizzato: cura gli altri per curare se stesso, finché il paziente Marcello non lo pone

4 Cfr.A. Lecco, “Osservazioni sul generoso e patetico antisemitismo”, in Don Chisciotte ebreo, cit., pp. 43 ss.

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definitivamente di fronte alla propria ebraicità. Marta è assai simile all’onnipresente Paola, è la donna borghese che agisce sotto traccia per ristabilire l’ordine e l’«in sé». Marcello è il chiavistello che mette in moto tutto: è la sua frustrazione artistica a turbare la moglie, a indurlo all’analisi e a creare intorno a sé quel vorticoso uragano di azioni e reazioni che porteranno alla morte di Giacomo. L’aspetto curioso è che Marcello è nominato, ma non è attivo direttamente nel romanzo. È una sorta di feticcio, di causa efficiente di tutto l’intreccio, di «in sé» sempre uguale a se stesso. Aleggia come un’ombra su tutti gli astanti. Il suo sadico sfogo ai danni di Giacomo sarà però l’evento cardinale che darà il via a tutto l’intreccio romanzesco: aprirà le cataratte all’identità ebraica. L’epilogo tragico-comico, che ricorda – tanto per rimanere in tema di paragoni cinematografici – il finale di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, delinea il «rientro» nella normalità borghese e la «pulizia» sociale dallo zigano-ebreo perturbante.

Giacomo Mayer è la punta dell’iceberg del mondo culturale italiano postbellico. Non sappiamo se le parole finali riferite a Mario corrispondano a verità, se cioè Giacomo abbia visto spazzata via la sua famiglia dalla guerra o – come ha detto sul palco del comizio – sia stato testimone di un altro «omicidio» ebraico. Sappiamo soltanto che l’autore ha voluto sottolineare in lui tutti gli aspetti più idiosincratici di un uomo senza casa, senza nazione, un «ebreo errante» spiritualmente, più che materialmente. Già, perché Giacomo appare un professionista ben integrato nella realtà romana della «bella vita». Anzi, non sembra molto diverso dal protagonista di Se la vita non è vita di Antonio Debenedetti (l’architetto Guido Cohen): è anch’egli senza baricentro, in balìa completa degli eventi5. Manca del tutto il sotto-sfondo quasi ironico dello scrittore romano, perché Giacomo ritiene che la vita sia una tragedia greca in salsa nietzscheana. Ci troviamo di fronte a una satira menippea? I protagonisti del romanzo lecchiano sembrano privi di una propria fisicità ben precisa, ondeggiano qua

5 Cfr. Pinto, La terra ritrovata, cit., cap. 3, par. 5.

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e là spinti dalla corrente sentimentale. Se la condizione umana più profonda autentica è questa «purezza» del sentire, allora L’ebreo mostra assai bene come il lato buffonesco e carnevalesco dell’essere umano nasconda dentro di sé (o dietro di sé, per essere più corretti) una forte componente tragica: il riso è visto come un modo per esorcizzare il dolore. Giacomo e, più in generale, tutti i personaggi lecchiani tendono a «ridere» (non a sorridere) delle tragedie umane. La loro coscienza ipertrofica li spinge a girare e rigirare tutto: la loro vita, i loro sentimenti, le loro sensazioni. Non c’è mai un dialogo piano tra i personaggi: tutti parlano di fronte al teatro del mondo, al tribunale universale della storia umana. «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», ha scritto Nietzsche nella Nascita della Tragedia (1972). Ciò che succede allo psicanalista Giacomo è proprio quello di aver perso di vista la salute freudiana a favore delle innumerevoli possibilità dell’esistenza, arso dalla «volontà di essere».

Ester dei miracoli, l’incarnazione dell’ebrea «biblica»Ester dei miracoli rappresenta una sorta di rappacificazione con

la storia italica novecentesca da parte di Lecco. In questo romanzo lo scrittore milanese ritorna sull’ossessivo tema della madre ebrea collegandolo alle sue peregrinazioni americane e a un’altra trasposizione cinematografica della tragedia ebraica romana: L’oro di Roma di Carlo Lizzani (1961), alla cui sceneggiatura collaborò6. Il protagonista del romanzo è il noto Matteo Viterbi, questa volta nelle vesti di un regista intento a portare a compimento la trasposizione cinematografica della sua storia d’amore con Judith, ritenuta l’incarnazione universale dell’amore «puro» e disinteressato osteggiato dal «mondo reale». Il soggiorno romano lo indurrà a tralasciare il progetto originario per concentrarsi sulla storia di sua madre Caterina. Matteo si pone l’obiettivo di rendere giustizia alla propria madre, ma cerca anche di liberarsi di un peso opprimente, di un senso d’impotenza e di colpa che l’ha

6 Cfr. Lecco, “L’oro di Roma”, in Don Chisciotte ebreo, cit., pp. 43 ss.

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accompagnato per tutta la vita. Dopo varie peregrinazioni verrà a scoprire il tragico ma eroico epilogo della madre, una sorta di dostoevskiano Myskin al femminile, ben poco meschina – mi si passi il giro di parole – rispetto al padre naturale di Matteo, il critico musicale Mario Mori, che gli ha celato il segreto della sua morte. Il romanzo, forse quello narrativamente più riuscito, è ambientato in un particolare momento della storia ebraica italiana: l’attentato alla sinagoga romana del 1982. Quest’evento, coevo all’eccidio di Sabra e Chatyla, costituisce un brusco risveglio dal lungo torpore della comunità ebraica romana, perché si ripresenta il tema del legame fra antisemitismo e antisionismo e – per bocca di Omar – del «senso di colpa» ebraico per la nakbà (catastrofe) palestinese. L’ambientazione storica permette al protagonista di ricostruire i concitati giorni dell’ottobre 1943 e di comprendere finalmente appieno la storia di sua madre e, più in generale, larga parte delle sue scelte esistenziali in ambito professionale e sentimentale.

Ester rappresenta una sorta di nemesi storica: la protagonista biblica (non «ebraica») non riesce a salvare gli ebrei dal massacro perpetrato da Haman, perché Kappler non è il consigliere del re Assuero e perché Emmeemme non è Mardocheo. Ma ciò che conta veramente è l’atto della madre e, nel caso di Matteo, scoprire com’è morta e cosa ha fatto per impedirlo il padre naturale. La fine di Caterina-Ester resta avvolta nel mistero, perché nessuno sa chi l’abbia effettivamente «smascherata». Questo rigurgito veterotestamentario consente all’autore di trovare una sorta di quadratura del cerchio: la tragedia ebraica non si consuma più per espiare una colpa genetica (quella di essere sopravvissuti all’Olocausto, di non «essere stati lì»), ma per testimoniare un evento storico ben preciso (come, in questo caso, il rastrellamento nazista). Caterina, che è molto simile a Lucilla e, più in generale alle figure materne dei romanzi lecchiani, consente al protagonista di riavvicinarsi alla sua seconda madre: Paola, la donna fedele e amorevole che è sempre restata a Roma. È a lei, infatti, che Matteo

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racconterà la sua scoperta. Non alle varie figure femminili della sua vita poetica: né a Judith, né a Maude, la giovane e tonda ebrea americana appena sposata. Matteo ha ereditato dalla madre un sentimento di cosmopolitismo molto forte, ma – come dimostra la sua presa di posizione su Israele e sui fatti romani – non sembra più essere passivo esecutore del sentimento tragico. Ricostruisce una tragedia del passato quasi a volerne evitare la ripetizione: il film sull’amore «puro» diventa il film sul senso della vita. Certo, un senso del tutto particolare, da parte di una donna che ha scelto il martirio piuttosto che la salvezza, che ha deciso di sacrificarsi per la flebile possibilità di bloccare Haman e i suoi carnefici. Se la storia aveva deciso in un altro modo per il popolo ebreo, il futuro resta una dimensione ancora aperta. La scelta da parte di Matteo di non uccidere suo padre segna proprio la riappacificazione del protagonista con i fantasmi del suo passato: la madre ora riposa in pace e il padre attende la propria fine col sorriso sulle labbra.

Matteo, il fallimento dell’ebreo onniscienteL’ultimo romanzo di Lecco cala il sipario sulla sua epopea

piccolo-borghese novecentesca. I buffoni contengono già nel titolo un giudizio di valore: coloro che esercitano il ventriloquio sono gli artisti che parlano con il «ventre» non con la mente ovvero esprimono le proprie emozioni più profonde. Ma tale espressione emotiva lascia increduli gli astanti, che inizialmente basiti, poi disgustati, annoiati, infine divertiti dalle rivelazioni di Walterino e Odotte. La società borghese (anche americana) osserva con divertimento al denudamento dei sentimenti più profondi da parte degli artisti della parola, definiti «buffoni», giullari capaci di suscitare risate nei signori di turno. Il successo arride a Walter solo nel momento in cui parla della sua vita privata ed esprime pubblicamente il fallimento del suo ideale amoroso. Matteo, il «Cristo ebreo» che ama la sua «Maddalena» nelle vesti di Odette e di Jenny, figure tragiche e ambivalenti nella loro identità (l’una è mezza tedesca e mezza francese, l’altra è nera), è indirettamente la

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vittima e il carnefice del fallimento esistenziale del suo gruppo: è responsabile della morte della moglie Caterina, che non è stato in grado di conoscere e comprendere; porta Walter sull’orlo dell’abisso perché non si rende conto della sua inevasa richiesta d’amore verso la moglie Odette; circuisce la giovane Jenny, che «redime» togliendo dalla strada, ma non riesce a salvarla dal ritorno del suo «carnefice» Thomas. L’unica a «vivere» è Odette, che assiste alla fine del marito e non è in grado di fermare l’amante Matteo e la sua giovane «Sonia». Sopravvive, forse, perché ha una parte «nazista» come quella del padre, così meticoloso nel descrivere a Caterina l’orrore dei campi di concentramento e incapace di provare il benché minimo senso di colpa. Questa è la forza anche etimologica di Odette, così ricca e potente da non soggiacere al tragico destino ebraico novecentesco.

La tragedia ebraica di Matteo consiste nell’impossibilità di redenzione del suo personaggio. Matteo cerca vanamente di eludere il senso di colpa per l’Olocausto (che non ha vissuto per «viltà») mettendo in discussione le regole di quella società borghese di cui fa parte. Ma il «trapianto» su un altro terreno non porta i frutti sperati, perché non la pianta non ha radici forti. Questa è la disperazione che attanaglia i personaggi dei Buffoni: sapere di non poter costruire qualcosa di saldo e di radicalmente nuovo. Questo spinge i protagonisti ad abbandonare il vecchio continente per raggiungere New York, sfuggendo all’aria asfittica e mortuaria degli anni Settanta. Se è impossibile superare il muro dell’indifferenza oppure «cambiare» il carnefice con la semplice ragione, non restano che tre vie: la vendetta, il perdono o l’autodistruzione. La prima strada viene scartata da Matteo – come da tutti gli altri personaggi ebrei cristianizzanti dei suoi romanzi, perché avrebbe avuto scarso esito pedagogico. La seconda viene presa in considerazione, ma necessita di un agape cristiana che confligge pesantemente con l’eros dell’atomismo borghese contemporaneo. Non resta che la terza strada: il suicidio capace di suscitare passioni e, magari, di purificare il pubblico in una catarsi

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finale. Solo la morte dell’«ebreo», vittima sacrificale per eccellenza della storia occidentale del XX secolo, può aprire le strade a un superamento della condizione di «vittima» e di quella del «carnefice», a una sorta di rappacificazione dell’uomo con se stesso. L’universalità ebraica può essere conquistata solo partendo dal dramma dell’individuo ebreo e dall’esigenza di particolarizzare le sue emozioni. Matteo va incontro alla morte con la sua giovane amante quando si rende conto di non aver più nulla da nascondere a questo mondo. Così facendo, però, ha raggiunto il suo obiettivo: mostrare finalmente ciò che significa essere ebreo in carne e ossa, non una macchietta nevrotica o uno sconfitto invisibile. Si è «redento» in modo ebraico, cioè non accettando la dostoevskiana verità di Cristo e in Cristo ma testimoniando storicamente il suo dramma personale.

Dall’ebreo «tragico» agli «ebrei» autenticiLa produzione romanzesca di Alberto Lecco rappresenta un

unicum nel panorama letterario italiano del secondo dopoguerra, perché il tema dell’ebraicità è stato sviluppato fuoriuscendo dagli stereotipi dell’«ebreo inetto»7. Si tratta di un’ebraicità del tutto atipica: lo scrittore milanese ha cercato di calare alcune caratterizzazioni psicologiche dostoevskiane nei suoi personaggi. Come Elsa Morante nella Storia, Lecco ha fatto dell’ebreo una sorta di categoria universale della condizione umana: il «vinto» che deve espiare una colpa. La sopravvivenza lo ha reso così fragile, troppo «umano», lo ha «salvato» da una vita rispettabile, ma opaca, come l’«in sé» sartriano8. L’ebreo lecchiano ha consapevolezza delle cose proprio per la sua «debolezza», spezzato dalla vita, ma dotato di una grandissima forza di volontà. L’ebreo lecchiano intende assurgere a nuovo protagonista del romanzo novecentesco: agisce in preda alle emozioni perché rappresenta la «purezza» del sentimento di fronte alla staticità delle società

7 Cfr. Pinto, La terra ritrovata, cap. 3.8 Cfr. ivi, cap. 4, par. 4.

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borghese. Tenta di sgretolare l’immobilismo sociale con una rivalutazione catartica della tragedia. Di qui la sua ansia di movimento, la ricerca in America di qualcosa che l’Europa non aveva più: la semplicità e – soprattutto – l’«autenticità». Di qui il bisogno ossessivo d’amore, l’esigenza di lottare per raggiungere il nucleo più profondo della vita. Di qui anche i fallimenti ripetuti: i protagonisti lecchiani non sono in grado di amare perché amano l’idea d’amore, perché lo incarnano in modelli, non in persone concrete. Di qui il desiderio di morire: una ferita lancinante nella loro memoria li ha resi incapaci di interagire con la realtà. La loro eccezionalità non consiste nelle rare azioni che compiono, ma nei movimenti psichici che esprimono: sognano di pensare e di essere allo stesso tempo. Ma l’immobilismo della realtà materiale finisce per avere il sopravvento: la tragedia dell’ebreo consiste nella smisurata fame di amore.

Se l’eccesso di amore porta l’ebreo lecchiano allo scacco di fronte alla realtà, è possibile ravvisare una forma di «redenzione» individuale? Se Dostoevskij si era affidato a una sorta di «risurrezione cristiana», Lecco può sperare in una sorta di «cristianizzazione» orizzontale dell’ebraismo. Se la narrazione dei romanzi è all’insegna degli eccessi menippei (dal «sottosuolo» al «paradiso»), la prospettiva storico-politica sembra indirizzarsi verso la «terra». Alla «morte» c’è rimedio unicamente attraverso la vita, una vita intesa non più vitalisticamente ma «normalmente». Il superamento della tragedia novecentesca passa attraverso un processo di purificazione interiore dell’ebreo, una comprensione umana del nazista e una speranza di vita futura nella diaspora e in Israele. Solo «parlando» come tutti gli altri l’ebreo può ambire a vivere su questo mondo. Questa «normalizzazione» significa accettare con coraggio e dignità la propria ebraicità (senza rinnegarla per fini assimilazionistici oppure eluderla per fini universalistici) e, conservando la memoria di tutti i popoli oppressi del passato, crearsi un proprio mito laico. L’autenticità ebraica va conquistata con il coraggio di essere quello che si è, nel bene e nel

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male, accettando se stessi e accettando gli altri. Solo in questo modo l’ebreo moderno potrà farsi «come» gli altri, divenendo «cristiano» nel senso spirituale e non religioso-dottrinario del termine. Non puntando però a una vita futura dove gli «umiliati» e gli «offesi» saranno ripagati delle ingiustizie subite ma in un’esistenza hic et nunc, dove, facendo tesoro del proprio passato di dolore e sofferenza, gli ebrei avranno la possibilità di rappresentare se stessi e gli «altri». Integrando la propria storia personale nella storia collettiva dell’umanità raggiungeranno l’agognata autenticità, sfuggendo al mimetismo narcisistico oppure allo «splendido isolamento». Solo in questo modo sarà sconfitto col tempo l’antisemitismo e lo stato di Israele diverrà lo stato degli ebrei, niente di più e niente di meno.

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Bibliografia

Opere di Alberto Lecco

- Anteguerra. Storia di due famiglie (romanzo), Milano, Edizioni di Scienze e arti, 1955 (edizione ungherese: Budapest, Zrínyi Ny, 1968);

- Un’estate d’amore (romanzo), Roma, Carucci, 1958;

- Tibor Mende, Le frontiere del domani, traduzione di A. Lecco, introduzione di G. Vigorelli, Bologna, Cappelli, 1958

- Prima del concerto (romanzo), Roma, Carucci, 1961;

- I quindici (romanzo), Roma, Canesi, 1963;

- Vieni notte! (racconti), Milano, Ceschina, 1963;

- Mia America Judith (poemetto), Roma, Carucci, 1968 (seconda edizione: Parma, Guanda, 1980);

- L’incontro di Wiener Neustadt (romanzo), Milano, A. Mondadori, 1977;

- Morte di un padre (racconto), «Paragone», 330, agosto 1977, pp. 41-62;

- Il bruto (racconto), in «Nuovi Argomenti», LVII, gennaio-marzo 1978, pp. 149-158;

- Un Don Chisciotte in America (romanzo), Milano, A. Mondadori, 1979;

- L’ebreo (romanzo), Reggio Emilia, Città armoniosa, 1981;

- I racconti di New York (racconti), Torino, SEI, 1982;

Questa bibliografia comprende le opere letterarie da noi individuate e le raccolte di saggi, mentre non comprende – per ragioni di spazio – i saggi brevi o gli articoli apparsi su rivista.

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- Don Chisciotte ebreo ovvero l’identità conquistata. Saggi letterari e cinematografici su ebraismo e antisemitismo (1961-1985), Roma, Carucci, 1985;

- La città grida (romanzo), Roma, Lucarini, 1985;

- Ester dei miracoli (romanzo), Genova, Marietti, 1986;

- Una scampagnata scolastica (Novelle per il futuro), «L’Unità», 4 agosto 1987;

- Dal satellite spazzatura (Novelle del futuro), «L’Unità», 11 agosto 1987;

- Ibernazione (Novelle del futuro), «L’Unità», 18 agosto 1987;

- Una seduta spiritica (Novelle del futuro), «L’Unità», 25 agosto 1987;

- Il pianeta delle ferie detto Godigodi (Novelle del futuro), «L’Unità», 1 settembre 1987;

- «L’Unità»,

- La vera storia di Baby Moon (romanzo), Bari, Bracciodieta, 1988;

- Il cantore muto. Sono stati gli ebrei liberi di raccontare se stessi? Dello scrivere di cose indimenticabili e incomunicabili, Milano, Spirali Vel 1989;

- La casa dei due fanali. Cronaca di una passione (romanzo), Milano, Spirali Vel, 1991;

- L’uomo del libro (romanzo), Reggio Emilia, Città armoniosa, 1991;

- La morte di Dostoevskij, ovvero la morte della tragedia. Quel giorno di dicembre di sette anni fa. Menippea in un prologo, dodici quadri, un epilogo e una postfazione ragionata, Milano, Spirali Vel 1994;

- Va’ pensiero (racconto), «Nouvelle revue franaçaise», 522, luglio-agosto 1996, pp. 137-181;

- I buffoni (romanzo), Milano, Spirali Vel 1998.

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Critica

- G. Amoroso, Alberto Lecco, in Letteratura italiana contemporanea, diretta da G. Mariani e M. Petrucciani, Roma, Lucarini, 1979, vol. 4, t. 1, pp. 335-341;

- W. Mauro, Notizia, in A. Lecco, L’uomo del libro, Reggio Emilia, Città Armoniosa, 1991, pp. 7-18;

- S. Disegni, Chi sono i buffoni, in A. Lecco, I buffoni, Milano, Spirali Vel, 1998, pp. 391-400;

- V. Pinto, La parola “ebreo”. «L’incontro di Wiener Neustadt» di Alberto Lecco (1978), “La Rassegna Mensile d’Israel”, LXXV, 2-3, agosto-settembre 2009, pp. 99-116;

- V. Pinto, La terre retrouvée? Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento, Tesi di dottorato in italianistica, Università di Grenoble “Stendhal”, Università del Salento di Lecce, 2009-2012, cap. IX (Il romanzo dell’«ebreo vinto»).

Questa silloge comprende i pochi studi di letteratura o storia dedicati alla figura di Alberto Lecco, ma non comprende le recensioni o le rassegne apparse su quotidiani o periodici.

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