Storia d'Italia, Volume 9, 1943-1948-RCS Libri S.p.a (2006)

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Piano dell'opera: STORIA D'ITALIA Voi. I 476-1250 STORIA D'ITALIA Voi. II 1250-1600 STORIA D'ITALIA Voi. I l i 1600-1789 STORIA D'ITALIA Voi. IV 1789-1831 STORIA D'ITALIA Voi. V 1831-1861 STORIA D'ITALIA Voi. VI 1861-1919 STORIA D'ITALIA Voi. VII 1919-1936 STORIA D'ITALIA Voi. Vili 1936-1943 STORIA D'ITALIA Voi. IX 1943-1948 STORIA D'ITALIA Voi. X 1948-1965 STORIA D'ITALIA Voi. XI 1965-1993 STORIA D'ITALIA Voi. XII 1993-1997
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Piano dell'opera:

STORIA D'ITALIA Voi. I

476-1250

STORIA D'ITALIA Voi. II

1250-1600

STORIA D'ITALIA Voi. I l i

1600-1789

STORIA D'ITALIA Voi. IV

1789-1831

STORIA D'ITALIA Voi. V

1831-1861

STORIA D'ITALIA Voi. VI

1861-1919

STORIA D'ITALIA Voi. VII

1919-1936

STORIA D'ITALIA Voi. Vi l i

1936-1943

STORIA D'ITALIA Voi. IX

1943-1948

STORIA D'ITALIA Voi. X

1948-1965

STORIA D'ITALIA Voi. XI

1965-1993

STORIA D'ITALIA Voi. XII

1993-1997

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M O N T A N E L L I C E R V I

STORIA D'ITALIA 1943 1948

INDRO MONTANELLI I MARIO CERVI

L'ITALIA DELLA GUERRA CIVILE Dall' 8 settembre 1943 al 9 maggio 194.6

INDRO MONTANELLI | MARIO CERVI

L'ITALIA DELLA REPUBBLICA Dal 2 giugno 1946 al 18 aprile 1948

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STORIA D'ITALIA Voi. IX

EDIZIONE PER OGGI pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano

© 2006 RCS Libri S.p.A., Milano

Questo volume è formato da:

Indro Montanelli - Mario Cervi Eltalia della guerra civile

© 1983 Rizzoli Editore, Milano © 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

Indro Montanelli - Mario Cervi Eltalia della Repubblica

© 1985 Rizzoli Editore, Milano © 2000 RCS Libri S.p.A., Milano

Progetto grafico Studio Wise

Coordinamento redazionale: Elvira Modugno

Fotocomposizione: Compos 90 S.r.L, Milano

Allegato a OGGI di questa settimana NON VENDIBILE SEPARATAMENTE

Direttore responsabile: Pino Belleri RCS Periodici S.p.A. Via Rizzoli 2 - 20132 Milano

Registrazione Tribunale di Milano n. 145 del 12/7/1948

Tutti i diritti di copyright sono riservati

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settembre 1943, 2 giugno 1946, 18 aprile 1948: tre giorni cruciali per la storia del nostro Paese. Il primo segna l'inizio della guerra civile che insanguinò VItalia quando «era ta­

gliata in due» (secondo un'incisiva definizione di Benedetto Croce), con la Repubblica Sociale di Mussolini a Nord tenuta in vita dai tedeschi e il Regno del Sud di Vittorio Emanuele III che godeva del sostegno degli Alleati. Fino al 25 aprile, e oltre, si combatté tra ita­liani una guerra disperata e feroce in nome - come sostenevano su fronti opposti repubblichini e partigiani - dell'onore, della dignità e della libertà. Furono proprio gli autori di questo libro a rompere una tradizione storiografica che parlava solo di «guerra di Libera­zione» e a far conoscere a milioni di lettori che l'Italia aveva com­battuto una guerra civile che, pur non raggiungendo gli orrori di quella spagnola, aveva provocato nel Paese una spaccatura che so­lo oggi si comincia timidamente a cercare di superare da entrambe le parti. Un Mussolini abulico, impotente e malato fu costretto da Hitler - pena un'occupazione ancora più feroce - a costituire una repubblica priva di un'autonomia reale, il cui unico compito era quello di aiutare i tedeschi nella repressione delle forze partigiane. Il Regno del Sud, da parte sua, cercò, collaborando con gli Alleati, di assicurare all'Italia il famoso «biglietto di ritorno» tra le grandi democrazie. Fu una guerra dura in cui «pietà era morta»: fucila­zioni, rappresaglie, orrori e vendette private da entrambe le parti. Uscita distrutta da un conflitto immane, lacerata da una guerra intestina, guardata con diffidenza da tutte le potenze vincitrici, l'Italia ebbe la forza di voltare pagina, con il referendum del 2 giu­gno 1946 (seconda data cruciale), scegliendo la Repubblica e infi­ne, il 18 aprile 1948 (terza data cruciale), di ancorarsi, grazie alla

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vittoria elettorale della De di De Gasperi, all'Occidente e alla demo­crazia. La lunga e faticosa ricostruzione poteva finalmente inco­minciare.

INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in scienze politiche, inviato speciale del «Corriere della Sera», fonda­tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor­nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), LItalia del Nove­cento (con Mario Cervi, 1998), La stecca nel coro (1999), LItalia del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

MARIO CERVI è nato a Crema (Cremona) nel 1921. Laureato in leg­ge, ufficiale di fanteria durante il secondo conflitto mondiale, per molti anni è stato inviato speciale del «Corriere della Sera», arti­colista e inviato del «Giornale» e della «Voce». E stato di re t tore del «Giornale» dal 1997 al 2001. Tra le sue opere ricordiamo Sto­ria della guerra di Grecia (1965; ed. BUR 2001), Mussolini - Album di una vita (Rizzoli 1992), / vent'anni del «Giornale» di Montanelli (con Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Rizzoli 1994).

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Indro Montanelli - Mario Cervi

L'ITALIA DELLA GUERRA CIVILE

(8 settembre 1943-9 maggio 1946)

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AVVERTENZA

Molti ci chiederanno come mai abbiamo intitolato questo volume L'Italia della gue r r a civile invece che L'Italia della Resistenza, come si è soliti chiamare quel periodo. È stata una scelta, cui ci sia­mo sentiti autorizzati dalla nostra partecipazione a quegli eventi.

Cervi, giovanissimo ufficiale di complemento in Grecia, fu de­portato dai tedeschi. Io, arrestato dalla Gestapo sulla fine del '43 per partecipazione ai gruppi di «Giustizia e Libertà», rimasi in pri­gione fino al settembre del '44, prima a Gallarate, poi a S. Vittore, donde riuscii ad evadere e a riparare in Svizzera. Crediamo che queste credenziali ci autorizzino - e per questo le abbiamo esibite - a dire quel che pensiamo: e cioè che di quei sedici mesi di tregenda, la Resistenza fu uno degli episodi, ma non il solo, e di scarsissimo pe­so risolutivo sugli avvenimenti. A contare molto di più fu, caso mai, la resistenza con la erre minuscola, cioè quella, quotidiana e passi­va, fatta di piccoli e grandi sacrifici, di pazienza e di «arrangia­menti» e anche di malizie e doppi giuochi che gl'italiani opposero, per sopravvivere, a tutto e a tutti.

Questo atteggiamento di distacco ci procurerà certamente molte critiche. Ma noi crediamo che, a quarant'anni di distanza, sia tem­po di fare Storia e di farla fuori dei miti e delle leggende. In realtà il titolo avrebbe dovuto essere non LItalia della, ma delle guerre ci­vili, perché non una sola, ma molte se ne intrecciarono in quel pe­riodo. Ci fu quella degli Alleati «liberatori» contro i Tedeschi «inva­sori» (ma in realtà erano invasori gli uni e gli altri, sia pure con intenzioni e metodi diversissimi). Ci fu quella del Regno del Sud contro la Repubblica Sociale del Nord; ci fu quella degli antifasci­sti contro i fascisti, che divise le famiglie e le coscienze; e ci fu quel­la degli antifascisti tra loro per il tentativo comunista di assumere

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l'esclusiva della lotta al fascismo facendo fuori, in nome di essa, tutti gli altri.

Già questo intreccio di fili e filoni basta a togliere ogni fonda­mento e credibilità al giudizio sommario con cui finora si è preteso distinguere l'Italia «buona», cioè quella degli antifascisti, dall'Ita­lia «cattiva», cioè quella dei fascisti. Quando, il 29 aprile, andai a vedere la macabra (e ripugnante) scena di piazzale Loreto, fra quei poveri corpi appesi a testa in giù, ne riconobbi due, di cui ancora oggi non so come spiegare la vicenda che li aveva condotti lì: so sol­tanto che non ho il diritto di giudicarla.

Uno era quello di Nicola Bombacci, vecchio tribuno socialista di Romagna, prima compagno di scuola e amico di Mussolini, poi suo mortale nemico, uno dei fondatori - con Gramsci, Bordiga, Togliat­ti, Terracini ecc. - del partito comunista, in seguito esule prima in Russia, poi in Francia, e poi spontaneamente tornato in Italia per mettersi sotto la protezione del Duce. Non aveva esitato a seguirlo a Salò, e questo si può spiegare con l'interesse e la gratitudine. Ma non aveva esitato nemmeno ad accompagnarlo in quell'ultimo viag­gio verso una morte sicura: e per spiegare questo, ci vuole qualcosa di più.

Ealtro era quello di un ragazzo, di cui le cronache non registra­rono neppure il nome. Si chiamava Mario Nudi, era stato mio com­pagno di battaglione in Abissinia, e non mi ero mai accorto che avesse idee politiche. Era un bell'atleta semplice e coraggioso, un po' da western, che faceva quella guerra per piacere sportivo. An­cora mi domando cosa lo aveva condotto a Salò, e poi su quel gan­cio da norcini accanto a un dittatore, sul quale non aveva mai nem­meno espresso opinioni.

Potrei citare infiniti altri casi di uomini che l'8 settembre fecero una scelta assolutamente imprevedibile, e molto spesso la pagarono, da una parte e dall'altra, con la vita. Ce ne furono alcuni che, da un pezzo su posizioni di fronda al regime, considerarono l'8 settem­bre un tradimento e si sentirono in dovere di accorrere in aiuto di un Duce vinto e ormai abbandonato da quasi tutti. Nel serraglio di Salò si trovarono poi mescolati a delinquenti e avventurieri che nel­la Repubblica Sociale vedevano solo un pretesto per fare razzia e

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bottino. Così come vidi dei fascisti di buona e sicura fede cercare nelle file della Resistenza un lavacro e un riscatto. Altri lo fecero solo per procurarsi una benemerenza che li mettesse al riparo da una probabile «epurazione» e li accreditasse presso il nuovo regime.

Tutto si mescolò in quei mesi di trambusto, di umiliazione e di violenza. E noi non abbiamo la pretesa di essere riusciti a distin­guere il grano dal loglio, il nero dal bianco, il bene dal male, anche perché nemmeno noi sappiamo con esattezza cosa fu il bene e cosa fu il male. Abbiamo solo la certezza di esserci posti di fronte a que­sta ingarbugliatissima matassa senza pregiudiziali di sorta, pur consci che, così facendo, avremmo scontentato tutti.

Un'altra difficoltà che abbiamo incontrato, e che non siamo si­curi di aver superato, è quella, meccanica, dell'articolazione del racconto. Le infinite storie che compongono questa storia corrono spesso parallelamente Luna all'altra, e sarebbe stato impossibile se­guirle in simultanea senza ricorrere ad artifìci d'intreccio che ab­biamo voluto a tutti i costi evitare. Abbiamo preferito ricostruire gli avvenimenti pezzo a pezzo: prima la costituzione del Regno del Sud, poi quella della Repubblica di Salò, poi la nascita e i primi sviluppi della Resistenza, con la tecnica del flash-back, cioè del salto all'indietro, perché quello scenario non ne consentiva altre. Saremo anche incorsi, certamente, in qualche inesattezza, omissione ecc. Ma siamo sicuri che si tratterà dì dettagli: sulla ricostruzione delle grandi linee credo che non ci potranno essere mosse obbiezioni. Un'ultima confessione. Questa Italia della gue r r a civile l'abbia­mo scritta con la stessa amarezza con cui scrivemmo, L'Italia della disfatta. Né l'uno né l'altro sono stati, per il nostro Paese, capitoli gloriosi. E di questo vorremmo rendere persuasi e coscienti soprat­tutto i giovani che non li vissero, e ai quali si sono raccontate un mucchio di fole. Sulle quali, secondo noi, non si può costruire nulla dì valido e durevole.

Naturalmente non riteniamo di avere la privativa della verità. Ma crediamo dì averla onestamente cercata e, nei limiti dei nostri modesti mezzi, servita.

I. M.

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CAPITOLO PRIMO

NASCE IL R E G N O DEL SUD

La mat t ina del 10 set tembre 1943 la corvetta Baionetta, con la famiglia reale, Badoglio, e u n a folla petulante di generali dello Stato Maggiore avvolti in coper te e pastrani , navigava in un Adriatico tranquillo. La giornata era bella, un sole cal­do ristorava i fuggiaschi intirizziti d o p o le traversie della fu­ga da Roma. A bordo avvenivano chiassosi riconoscimenti e incontri. I capi militari si sentivano, nonostante tutto, abba­stanza soddisfatti. Roatta, che d u r a n t e la not te aveva avuto qualche perplessi tà sulla ragionevolezza e sulla dignità del suo compor tamento , r iconoscendo che forse, come Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, doveva r imanere nella capita­le (asseriva di essersi aggregato alla colonna di Pescara pen­sando si fermasse poco oltre, e di aver poi p rosegu i to pe r forza d' inerzia), si sentiva già molto più disteso. L'incrocia­tore Scipione l'Africano, che scortava la corvetta, le si era ac­costato più di u n a volta, e in u n a occasione la manovra ri­sultò t r o p p o spericolata, cosicché u n ' o n d a t a investì la co­pe r t a , infradic iando qualche genera le e s ca raven tando in mare alcune valigie.

Badoglio n o n era più il vecchio t r emante del giorno pri­ma; affrontava ormai il futuro con un certo ottimismo. Poi­ché la radio diffondeva la notizia che i tedeschi avevano co­minciato ad occupare città e posizioni, soprat tut to nell 'Italia settentrionale, commentò che si trattava s icuramente di ini­ziative dovute a elementi isolati. Alle 11 r isuonò a b o r d o l'al­l a rme , p e r c h é un r icogni tore tedesco sorvolava la nave, e furono punta t i i pezzi antiaerei: il colonnello De Buzzacca-rini porse al Re e alla Regina d u e salvagente, ma Vittorio

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Emanuele I I I si al lontanò con un gesto di fastidio. La Regi­na cercò poi un po ' d 'ombra a poppa , in mezzo a u n a cata­sta di mine di profondità. A mezzogiorno la Baionetta era al largo di Bari. Ci si informò per sapere se la città fosse libera. Venne risposto, non si sa da chi e pe r quale motivo, che era occupata dai tedeschi; notizia infondata anche se un tentati­vo di impadroni rs i della città era stato abbozzato, il g iorno precedente . Ma il generale Nicola Bellomo - che poi gli in­glesi processeranno e fucileranno, in base ad accuse gonfia­te e discutibili - lo aveva resp in to con decisione. Un ra­dio-dispaccio a l t re t t an to in fonda to comunicò che anche Brindisi e ra in m a n o tedesca. In realtà Brindisi e ra lasciata comple tamente a se stessa: n o n c 'erano gli anglo-americani - già insediat i invece a T a r a n t o - e n o n c ' e rano tedeschi . Proprio quando era vicina al por to di Brindisi la Baionetta si imbat té in un sommergibi le inglese e, successivamente, fu sorvolata e segui ta a l u n g o da un al t ro appa recch io della Luftwaffe. I «passeggeri» avevano da poco finito la colazio­ne, e furono fatti scendere sotto coperta , ammutol i t i d ' im­provviso. «I loquaci tacciono men t r e gli ottimisti r infodera­no le loro speranze» raccontò un testimone.

Ma lo J u n k e r 88 se ne a n d ò senza d is turbare , e la Baio­netta fu, alle 14,30, in vista di Brindisi. L'incrociatore Scipio­ne l'Africano p u n t ò i suoi cannoni , ad ogni b u o n conto anche le ba t te r ie cost iere b r a n d e g g i a r o n o i loro . Vi fu rono mo­ment i di intensa suspense: se nel frat tempo i tedeschi avesse­ro fatto i r ruzione in città? Si accostò alla corvetta un moto­scafo che issava la bandiera italiana: ne sbarcò l 'ammiraglio Rubartel l i , c o m a n d a n t e della base della Mar ina , a l qua le nessun rad iomessagg io aveva p r e a n n u n c i a t o la p re senza del Re sulle uni tà in arrivo. All 'ammiraglio, che era restato di sasso, Vittorio Emanue l e I I I n o n consent ì , con la solita gelida bruschezza, di espr imere il suo s tupore . «Ci sono te­deschi a Brindisi?» in te r rogò. «No Maestà.» «Ci sono ingle­si?» «No Maestà.» «Chi c o m a n d a allora?» « C o m a n d o io.» «Bene, andiamo.»

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Così, su istruzioni di Rubartelli che andava r imug inando tra sé e sé come mai il Re e il governo si t rovassero su u n a nave che, pe r quanto gli risultava, doveva por ta re soltanto il ministro della Marina, la Baionetta attraccò a un molo quasi di fronte al l 'Ammiragl iato, s i tuato nel recinto del Castello Svevo. Fu stabilito, sedu ta s tante , che il Re, la Regina e il Pr incipe e red i ta r io si insediassero n e l l ' a p p a r t a m e n t o del­l 'ammiraglio, al p r imo p iano di u n a palazzina adiacente al corpo principale del Castello. Fu svegliata la signora Rubar­telli che , fedele alle usanze del Mer id ione d ' I ta l ia , si e r a concessa la pennichel la pomer id i ana , e che , confusissima, c o m p a r v e davant i alla Regina in vestaglia. Badogl io e Ac-qua rone furono sistemati nella casermetta dei sommergibili, i genera l i più impor t an t i all 'Albergo In te rnaz iona le , il go­ve rno - quale? - pose la sua sede negli uffici del c o m a n d o della Marina, al Castello. L'aiutante di campo del Re, Pun­toni, racimolò un nucleo di carabinieri e di mar inai pe r .assi­cura re un sommario servizio di sicurezza. La famiglia reale decise di p r e n d e r e i pasti nel suo appa r t amen to . Il seguito e i minis t r i p re sen t i - che e r a n o poi d u e , De C o u r t e n della Marina e Sandalli dell 'Aeronautica, oltre a Badoglio - fon­da rono u n a «mensa del governo».

Quella stessa sera Radio Bari, t r o p p o debole pe r essere ascoltata in tutta Italia, diffuse un proclama del Re nel qua­le e ra de t to che «per assicurare la salvezza della capitale e pe r potere p ienamente assolvere i miei doveri di Re, col go­verno e con le autori tà militari mi sono trasferito in un altro p u n t o del sacro e libero suolo nazionale». Tuttavia, ancora I T I set tembre, secondo un comunicato dell 'agenzia Stefani, Badoglio era assente da Roma «in seguito a ispezioni milita­ri, che r ichiedono la sua personale presenza». Quel l ' I 1 set­t embre Vittorio Emanuele I I I convocò, nel salotto dell 'Am­miragliato, u n a r iun ione che n o n si sa bene come definire: o Consiglio della Corona , o Consiglio dei ministri, o Chiac­chiera ta t ra amici. Con U m b e r t o d i Savoia e r a n o presen t i Badoglio, De Cour t en , Sandalli , Ambrosio, Roatta, Acqua-

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rone , Puntoni . Badoglio era di cattivo umore : nel t rasbordo da u n ' a u t o all 'al tra d u r a n t e la fuga e ra a n d a t o p e r d u t o i l suo bagaglio, e il maresciallo si e ra trovato senza n e m m e n o un fazzoletto e senza soldi. Per acquistare un po ' di cor redo firmò la p r ima cambiale della sua vita, diecimila lire.

Il Re lesse ai convenut i un messaggio, firmato da Chur ­chill e da Roosevelt e indirizzato a Badoglio, che dava meri­to a quest 'ul t imo per avere liberato il paese dalla «schiavitù fascista» ma aggiungeva che restava da assolvere il compito p iù d u r o : «Sgombrare il suolo italiano dai tedeschi invaso­ri». «Sorgi o popolo d'Italia» esortava il messaggio, aggiun­g e n d o l ' inc i tamento a «occupare tu t te le città che po te te , colpite forte e colpite nel segno». Badoglio rispose con l'en­fatica promessa che «tutto quello che è possibile è e sarà fat­to con quel lo stesso spir i to e con quel la stessa tenacia che esplicammo insieme sui campi di battaglia d'Italia e di Fran­cia du ran t e l 'ultima guerra». Il r iferimento di Badoglio era, ev identemente , al T 5 - T 8 . Dopo i governant i alleati, anche Eisenhower si fece vivo con concetti analoghi. «Se l'Italia si leva come un sol uomo , pigl ieremo i tedeschi alla gola». Gli scambi e gli invii di messaggi e proclami furono la principa­le se n o n l 'unica attività del «gruppo» di Brindisi in quelle p r ime giornate.

B e n c h é ufficialmente espr imesse f iduc ia , E i senhower e ra stato molto deluso dalla gravità del collasso italiano. La resi­stenza al di lagare dei tedeschi era sporadica e fievole: d'al­t ro canto l'offensiva alleata a Salerno non risultava né rapi­da né potente . Riferendo a Washington, Eisenhower osser­vava che gli italiani avevano da to «poco o nessun aiuto». E aggiungeva: «Badoglio vuole vedermi . Sto pe r dirgli che de­ve venire qui. Egli vuole po r t a re qualcuno del suo staff ma non so immaginare che cosa il suo Stato Maggiore possa co­m a n d a r e in ques to m o m e n t o » . Per megl io or ien tars i , Ei­senhower inviò a Brindisi u n a missione, che ebbe formal­men te carat tere militare, e che, capeggiata dal generale in-

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glese Mason MacFarlane già governatore di Malta, include­va anche il generale americano Maxwell Taylor, comandan­te della 8 2 a divisione ae ro t r a spo r t a t a che sarebbe dovu ta sbarcare su Roma, secondo il p i ano or ig inar io p e r l'8 set­t embre . Aggregat i alla missione e r ano tuttavia i consiglieri politici Murphy (americano) e Macmillan (inglese), incarica­ti di assistere MacFarlane q u a n d o fossero venuti sul tappeto i problemi più spinosi, e soprat tut to «il problema»: doveva­no gli Alleati r iconoscere la legit t imità del gove rno Bado­glio, e del Re? E in quale misura dovevano accettare la col­laborazione italiana, sul campo di battaglia e fuori?

Il dialogo si annunciava difficile, e l 'arrivo della missione era atteso con t repidazione a Brindisi dove fu possibile regi­strare solo u n a b u o n a notizia. Il generale Puntoni annotò il 12 se t tembre l 'arrivo del duca e della duchessa di Genova. «I duchi - scrisse - sono arrivati da Taranto che h a n n o rag­giunto in aereo provenient i da Venezia dopo n o n poche pe­ripezie. Il Sovrano li riceve alle 17,45 ed espr ime loro il suo più vivo compiacimento.» Chissà poi di cosa si compiaceva.

Il 13 se t t embre - già Mussolini e ra stato l iberato dalla prigionia del Gran Sasso - l 'aereo che trasportava la missio­ne alleata a t t e r rò a Taran to . I delegat i n o n si mossero im­media tamente verso Brindisi: vollero essere sicuri, p r ima di farlo, che l 'area i n t o r n o fosse sgombra di tedeschi , e che questi ultimi avessero anche evacuato Bari. Ma già al p r imo contatto con la realtà italiana, avevano avuto una brut ta im­pressione. U n a accozzaglia di militari italiani li aveva accol­ti, all 'arrivo, con grida festose di «pace, armistizio, armisti­zio, pace» e ne trassero conferma alla loro convinzione che gli i taliani fossero volubili , servili, spensiera t i . Part icolar­men te mal disposto era MacFarlane, convalescente d'itteri­zia.

Il 14 set tembre la missione prese contatto, a Brindisi, con il governo - o con il clan - di Badoglio, e ricevette immedia­tamente un invito a colazione dal maresciallo (è un'ossessio­ne questa degli italiani di conc ludere tu t to a tavola, pensò

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Maxwell Taylor, assillato dal r icordo dei pranzi che s'era do­vuto sorbire nelle o re in cui si decideva, a Roma, la vigilia dell '8 set tembre, se fosse o no o p p o r t u n o l ' impiego della di­visione ae ro t r a spor t a t a ) . Badogl io «si fece in qua t t r o p e r mos t ra rs i cortese», m e n t r e Pun ton i , dalla psicologia ele­m e n t a r e , avvertiva «un n o d o alla gola che gli impediva di parlare».

F ina lmente il g io rno successivo si cominciò a d iscutere ser iamente . Ambrosio illustrò la situazione catastrofica del­l'esercito italiano: spiegò che nel sud e rano rimaste in qual­che m o d o in piedi la divisione Mantova presso Cro tone , la Legnano e la Piceno presso Brindisi e qualche repar to costie­ro . Erano recuperabil i quat t ro divisioni in Sardegna, u n a a Cefalonia e u n a nel Dodecanneso . Le uni tà del Mer id ione d'I tal ia e r ano a corto di tu t to , e p e r quelle dei Balcani e ra u rgen te u n a operaz ione di re imbarco in g r a n d e stile. Am­brosio lamentò tra l 'altro che lo sbarco fosse avvenuto a Sa­lerno, ossia in u n a zona che non consentiva sviluppi favore­voli e solleciti. Al che MacFar lane , spazient i to e r u d e , r e ­plicò: «Voi n o n sapete niente , state zitti». In effetti i fuggia­schi di Brindisi i gno ravano che i p iani ang lo -amer ican i - miop i e p r u d e n t i q u a n t o p iù n o n av rebbe ro p o t u t o -escludevano l ' impegno gigantesco che sarebbe stato neces­sario pe r t r a r re in salvo t r u p p e alla cui capacità combattiva nessuno più credeva, giustamente; ignoravano inoltre quali dimensioni avesse assunto lo sbandamento dei repar t i disse­minat i in mezza Eu ropa . Badogl io i n t e r v e n n e pe r sottoli­nea re l ' appor to italiano alle operazioni anglo-americane, e pe r affermare che l 'Italia doveva essere o rma i considerata alleata: «Soltanto in ques to m o d o io sarei r iuscito a galva­nizzare il paese e a por ta r lo u n a n i m e ad affrontare i mag­giori sacrifici».

Gli inviati di Eisenhower t ennero un at teggiamento fred­do e talvolta a r rogan te , soprat tut to MacFarlane che, quan­do si recò in ud ienza da Vittorio Emanue l e I I I , gli si p r e ­sentò in maniche di camicia e shorts (in maniche di camicia

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era anche Maxwell Taylor), os ten tando la sua mancanza di r iguardo : e r incarò la dose, q u a n d o tutti si r i t rovarono alla mensa del comando dei sommergibili, i gnorando di p ropo­sito il Re, con un certo disagio dei «diplomatici» M u r p h y e Macmillan. I l Re fece pessima impress ione . Lo t rova rono «patetico, vecchissimo, piuttosto rimbambito». Andò meglio p e r Badoglio che a Macmillan parve «onesto, di larghe ve­dute , arguto, di origine contadina, con il b u o n senso innato e la natura le accortezza dei contadini». Di Ambrosio pensa­r o n o che fosse «intell igente e amichevole p e r q u a n t o de ­presso e pr ivo d 'entusiasmo», e infine di Roat ta «un b u o n linguista, un intel l igente e navigato mil i tare con t endenza ad essere un seccatore. Il perfe t to attaché mil i tare. . . il suo cervello è più sviluppato e ricco di sostanza del suo fegato».

MacFarlane avanzò subito una richiesta spiacevole: quella cioè che fosse adottato anche nell'Italia continentale il siste­ma delle am-lire, o lire di occupazione, già s tampate in Sici­lia senza alcun controllo del governo italiano. Il peso di que­ste emissioni doveva ricadere in teramente sul paese occupa­to. Tanto più gli Alleati insistevano pe rché sapevano che ai p r imi di se t t embre Badoglio aveva fatto trasferire ingent i somme in banche di Bari pe r sottrarle, in previsione del peg­gio, ai tedeschi (dove si vede come l ' idea della fuga al sud fosse germinata nella sua mente con largo anticipo sull'8 set­t embre ) . Per i l m o m e n t o Badogl io rifiutò, ma poi dovet te adattarsi dlYukase, e al cambio impostogli (400 lire pe r ogni sterlina e 100 pe r ogni dollaro). Invano sottolineò l'effetto inflazionistico che avrebbero avuto le spese degli ufficiali e soldati anglo-americani «pagati circa 10 volte più dei nostri». Ma la maggiore sorpresa i delegati di Algeri - là era ancora il c o m a n d o di E isenhower - l ' ebbero q u a n d o a b b o r d a r o n o cautamente il tema del «lungo armistizio» e della sua firma. Si avvidero che Badoglio e i suoi collaboratori, frastornati da tanti avvenimenti, ignoravano ancora o avevano appena in­travisto l'esatto contenuto di quel documento che integrava il «corto armistizio» firmato da Castellano a Cassibile: ma lo

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integrava appesantendolo , sotto l 'intestazione - che manca­va nel cor to armistizio - di «resa incondizionata». Il l ungo armistizio era r imasto nelle tasche del genera le Zanussi, e Zanussi era a Brindisi, ma in tutt 'altre faccende affaccendati, il Re e Badoglio se n ' e rano dimenticati , o l 'avevano «rimos­so» dai loro pensieri. E p p u r e la firma di Badoglio a quel do­cumento era considerata da Londra e da Washington la pre­messa necessaria di ogni futura evoluzione dei rappor t i con «il Regno del Sud». C o m u n q u e i delegati decisero di tornare al Comando , e di riferire ad Eisenhower, anche perché «non c 'e rano datt i lografe, n o n c 'e rano mezzi di t r aspor to , c 'era pochissimo cibo». Murphy e Macmillan si fecero ancora ve­dere , p r ima di ripartire, dal Re, questa volta senza la presen­za del rozzo e provocatorio MacFarlane. Chiesero a Vittorio Emanue le I I I se potessero fare qualcosa p e r lui, nel limite delle loro possibilità. Il Re esitò, quindi rispose: «La Regina non è stata in grado di trovare delle uova fresche. E possibi­le acquistarne una dozzina?».

A Brindisi il «gruppo Badoglio» stava assumendo una fi­sionomia abbastanza simile, ormai , a quella del governo di un paese occupato. Vittorio Emanuele I I I - sempre Re d'I­talia e d'Albania e Impe ra to re d'Etiopia, nei document i uf­ficiali - compiva qualche ispezione nei d in torni , e i repar t i che vedeva passare e r a n o «stanchi e in g r a n d e disordine» con «dapper tut to r i tardatari e sbandati». Da Tunisi era rien­t ra to il diplomatico Montanar i , che aveva assistito Castella­no a Cassibile, e che por tò con sé u n a t rent ina di funzionari del Ministero degli Esteri , f i l t rat i a t t raverso le l inee tede­sche. Finalmente Badoglio - che i p r imi giorni t rascorreva le ore, nel suo ufficio, leggendo Neera e Fogazzaro, e maga­ri un libro giallo tenuto nel cassetto aper to della scrivania, il cassetto era chiuso in tutta fretta se veniva in t rodot to un vi­sitatore - ebbe prat iche da sbrigare, rappor t i da leggere. Al­la sua ansia di d imostrare che le residue unità italiane e rano al fianco delle t r u p p e anglo-americane, gli Alleati replicaro­no il 20 set tembre con un secco ordine: ogni attività bellica

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italiana doveva cessare d o v u n q u e , fino a nuovo ord ine . Fu così in ter ro t to i l movimento di un superstite Corpo d 'arma­ta che al c o m a n d o del genera le De Stefanis si era messo in marcia verso nord , ancora sufficientemente ordinato , con le divisioni Piceno, Legnano, 210a costiera.

Tra le quin te si del ineavano d u e diverse ed egua lmente impor tant i polemiche. Churchil l e Roosevelt e rano in disac­co rdo , sia p u r e amichevo lmen te , p e r c h é il premier inglese voleva fosse dato p ieno sostegno al governo monarchico di Brindisi, e il pres idente americano insisteva sul principio di autodeterminazione, e quindi sulla esigenza di n o n pregiu­dicare in alcun m o d o il futuro assetto istituzionale dell 'Ita­lia. Il Re e Badoglio litigavano sul problema della dichiara­zione di g u e r r a alla G e r m a n i a , che stava a cuo re agli anglo-americani: secondo il maresciallo era un passo da fa­re subito, secondo Vittorio Emanuele I I I si doveva aspetta­re fin d o p o la liberazione di Roma.

Il maresciallo era alle prese con una serie di di lemmi u n o più ingrato dell 'altro. Ormai , a quel pun to , sapeva bene co­sa contenesse il lungo armistizio, e quanto fossero umilianti le sue clausole; e sapeva al t ret tanto bene che, u n a volta co­nosciutine i termini , e l 'accettazione, la p r o p a g a n d a fascista cont ro i «traditori» di Brindisi avrebbe assunto, se possibile, ancora maggiore virulenza, e si sarebbe rivestita di più con­vincenti a rgomen t i . La d ich ia raz ione d i g u e r r a avrebbe probabi lmente fruttato u n a a t tenuazione dei termini di re­sa: ma ad essa si opponeva cocciutamente il Re, che lo sfug­gen te A c q u a r o n e informava a suo m o d o , e sobillava. Nel­l'entourage reale Badoglio e ra in disgrazia, e ne dava testi­monianza il diario di Puntoni , che era, come al solito, la vo­ce del Re: «Il governo non fa nulla, sembra anzi che sosten­ga gli oppositori della Monarchia. . . Badoglio è in balìa degli avveniment i , n o n ha r isorse, le sue idee s embrano corte e sfasate... Il Capo del governo n o n sa reagire con la dovuta energia pe r la difesa degli interessi del paese e della Monar­chia che in fin dei conti si identificano». Il 21 set tembre Vit-

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torio Emanuele I I I si risolse a un passo personale . Inviò al Re d ' Ingh i l t e r ra - e in te rmini quasi identici al p res iden te Roosevelt - un messaggio che q u a n d o non era ovvio era pa­tetico. Constatò che «è necessario e urgente che la più gran par te del terri torio italiano venga liberata dai tedeschi»; os­servò che «è di essenziale impor tanza politica per voi e pe r noi ragg iungere al più pres to Roma»; chiese che al suo go­verno fosse concesso di esercitare i poter i civili, oltre che su quat t ro province della Puglia e della Sardegna, anche sulla Sicilia; invocò un cambio più favorevole pe r la moneta . Di­ventato petulante , il Re assillava Badoglio con riserve su ri­serve. Rammentava in part icolare che solo lui aveva facoltà di dichiarare la guer ra . Ossessionato dal t imore che la dina­stia fosse travolta dagli eventi, sganciato dalla realtà, Vitto­rio Emanue l e I I I si in tes tardiva in proposi t i assurdi come quello di affidare a Dino Grandi , «che deve trovarsi in qual­che p a r t e del Portogallo», i l Minis tero degli Esteri p e r c h é «Grandi è il simbolo dell 'antifascismo e la sua presenza nel governo Badoglio c reerà u n o scisma nelle file fasciste e re­pubblicane».

Il 27 se t tembre il genera le Bedell Smith, Capo di Stato Maggiore di Eisenhower, raggiunse Brindisi insieme a Mac­mil lan e M u r p h y p e r m e t t e r e a p u n t o l ' incont ro t ra Ei­senhower e Badogl io del 29 se t t embre , a Malta, nel corso del quale sarebbe avvenuta la firma del lungo armistizio. Se Badoglio era imbarazzato, gli anglo-americani n o n lo e rano m e n o . La avvilente intransigenza del documen to che veni­va presenta to a Badoglio contrastava con molte promesse e incitamenti di quei giorni, e anche con la cooperazione, sia p u r e l a rgamente preg iud ica ta dalla inefficienza, che i l go­ve rno italiano aveva da to agli Alleati. «Quan to maledi i gli esper t i del Fore ign Office!» ha scritto Macmil lan. «Molte condizioni e r a n o già inapplicabil i . Molte e r a n o al di fuori della possibilità del gove rno i tal iano di a d e m p i e r l e . Noi p r o m e t t e m m o perciò che questo p u n t o generale poteva es­sere coperto da u n a lettera del Comandan te in capo da con-

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segnarsi al momen to della firma.» I delegati alleati trasmise­ro a Badoglio un a p p u n t o di Eisenhower dal quale risultava che «sarà r iconosciuto lo stato di cobell igeranza dell ' I tal ia d o p o che questa avrà dichiarato gue r r a alla Germania», che «il gove rno Badogl io deve con t inuare» , che «una volta espulsi i tedeschi il popolo sceglierà la forma di governo che meglio gli aggrada» e che infine «appena possibile il mare­sciallo Badogl io fo rmerà un gove rno a larga base». C h u r ­chill e Roosevelt avevano raggiunto un compromesso: bene il Re e Badoglio pe r il momen to , poi si vedrà .

L'accenno al pr incipio di au tode te rminaz ione al larmò il marescial lo che avrebbe poi dovu to r i fer i rne allo stizzoso Vittorio Emanuele I I I . «Significava - si chiedeva Badoglio -che la Monarch ia e ra in per icolo? In ogni caso po t evano quest ioni di tal fatta essere decise a Brindisi?.. . La Monar­chia era necessaria per man tene re la stabilità e l 'unità d'Ita­lia.» Q u a n d o il maresciallo gliene par lò , il Re espresse le sue perplessità. Il 28 le discussioni r ipresero e Badoglio spiegò che la dizione «strumento di resa incondizionata», che era il frontespizio del lungo armistizio, avrebbe causato immenso danno . Era eccitato, addolorato . Risorgeva in lui il sospetto che Castellano lo avesse ingannato , o si fosse lasciato ingan­nare . Fu deciso che se ne discutesse l ' indomani a Malta, ma Acquarone si precipitò dal Re a soffiare sul fuoco, insinuan­do che «Badoglio ha ignorato del tut to gli interessi della di­nastia». Vittorio Emanuele I I I , o t tenuta la assicurazione che non si sarebbe pretesa da lui u n a immedia ta dichiarazione di gue r ra alla Germania , autorizzò comunque Badoglio alla firma di Malta.

Alle c inque del pomer iggio Badoglio e l 'ammiragl io De Cour ten si imbarcarono sull ' incrociatore Scipione l'Africano, che at t raccò l ' i ndoman i 29 se t t embre a La Valletta. Ei­s enhower aspet tava gli i taliani sulla corazzata b r i t ann ica Nelson. Il vecchio maresciallo indossava l 'uniforme da cam­po in tela di cui si era servito in Etiopia. Salì con passo stan­co, solo - il seguito fu fatto a t t endere pe r qualche decina di

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secondi - la scaletta, rispose agli onori di una compagnia di marìnes, strinse la m a n o ad Eisenhower. Il maresciallo, Ike, Bedel l Smith e MacFar lane si a p p a r t a r o n o qu ind i p e r di­scutere; e r i spuntò fuori la quest ione del t e rmine «resa in­condizionata». Di fronte alle obbiezioni di Badogl io , Ei­senhower, Bedell Smith e MacFarlane chiesero di poter con­ferire tra di loro, separa tamente . Rientrati , dissero che non avevano il po tere di modificare il testo del lungo armistizio. Quind i Eisenhower dichiarò con solennità: «Come lei ha os­servato, vi è un'al terazione nelle condizioni militari, ma noi n o n ne s iamo responsabi l i . C o m e le ha de t to i l gene ra l e MacFarlane, se lei n o n firmasse, ne der iverebbero gravissi­me conseguenze pe r l'Italia. Le dò la mia parola di soldato che mi impegnerò a fondo pe r far cambiare le frasi del lun­go armistizio, e che in tanto questo d o c u m e n t o sarà t enu to assolutamente segreto. Abbia fiducia e firmi».

Badoglio firmò, e ricevette u n a lettera di Eisenhower che riconosceva come l'Italia fosse diventata «cooperator» delle nazioni alleate, il che rendeva anacronistiche e non più vali­de a lcune clausole del l 'armist iz io . Esaur i ta ques ta a m a r a formalità, italiani e Alleati p r o c e d e t t e r o a u n o scambio di idee. Badoglio espose le p ropr ie . Appena possibile avrebbe formato un governo a base rappresen ta t iva , e u n a volta a Roma avrebbe dichiarato g u e r r a alla Germania . Se gli sarà consent i to di r ich iamare nella penisola le t r u p p e dislocate in Sardegna, aggiunse, il Comando italiano po t rà met tere a disposizione degli Alleati ot to divisioni. E isenhower d iede atto al governo di Brindisi del suo spirito di collaborazione, ma insistette pe r l ' immedia ta d ichiarazione di g u e r r a . Al­l 'obbiezione di Badoglio che «il potere del governo si esten­de ora solo su u n a piccola pa r te d'Italia, i l che r e n d e r e b b e u n a d ichiaraz ione d i g u e r r a e s t r e m a m e n t e difficile», Ei­senhower replicò che altri governi in esilio, «i quali non oc­cupavano n e p p u r e un pa lmo del loro terri torio nazionale», avevano dichiarato g u e r r a alla Germania . «Riferirò al Re» promise Badoglio, già sapendo che il Re era contrario.

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Quind i Eisenhower sollecitò Badoglio perché accogliesse nel suo governo elementi chiaramente antifascisti, e il pove­ro marescial lo , cui Vit torio E m a n u e l e I I I aveva legato le mani , dovette illustrare una lettera del Re che ribadiva la ri­chiesta degli Esteri pe r Grand i . «Ma G r a n d i - esclamò Ei­senhower - è pe r la nos t ra op in ione pubbl ica un fascista, non un antifascista.» Costretto a un ruolo ingrato, e consa­pevole di difendere u n a causa sballata, Badoglio si giustificò dicendo che, come soldato, n o n aveva molta pratica di per­sonaggi politici, e che meglio di lui poteva giudicare il Re. Con garbo, ma anche con risolutezza, Eisenhower chiarì che se il Re voleva r impas t a r e il gove rno con nuovi e lement i , e ra o p p o r t u n o che «sottoponesse ufficiosamente a priori il loro nome agli Alleati t ramite la missione MacFarlane». E a questo p u n t o tirò fuori un n o m e che Badoglio si aspettava, e che gli annunc iava altri guai . Il governo di Washington, disse il C o m a n d a n t e in capo alleato, desiderava che l'esule antifascista conte Sforza facesse al p iù p res to u n a visita a Brindisi.

Badogl io n o n sapeva che pesci p igl iare . Cominc iò con l 'assicurare, anche se la cosa era assolutamente ininfluente, che conosceva bene i l conte Sforza p e r c h é e ra con lui alla firma del t rat tato di Rapallo, e che aveva pe r il tenace oppo­sitore di Mussolini la massima simpatia . Ma aggiunse che s for tuna tamente il Re n o n condivideva i suoi sent iment i a causa di u n a dichiarazione an t imonarchica del conte . «Ne par lerò al Re» concluse sospirando il maresciallo. La r iunio­ne te rminò con la promessa di Eisenhower che i comunicati s tampa avrebbero accennato a discussioni di carat tere mili­tare, senza far parola del lungo armistizio. Un quar to d 'ora d o p o mezzogiorno Badoglio si congedò. A pochissimi gior­ni di dis tanza gli fu reso no to che l ' intestazione del lungo armistizio era stata modificata, sost i tuendo la dizione «con­dizioni integrative dell'armistizio con l'Italia» a quella «stru­mento di resa incondizionata». Il concetto che stava a cuore agli Alleati r imase tuttavia nel l 'ul t ima frase del p reambolo

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dove si avvertiva che le clausole «sono state accettate senza condizioni dal maresciallo Badoglio, Capo del governo ita­liano».

Agli Alleati p r e m e v a che l 'Italia dichiarasse g u e r r a alla German ia , e p r e m e v a anche a Castel lano che , t u t to ra in Nordafrica, era in contatto con Eisenhower, a sua volta pun ­golato da Roosevelt: «Il p r e s iden te e il p r i m o minis t ro (Churchill) sono del pa re re che il Re d'Italia debba dichiara­re gue r ra alla Germania il più presto possibile. Non sembra esservi alcuna necessità di a t t ende re che Roma sia occupa­ta». I n t an to Napol i e ra stata l iberata. Badoglio capiva che u n a decisione n o n poteva ul ter iormente essere rinviata pe r molte ragioni: t ra l 'altro pe r imped i re che i tedeschi consi­de rasse ro franchi t i ratori , e qu ind i passibili di esecuzione come spie o banditi , i soldati italiani catturati. Ma il Re resi­steva, giovandosi anche, pe r contrastare Badoglio, di un pa­r e r e di Ambrosio , i l quale det tava considerazioni n o n solo mili tari ma pol i t iche: «La cobel l igeranza dovrebbe essere oculatamente negoziata... Inol t re n o n dovrebbe essere per­messa la p r o p a g a n d a comunista». Esasperato, Badoglio do­vette profittare di un'assenza di Acquarone, recatosi a Napo­li allo scopo di consultare esponent i politici locali, pe r strap­pa re il consenso al Re. L'annotazione del generale Punton i sul suo diario è significativa: «A mezzo del genera le Taylor gli anglo-americani ci fanno sapere, con i termini di un ulti­matum, che desiderano, in vista della r iunione che t e r r anno domani ( 12 ottobre) ad Algeri con i delegati russi, che il go­verno italiano si decida a dichiarare g u e r r a alla Germania . La decisione viene p resa alle 16,30, d u r a n t e un colloquio t ra il Sovrano e Badoglio. Alle 19 Badoglio è un 'a l t ra volta dal Sovrano pe r sottoporgli il testo del proclama che lancerà al paese. Acquarone è intanto tornato da Napoli con la bella notizia che nessun u o m o politico napoletano in tende par te­c ipare a un g o v e r n o p r e s i edu to da Badogl io . "Gli uomin i politici napo le tan i - dice - sono asso lu tamente con t ra r i a u n a d ichiaraz ione d i g u e r r a alla German ia . " M e n t r e dice

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questo viene a sapere che la gue r ra è già stata dichiarata. Va sulle furie e minaccia dimissioni che cer tamente n o n darà.»

Così, il 13 ot tobre, l 'ambasciatore italiano a Madrid Pao-lucci de Calboli consegnò all 'ambasciatore tedesco - che ri­fiutò di accettarla - la dichiarazione di gue r ra . Il proclama del governo italiano, come al solito magni loquente , dichia­rava che «non vi sarà pace in Italia f inché un solo tedesco calpesterà il nostro suolo» e promet teva che «finita la guer­ra il popolo italiano sarà libero di scegliere con le elezioni il gove rno che p iù gli aggraderà» . Non v 'era a lcun accenno - unica provvisoria salvaguardia dinastica - alla possibilità d i un mu tamen to istituzionale.

Mentre a Brindisi si discuteva sulla oppor tun i tà di dichiara­re gue r ra alla Germania , la Germania stava facendo la guer­ra all'esercito italiano. La storia di questo disfacimento, che abb iamo abbozzata nell'Italia della disfatta, esige qua lche maggiore par t icolare p e r quan to r i g u a r d a le g r a n d i un i tà lontane da Roma.

Al sud il VI Corpo d ' a rma ta di Sicilia si e ra già dissolto con l ' invasione ang lo -amer icana , e il VI I al di q u a dello stretto di Messina - al cui comando il generale Mario Arisio aveva sostituito il 2 se t tembre il duca di Bergamo - poteva conta re su a lcune divisioni subito stret te , d o p o l'8 set tem­bre , t ra gli Alleati sbarcanti e i tedeschi che accorrevano pe r contras tar l i . Per di p iù Arisio stava t r a s fe rendo il suo co­m a n d o da Potenza a Francavilla Fontana , dove arr ivò con pochi brandell i di repar t i . Le unità dell 'Italia meridionale si sciolsero d u n q u e - t r anne qualcuna in Puglia, che abbiamo già citata - come neve al sole, e la r appresag l i a tedesca si scatenò cont ro gli inermi . A Nola furono t rucidat i 10 uffi­ciali, a Castel lammare di Stabia venne fucilato il comandan­te del presidio, colonnello Olivieri.

Un altro comando in trasferimento (da Or te ad Amelia) era quello della 5 a a rmata nell 'Italia centrale agli ordini del generale Mario Caracciolo di Feroleto. Caracciolo era a Ro-

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ma il 7 se t t embre , ma nes suno gli aveva fatto pa ro la di quan to stava pe r avvenire. Q u a n d o tentò di avere istruzioni da Palazzo Vidoni, fece squillare le sue chiamate telefoniche in uffici ormai deserti . L'armata si sbandò in poche ore .

La regione militare della Lombard ia e dell 'Emilia setten­trionale era agli ordini del generale Vittorio Ruggiero, mo­narchico e antitedesco, che riuscì a man tene re nelle t r u p p e qualche m o r d e n t e . All'alba del 9 gli fu possibile interpella­re, al C o m a n d o dell 'esercito, un colonnello Bonelli cui chie­se lumi: ma il colonnello, che ne sapeva quanto lui, si man­t e n n e nel vago. C o m u n q u e Ruggiero seppe che i massimi capi militari si e r ano allontanati verso ignota dest inazione. Fino al mat t ino del 10 t enne in p u g n o in qualche m o d o la situazione, spe rando che gli pervenissero istruzioni precise e un appogg io mili tare. Infine, scoraggiato, st ipulò un ac­cordo pe r la resa di Milano ai tedeschi, che lo depo r t a rono in Germania .

La 4 a a r m a t a (genera le Mar io Vercellino dai compagn i d 'Accademia sop rannomina to Cervellino) presidiava un 'a­rea assai vasta: Provenza , Ligur ia , Savoia, P i emonte . Tre delle qua t t r o divisioni mobili de l l ' a rma ta e r a n o in movi­m e n t o dalla Provenza all 'Italia. La sera dell '8 se t tembre a ora inoltrata il genera le Vercellino o rd inò che le t r u p p e le quali avessero già oltrepassato il fiume Varo accelerassero il movimento di r ien t ro in Italia e che i presidi della costa li­g u r e si r iunissero in g r u p p i più consistenti . Il c o m a n d o si spostò - tutti i comandi e rano stati presi dalla fregola degli spostamenti , in quelle ore cruciali - da Cuneo a Torino. Ma a quel p u n t o l ' a rmata si era polverizzata. Già la sera dell '8 se t tembre repa r t i motorizzati e corazzati tedeschi avevano ingiunto alle forze italiane sparse di collaborare o di lasciar­si d isarmare . Nella notte sul 9 alla Spezia i tedeschi avevano interrot to tutte le comunicazioni telefoniche, fatto i r ruzione nel comando del XVI Corpo d 'a rmata e cat turato il coman­dante , generale Carlo Rossi.

Nella Venezia Giulia, in Slovenia, Croazia e Dalmazia,

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e rano disseminati i resti di d u e a rma te italiane, l '8 a e la 2 a . Disponevano di 14 divisioni, m e n o sganghera te delle altre che e rano state via via r impatr ia te pe r essere completate di effettivi e di equipaggiamento . Anche in queste d u e a rmate (la 2 a affidata a Italo Gariboldi, l ' 8 a a Mario Robotti) e ra in corso un r i o r d i n a m e n t o . Si pensava di cost i tuire un ' a l t r a g rande uni tà da affidare a Gastone Gambara , il veterano di Spagna , d 'Albania e dell'Africa Set tent r ionale . Sta di fatto che Gambara r ipart ì da Roma p ropr io l'8 set tembre, in au­tomobile, pe r mettersi in contat to con Gariboldi e Robotti: vide il p r imo a Padova e il secondo a Fiume, quindi prose­guì p e r Lub iana dove aveva sede i l suo C o r p o d ' a r m a t a , l 'XI, m e n t r e lo sfacelo era già in at to. Gambara n o n ten tò in a lcun m o d o di oppo r s i a i tedeschi : del res to ade r ì p iù ta rd i alla Repubbl ica di Salò. Nel suo c o m a n d o i tedeschi fecero i r ruz ione nella no t te sul 10 se t tembre , e con tempo­r a n e a m e n t e gli ustascia p resero pr ig ioniero il comandan te della divisione Lombardia a Karlovac, gene ra l e Scipioni. Analoga sorte toccò al comandan te della divisione Isonzo. A Ragusa, contro il VI Corpo d ' a rmata i tedeschi furono san­gu ina r i . Il c o m a n d a n t e della divisione di SS Prinz Eugen, generale Ritter von Oberkampf, o rd inò la fucilazione di t re generali e 45 ufficiali delle divisioni Zara e Bergamo: i gene­rali e r ano Alfonso Cigala Fulgosi, Salvatore Pelligra e Raf­faele Policardi.

Attorno a Trieste, in Slovenia, in Croazia, si scatenarono cont ro le forze italiane in decomposiz ione n o n solo i tede­schi, n o n solo gli ustascia, ma anche i partigiani di Ti to che p r e n d e v a n o le loro p r i m e vendet te , e p r e p a r a v a n o le loro annessioni. Nel libro sul per iodo 8 set tembre 1943-25 apri­le 1945 di Piero For tuna e Raffaele Uboldi è na r r a t a la vi­cenda di un giovane sergente allievo ufficiale, Giovanni Rut-ter, che guidava u n a colonna di automezzi e di sbandati da Fiume a Trieste e che scoprì d u e foibe. «Quello che gli si of­fre è u n o spettacolo sconvolgente: corpi straziati di soldati italiani, vittime della vendet ta slava, vengono tratti dalle vo-

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ragini dov ' e rano stati gettati . H a n n o i polsi legati col fìl di ferro, sono imbrattati di sangue e di escrementi . Rutter vo­mita . Qua l che mese d o p o s i a r r u o l e r à nella 6 0 a legione Istr ia della G u a r d i a nazionale repubbl icana . Suo coman­dan te sarà Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro.»

Le qua t t ro divisioni del Mon teneg ro oppose ro resisten­za. HEmilia riuscì a r impatr iare con una metà circa dei suoi effettivi, la Taurinense (alpina) e la Venezia si un i rono con for­ti aliquote ai partigiani iugoslavi. Si verificò u n a ressa di sol­dati e di r epar t i che alla spicciolata affluivano verso i por t i pe r o t tenere imbarco sui mezzi della Marina. A Spalato era­no ammassate, un certo momento , alcune decine di migliaia di sbandati , ma solo u n a piccola par te ebbe la possibilità di r agg iunge re il «Regno del Sud». La pr igionia tedesca, o la vita alla macchia, anch'essa carica di stenti, di pericoli e di angher ie da pa r te di u n a popolazione ostile e di part igiani diffidenti, a t tendeva gli altri.

Le divisioni del Mon teneg ro , come quelle dell 'Albania, della Bosnia e dell 'Erzegovina, d i p e n d e v a n o dal c o m a n d o del g r u p p o a rmate est, con sede a Ti rana , agli ordini del ge­nera le Ezio Rosi. Rosi - anche lui! - e ra stato convocato a Roma p r o p r i o p e r i l 9 se t tembre . Proclamato l 'armistizio, anticipò il suo r i to rno a T i r a n a dalla capitale italiana e co­minciò a trat tare con il generale tedesco Bessel. Fu stipulato un accordo in base al quale le dodici divisioni (oltre a repar­ti minor i ) che d i p e n d e v a n o da Rosi sa rebbero r ien t ra te in Italia con le loro armi, eccettuate le artiglierie. Si trattava in realtà di uno s t ra tagemma dei tedeschi pe r p r e n d e r e t empo e consentire l 'ingresso in Albania di due loro divisioni. LT1 se t tembre , r o m p e n d o la fragile t regua, il genera le tedesco G h a n n fece circondare da carri armati e paracadutist i la se­de del comando italiano e prese pr igioniero Rosi insieme a molti altri ufficiali. N o n tutti i repar t i italiani pe rò si lascia­rono travolgere subito. Alcuni nuclei della Firenze si un i rono ai part igiani , e uomini della Perugia d iedero del filo da tor­cere ai tedeschi.

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In Grecia aveva sede l ' I l a armata, al comando del gene­rale Vecchiarelli , i l cui Capo di Stato Maggiore , genera le Gandin i , e ra a Roma il 7 se t tembre , ed aveva, a lmeno lui, r icevuto istruzioni pe r l 'ipotesi di armistizio. «Dire franca­mente ai tedeschi che le t r u p p e italiane n o n avrebbero mai preso le armi contro di loro se non fossero state soggette ad atti di violenza armata.» Per l 'Egeo - d ipenden te dall 'ammi­raglio Inigo Campioni - si stabiliva che venisse at tuato il di­sa rmo delle t r u p p e tedesche qua lora fossero «prevedibili» aggressioni da par te loro. Lo stesso giorno 7, Gandini atter­rava, con un ae reo mil i tare , a Tatoi, l ' a e ropor to di Atene, ma nulla fu disposto di rea lmente utile. Un ufficiale di Stato Maggiore che doveva recapi tare le istruzioni a Campioni si mosse con ancora magg io re r i t a rdo : bloccato - si dice dal ma l tempo - a Pescara, i n t e r r u p p e il viaggio. Gli eventi col­sero perciò le t r u p p e di Grecia nel loro abituale dispositivo, ossia polverizzate in u n a infinità di piccoli presidi mediocre­men te armati e mora lmente depressi.

All 'annuncio dell 'armistizio si ebbe u n o scoppio di esul­tanza, seguito dal d i so r i en tamen to . I l c o m a n d o d ' a rma ta , con disposizioni ambigue , e del resto senza u n a g r a n d e ca­pacità di p r e n d e r e decisioni au tonome, si gingillò in discus­sioni. Il 10 se t tembre Vecchiarelli raggiunse con i tedeschi un accordo che sembrava da re buone garanzie: vi si stabili­va che le t r u p p e dell ' I l a a rmata sarebbero rimaste con fun­zioni di difesa costiera pe r altre d u e set t imane, e che d o p o quel te rmine sarebbero state trasferite in Italia a cura dei te­deschi con un a r m a m e n t o sufficiente pe r difendersi da atti ostili delle popolazioni nelle zone attraversate. Esse si impe­gnavano a «combattere il bolscevismo che si sviluppa in Ita­lia e a m a n t e n e r e l 'ordine pubblico». Se la situazione fosse diventata tale da implicare la consegna de l l ' a rmamento agli anglo-americani, il comandan te del l 'armata avrebbe invece provveduto a trasferirlo alla Wehrmacht .

L'intesa concorda ta da Vecchiarelli e ra vel le i tar iamente machiavell ica da p a r t e i tal iana e u n i c a m e n t e di la tor ia da

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par te tedesca. C o m u n q u e in contrasto con le clausole armi­stiziali. Ebbe breve durata , e n o n poteva essere diversamen­te. Dopo qualche g iorno di t e m p o r e g g i a m e n t o , i tedeschi ingiunsero la consegna delle armi. Quindi , con rap ida p ro ­gressione, ras t re l la rono r epa r t i e militari sbandat i , e li in­viarono in Germania - compreso lo stesso Vecchiarelli - con la eccezione di coloro che ader ivano alla Repubblica di Mus­solini. I r e p a r t i e i soldati isolati che r a g g i u n g e r a n n o la m o n t a g n a pe r unirs i ai par t ig iani , gli andartes, a v r a n n o in generale u n a sorte terribile. Con l'incalzare dell ' inverno sa­r a n n o spogliati degli i ndumen t i e delle scarpe, confinati in campi di concen t r amen to di villaggi poverissimi, nei terr i­tor i «liberati» dalla guerr ig l ia , a volte massacrat i , a l t re la­sciati p e n a r e fino a mor i r e di fame e di stenti. L'armata di dissolse. A Creta , il generale Carta, comandan t e della divi­sione Siena, riuscì a mettersi in contatto con un ufficiale del servizio segreto inglese che sapeva trovarsi sull'isola, pe r sa­p e r e se fosse previs to un qualche sbarco alleato. Gli fu ri­sposto che n o n e ra previs to a lcuno sbarco. La divisione si arrese.

Nella g r a n d e t ragedia dell 'armistizio, in part icolare del­l'armistizio in Grecia, si inserì l 'episodio atroce della divisio­ne Acqui, che presidiava le isole di Corfù e di Cefalonia agli ordin i del genera le Antonio Gandin . A Corfù era di stanza il 17° fanteria (colonnello Luigi Lusignani) , a Cefalonia il c o m a n d o dell ' intera divisione. La Acqui si trovò, l'8 settem­bre , con viveri p e r novanta giorni e muniz ioni pe r t ren ta . Dopo l'equivoca pausa iniziale, de terminata dalla cautela te­desca, la divisione scelse il combat t imento . Gand in , un ve­neto, conosceva perfe t tamente la lingua tedesca e i tedeschi, ed aveva i n t r a t t e n u t o con loro r a p p o r t i cordial i . Tuttavia decise di n o n adeguars i a l l 'ordine di Vecchiarelli che p re ­scriveva la consegna delle armi . Hans Barge, il suo interlo­cutore tedesco, incalzava; voleva le armi . Si tirò avanti fino al 12, q u a n d o Barge p ropose al genera le italiano t re alter­native: o la collaborazione, o la lotta, o la consegna delle ar-

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mi. G a n d i n si consul tò con i sette cappel lani mili tari , che p r o p e n d e v a n o p e r la terza ipotesi . Ma i diecimila soldati avevano - diversamente dalla quasi totalità dei loro commi­litoni - u n a animosa volontà di resistenza. Sapevano di di­spo r re d i una net ta super ior i tà numer ica - 1 0 mila italiani contro 1.800 tedeschi - e contavano sulla vicinanza di Brin­disi, 200 miglia, dove già era installato il governo di Bado­glio. Ma i tedeschi, men t r e negoziavano, avevano inviato ar­mi pesanti a Cefalonia. All'alba del 13 set tembre il capitano Renzo Apollonio, un triestino in t repido, vedendo d u e gros­si pon ton i da sbarco che dopp iavano il capo San Teodoro , o rd inò alle sue batterie di apr i re il fuoco.

Cominciò così la battaglia. Da Cefalonia par t i rono subito pe r Brindisi messaggi rad io che invocavano aiuto. Li rice­vette, al comando della Marina, il contrammiragl io Giovan­ni Calati, che conosceva Gandin, che era un u o m o di carat­tere, e lo aveva dimostrato opponendos i alla consegna delle sue navi agli anglo-amer icani , il che gli aveva mer i ta to gli a r res t i in fortezza p e r un paio di giorni . Calat i scelse d u e torpedin iere , la Sirio e la Clio, le caricò di medicinali , pezzi ant iaerei e muniz ioni , e fece rot ta verso Cefalonia. Poi gli venne data pe r rad io la notizia, infondata , che l 'unico ap ­p r o d o n o t t u r n o disponibile a Cefalonia era controllato dai tedeschi, e decise di far rot ta verso la più vicina Corfù, dove p u r e si combatteva. Ma da Taranto l 'ammiraglio inglese Pe-ters dispose - un'al tra prova della cecità alleata, congiuran­te con l'ignavia del clan Badoglio - che le d u e torpediniere r ientrassero, avendo salpato le ancore senza autorizzazione dei vincitori. La missione di soccorso fallì.

Fino al 22 se t tembre d u r a r o n o , a Cefalonia, i combatt i ­menti , con interventi pesanti degli Stukas che mitragliavano e bombardavano le posizioni italiane. Il 24 set tembre Gan­din fu ca t tu ra to e fucilato nella schiena: p r i m a di m o r i r e but tò a te r ra con sdegno la Croce di ferro che Keitel gli ave­va concesso. La strage fu o r renda . In u n a scuola 600 soldati e ufficiali vennero falciati a raffiche di mitragliatrice, 360 uf-

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f idali furono giustiziati a g ruppe t t i . Un sot to tenente a n d ò alla mor te canticchiando la canzone del Piave, un colonnel­lo con la p ipa in bocca, t ranqui l lamente. Cinquemila furono i massacrat i della vende t t a tedesca, 1.200 i cadut i in com­bat t imento . Ad aggravare il bilancio della t ragedia soprav­venne l 'affondamento, pe r mine, di piroscafi che avrebbero dovuto t raspor tare i superstiti nei lager tedeschi. Altri tremi­la mor t i , in tu t to 9.646. Il 25 se t t embre si a r r e se anche il presidio di Corfù, che p u r e nella fase iniziale degli scontri aveva cat turato 400 prigionieri tedeschi.

A Rodi l 'ammiraglio Campioni aveva avviato trattative, ma il generale tedesco Kleeman dimost rò pres to , o r d i n a n d o la occupazione degli aeropor t i , che tirava solo a g u a d a g n a r tempo. Tra l'altro Kleeman tese al generale Scaroina, che co­mandava la divisione Regina, un agguato in perfetto stile ri­nascimentale: invitatolo a p ranzo , lo dichiarò pr ig ioniero . Scaroina s'era fatto p ruden t emen te scortare da alcune auto­blindo, i cui equipaggi lo liberarono. Ma cadde in una secon­da trappola. Intanto gli Stukas si avventavano su Rodi, gli in­glesi comunicavano che pr ima del 15 settembre non poteva­no far niente, e Campioni si rassegnò alla resa. Più ostinata fu la lotta a Lero e a Samo, dove e rano sbarcati anche contin­genti inglesi, e dove l 'ammiraglio Luigi Mascherpa era risolu­to a non cedere. Ma poi i tedeschi dilagarono anche lì. Con la loro resistenza, Campioni e Mascherpa avevano firmato la lo­ro condanna a morte, sanzionata da un iniquo processo.

Solo in Sardegna e in Corsica la vicenda armistiziale eb­be un esito fausto, soprat tut to perché i tedeschi avevano de­liberato di n o n chiudervisi a riccio. Al comandan te superio­re in Sardegna, generale Basso, il comandan te tedesco della 9 0 a divisione aveva chiesto semplicemente che gli si desse li­be ro passaggio pe r t rasbordare in Corsica, e di là sul conti­nente , le sue t ruppe . Così avvenne. I tedeschi furono invece attaccati, in Corsica, dalle forze del generale Magli, che per­sero settecento uomini negli scontri, ma non ebbero la forza di impedi re il deflusso delle uni tà in ritirata.

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Questa fu nelle sue linee general i la t rama dello sfacelo. Già nell'Italia della disfatta abb iamo riferi to le cifre di cui po tè vantarsi i l Capo di Stato Maggiore della Wehrmach t , Jod l , t racciando un r iassunto del d o p o 8 se t tembre . Disar­mate s icuramente 51 divisioni italiane; disarmate probabil­men te 29 divisioni; n o n disarmate 3; 547 mila prigionieri di cui 34.744 ufficiali. La débàcle ebbe innumerevol i strascichi individual i , e g e r m i n ò episodi tragici e grot teschi . N o n mancarono gesti, anche sublimi, di eroismo e di orgoglio. Si uccisero a Camer i il colonnel lo pi lota Alber to F e r r a n o , a Iv rea i l t e n e n t e colonnel lo dei bersagl ier i Alessandro del Piano; il t enen te colonnello Davide Zannier, adde t to al de­posito dell'8° alpini, a Udine , si sparò un colpo di pistola al­la testa m e n t r e veniva depor t a to , ma miracolosamente so­pravvisse: questi ufficiali vollero darsi la mor te piuttosto che subire la ca t tura e la prigionia. Ma la condizione generale , pe r i soldati italiani, fu di sofferenza e di umiliazione. Quel­l i che n o n f inirono in campi di c o n c e n t r a m e n t o tedeschi vennero ridotti alla condizione di paria, dovunque si trovas­sero. Il 4 gennaio 1944 Luigi Bolla annotava sul suo diario che «a Belgrado i nostri soldati si aggirano in condizioni pie­tose, men t r e persino i russi sono stati rivestiti con le unifor­mi trovate, tra enormi quanti tà di altro materiale, nei nostri magazzini militari in Serbia. Essi compiono i lavori più umi­li, affamati e laceri come sono, pe r guadagnars i di che n o n morire».

Unica r e m o r a alla du rezza di ques to t r a t t a m e n t o fu, q u a n d o ci fu, l 'umanità delle popolazioni che d iedero p ro ­tezione e rifugio, con rischio grave , agli sbandat i . Ma lo spettacolo della i m m a n e rot ta fu nel suo complesso misere­vole, e il c o m p o r t a m e n t o dei capi militari - anche qui nel complesso - inadeguato sempre , vile nei casi peggiori .

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C A P I T O L O S E C O N D O

NASCE LA REPUBBLICA DI SALÒ

La liberazione di Mussolini dal Gran Sasso fu de te rminan te pe r le vicende italiane dopo l'8 set tembre. Essa restituì al fa­scismo il suo capo, sia p u r e avvilito e d iminui to dalla scon­fitta e dalla prigionia, consentì a Hitler di avere in Italia un vassallo di g r a n d e prest igio, d iede un simbolo e un n o m e impor tant i all 'ultima, fosca versione del regime. Senza Mus­solini, i tedeschi avrebbero dovu to affidarsi a un qualsiasi screditato e servile Quisling locale, un Farinacci, o un Ricci o un Buffarini Guidi : con Mussolini la Repubbl ica di Salò po tè van ta re u n a cont inui tà e u n a legitt imità; c e r t amen te po tè anche oppors i con qualche efficacia a ta lune es t reme soperchierie dell 'occupante, e f rapporre un diaframma, sia p u r e debole , t ra l'ira tedesca e la popolazione civile. Tut to questo deve essere valutato: lo faremo. Un e lemento emer­ge comunque con molta chiarezza dalla cronaca degli avve­niment i : il protagonis ta della svolta, a p p u n t o Mussolini, lo fu controvoglia, pe r lo zelo soccorri tore di Hitler, pe r l'in­calzare dei fedelissimi, pe r una inerzia delle cose che supe­rava di gran lunga, ormai , la volontà fiaccata e le ambizioni dell 'idolo infranto.

Il p r ig ion ie ro e ra stato trasferi to dalla M a d d a l e n a a C a m p o I m p e r a t o r e , sul Gran Sasso, il 27 agosto. L'albergo in cui s'era deciso di alloggiarlo ospitava ancora, q u a n d o lo spos t amen to fu a t tua to , vil leggianti e mili tari in convale­scenza: lo s is temarono pe r t an to , d u r a n t e c inque giorni, in u n a villetta, m e n t r e si provvedeva a sgomberare la zona. Il 2 se t tembre Mussolini passò aììa. suite 201 del l 'a lbergo: in­gresso, soggiorno, due camere da Ietto e bagno. L'altopiano

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di Campo Impera to re è a oltre duemila metr i d'altezza, e vi si accedeva solo mediante una funicolare che partiva dal sot­tostante paesino di Assergi.

Agli ordini dell ' ispettore capo di pubblica sicurezza Giu­seppe Gueli fu disposta nell 'albergo, a t torno ad esso, e nella vallata, la sorveglianza stret ta e nu t r i ta di 250 carabinier i , che avrebbe dovuto impedi re ogni sorpresa. Tra l'altro una disposizione di Badogl io prescr iveva che in nessun caso Mussolini dovesse r i g u a d a g n a r e la libertà: il che sembrava autorizzare, in caso di emergenza , u n a esecuzione somma­ria. Ma l'8 set tembre, e il caos che ne era derivato, avevano prodot to i loro effetti sia a Roma sia al Gran Sasso. Un enig­matico r a d i o g r a m m a del Capo della polizia Carmine Seni-se, mezz 'ora p r i m a del colpo di m a n o di Skorzeny, racco­mandava all ' ispettore Gueli «massima prudenza», il che po­teva significare che delle drastiche istruzioni di Badoglio, ir­raggiungibile nella sua «capitale» di Brindisi, non si dovesse più tener conto.

Certo è che Gueli aveva dato ai suoi uomini istruzioni ab­bas tanza singolari . «Armi au toma t i che accan tona te nella cantina, chiuse nelle guaine e incappucciate, munizioni riu­nite, chiuse a chiave in una stanza (erano poche ma non cu­rai di d o m a n d a r n e altre); cani-poliziotto legati alla catena negli angoli mor t i del fabbricato.» A tu t to fanno p e n s a r e , queste disposizioni, t r anne che a u n a s t renua volontà di re­sistenza, anche se lo stesso Gueli aveva assicurato che Cam­po Impera to re era divenuto «un fortilizio inespugnabile».

Il t ra t tamento riservato a Mussolini era tut t 'al tro che ri­goroso. Privo di giornali, fu tuttavia autorizzato ad ascoltare la radio, ma non ne profittava sempre . Saltava a volte i bol­lettini pe rché «tanto d a n n o solo b ru t t e notizie». Teneva un diario molto particolareggiato, annotandovi anche le porta­te dei pasti, e leggeva Nietzsche. Si sentiva spettatore, e uscì dalla sua abulia solo q u a n d o seppe che secondo u n a radio s t ran ie ra e ra stata de l ibera ta la sua consegna agli anglo-americani. Annotò che «è stato costituito un governo

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nazionale fascista il quale ope ra in mio nome» e aggiunse : «La cosa mi ha lasciato del tu t to indifferente». Si è riferito anche di un tentativo di suicidio, tutt 'al tro che risoluto, con le lamette da barba, e della richiesta di una pistola al tenen­te dei carabinieri Faiola, pe r potersi togliere la vita nel caso l'avessero voluto consegnare al «nemico». Ma e rano i gesti e gli impulsi di un u o m o che desiderava, più d 'ogni altra co­sa, di poter raggiungere la Rocca delle Caminate, e là resta­re, se possibile, dimenticato e ignorato da tutti.

Non aveva fatto i conti con la frenetica volontà di Hitler, e con l 'audacia degli uomini cui era stato affidato il compito di scoprire la sua pr igione, e di s t rappar lo ad essa, ad ogni costo. Tre furono gli ideatori e realizzatori della missione; il generale Kurt Student , comandan te dei paracadutist i tede­schi nella zona di Roma, il maggiore Hans Mors, un ufficia­le di 33 ann i d 'or ig ine svizzera che comandava il 1° batta­glione del 7° reggimento nella 2 a divisione paracadutist i , e infine il capitano delle SS Otto Skorzeny, un nazista austria­co dal fisico imponen te e dal volto segnato dalla mensur.

Nei resoconti del p r imo momen to , e anche in molta sto­riografia successiva, Skorzeny s'è accapa r r a to il magg io r meri to del l ' impresa, perché a lui e rano spettate le pazienti r icerche di Mussolini d u r a n t e i 45 giorni di Badoglio, per­ché fu lui a r ipar t i re in volo dal Gran Sasso con il Duce met­t endone a repentagl io l ' incolumità, e infine pe r ché un suo libro di memorie , Missioni segrete, avallò una versione perso­nalistica dei fatti. Con dichiarazioni molto secche, Mors ha r id imens iona to i l ruo lo di ques to coraggioso «bravaccio»: «Non c'è dubb io che. . . que s t ' uomo compì un b u o n lavoro p r e p a r a t o r i o . A ciò c o m u n q u e si r iduce tu t ta la sua p a r t e p e r c h é , dal m o m e n t o in cui venn i convocato da S tuden t , l 'esecuzione del p iano era affidata a me. Il servizio segreto delle SS aveva esaurito il suo compito. Ora toccava ai para­cadutisti».

Mors stabilì che 12 alianti con un centinaio di uomin i a b o r d o si por tassero su C a m p o I m p e r a t o r e , vi a t te r rassero

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in un fazzoletto di t e r r a nelle immedia te vicinanze dell 'al­bergo, e che con temporaneamen te il grosso del battaglione raggiungesse con lui la vallata e la stazione inferiore della funicolare pe r coadiuvare l'azione del repar to piombato dal cielo. Il tenente von Berlepsch ebbe il comando dei paraca­dutisti aviotrasportat i . Skorzeny o t t enne di imbarcars i «in qualità di ospite» su u n o degli alianti, insieme ad alcuni ele­ment i delle SS. Fu comunque delle SS l'idea di associare al­la spedizione, volente o nolente , un ufficiale super iore ita­liano, cosicché i carabinieri di guardia , vedendolo, n o n osas­sero sparare. Lo scomodo ruolo toccò al generale Fernando Soleti che, convocato con un pretesto al l 'aeroporto di Prati­ca di Mare da dove gli alianti sarebbero decollati, fu spiccia-t ivamente informato del compito che gli spettava: e fu cac­ciato su un aliante accanto a Skorzeny ment re , secondo i ri­cordi di quest 'ul t imo, «il colore del suo viso diventa simile al grigioverde dell 'uniforme».

Dei dodici alianti, solo 9 giunsero felicemente alla meta: d u e si fracassarono contro il cra tere lasciato da u n a bomba sulla pista, u n o s'infranse in a t terraggio causando la mor te di tutti gli occupanti . Dai velivoli superstiti balzarono a ter­ra, a rmi in p u g n o , paracadutisti e SS. Fu det to che i carabi­nieri e rano stati colti del tutto di sorpresa, il che sembra in­verosimile data la lentezza di planata degli alianti, e la vigi­lanza che, anche pe r alcuni allarmi del matt ino - il colpo av­venne alle 14 esatte del 12 set tembre - era esercitata. Gueli faceva la pennichel la , e al t r ambus to si affacciò, n u d o , alla finestra della sua camera: si affacciò anche Mussolini e chie­se al suo custode, maresciallo Antichi: «Sono inglesi?». «No eccellenza, sono tedeschi.» «Questa n o n ci voleva propr io» fu la pr ima, significativa reazione di Mussolini.

L'operazione procedet te senza intoppi. Spingendo Soleti che gridava «non sparate» Skorzeny avanzò verso l 'albergo, m e n t r e Gueli stesso si sbracciava a far segno che nes suno mettesse mano alle armi. Un colonnello andò incontro ai te­deschi, e Skorzeny gli ingiunse di a r renders i e di consegna-

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re il Duce, lasciandogli un minuto pe r decidere. Per tutta ri­sposta il colonnello br indò, con un bicchiere di vino, «ai vin­citori». Una decina di minut i d o p o lo sbarco, Skorzeny po­teva irrigidirsi nel saluto militare davanti a un Mussolini più rassegnato che entusiasta dicendogli: «Duce, il mio F ù h r e r mi ha inviato da voi per liberarvi. Siete libero». Mussolini lo abbracciò. «Sapevo che i l mio amico Adolf Hi t ler n o n mi avrebbe abbandonato.»

Il suo amico Hit ler si p r e n d e v a cura di lui, f in t r o p p o . Mussolini avrebbe prefer i to res tare in Italia, ma gli ordin i del F ù h r e r e rano perentor i : i l Duce doveva essere t raspor­tato al più presto in Germania. Per evitare possibili - anche se ormai es t remamente improbabil i - interventi delle forze «badogliane», era stato deliberato che dal Gran Sasso Mus­solini raggiungesse Pratica di Mare con u n a «cicogna» pilo­tata da un aviatore di eccezionali capacità, il capitano Hein­rich Gerlach, che nel f ra t tempo aveva avuto l ' a rd imento e la capaci tà di a t t e r r a r e nel p r a t o davant i al l 'a lbergo. Un opera to re del cinegiornale tedesco, arrivato con gli uomini del maggiore Mors - che e r ano saliti con la funivia - volle r i p r ende re la scena, e il liberato commentò docilmente: «Fa­te di me ciò che volete».

La «cicogna» era un piccolo biposto, e il decollo da Cam­po Impera to re con il pilota e un passeggero presentava già difficoltà e n o r m i . Ma a ques to p u n t o Skorzeny s ' impose, non voleva consentire che la storia di quella liberazione fos­se nar ra ta senza di lui, e in modo diverso da come lui la vo­leva descrivere. Pretese di issarsi sull 'aereo, benché Heinri­ch Gerlach tentasse di dissuaderlo. «Furono le insegne delle SS - ha scritto giustamente Arr igo Petacco - che indussero tutti ad accontentare quel l 'omone il cui peso avrebbe potu­to compromet te re tutto.» Skorzeny si accomodò alla meglio d ie t ro Mussolini, carabinieri e paracadut is t i t r a t t ennero la «cicogna» - un po ' il sistema usato sulle por taere i - men t r e Ger lach forzava il m o t o r e al mass imo, poi l ' apparecch io prese velocità, si tuffò quasi nella valle, infine assunse un as-

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setto normale . Gerlach ce l'aveva fatta, d o p o poche decine di minut i la «cicogna» era a Pratica di Mare, e la sera stessa un t r imotore che l 'at tendeva deposi tò il l iberato-ostaggio a Vienna.

Hitler in persona telefonò a Skorzeny pe r ringraziarlo, e dispose che fosse insignito seduta stante delle insegne di Ca­valiere della Croce di ferro. Telefonò anche al Duce, che si disse s tanco, mala to , e bisognoso sopra t tu t to di un l ungo sonno. Si but tò vestito su un letto, e do rmì p rofondamente . Gòbbels scrisse nel suo diario. «Vedremo se è ancora capace di un'attività politica su larga scala. Il Fùh re r lo pensa».

Il 13 set tembre Mussolini fu trasferito a Monaco dove lo at­tendevano la moglie e i figli minori . Si t ra t tenne con d o n n a Rachele, ascoltando i notiziari fascisti. Non è chiaro se vide subito Ciano, egli p u r e a Monaco . N o n gli fu c o m u n q u e concesso molto t empo per rilassarsi: i l g iorno dopo dovette rimettersi in viaggio pe r raggiungere a Rastenburg la «tana del lupo», il Ouar t ie r generale di Hitler. Lì si t rovavano già alcuni gera rch i fascisti: Farinacci, il ras di C r e m o n a , Ales­sandro Pavolini, già minis t ro della Cu l tu ra Popolare e poi d i re t tore del Messaggero, Renato Ricci, già capo delle orga­nizzazioni giovanili fasciste e ministro delle Corporazioni , e infine Giovanni Preziosi, antisemita fanatico, da Mussolini stesso definito «un essere repuls ivo, vera f igura di p r e t e spretato». Ad essi deve essere aggiunto Vittorio Mussolini, il p r imogen i to del Duce. Quest i oltranzisti del r eg ime , assai diversi pe r estrazione, cul tura e influenza, e rano in Germa­nia p r i m a del l '8 se t t embre , e n o n a p p e n a fu p roc l ama to l 'armistizio o rgan izza rono , dal t r e n o speciale di Hi t ler in Prussia or ienta le , t rasmissioni rad io con le quali facevano appello ai fedelissimi. In mancanza di meglio, i tedeschi vi­dero in loro il nucleo a t torno al quale sarebbe stato possibi­le r icost i tuire un gove rno fascista e u n a milizia capace di «garantire la sicurezza delle t r u p p e tedesche che combatto­no in Italia». Ma Gòbbels n o n si azzardava a pubblicare i no-

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mi dei c o m p o n e n t i di ques to r ina to gove rno fascista «che d o r m o n o a t tualmente sul pavimento , al Quar t ie r generale», pe rché «sono t roppo poco importanti».

A Ras tenburg , il redivivo Mussolini dovet te d u n q u e af­frontare, in breve successione, Hitler e il g ruppe t to degli ir­riducibili: l 'uno e gli altri risoluti a fare di lui lo s t rumento p e r la nascita e la crescita del l 'u l t imo fascismo. L'incontro tra i d u e dittatori, ent rambi , sia p u r e in m o d o molto diver­so, avviati alla fine, d u r ò d u e ore. Si e rano salutati con gran­de effusione, «un esempio di fedeltà tra uomini e camerati che ha p ro fondamente commosso», scrisse Gòbbels. Musso­lini e ra disorientato, e male informato, tanto che accingen­dosi al colloquio aveva preso frettolosamente appunt i spul­c iando giornali e documen t i . Q u a n t o a Hitler, conservava pe r i l camera ta italiano un profondo affetto personale, che tuttavia non faceva velo ai suoi ultimi lampi di avidità politi­ca. P ropr io quel 13 se t tembre aveva firmato un decreto in base al quale il Trent ino passava alle d ipendenze del Gaulei-ter del Tirolo, Hofer, e la Venezia Giulia, con Trieste, oltre a u n a pa r t e del Veneto, veniva assoggettata al Gauleiter della Carinzia, Rainer. Questo sottofondo delle intenzioni naziste si rispecchiava in una osservazione di Gòbbels: «Per quanto io sia commosso dal lato u m a n o della liberazione del Duce, sono tuttavia scettico pe r quan to r igua rda i vantaggi politi­ci. Finché il Duce e ra fuori scena, po tevamo avere le man i libere in Italia. A me sembrava che, oltre al Tirolo meridio­nale, il nostro confine avrebbe dovuto includere le Venezie. Ciò sarà difficilissimo nel caso che il Duce r ientr i nella vita politica».

Lasciato Hitler, Mussolini incont rò i gerarchi in una sa­letta del Bunker, e par lò loro in m o d o tale da far capire che «si considerava ormai fuori dalla part i ta o a lmeno desidera­va restarvi». Pavolini gli si rivolse in termini netti: «Il gover­no provvisorio nazionale fascista a t t ende la ratifica del suo Capo natura le : solo d o p o si p u ò annunc ia re la composizio­ne del governo». La mat t ina dopo , Hit ler e Mussolini s'in-

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t r a t t enne ro ancora , e il tedesco ebbe qualche osservazione agra: «Ma cos'era questo fascismo che si è dissolto come ne­ve al sole? Per anni ho garanti to ai miei generali che il fasci­smo era l'alleanza più sicura pe r il popolo tedesco. Non ave­te mai voluto d a r re t ta alla mia diffidenza verso la monar ­chia... Vi confesso che noi tedeschi non abbiamo mai capito il vostro at teggiamento in questa materia». Quind i Mussoli­ni tornò a Monaco, e da Roma (15 settembre) fu annuncia to che «Benito Mussolini ha r ipreso oggi la suprema direzione del fascismo in Italia», che Pavolini era il segretario «provvi­sorio» del Partito fascista repubblicano, che la Milizia era ri­costituita sotto il comando di Renato Ricci, che i funzionari pubblici dovevano r i p r ende re i loro posti e che infine gli uf­ficial i delle Forze Armate e rano liberati dal g iu ramento pre­stato al Re.

Per Mussolini era stata allestita una residenza nel castello di Hirschberg, nella foresta bavarese. Un telefono militare tedesco lo collegava con Rastenburg e con Roma, non aveva una segretaria tanto che il ministro Anfuso - che, lasciata la legazione di Budapes t , l 'aveva r agg iun to - assunse le fun­zioni di «usciere, segretario e telefonista». In Baviera accor­se anche Buffarmi Guidi, piccolo e adiposo Fouché del vec­chio e del nuovo fascismo.

La sera del 18 set tembre la radio fece ud i re agli italiani, d o p o un lungo silenzio, quella inconfondibile voce, appan ­na ta da l l ' abba t t imento e dalle frustrazioni . Un discorso piuttosto lungo, fatto di considerazioni e di rievocazioni più che di slogans. Il t r i b u n o aveva p e r s o il piglio imper ioso d 'un tempo, spiegava e recriminava. «Camicie nere , italiani e italiane - disse - ... ho tardato qualche giorno p r ima di in­dirizzarmi a voi perché dopo un per iodo di isolamento mo­rale e ra necessar io che r ip rendess i conta t to col mondo .» Rievocò il 25 luglio, affermando che «è già accaduto in pace e in gue r ra che un ministro sia dimissionato, un comandan­te silurato, ma è un fatto unico nella storia che un u o m o il quale, come colui che vi parla, aveva pe r ventun anni servi-

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to il Re con assoluta, dico assoluta lealtà, sia fatto ar res tare sulla soglia della casa pr iva ta del Re, costre t to a salire su un 'au toambulanza della Croce Rossa col pretesto di sottrar­lo a un complot to , condot to a velocità pazza p r ima in una , poi in altra caserma dei carabinieri». Rese omaggio all 'ami­cizia tedesca, spiegò che «nella notte dall '11 al 12 set tembre feci sapere che i nemici mai mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani» . Si scagliò qu ind i con t ro i Savoia che avevano «voluto p repa ra to ed organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, complici ta luni genera l i imbelli ed imboscati e ta luni invigliacchiti elementi del fascismo». E concluse, sul l 'argomento: «Quan­do u n a monarch ia manca a quelli che sono i suoi compit i , essa p e r d e ogni ragione di vita».

Enunciò quindi i qua t t ro p u n t i sui quali si sarebbe fon­data l'attività dello Stato che egli intendeva ins taurare e che «sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini». 1) R iprendere le armi al fianco della Germania , del Giappone e degli altri al­leati; 2) P r e p a r a r e la r iorganizzazione delle Forze Arma te a t torno alle formazioni della Milizia; 3) Eliminare i t raditori e in par t icolare m o d o quelli che fino alle o re 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni , nelle fi le del par­tito e sono passati nelle file del nemico; 4) Annientare le plu­tocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il sogget­to dell 'economia e la base infrangibile dello Stato. L'accenno ai traditori del Gran Consiglio preannunciava il peggio; ma Ciano vide t re volte, in quei giorni, il suocero, che gli d iede assicurazioni quasi affettuose, e promise di par la r coi tede­schi pe r chiarire la sua (di Ciano) posizione. Gòbbels schiu­mava di rabbia pe r l ' indulgenza di Mussolini. «Edda - scri­veva - è riuscita a mu ta re radicalmente l 'opinione del Duce r i g u a r d o a Ciano» che «è r i en t r a to nelle b u o n e grazie del Duce.»

Sempre svogliato, ma ormai non più r i lut tante, Mussoli­ni dovet te par tec ipare , con lunghe comunicazioni telefoni-

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che dal castello di HLrschberg, al complesso lavorìo pe r la formazione di un governo fascista. Gli aspiranti agli incari­chi di maggior spicco si pe rdevano in beghe stizzose e futili, e per altri incarichi era impossibile trovare candidati decen­ti. In particolare era necessario attr ibuire a un uomo di p re­stigio il Ministero della Guer ra , e colui che sarebbe stato più gradito ai tedeschi, il maresciallo Cavallero, si era o era sta­to suicidato.

Ques ta t r a m a t r i ango la re - Ras t enburg , Hi rschberg , l 'ambasciata tedesca a Roma - vide alla ribalta, per par te te­desca, d u e pe r sonagg i che nella vita della Repubbl ica di Salò av rebbe ro avu to u n a pa r t e d i p r imiss imo p iano : Ru­do lph Rahn, ambasciatore presso Mussolini - in effetti un plenipotenziar io in paese occupato - e il generale delle SS Karl Wolff. Albert Kesselring, comandan te militare - dopo il progress ivo dis interesse pe r gli affari italiani del m a r e ­sciallo Rommel, che era a capo del g r u p p o armate B e come tale ebbe temporanea giurisdizione sull'Italia settentrionale -era il terzo componen te del tr iumvirato tedesco. Ma di Kes­selr ing già e r a n o no te sia le capacità mili tari - che nella campagna d'Italia ebbero s t raordinaria dimostrazione - sia l ' a t taccamento al naz ismo, sia, pe r a l t ro verso, u n a cer ta malleabilità nei rappor t i con il paese «traditore». In contra­sto con Rommel , che voleva l ' immediato abbandono di Ro­ma, egli decise di cont ras ta re gli Alleati al sud, e i risultati che o t tenne gli d iedero ragione.

Rahn era un diplomatico d i carr iera , quaran tac inquen­ne : aveva col laborato , a l l 'ambasciata di Parigi , con Ot to Abetz, p roconso le di Hi t ler in Francia, ed aveva d u n q u e lunga prat ica di r appor t i con governi vassalli. Luigi Bolla, un diplomatico italiano che servi a Salò, ne ha lasciato que­sta descr iz ione: «Colto, in te l l igente , versati le, con larga esperienza di uomini , non corr ispondeva affatto allo stereo­tipo del tedesco e tanto meno a quello del Gauleiter, p u r es­sendo capace di pesanti durezze. Sensibile a spunti culturali e a richiami storici, r a ramen te si trincerava dietro ordini su-

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per ior i , ma a l t re t tanto r a r a m e n t e assumeva u n a posizione che desse qualche affidamento». D'accordo con Hitler, Rahn aveva stabilito che il governo fascista, comunque e da chiun­que fosse composto, non sarebbe tornato a Roma.

Wolff e ra un ufficiale delle SS del t ipo buroc ra t i co p iù che del t ipo fanatico o sadico. Diresse la polizia nazista in Italia con efficienza distaccata e con l'occhio volto alle p ro ­spettive future. L'Italia poteva essere, come ha scritto Bocca nella sua Storia dell'Italia partigiana, «il paese dove si p u ò t ra t tare con la Chiesa, e at traverso la Chiesa con gli Alleati. E così p r o p r i o il r app re sen t an t e della spietata repress ione poliziesca sarà fra gli iniziatori del doppio gioco». Più volte Wolff nella sua ca r r i e ra aveva avuto occasione di vede re Mussolini: aveva assicurato i servizi di sicurezza pe r le visite del Duce in Germania , e aveva accompagnato Hitler in Ita­lia nel '38 e nel '40.

La lista dei ministri e ra stata compilata - con la collabo­razione di Pavolini, che già s'era precipi ta to a Roma a ria­pr i re gli uffici del Partito a Palazzo Wedekind - tra «lamen­tevoli incer tezze e incoerenze» secondo un 'espress ione di R a h n in un t e l eg ramma a Ber l ino. Gu ido Buffarmi Guidi ebbe gli Interni , Fernando Mezzasoma la Cul tura Popolare, il che ne faceva il responsabile della p ropaganda , Domenico Pellegrini Giampie t ro , un b u o n tecnico, le Finanze, Carlo Alberto Biggini, un g a l a n t u o m o , l 'Educazione Nazionale , d u e ufficiali di secondo piano, l 'ammiraglio Legnani e il ge­nerale Botto, la Marina e l 'Aeronautica. Sottosegretario alla p res idenza (tralasciamo alcuni dicasteri di m ino re rilievo, affidati a uomini che ne avevano ancor meno) fu il p lur ide­corato Francesco Maria Barracu. Non s'era trovato un tito­lare a d e g u a t o p e r gli Esteri , anche pe r ché Anfuso l 'unico t ra i «grandi» di Palazzo Chigi che si fosse schierato con Mussolini, era stato destinato alla vitale ambasciata di Berli­no . Mussolini fu d u n q u e il t i tolare degli Esteri , la cui re ­sponsabilità effettiva toccò a Serafino Mazzolini, un marchi­giano c inquantenne e scapolo che era approda to alla carrie-

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ra d ip lomat ica dalle fi le del Part i to nazionalis ta , grazie a u n a legge speciale del 1928, e che era diventato un efficien­te funzionario. Mazzolini, nella estate del '42 indicato come amminis t ra tore civile dell 'Egitto, qualora le a rmate italo-te-desche l'avessero conquistato, era un modera to di b u o n sen­so, cui sarebbe toccato il compi to di scontrarsi con Rahn e di pro teggere , o tentar di pro teggere , i 600 mila soldati ita­liani internati in Germania .

Restava il p r o b l e m a del min is te ro chiave, la G u e r r a , e alla fine fascisti e tedeschi si risolsero quasi pe r disperazio­ne , a offrirne la po l t rona ai maresciallo Graziani, che negli ul t imi t empi del reg ime era cadu to in disgrazia e faceva il Cincinnato nella sua t enu ta in Ciociaria. P ropr io lì lo rag­giunse i l 22 se t tembre Bar racu , la tore di un messaggio di Mussolini. Graziani rifiutò l'offerta. Ma q u a n d o Barracu gli disse che «il vostro rifiuto po t r ebbe essere giudicato pau ­ra», cedette. Era scattata in lui una duplice molla psicologi­ca: voleva d imost rare di n o n essere - come da t empo si an­dava r i pe t endo , d o p o la miserevole azione di c o m a n d o in Libia - un pav ido e un incapace , e voleva o p p o r r e la sua coerenza cristallina al « t radimento» del l 'odia to rivale Ba­dogl io . Si recò ne l l ' ambasc ia ta tedesca dove R a h n gli ri­cordò che «l'Italia è stata dichiarata te r ra di p r e d a bellica» e che se nessun u o m o di prestigio avesse accettato di riscat­ta rne l 'onore la sua sorte sarebbe stata simile a quella della Polonia. Tr ionfa lmente , nel p o m e r i g g i o , R a h n po tè tele­grafare a Ber l ino che «l 'operazione è avvenu ta secondo i piani» e che «solo io sono stato capace di p e r s u a d e r e Gra­ziani a en t ra re nel Governo un minuto p r ima della pubbli­cazione del comunicato».

Mussolini avallò la sera stessa la lista completa, e il 23 set­t embre volò da Monaco a Forlì per t rascorrere un ulteriore p e r i o d o di riflessione alla Rocca delle Camina te . Lì, il 27 set tembre, fu convocato il p r imo Consiglio dei ministri nel corso del quale Mussolini affermò che la mat t ina del 25 lu­glio «il t r icolore sventolava ancora a Rodi, a T i rana , a Lu-

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biana, a Spalato, in Corsica, nel Varo», e che due mesi dopo «il nemico occupa un terzo del terri torio nazionale e tutte le nos t re posizioni fuori dal t e r r i to r io naz ionale sono state sgombrate». Era necessario anzi tut to, aggiunse , «dare cor­diale e pratica collaborazione alle autor i tà tedesche», orga­nizzare un nuovo sforzo militare e «preparare la Costituzio­ne che dovrà consacra re i l p r o g r a m m a del Par t i to con la creazione dello Stato fascista repubblicano».

Occorreva stabilire la sede del governo di quella che, do­po un paio di r ipensament i , fu def ini t ivamente battezzata Repubbl ica Sociale I ta l iana. Mussolini voleva Roma, ma i tedeschi su ques to fu rono in t rans igen t i : n o n ci pensasse n e p p u r e . Fu presa in considerazione Belluno, affinché i mi­nistr i vassalli fossero vicino al Q u a r t i e r gene ra l e di Rom­mel, ma Mussolini cont ropropose Merano o Bolzano, il che avrebbe riacceso la quest ione dell'Alto Adige. Finalmente i tedeschi si o r i en t a rono verso la zona del Garda , con il de­cen t ramento dei ministeri in località anche lontane. Un co­municato annunc iò che «come risultato della dichiarazione di Roma città aperta, il governo fisserà la sua sede in un'al­tra località vicina al Quar t ie r generale delle Forze Armate». Fino all 'ultimo c o m u n q u e i fascisti furono tenut i all 'oscuro del definitivo responso tedesco, tanto che il c inque ot tobre Mussolini dichiarava al suo n u o v o segretar io persona le , i l prefe t to Giovanni Dolfin, che «domani o d o p o d o m a n i mi trasferirò nella località prescelta... Ignoro fino a questo mo­m e n t o dove sia ubicata, è c o m u n q u e sulla sponda occiden­tale del Garda». Il 10 ottobre si installò nella Villa Feltrinelli di Gargnano . Gli Esteri e la Cul tu ra Popolare furono siste­mat i a Salò, la Pres idenza del Consiglio a Bogliaco, gli In­terni e il Partito a Maderno , l 'Economia a Verona, l'Agricol­tu ra a Treviso, l 'Educazione Nazionale a Padova, i Lavor i Pubblici a Venezia, i dicasteri militari a C r e m o n a , Monza, Asolo, Iseo, Milano, Montecchio, Vicenza, la Giustizia a Bre­scia, i n somma era u n a galassia di centr i di po te re che n o n avevano potere , e che e rano pe r lo più nella impossibilità di

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comunicare t ra loro. Intensificandosi i b o m b a r d a m e n t i al­leati, e p e g g i o r a n d o le condizioni dell ' I tal ia, accadde che un ministro dovesse affrontare u n o o due giorni di viaggio per andare in udienza da Mussolini, e riferirgli. Il centro di questo universo incoerente era la Villa Feltrinelli, «arredata modes tamente , quasi volgarmente - nel r icordo di un testi­mone che la frequentò allora - piccoli corridoi, grandi stan­ze disadorne, aria di sala d 'aspetto presso un medico di p ro ­vincia». Lì era r intanato, r if iutando quelle attività fisiche di cui un t empo si compiaceva, il Duce che - sempre secondo 10 stesso testimone - fisicamente appariva ristabilito dopo il t r a u m a della desti tuzione e della prigionia ma «le mani so­no piccole e vizze e lo sguardo rivela la presenza costante di u n o strazio intimo, malgrado che talvolta i suoi occhi spriz­zino ancora delle scintille».

Villa Feltrinelli era vigilata da 30 SS della guardia perso­nale di Hi t ler - solo p iù ta rd i un r e p a r t o i taliano po tè af­fiancarsi ai tedeschi - e un pezzo antiaereo era stato installa­to sul tetto. Almeno in un p r imo m o m e n t o l 'unico collega­mento con l 'esterno era assicurato da un telefono da campo sotto sorveglianza tedesca, e contrassegnato dal nome in co­dice Batavia. Con l 'assestamento della organizzazione gli uf­fici del Duce furono installati nella Villa delle Orsol ine , a 600 metr i di distanza, e a Villa Feltrinelli r imase la sua resi­denza privata.

I veri p a d r o n i , i tedeschi , e r a n o apposta t i nei d in torn i , t r anne Kesselring che aveva man tenu to il Quar t ie r genera­le a Frascati. Rahn e l 'ambasciata e rano nella Villa Bassetti a Fasano, Wolff e i suoi accoliti a Gardone (successivamente a Desenzano), i servizi di sicurezza a Verona, il plenipotenzia­rio mili tare genera le Toussaint nei pressi di Verona. Rom­mel restò a Bel luno fino a q u a n d o , in novembre , to rnò in Germania , il che segnò il passaggio di tutti i poteri militari a Kesselring. Il colonnello Jand l , ufficiale di collegamento, fu addet to alla persona di Mussolini ed era, in questo incarico,

11 p iù elevato in g rado . A lui dobb iamo un resoconto della

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routine di Mussolini, presto n o n molto dissimile, negli orari , da quella ch'egli seguiva a Palazzo Venezia: «Va regolarmen­te in ufficio alle 8,45 e riceve i visitatori fino alle 2-2,30. Fa u n a breve pausa di circa mezz 'ora a mezzogiorno e nel po­meriggio cont inua a lavorare di solito fino alle 9. Spesso la­vora di notte pe r conto p ropr io . Recentemente ha lavorato fino alle 6 del matt ino. Capita sovente che si ritiri p r ima di mezzanotte, si alzi alle 4, faccia un po ' di lavoro fino alle 5, e d o r m a ancora un po'». Una giornata intensa e insieme vuo­ta. Il Duce riceveva, esortava, scriveva, emanava ordini , ma tu t to ques to mancava di r i sonanza e di r i spondenza . Tra­scorreva ore oziose, a fissare il m u r o , o in let ture vagamente filosofiche. Come gli era accaduto in tutta la vita, non aveva amici e n o n ne cercava. Era finito e lo sapeva. Unica vera passione e interesse, gli e ra r imasto il g iornal ismo. La sua scrittura era sempre diretta, efficace, polemica.

At torno a lui brul icavano ancora passioni e interessi. Se Dolfin, prefetto e console della Milizia, era il segretario uffi­ciale, il figlio Vittorio istituì presto un dopp ione anomalo di segreteria affollata di sportivi - che e rano i suoi compagno­ni abituali - e di parent i ; tra essi il figlio di Arnaldo, Vito, e il cognato Vanni Teodorani . Di Vittorio Mussolini il già cita­to diplomatico Bolla scrisse, in un suo diario, che «è u n o dei p iù grossi beceri che esistano sulla faccia della terra» e che «ne combina di tutti i colori, in pa r t e pe r virtù p ropr i a , in p a r t e p e r sp in ta del suo segui to di atleti e pugi la tor i , ex compagn i di palestra». (Ma delle d u e , l 'una: o il r i tratt ista ha calcato la mano , o il r i trat tato, con l 'esperienza, maturò.)

Era così nata la Repubblica di Salò. Ma la sua capitale - o meglio l 'arcipelago delle sue capitali - non ne in terpre tava esa t tamente né la sostanza né l 'anima. Anzi le an ime , per­ché in questa estrema versione del fascismo confluirono cin­que filoni fondamentali . V ' e rano i fanatici, mossi da u n a fe­de fascista cieca e da un odio violento pe r i badogliani , che cercavano più la vendet ta che la rivincita ben sapendo - al­meno gli intelligenti - che la rivincita era un sogno irrealiz-

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zabile. Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uo­mini che , come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cul tura. V 'e ra in loro u n a sorta di ansia di distruzione e di autodis t ruzione, di p ropens ione al sangue e di aspirazione all'olocausto. E strano che alla schiera degli irriducibili vota­ti alla mor te abbiano finito per aggregarsi individui che non avevano alcun motivo razionale pe r farlo, un ex comunista come Nicola Bombacci e un ex perseguitato come Carlo Sil­vestri. I fanatici c redevano al fascismo r igenera to anche se soccombente , purif icato p r ima della f ine da un lavacro di sangue, dei nemici e suo.

Poi v 'erano i servi o manutengol i dei tedeschi, alla Buffa­rmi Guidi (e via via s cendendo lungo la scala gerarchica e u m a n a ) , che si p r e s t avano ai bassi servizi de l l ' occupan te , tessevano i lo ro in t r ighi , e s p r i m e v a n o la loro abbiezione, avidi del briciolo di potere e delle ricchezze che in quel mo­m e n t o potevano accaparrarsi , i l ludendosi di po te r nel l 'ora u l t ima sfuggire, con chissà quale s t r a t a g e m m a e c o m p r o ­messo, alle rappresagl ie . Sia a t to rno ai fanatici, sia a t to rno ai reggicoda dei nazisti , s i a g g r u m ò fisiologicamente u n a cor te dei miracoli di spie professionali , di t o r t u r a to r i p e r vocazione, di sadici, di sgherr i ignobili, di avventur ier i , di del inquent i cui era stata concessa licenza di uccidere.

Terzo: i benintenzionat i , politici, intellettuali, professori che espr imevano la ribellione al voltafaccia di Badoglio più che l 'adesione al tedesco e al peggiore fascismo, come il filo­sofo Giovanni Gent i le , il futuris ta Mar ine t t i , il p i t to re e scrittore Ardengo Soffici, i giornalisti Ojetti, Barzini senior, Pettinato, Amicucci, qualche insigne cattedratico come Gio­vanni Brugi , titolare della cat tedra di anatomia all 'Univer­sità di Siena.

Quar to : i militari - spesso più degni , nelle motivazioni e nelle reazioni, dei generali dai quali era stato affollato il mo­lo di Or tona a Mare d u r a n t e la fuga del Re e di Badoglio -che non accettavano né la sconfitta né il t r ad imento dell'al­leato. Avevano il loro capofila in Graziani, pera l t ro esempla-

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re spurio perché la sua conversione a Salò era stata esitante e quasi estorta, e il loro u o m o più r appresen ta t ivo nel co­m a n d a n t e J u n i o Valerio Borghese.

V ' e r a n o infine fascisti di secondo p iano e burocra t i che pe r cont ingenze occasionali, p e r ragioni personal i , magar i per debolezza o pe r m o m e n t a n e a comodità, nei casi miglio­ri pe r la convinzione di riuscire a mit igare le cont romisure tedesche, accet tarono la «Repubblica Sociale» spesso senza capire cosa essa fosse e sopra t tu t to cosa sarebbe diventata. Questa schematizzazione è, a p p u n t o perché tale, incomple­ta. In quel crogiuolo che fu il fascismo di Salò è possibile in­d iv iduare altri spunt i e fermenti . Ma senza dubbio le cate­gorie elencate furono le più evidenti.

Nei giorni che Mussolini aveva trascorso in Germania e alla Rocca delle Caminate le federazioni fasciste si e rano ria­per te un po ' dovunque pe r iniziativa di e lementi disparati . F u r o n o r iesumat i i nomi dei vecchi repar t i , alcuni prefetti dovet tero fare, con le buone o con le cattive, le valigie. Rie­mer se ro da anni di oscurità, carichi di r ancore , squadris t i della p r ima ora che il fascismo legalitario degli anni Trenta aveva emarginato. Tra questi uomini emergent i meri ta una citazione par t icolare , p e r la du rezza con cui si impossessò - assenzienti i tedeschi , è ovvio - delle leve di c o m a n d o , o a l m e n o di quel le poche leve di c o m a n d o che l 'occupante concedeva ai suoi servi, Piero Cosmin, inviato a Verona ca­sualmente la vigilia dell '8 set tembre con un incarico ammi­nistrativo. I l Cosmin, g r a n d e invalido della g u e r r a di Spa­gna, superdecora to , tubercolotico all 'ultimo stadio, d ivenne il ras di Verona, a stretto contatto con i più alti comandant i tedeschi. La sua influenza decise o a lmeno accelerò la sorte dei condannat i del Gran Consiglio.

A Bologna le file del r isorgente fascismo si r a d u n a r o n o a t torno a Giorgio Pini, d ivenuto diret tore del Resto del Carli­no, e al re t tore dell 'Università Goffredo Coppola; a Milano a t torno al cieco di gue r ra Carlo Borsani. Ma la Toscana eb­be un ruolo p r e m i n e n t e nella rinascita fascista, con Pavoli-

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ni, Buffarini Guidi e Ricci. Alcuni tra i p romotor i della «ri­generazione» del part i to credevano in una politica di unio­ne nazionale e di «dimentichiamo le divisioni del passato», ma Pavolini p r e m e v a in senso oppos to , e o t t e n n e poi che Mezzasoma desse disposizione ai quotidiani affinché fossero evitati «gli appelli pe r la pacificazione delle ment i e la con­cordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani».

Il revival fascista non procacciò alcuna delle massime ca­riche a colui che, per il suo passato, per i suoi «meriti» ante e dopo la Marcia su Roma, e per la fedeltà ai tedeschi, sem­brava il più qualificato ad averne: Rober to Farinacci. Que­sto instancabile seccatore non riuscì a vincere l'ostilità che il Duce covava da s e m p r e con t ro di lui, e che n e p p u r e le drammat iche contingenze politiche del momen to gli faceva­no supe ra re . U n a let tera del 21 se t tembre '43 a Mussolini ancora in Germania attesta la frustrazione e l'ira del gerar­ca: «Questa notte ho profondamente meditato su tutto e ho deciso la mia linea di condotta: salvare soltanto la mia fami­glia dalla inevitabile catastrofe. Sì, caro presidente , i tuoi ul­timi or ientament i non lasciano alcuna speranza nei tuoi vec­chi fedeli camerat i» . Q u i n d i Farinacci t o r n ò a C r e m o n a , scortato e protet to dai tedeschi, r iprese le pubblicazioni del suo quot idiano II Regime fascista con un articolo, «Eccomi di ritorno», sostenne sempre le tesi dell 'occupante, e si affannò a dimostrare di n o n avere accumulato profitti illeciti.

Ins i eme alle organizzazioni fasciste, che a Palazzo We-dekind facevano solo nominalmente capo, e che e rano tante repubbl iche t te nella repubbl ichina , proliferò u n a mir iade di corpi a rmat i a u t o n o m i e spesso concor ren t i : la Decima Mas di Borghese, i battaglioni (di paracadutist i e bersaglie­ri) che ufficiali «puri e duri» costituivano qua e là at t ingen­do alle file degli in ternat i in Germania o rec lu tando gente con l'assistenza del tedesco, la Legione Muti di Colombo (un sergente proclamatosi colonnello) a Milano, le SS Italiane, e poi le polizie private, predatr ici o torturatrici, o l 'una e l'al­tra cosa insieme. La Repubblica e il caos.

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CAPITOLO TERZO

NASCE LA RESISTENZA

Il Comita to di Liberazione Nazionale (CLN) fu costituito a Roma, in un alloggio di via Adda, alle 14,30 del 9 settembre 1943. Esso nacque da u n a r iunione del «Comitato delle op­posizioni» cui par teciparono l ' indipendente Ivanoe Bonomi, il democristiano Alcide De Gasperi, il liberale Alessandro Ca­sati, il socialista Pietro Nenni , il comunista Mauro Scoccimar-ro , infine Ugo La Malfa del Partito d 'azione. I present i ap­p rova rono u n a dichiarazione che diceva: «Nel m o m e n t o in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo al­leato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale pe r chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e p e r r iconquis ta re all 'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Non fu inserita nel testo la d ichiarazione an t imonarch ica che La Malfa avrebbe voluta e che non andava a genio né a Bonomi, né a Casati, e in definitiva n e m m e n o a De Gasperi . Al Comitato aderì poi Meuccio Ruini (Democrazia del lavoro).

Quest 'u l t ima formazione politica aveva caratteri blanda­mente socialdemocratici, men t r e il Partito d'azione si pone­va su posizioni di intransigente moral ismo e chiedeva «l'in­staurazione di un regime repubblicano, la nazionalizzazione di tutti i g randi complessi finanziari assicurativi e industria­li p e r rec idere alle sue radici ogni po tenza reazionaria del g r ande capitale, la restituzione alla collettività di tutte le ric­chezze indebi tamente ad essa sottratte con la complicità del fascismo». Liberali , socialisti e comunis t i a p p r o d a v a n o al CLN con le loro ben definite ideologie - anche se in campo socialista si scontravano, secondo tradizione, i massimalisti e

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i riformisti - e i democrist iani vi por tavano l 'eredita del Par­tito popo la re arricchita dalle spinte sociali di un neoguelfi-smo populista. Sul p rob lema istituzionale la DC era il part i to più lacera to: monarch ic i e repubbl ican i vi convivevano, e De Gasperi esortava infatti ad accantonarlo, quel problema, fino a dopo la guer ra .

Al CLN Bonomi r ivendicò il dir i t to d 'essere cons idera to «l'unica organizzazione capace di assicurare la vita del pae­se». Gran ga lan tuomo, ma un po ' p ropenso ad enfatizzare, B o n o m i aveva azzarda to , così d i cendo , u n a affermazione p r e s u n t u o s a . I l CLN n o n po tè , nella fase d'avvio della sua esistenza (e in verità n e m m e n o nelle successive) assicurare nulla: e non fu, a lmeno inizialmente, l 'elemento propulsore dei p r imi nuclei ed episodi di r ibel l ione alla dominaz ione nazista e alla rinascita fascista, che si svi lupparono pe r ger­minazione spontanea. E sintomatico che, spentisi i combat­t iment i impegna t i dalle t r u p p e della difesa di Roma e da cittadini animosi - tra essi Sandro Pertini - a Porta San Pao­lo, Roma e l 'area circostante abbiano mancato di veri e pro­pr i fatti d ' a rme contro l 'occupante, attaccato da «comman­dos» pe r il sabotaggio e il te r ror ismo: quei fatti d ' a rme che si sv i lupparono invece al sud, in cont igui tà della l inea del fronte, o al nord . Due tipi diversi di Resistenza, originati da circostanze molto dissimili.

Al sud la popolazione insorse contro i tedeschi in ritirata che, r i p i e g a n d o passo passo sotto l ' incalzare degli anglo­americani - bloccati poi a Cassino - compivano le loro ulti­me vendet te e distruzioni. Non p r i m a in o rd ine di t empo , ma più i m p o r t a n t e delle a l t re , fu la rivolta di Napol i , che Hit ler avrebbe voluto divenisse «fango e cenere» e che era stata sottoposta agli o rd in i del colonnello H ans Scholl, un pruss iano d u r o . Costui aveva fatto sapere , il 12 se t tembre , che «chiunque agisca a p e r t a m e n t e o subdolamente cont ro le Forze Arma te g e r m a n i c h e ve r rà passato p e r le armi» e che «il luogo del fatto e i d in to rn i immediat i del nascondi­glio del l 'autore ve r r anno distrutti e r idotti in rovine». A ri-

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morchie, del tedesco, si fecero vivi anche i fascisti e un n o n meglio identificato Ti lena esortò il 24 set tembre i napoleta­ni a «tutto osare» pe r difendere «la regina del Medi ter raneo che le forze plutocratiche c redono di avere in loro assoluto e definitivo dominio».

Scholl e m a n ò i l 22 s e t t embre un b a n d o p e r i l servizio obbligatorio del lavoro, r i gua rdan te tutt i gli uomini dai 18 ai 33 anni : su t rentamila «precettati» solo 150 r isposero al­l 'appel lo . Del resto gli anglo-amer icani già incalzavano, e la W e h r m a c h t si appres tava a sloggiare. Le caserme furo­no g r a d u a l m e n t e evacua te , lasciandovi solo p o c h e a r m i cons ide ra t e inservibili . A quei res idui a t t inse , nella no t te dal 27 al 28 set tembre, la popolazione, e il 28, men t r e la ri­t irata dei tedeschi era ancora in corso, esplose la guerriglia d i so rd ina ta , improvvisa ta , ma insistente e spavalda. N o n p iù di a l cune cen t ina ia di napo le t an i , t ra essi molt i scu­gnizzi i r r ident i e spesso intrepidi , pa r tec iparono pe r quat­t ro giorni alle azioni, e l ' a r rogante Scholl fu costretto per­fino a firmare, nel suo Qua r t i e r generale , un accordo con gli insorti che consentiva il passaggio senza molestie di un suo r epa r to asserragliato al Vomero: in cambio dovette re­st i tuire 47 pr ig ionier i . La ri levanza mil i tare degli episodi fu modesta , Kesselring avrebbe comunque lasciato la città; m a i 66 mort i di Napoli t ra la popolazione civile dimostra­r o n o che l 'ex-alleato n o n poteva più contare né sulla neu­tral i tà del la gen te , né sul suo a iuto . Gli i tal iani avevano cambiato campo.

In circostanze analoghe a quelle di Napoli si sollevò Ma-tera (pagarono pe r tutt i undici ostaggi, fatti saltare in aria insieme alla caserma in cui e rano stati chiusi), e poi vi furo­no Lanciano, Acerra, Rionero in Vulture, Santa Maria Ca-p u a Vetere. Nella sua Storia della Resistenza italiana Roberto Battaglia ha prestato a questo punzecchiamento del tedesco in r i t i ra ta alti con tenu t i storico-sociali: n o n solo la collera contro l 'occupante ma «un improvviso e quasi brusco risve­glio ad un clima durissimo di combatt imento e di sacrificio,

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e p p u r e già p r e a n n u n c i a t o e ant ic ipato dagli episodi di ri­volta contadina, anch'essi tutti da approfond i re e da risco­p r i r e , verificatisi nelle stesse regioni d u r a n t e l 'ult ima fase del r e g i m e fascista». La spiegazione del f e n o m e n o è p iù semplice. I l tedesco e ra stato, sia p u r e nei pochi giorni di totale domin io , un p a d r o n e b ru ta l e , ed e ra a n c h e un pa­d r o n e sconfìtto, che fuggiva. Il «guai ai vinti!» non è soltan­to u n a regola n o n scritta ma p e r e n n e del codice guerresco, è anche un infallibile ist into di massa. E lo si consta tò , in quelle occasioni, u n a volta di più.

Al n o r d la ribellione si sviluppò in tut t 'a l t ro ambiente , e pe r al t re motivazioni . Chi p rese fin dall ' inizio la via della m o n t a g n a sperava s icuramente in un epilogo r ap ido della gue r ra . Se n o n il crollo immedia to e totale del Reich nazi­sta, a lmeno lo sgombero dell ' I tal ia sembrava ques t ione di giorni, al massimo di sett imane. Ma i tedeschi e rano presen­ti, ancora forti, minacciosi e inferociti dal t r ad imen to . Nei nuclei di resistenza che si a n d a r o n o via via a g g r u m a n d o è possibile rintracciare in u n a fase iniziale sia gli sbandati che, non avendo alternativa, d ivennero part igiani , sia uomini o ragazzi animosi che ope ra rono u n a scelta consapevole. Non pensavano, né gli uni né gli altri, che la lotta sarebbe dura ta venti mesi: ma sapevano che lotta ci sarebbe stata.

La storiografia di sinistra è stata t enacemen te r idut t iva nel valutare il r appor to tra lo sfascio dell 'Esercito e la nasci­ta delle formazioni par t ig iane. Per il Battaglia «solo in u n a regione dell'Italia del nord , nel Piemonte, t roviamo un col­legamento evidente tra la dissoluzione dell 'esercito e l'inizio del movimento partigiano». In effetti un migliaio di sbanda­t i della 4 a a rmata , con un con t ingen te cospicuo di ufficiali effettivi si r a d u n ò nella valle di Boves, nel Cuneese , subito d o p o l'8 se t tembre , e l ì organizzò u n a difesa che n o n potè reggere al p r imo vero scontro contro i tedeschi; i quali p ro ­p r io a Boves a t t u a r o n o u n a delle loro p r i m e e p iù infami rappresaglie, incendiando il paese, massacrando o brucian­do vivi 24 abitanti (tra essi il parroco) , stabilendo insomma,

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u n a volta p e r tu t te , che la legge de l l 'occupante e ra quel la del t e r r o r e . La magg io ranza dei «ribelli» si dissolse, d o p o l'attacco: r imasero i migliori, come sempre avviene. Ma n o n si t r a t tò solo del P iemonte . Di a n a l o g h e carat ter is t iche fu l ' addensamen to di militari in tu t t 'a l t ra zona, sul massiccio abruzzese di Bosco Matese, a u n a t rent ina di chilometri da Teramo. Vi si organizzarono mil i tarmente circa 1.600 uomi­ni, t ra i quali si contavano in b u o n n u m e r o pr igionier i in­glesi e slavi evasi dai campi di concent ramento . Questa for­mazione resistette br i l lan temente a un p r i m o attacco tede­sco, il 25 set tembre, facendo decine di mort i tra gli avversa­ri (un maggiore della Wehrmacht fu cat turato e fucilato sul posto, i l che n o n to rna ad o n o r e di chi condannava , e giu­s tamente , le esecuzioni sommar ie pe rpe t r a t e dal l 'occupan­te): ma si f rantumò presto q u a n d o l'offensiva degli Alpenjà-ger si r ipetè, con maggiori mezzi. Tuttavia anche in Abruzzo i resti di quella unità improvvisata d iedero capi e gregari ai nuclei successivi. Ex mili tari - e in ques to caso quasi tut t i mer id iona l i - e r a n o i giovani che s egu i rono P o m p e o Co-lajanni sul Bracco, militari e graduat i degli alpini compose­ro la b a n d a di Sestrières in Val Chisone, militari e rano quel­li che s 'erano asserragliati nella fortezza di San Mart ino so­p ra Varese, sbandati e militari i 300 che presero la via di Piz­zo d 'Erna , sulle mon tagne di Lecco (tra essi un centinaio di ex-prigionieri anglo-americani) . Potrebbero essere citati al­tri esempi. Ma bastano questi pe r dire che il filo t ra la rotta dell '8 set tembre e la nascita di focolai di rivolta fu molto più consistente di quan to si sia voluto far c redere , pe r «politiciz­zare» la guerriglia.

Essa prese poi al tre s t rade , pe r ché cominciavano ad af-fermarvisi nuclei e capi animati da una ben definita ideolo­gia, come il comunista Cino Moscatelli in Valsesia, o come la formazione Italia Libera di Duccio Gal imbert i a M a d o n n a del Colletto, tra Valle Gesso e Valle Stura, o come gli uomini di Filippo Beltrami, cattolico (ma anche capitano dell 'Eser­cito, cosicché la sua «banda» aveva u n a spiccata i m p r o n t a

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militare tradizionale) in Val d'Ossola. In questo sorgere del­la Resistenza, che era ancora di «bande» n o n coord ina te e non organizzate (basta pensare che alla fine del 1943 i part i ­giani non raggiungevano il n u m e r o di quat t romila in tut ta Italia), si delineò subito u n a delle sue caratteristiche: la com­petizione, più che la collaborazione, tra i vari g rupp i ideolo­gici. G r a d u a l m e n t e d i v e n n e r o minor i t a r i e le formazioni «autonome» che, appel landosi soltanto alla lotta cont ro te­deschi e fascisti, rifiutavano u n a etichetta di par te , e tende­vano a r ipetere nella guerr igl ia la disciplina e le gerarchie formali dell 'Esercito. Divennero minori tar ie perché prive di collegamenti con le s t ru t ture politiche clandestine che p ro ­gress ivamente si a n d a v a n o consol idando nelle città, ma lo d ivennero anche perché quel tipo di mentali tà non si adat­tava alle esigenze della guerriglia: e infine perché tra questi au tonomi vi e r a n o ufficiali di fede monarch ica i quali n o n t a rda rono a renders i conto che la lotta par t igiana era anti­tedesca, antifascista, ma anche - e forse sopra t tu t to - ant i Regno del Sud. Si de te rminò così quello che è stato definito l'«attesismo» dei professionisti e degli specialisti: la convin­zione cioè che non valesse la pena di sfidare il tedesco là do­ve era forte, ma che convenisse presidiare e fortificare «san­tuari» ben protett i .

«E - ha scritto Battaglia - l 'ideologia dei g rupp i conser­vatori trascinati loro malgrado nel fronte della lotta antifa­scista.» Non loro malgrado : anzi alcuni con g r a n d e slancio ed eroismo. Ma per gli ufficiali di carr iera fu difficile, a un certo pun to , stare fianco a fianco con chi identificava l'Eser­cito regolare con Badoglio, e Badoglio con il Re, e il Re con la rovina d'Italia.

All 'attesismo fu rono con t ra r i i g r u p p i politicizzati, cia­scuno con le sue peculiarità, p ropr io perché in loro esisteva già, in e m b r i o n e , u n a visuale di po t e r e . E ques to vale so­pra t tu t to pe r i comunisti , alcuni dei quali - e tra i più auto­revoli - avevano conosciuto la lotta clandest ina, le sue esi­genze, e le sue crudeltà. Nei comunisti lo scopo militare del-

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la guerriglia - ossia il contr ibuto alla sconfitta del tedesco -s'intrecciò indissolubilmente fin dall'inizio allo scopo politi­co. Q u a n d o Luigi L o n g o spiegò, in u n o scritto appa r so in n o v e m b r e su La nostra lotta, il p e r c h é del rifiuto all 'attesi­smo, scrisse: «Noi non possiamo e non dobbiamo at tenderci passivamente la libertà dagli anglo-americani. Il popolo ita­l iano p o t r à avere un suo gove rno , i l gove rno al quale da tanto t empo aspira, un governo che faccia veramente i suoi interessi, un governo non legato alle cricche reazionarie, so­lo se avrà lottato per la conquista della ind ipendenza e della libertà». Dove si vede come gli anglo-americani - lì Longo identificava senza ombra di dubbio le «cricche» - siano con­siderati poco m e n o che nemici.

I part igiani di «Italia libera», emanazione di «Giustizia e Libertà», in terpre tazione par t igiana dell 'azionismo, furono «puri e duri», una élite u m a n a e rede di u n a élite culturale, come dicono i nomi dei loro «padri storici» (Piero Gobetti, i fratelli Rosselli) e come dicono i nomi dei loro leaders politi­ci (Parri , Lussu, Valiani, Mila, Bauer, Garosci). Duccio Ga­limberti affermò in u n a lettera: «Siamo e in qua lunque eve­nienza res teremo un piccolo g r u p p o di italiani che met tono al disopra di tutto la fede in una Italia libera e unita, e la fe­deltà a quei pr incìpi che il popolo francese ci ha insegnato ad apprezzare con una rivoluzione che l'Italia ha ancora da fare e che t roppi h a n n o dimenticato».

I cattolici, le «Fiamme verdi», forti sopra t tu t to nel Bre­sciano e ne l l 'Udinese , si d i ede ro u n a «legge del patr iota» che insisteva sui contenut i morali a sfondo religioso, più che su quelli politici. «Il patriota è leale, combat te non pe r una avventura. . . Il patriota è onesto... Il patr iota è nobile d'ani­mo.. . Il patr iota è sereno, fiducioso nell 'aiuto di Dio che non è mai assente a chi si sacrifica pe r la giustizia... Il patriota è in tegro , è nobile anche con il nemico vinto e abbattuto. . .» La ribell ione fu d u n q u e un mosaico di «bande» di diversa ispirazione. Le divisioni non vennero mai ve ramente sana­te. Qualche volta sfociarono in scontri, n o n mancarono de-

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lazioni - od omissioni di soccorso d 'una «banda» a d a n n o di un 'a l t ra - in n o m e della r ag ione di par t i to . Nel t e r r i to r io giul iano n o n bastò p iù n e p p u r e i l mastice ideologico: la frattura nazionale ed etnica, e gli appetiti di conquista di Ti ­to, fecero sì che vi fosse ostilità tra part igiani comunist i ita­liani e par t igiani comunist i iugoslavi. Un comunis ta , Luigi Frausin, che già il 9 se t tembre si mosse da Muggia con una quarant ina di operai del cantiere San Rocco per combat tere la sua guerriglia, seppe presto in quale t rappola si fosse cac­ciato: da u n a par te c 'erano i tedeschi, ma dall 'altra c 'erano gli sloveni, n o n meno spietati. E analoga sorte toccò alle for­mazioni friulane.

L'avvio della Resistenza fu ricco di episodi u m a n a m e n t e toccanti, ma povero di risultati. In questo per iodo i tedeschi si preoccuparono molto poco delle «bande» anche se, quando esse si manifestavano, reagivano con prontezza a volte feroce. Il fenomeno partigiano era considerato uno strascico minore e non allarmante dell'8 settembre. In effetti le poche migliaia di «ribelli» non costituivano una forza militare, privi com'era­no di un comando unificato, di direttive, di una strategia. I primi a dare un assetto organico alle loro formazioni furono, ed era logico, i comunisti , che già ai pr imi di novembre isti­tuirono a Milano un Comando generale delle formazioni Ga­ribaldi, con Longo, il veterano delle brigate internazionali in Spagna, comandante militare, e Pietro Secchia - un intratta­bile fanatico - commissario politico. I comunisti disposero che tutte le loro organizzazioni cit tadine mandassero in monta­gna a combattere il 10 per cento dei quadr i e il 15 per cento degli iscritti. Che siano stati obbediti, è dubbio: ma che abbia­no potuto fornire un n u m e r o di partigiani superiore a quello di ogni altro schieramento ideologico, è certo.

I Comitat i di Liberaz ione Nazionale a n d a v a n o in t an to proliferando. Sia quello centrale, a Roma, sia quello dell'Al­ta Italia, sia quelli regionali t ennero molto più d'occhio, nel­l 'ultimo scorcio del '43 , le prospettive e il futuro politico che n o n la possibilità di azione mili tare. I loro g rand i d i lemmi

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erano: monarchia o repubblica? Badoglio sì o Badoglio no? Di fronte ad essi passava in secondo piano il problema della lotta ai tedeschi , anche p e r c h é quel la lotta la s tavano co­m u n q u e facendo gli ang lo-amer ican i . Un al t ro e l emen to turbava il CLN, ossia le enunciazioni «socialiste», e gli appelli alla concordia della Repubblica di Salò (delle une e degli al­tri p a r l e r e m o più avanti) . Q u a l c u n o avvertiva i n somma il rischio che il Mussolini dell 'ult ima versione riuscisse ad ac­caparrarsi il ruolo repubblicano, d e r u b a n d o n e i repubblica­ni antifascisti. Per questo il CLN r o m a n o si risolse il 16 otto­b re - cont ro il p a r e r e dei liberali, e nonos tan te le perples­sità dei democristiani - ad approvare un documen to secon­do il quale «la gue r ra di l iberazione - p r imo compito e ne­cessità suprema della riscossa nazionale - richiede la realiz­zazione d 'una sincera e ope ran te uni tà spirituale del paese che non p u ò farsi sotto l'egida dell 'attuale governo costitui­to dal Re e da Badoglio». Perciò il CLN di Roma chiedeva la creazione d 'un nuovo governo, e la promessa di «convocare il popolo , al cessare delle ostilità, pe r dec idere sulla forma istituzionale dello Stato». A questa impostazione ader ì im­media tamente il CLN di Milano, che en t rò ancor più nel con­creto esigendo che i ministri, sebbene nominat i dal Re, non g iurassero nelle man i del Re, ma facessero «solenne p r o ­messa di fronte al popolo italiano di c o n d u r r e la guer ra e di convocare subito d o p o la Cost i tuente». Quel lo che poi fu definito «il vento del nord», repubbl icano e di sinistra, co­minciava a soffiare: e, sia p u r e in termini cauti, gli ex-nemi­ci e rano costretti in qualche m o d o ad avallarlo. La Confe­renza di Mosca, che riunì dal 18 al 30 ottobre i ministri de­gli Esteri americano, inglese e sovietico, stabilì che «la politi­ca alleata nei r iguardi dell 'Italia deve essere basata sul fon­damenta le principio che il fascismo, tut ta la sua perniciosa influenza e tutto ciò che da essa deriva dev'essere totalmen­te d is t ru t to e che al popo lo i tal iano deve essere data ogni possibilità di stabilire le sue istituzioni di governo.. . sulla ba­se dei princìpi democratici».

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L'autunno trascorse senza che la Resistenza impensieris­se tedeschi e fascisti: il 27 o t tobre Mussolini affermò che «l 'ordine pubblico è da considerarsi avviato alla normalità» e l 'affermazione, r iconosce il Battaglia, p u r enfat icamente laudat ivo della Resistenza, «non è tu t ta retorica». Nei C L N che s i a n d a v a n o via via f o r m a n d o sorgevano d i spu te p e r l 'assegnazione degli incarichi, e pe r la vera o p resun ta inca­pacità di comandan t i «professionali». Il p iù significativo di questi contrast i fu d e t e r m i n a t o dalla n o m i n a del genera le Piero Oper t i a comandan te del C L N piemontese. I comunisti asserirono che lo si era voluto solo perché aveva in suo pos­sesso par te dei fondi della disciolta 4 a armata , con i quali si sarebbe po tu to m a n t e n e r e p e r 10 mesi 20 mila par t igiani . L'Operti fu poi accusato di essere n o n solo un temporeggia­tore ma anche un potenziale col laboratore dei fascisti, e su p ropos ta di Celeste Negarville, alto esponente del P C I , lo si rimosse.

A fine a n n o ( 1943) - anticipiamo alcuni fatti, pe r chiarez­za - furono definiti i poter i del C L N dell'Alta Italia o C L N A I .

I l C L N r o m a n o , che sperava in u n a i m m i n e n t e l iberazione di Roma, delegò al C L N A I le funzioni di «governo s t raordi­nar io del nord». Il CLNAI si affrettò ad annuncia re che «non vi sarà posto doman i da noi pe r un regime di reazione ma­schera to e n e p p u r e p e r u n a democraz ia zoppa» e che «di f ronte all 'affermarsi di p r o p o s t e an t i comunis te , e al deli­nearsi di posizioni anticomuniste e antioperaie» veniva riba­dito «il pa t to di riscossa che lega i c inque partiti» (comuni­sta, socialista, democris t iano, Parti to d 'azione, liberale, nel C L N A I n o n figurarono i demolaburist i) . «Rivolgiamo questa diffida - concludeva il documen to nel quale n o n era diffici­le riconoscere u n a prevalente ispirazione comunista - a cer­ti ambienti industriali e finanziari.»

Gli avvenimenti p iù impor tant i di questo p r imo a u t u n n o della Resistenza furono estranei alla lotta a rmata , ma ebbe­ro con essa una stretta connessione. Venne anzitutto realiz­zato un legame, ancora embr iona le , t ra i c o m a n d i dei «ri-

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belli» e gli alleati anglo-americani. Il contatto fu stabilito da Ferruccio Parri, u n o dei maggiori esponent i del Partito d'a­zione, che passò il confine con la Svizzera, e là s ' incontrò con u n a missione alleata della quale faceva par te Alien Dul-les, capo dei servizi segret i amer ican i e fratello del fu turo segretario di Stato.

Parr i - il Parri di allora - era par t icolarmente qualificato pe r questo approccio. Valoroso ufficiale di Stato Maggiore e più volte decorato nella p r ima gue r r a mondiale , antifascista da s empre , e ra stato nell'ufficio s tudi della Edison, e gli si a t t r ibuiva d u n q u e u n a conoscenza d i cer to ambien te bor­ghese e industriale lombardo. Del suo coraggio n o n si pote­va dubi tare , e della sua b u o n a fede n e m m e n o . I suoi ideali politici, nel Partito d 'azione, e r ano rigorosi - e ne t t amen te repubblicani - ma n o n di es t rema sinistra. Già al l ' indomani della formazione del C L N r o m a n o , Nenn i aveva offerto pe r telefono a Par r i il c o m a n d o delle forze «ribelli» nel n o r d , ma la risposta era stata negativa. Si era al 10 set tembre, e il q u a d r o era t roppo confuso, aveva pensato, ragionevolmen­te, Parr i . Egli aveva tuttavia m a t u r a t o l ' idea di un esercito popola re - che ricalcava quella affacciata dai comunist i con il sottinteso che in quell 'esercito popolare essi sarebbero sta­ti la forza e g e m o n e - e p e r a l imenta r lo chiese agli anglo­amer ican i lanci consis tent i d i r i fo rn iment i , a rmi , mezzi. Erano proget t i che, pe r il momen to , andavano al di là delle intenzioni degli Alleati, e forse Alien Dulles, accanito antico­munista , vi scorse p ropr io l'insidia di quella p redominanza di sinistra che poi si verificò. L'incontro «molto cordiale» si chiuse senza risultat i concret i , ma e ra avvenu to , e ques to aveva por ta to alla ribalta a p p u n t o Parri .

Il secondo avvenimento fu la decisione nazista e fascista, presa a metà ot tobre, di ch iamare alle a rmi alcune classi, e di mobi l i ta re gli uomin i validi p e r i l lavoro obbl igator io . Propr io Parr i disse, r ievocando al Teatro Eliseo di Roma, il 13 maggio 1945, le fasi della gue r ra part igiana: «Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col ri-

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chiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l'afflus­so di tanti nuovi elementi r appresen tò pe r un certo t e m p o più un peso che u n a utilità». Si ebbero così altri uomini sia p e r la lotta in m o n t a g n a , sia pe r la composiz ione dei G A P , quei G r u p p i di azione patriottica che, men t r e languiva an­cora la guerriglia sulle montagne , compivano nei centri abi­tati a t tentat i e sabotaggi. La loro tecnica «terroristica» e ra stata l a rgamente m u t u a t a da esper ienze s t raniere , soprat­tutto da quella del «maquis» francese.

Terzo avven imen to fu lo sciopero gene ra l e che fermò molte industrie, a cominciare dalla Fiat, a metà novembre, e che infranse il sogno mussol in iano di riconciliarsi con la classe operaia. Della leva fascista - per la costituzione di un esercito di Salò - e degli scioperi pa r l e remo più avanti. Sia la leva, con i suoi risultati de ludent i , sia la rivolta operaia , confermarono che la frattura tra il fascismo e le masse era, anche nel nord , insanabile. La consapevolezza che la gue r ra fosse, pe r i tedeschi, pe rdu ta , e che il suo epilogo n o n do­vesse t a rdare molto, era diffusa in ogni ambiente e in ogni settore sociale.

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C A P I T O L O Q U A R T O

IL R I T O R N O DEL C O N T E

Il 19 ot tobre 1943 il conte Carlo Sforza, ministro degli Este­ri di Giolitti e collare de l l 'Annunzia ta , il che ne faceva un cug ino del Re, t o r n ò in Italia d o p o lungh i ann i di esilio. Prese alloggio, a Bari nella casa cittadina dell 'editore Later­za. Fu, il suo, un r ient ro politico che rese ancor più difficili le trattative attraverso le quali Badoglio tentava di formare un governo in qualche m o d o rappresentat ivo, pe r da re sod­disfazione al l 'opinione pubblica italiana, e agli Alleati: t ra i quali dovevano essere inclusi anche i sovietici che, p u r non pa r t ec ipando in alcun m o d o alla c ampagna d'Italia, esige­vano voce in capitolo, ed e r a n o m e m b r i di di r i t to della Commiss ione consultiva cui spettava di sovr in tendere alla ammin i s t r az ione degli occupant i . Al gove rno di Brindis i , che continuava ad essere una sorta di residuato del governo dei 45 giorni, si cont rapponeva in qualche m o d o un Fronte nazionale d'azione, costituito a Bari da liberali, democristia­ni, socialisti, comunisti e azionisti, che aveva il suo uomo più dinamico in un brillante magistrato t r en tenne , Michele Ci-farelli del Partito d 'azione. Quest i e ra di accesi sent iment i repubblicani, e non perdeva occasione per manifestarli: tan­to che, avendolo gli Alleati posto a capo di Radio Bari , gli i n t i m a r o n o poco d o p o di lasciare l ' incarico p e r c h é la sua politica personale contrastava con quella che inglesi e ame­ricani perseguivano.

Dagli Alleati, e in particolare dagli inglesi, realisti e spic­ciativi, Sforza era visto p iù come un procaccia tore di guai che come un messaggero di libertà. Alla Camera dei Comu­ni, Churchill aveva dichiarato, il 21 set tembre, che il suo ar-

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rivo in Italia non sarebbe stato vantaggioso «nelle condizio­ni di estremo e tumul tuoso disordine nel quale l'Italia si t ro­va». Per placare le apprensioni , il conte aveva poi inviato al sottosegretario americano agli Esteri Berle una lettera nella quale scriveva che «finché Badoglio è impegna to in questa lotta (contro i tedeschi, N.d.A.) ed è gradito agli Alleati che dedichi ad essa le risorse materiali e militari italiane, io con­sidero criminale fare qualsiasi cosa per indebolire la sua po­sizione ed ostacolare la sua opera nel combat t imento pe r la l iberazione dell ' I tal ia e del popolo italiano.. . Sono p r o n t o ad offrire il mio pieno appoggio finché egli è così impegna­to». Gli inglesi, che alla sopravvivenza del binomio Vittorio Emanuele I l i -Badogl io tenevano moltissimo, se ne sentiro­no rassicurati , e MacFarlane trasmise copia della dichiara­zione di Sforza al maresciallo.

Ansioso di o t t ene re il lasciapassare p e r l 'Italia, i l conte aveva un po ' barato, e gli Alleati n o n avevano dal canto loro prestato molta at tenzione ad altre sue dichiarazioni, prece­dent i la partenza. Intervistato dal New York Times, n o n aveva esitato a dire che l 'appello perché gli italiani si raccogliesse-ro a t to rno al Re equivaleva a quello di «un p red ica to re in favore degli Stuart che fosse andato in mezzo agli arrabbiati soldati di Cromwell» e che «i dirigenti della politica eu ropea h a n n o t roppo spesso giuocato sul cavallo perdente». Lungo l ' i t inerario verso l 'Italia - via Algeri - Sforza aveva visto, a Londra , Churchil l , e il colloquio era stato tempestoso. «Gli ho det to chiaramente - riferì poi il p r imo ministro inglese -che ora andava nella zona di Ike, il quale avrebbe respinto tu t to ciò che n o n risultasse utile alla sua azione. Egli mi trat tò da vecchio pazzo e buffone, incapace di fronteggiare la tempesta se mi lasciavano le redini.» A Bari, l 'altero conte che veniva da un 'America lasciata intat ta dalla g u e r r a e da una Londra semidistrutta e austera, ma orgogliosa della vit­toria ormai sicura, ebbe un ' immedia ta visione dello squalli­do sfacelo italiano. I marinai italiani e rano associati a quelli di colore, nel por to , per i lavori più faticosi di carico e scari-

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co delle navi, r epa r t i mil i tari che s embravano p iu t tos to g r u p p i di sbandat i t raversavano la città, monel l i e mend i ­canti si assiepavano a t to rno agli alberghi requisiti e agli al­loggiamenti anglo-americani , mancavano i viveri e infuria­va il mercato nero .

Da Capri - dove l 'avevano por ta to di peso i paracadutist i inglesi, pe r sot t rar lo ad eventual i r appresag l ie tedesche -Benedet to Croce fece perveni re a Sforza, t ramite il genero Craver i , u n a le t tera calorosa, nella quale l 'esortava a n o n p r e n d e r e impegni senza essersi consultato con gli esponen­ti politici napoletani . Qualche giorno pr ima, interpellato da Piccardi, Croce aveva così r iassunto la situazione: «1) Mi pa r necessario formare un minis tero politico; 2) c redo che, es­sendo ora solo u r g e n t e p r o b l e m a la g u e r r a con t ro i t ede­schi, n o n convenga in alcun m o d o togliere dal suo posto il Badoglio che, sia pe r la sua capacità militare, sia pe r l ' impe­gno che ha preso in questa città contro il fascismo e contro i tedeschi , è l ' uomo p iù di ogni al t ro ada t to ; 3) b isogna ac­cantonare la questione istituzionale la quale sarà risoluta dal corso degli eventi, e soltanto cercare che il Badoglio consigli al Re, al suo r i t o rno a Roma, di abd ica re in favore del fi­glio». Ma il responso oracolare di Croce, con la sua disponi­bilità compromissoria , n o n rispecchiava il pensiero di tut to l 'ambiente antifascista, e l 'azionista Alberto Tarchiani si af­frettò a met tere i punt in i sugl'i affermando che ogni par te­cipazione dei politici di Napoli al governo «era subordinata n o n solo all 'abdicazione del Re, ma anche alla r inuncia del Principe di Piemonte e all 'assunzione al t rono del Principe di Napol i assistito da un Consiglio di Reggenza». Piccardi aveva por ta to queste b ru t t e notizie a Badoglio che tuttavia «non si scompose perché in gue r ra è la battaglia finale quel­la che conta ed egli... aveva in riserva il conte Sforza».

In casa Laterza, dove già s 'erano recati a rendergl i omag­gio, e a esprimergli i loro sent imenti ant imonarchici , i r ap ­p re sen t an t i del Fron te nazionale di Bari , Sforza r icevette Acquarone, che gli offrì subito, a nome del Re, la vice-presi-

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denza del Consiglio e gli Esteri, e che lo invitò a un collo­quio con Badoglio, a Brindisi. Del compor tamento del duca Acquarone , Sforza par lò poi con un cer to disprezzo, asse­r e n d o che poco mancava gli baciasse le mani .

Con Badoglio le cose a n d a r o n o meglio, a lmeno sul pia­no u m a n o . I l maresciallo c o n t e n n e en t ro limiti decen t i le sue profferte di collaborazione a Sforza, il cui aiuto gli sa­rebbe stato di immensa utilità; e il conte rispettava Badoglio anche in m e m o r i a «della col laborazione p res ta tami pe r la conclusione della pace di Rapallo.. . un r icordo grato e tale da farmi d iment i ca re pos ter ior i frasi pro-fasciste che n o n cor r i spondevano , lo sapevo, al pens iero di chi scrisse». Ma sul p i ano politico l ' incontro fu un fiasco. Sforza n o n volle accet tare nulla di ciò che gli veniva offerto, e spiegò poi i motivi della decisione nella sua prosa ornata , e venata di in­guaribile egocent r i smo: «Poiché egli (Badoglio) conosceva le mie idee non deve stupirsi del mio rifiuto: rifiuto impo­stomi, oltre che da ragioni morali , dal fatto che avrei perso ogni m o d o di servire u t i lmente l 'Italia accet tando di colla­borare con un Sovrano che avevo denuncia to al m o n d o co­me s u p r e m o colpevole, pe rché più intell igente di Mussoli­ni, dei disastri italiani. Ma aggiunsi che sarei stato molto lie­to di servire l 'I talia con lui anche nei r a n g h i p iù modes t i (missioni all 'estero ecc.) se ciò fosse utile alla lotta contro la Germania».

Ac idamente , Pun ton i a n n o t ò : «Badoglio e Sforza n o n h a n n o par la to della ques t ione istituzionale e Badoglio del resto si è ben g u a r d a t o da l l ' accennare alla sua sol idarietà con il Re». Sforza aveva un preciso disegno a medio o lungo termine: Badoglio alla Reggenza, con il piccolo Principe di Napoli sul t rono, e lui alla presidenza del Consiglio. Non è de t to che questo spiacesse a Badogl io , tu t t ' a l t ro , anche se dal compor t amen to del maresciallo n o n emerse alcuna vo­lontà cospirativa. Semplicemente, egli era in contatto con la realtà, e Vittorio Emanue l e I I I quel contat to l 'aveva quasi del tutto pe rdu to . U n a sua lettera personale a MacFarlane,

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che p romet teva : a) formazione di un nuovo minis tero più rappresentat ivo a Roma liberata (il che sembrava imminen­te e n o n era), b) elezioni politiche en t ro qua t t ro mesi dalla pace, e c) l'assenso della Corona a ogni espressione della vo­lontà del paese, rappresentava un es t remo sforzo pe r evita­re quel passo cui i monarchic i più i l luminati e ovviamente tutti gli antimonarchici lo spingevano: l 'abdicazione.

Proprio pe r i n d u r r e il Re a capire cosa stesse avvenendo a t torno a lui, Badoglio gli inviò, il 24 ottobre, u n a lettera ri­servata, nella quale spiegava anzitutto che i maggiori partiti - l iberale, democr is t iano, azionista, socialista, comunis ta -e r a n o in sostanza d 'accordo pe r ch iedere l 'abdicazione, la r inuncia di Umber to , e la corona per il nipote, con una Reg­genza. Accennava poi alla eventualità che i parti t i attuassero il proposi to, già manifestato, di «creare senz'altro un gover­no ed u n a Costi tuente non a p p e n a liberata Roma dai tede­schi, e p r ima che Vostra Maestà col governo possa giunger­vi». Aggiungeva Badogl io , «per n o n tacere nulla a Vostra Maestà», che «è loro intenzione (dei partiti), e me lo ha con­fermato il conte Sforza, che sia io ad assumere la carica di Reggente».

Dopo questa scoraggiante premessa, Badoglio si poneva la d o m a n d a fondamentale: cosa fare? Non si poteva r icorre­re agli anglo-americani, pe rché sarebbe fioccata immediata­mente l'accusa d'aver chiesto l 'aiuto straniero; n e m m e n o si poteva affidarsi alle forze monarchiche . In definitiva il ma­resciallo suggerì che un funzionario raggiungesse Roma at­traverso le linee po r t ando ai dirigenti dei partiti queste pro­poste: 1) che n o n facessero nulla fino a q u a n d o il governo Badoglio si fosse insediato a Roma; 2) non appena ci si fosse trovato, Badoglio avrebbe consultato le forze politiche pe r la formazione di un nuovo governo; 3) se i partiti n o n aves­sero voluto collaborare con lui, Badoglio si sarebbe dimes­so; 4) il Re avrebbe adottato a quel p u n t o le decisioni che ri­tenesse più oppor tune .

La let tera, devota nel tono ma a m a r a nella sostanza, fu

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per il Re una frustata. Probabilmente il pessimismo del ma­resciallo gli parve s t rumentale . Per rafforzarsi in questa opi­nione convocò quello stesso 24 ot tobre i capi militari - Am­brosio , Roat ta , Sandall i , De C o u r t e n - e chiese se potesse con ta re sulla loro fedeltà e su quel la delle Forze Arma te . Tutti risposero affermativamente, anche se Roatta, il più in­t r igante ma anche il più intelligente, avanzò qualche riser­va. Quan to alle t r u p p e , le loro assicurazioni e rano poco più che platoniche. Il r a g g r u p p a m e n t o motorizzato del genera­le Dapino, l 'unica unità che fosse p ron ta all ' impiego, si p re ­sentava d ign i tosamente ma « l ' a rmamento di cui le t r u p p e d i spongono è misero e raffazzonato» (Puntoni) . Degli altri r epa r t i meglio n o n pa r l a re . «Sua Maestà - ci t iamo ancora da Puntoni - incontra un 'a l iquota del 9 3 0 r egg imento fan­teria in ricostituzione... P u r t r o p p o assistiamo a u n o spetta­colo pietoso: gli uomini sono in completo abbandono , han­no le uniformi lacere e ignorano assolutamente la discipli­na. Più che un repar to organico, sembra u n a banda armata , e pe r di più a rmata male.»

Confortato, tuttavia, dalle garanzie dei generali , Vittorio Emanuele I I I sguinzagliò a Bari e Napoli il solito Acquaro­ne , nella speranza che ne tornasse con b u o n e notizie. Tra l 'al tro e ra autor izza to a offrire a Sforza n o n p iù u n a vice-presidenza, ma la presidenza del Consiglio, e a contat­tare De Nicola, Rodino e Porzio dis t r ibuendo loro incarichi ministeriali. Le b u o n e notizie in effetti Acquarone le d iede («sul pr inc ip io Sforza e r a d u r o e a r r o g a n t e , poi ha d i m o ­strato u n a sufficiente comprens ione») , ma sembra fossero frutto esclusivo del suo ottimismo. Badoglio, precipitatosi a sua volta a Napol i , dove o r m a i si e r a spostato il c en t ro di gravità politico del Regno del Sud, ebbe da Sforza un nuo­vo diniego: non sarebbe ent ra to nel governo se il Re n o n se ne andava.

Tentato di pres tar fede ad Acquarone, ma allarmato dal­le buie diagnosi di Badoglio, il Re decise di p rocedere , a Na­poli , a u n a verifica pe r sona le , t a s tando il polso ai notabil i

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dai quali d i p e n d e v a n o gli svi luppi politici. I l marescial lo tentò di dissuaderlo, senza riuscirvi. Con un ufficiale ameri­cano, il colonnello Monfort, alle costole, il 3 novembre Vit­torio Emanue le I I I si installò a Villa Maria Pia di Posillipo (o Villa Rosebery), che era stata tea t ro degli amor i di Nel­son e Lady Hami l ton . L'automobile del Re aveva percorso u n a città che a Pun ton i parve «un formicaio d ' uomin i im­pazziti e di d o n n e sfaccendate». Il Re s'incontrò con De Ni­cola, Rodino e Porzio: De Nicola e Porzio, esponent i di u n a linea liberale, e rano ben disposti verso la Monarchia, ma sa­pevano quale ostacolo la pe r sona di Vittorio Emanue le I I I r appresen tas se p e r ogni soluzione. Rod ino , che par lava a n o m e della Democrazia cristiana, fu cortese, ma ancora più freddo. Con Sforza il Re r inunciò a par lare d o p o aver sapu­to che aveva ribadito la sua intransigenza: «Io accetto l'inca­rico del Re, ma pongo u n a sola condizione: che il giorno do­po aver firmato la nomina di tutti i ministri che sarà presto fatta perché la scelta è piccolissima, lui abdichi. E mio inten­d imen to istituire la Reggenza. Non accetterei di d iventare Reggente, il mio appoggio essendo pe r Badoglio che è stol­tamente avversato dai circoli di Corte».

Da Napol i , Vit torio E m a n u e l e I I I r i en t rò a Br indis i a mani vuote, p roferendo le solite accuse contro Badoglio che «anziché mig l io ra re la s i tuazione l 'ha peggiora ta» , d o p o aver subito un mezzo affronto che Puntoni ha così descritto: «Durante le udienze succede un fatto spiacevole. Il generale Smith, Capo di Stato Maggiore di Eisenhower, arriva a Villa Maria Pia e p r e t e n d e di e n t r a r e nonos tan te gli d icano che nella villa c'è il Sovrano. Smith non sente ragioni, vuol pas­sare e fa l'atto di gettare da par te un guard iano . Mi oppon­go a lzando la voce e spal leggiato da De Buzzaccar ini mi me t to sulla po r t a . In t e rv i ene d ' u r g e n z a i l colonnel lo Monfort il quale, spaventato pe r la mia decisione, spiega al genera le Smith che è inuti le cercare di forzare u n a conse­gna. Alla fine Smith capisce e se ne va m u g u g n a n d o qualco­sa che non riesco ad afferrare». Ci furono a Napoli degli ap-

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plausi pe r Vittorio Emanue le I I I , ma quel suo tentativo di risolvere persona lmente la situazione si rivelò fallimentare. Al r i torno a Brindisi trovò un 'a l t ra grossa grana. Gli Alleati n o n e r a n o p iù disposti a to l le rare che le mass ime car iche mili tari r imanesse ro affidate a u o m i n i come Ambros io e Roatta, che r i tenevano - soprat tut to il secondo, ex capo del Servizio informazioni - t roppo implicati nella gestione fasci­sta della guer ra . Il r impasto militare fu agevolato dal ritor­no del marescial lo Messe, che gli Alleati avevano l iberato dalla pr ig ion ia (con l 'occasione fu rono r impa t r i a t i a n c h e D u r a n d de La P e n n e e altri p ro tagonis t i de l l ' impresa di Alessandria) e p e r il quale professavano stima. Messe prese il posto di Ambrosio come Capo di Stato Maggiore genera­le, B e r a r d i - un a l t ro r e d u c e dalla p r ig ion ia - quel lo di Roatta come Capo di Stato Maggiore dell 'Esercito. Ad Am­brosio fu dato il content ino della carica di ispettore genera­le di un esercito che in definitiva n o n c'era.

Restava lo scoglio del governo. Anche qui la fantasia ita­l iana nel l 'escogi tare formule ined i te si d imos t rò fervida. Poiché i politici di r a n g o n o n volevano accet tare , e p e r di più nessuno aveva destituito i ministri abbandonat i a Roma dai fuggiaschi di Pescara, fu deciso che quei ministri sareb­bero rimasti teor icamente in carica, e che di conseguenza si formasse un minis tero di soli sot tosegretar i , abilitati tut ta­via, con appositi provvediment i , ad agire come ministri. La formula fu varata dal Re e da Badoglio I T I novembre quan­do Vittorio Emanuele I I I compiva 73 anni («Alla mensa del Governo - scrisse Pun ton i - Acquarone ha fatto por t a re lo s p u m a n t e ma nessuno , n e m m e n o i l Capo del governo , ha sentito il dovere di b r inda re alla salute di Sua Maestà. L'ho fatto io, allora, g u a r d a n d o in faccia tutti ma soprat tut to Ba­doglio che sembrava seccato e imbarazzato»). I sottosegreta­ri e rano dei tecnici, quasi nessuno noto , t r anne il professor Ep ica rmo Corb ino , economis ta di valore , che a un cer to p u n t o voleva decl inare l ' incarico e ci r ipensò d o p o le sup­pliche di Badoglio. Il sottosegretario alla Giustizia, Giusep-

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pe De Santis, p rocura tore generale a Bari, aveva pres ieduto anni p r ima u n a commissione pe r l'invio al confino di antifa­scisti, e il caso volle che s'incontrasse, uscendo dall'ufficio di Badoglio, con Dino Philipson, una delle sue «vittime». Phili-pson r u p p e il gelo che s'era creato con u n a risata, e il mare­sciallo evitò un altro «caso» spinoso.

I sottosegretari, nella loro p r ima r iunione del 24 novem­bre , tolsero finalmente dalle formule ufficiali il r i ferimento al Regno d'Albania e a l l ' Impero d'Etiopia, e quindi avviaro­no la defascistizzazione istituzionale dello Stato, e l ' epura­zione. Tutt i i «fascisti responsabil i della soppress ione delle libertà politiche ed individuali» furono dichiarati indegni di eserci tare i dirit t i politici, fu decisa la revisione del l ' in tera legislazione del ventennio «per uniformarla ai princìpi ispi­ratori della gloriosa tradizione giuridica italiana», revisione «già iniziata con l'abolizione della pena di mor te , delle leggi razziali e delle disposizioni che l imi tano il d i r i t to di fami­glia». Fu ancora deliberato: «Di assicurare alla giustizia mili­tare i responsabili di codardia di fronte al nemico, i fascisti che h a n n o i m p u g n a t o a rmi fratricide, commesso violenza cont ro pe r sone o cose o c o m u n q u e collaborato con t r u p p e ed autori tà tedesche dopo la dichiarazione di armistizio»; di annu l la re nomine e p romozioni dovute a meri t i fascisti; di e l iminare da tu t te le amminis t raz ioni i fascisti r iconosciuti colpevoli di attentati alla libertà individuale; di r iammet tere nelle stesse amministrazioni i licenziati o congedati pe r mo­tivi politici.

II Regno del Sud vivacchiava così con un semigoverno di vice-ministri: e, b e n c h é disponesse di d u e marescialli e di molti genera l i , n o n aveva in effetti un Esercito d e g n o di questo nome, i cui soldati n o n venissero addet t i ad umilian­ti e faticosi lavori di retrovia. Ne avevano impedi to la resur­rezione sia le diffidenze alleate - soprat tut to inglesi - sia lo scarso slancio del Re e di Badoglio, sia la stanchezza mate­riale e morale della popolazione, delusa okre tu t to dai lenti p rogress i delle offensive ang lo-amer icane , bloccate infine

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sulla linea Gustav a Cassino, cosicché la conquista di Roma, che pareva a por ta ta di mano , si al lontanò indefinitamente.

A fine novembre Eisenhower era venuto in Italia a visita­re A lexande r nel suo Q u a r t i e r genera le d i Santo Spiri to presso Bari (la stessa Bari fu sot toposta dai tedeschi , forse propr io pe r questo, a un d u r o bombardamen to che fece vit­t ime, distrusse o dannegg iò molti edifici, e affondò alcune navi nel porto). Badoglio profittò dell'occasione per riincon­trare, accompagnato da Messe e dal generale Sandalli, il Co­m a n d a n t e s u p r e m o alleato. Chiese p iù a rmi , mezzi di tra­sporto, equipaggiamento pe r i repart i che si tentava di orga­nizzare, e fu ascoltato in silenzio da Ike, men t r e Alexander opponeva a questa pe roraz ione obbiezioni cortesi e gelide. Risultato zero. Le Forze Armate italiane furono rappresen­tate, nelle successive bat taglie , da quel l 'unico r a g g r u p p a ­mento motorizzato che agli ordini del generale Dapino, pro­veniente dagli alpini, finalmente stava pe r en t rare in linea.

La nascita di questo repar to - meno di cinquemila uomi­ni - e ra stata travagliata. Lo scudo sabaudo sulla manica e l ' immuta to g i u r a m e n t o di fedeltà al Re avevano i r r i ta to i parti t i antifascisti, che vedevano in tut to questo un meschi­no e sped ien te p ropagand i s t i co della Monarch ia . I l soldo misero - sopra t tu t to in raffronto con quello degli Alleati -n o n era fatto pe r galvanizzare la t ruppa , il clima generale di sfacelo influenzava, in senso negativo, dei giovani designati al combat t imento e al sacrificio. Tuttavia il r a g g r u p p a m e n t o resse, e, d o p o u n a esercitazione positiva il 25 e 26 novem­bre , fu manda to alla prova del fuoco l'8 dicembre. Era stato aggregato ad una divisione americana, ed aveva pe r obbiet­tivo Monte L u n g o , posizione d e t e r m i n a n t e p e r l 'avanzata verso Cassino che la 5 a a rmata si apprestava a lanciare.

L'attacco italiano fu scatenato, ha scritto Agostino Degli Espinosa, «con la sicurezza che Monte Maggiore a sud-ovest di Monte Lungo fosse già in m a n o amer icana e che Monte Sammucro e San Pietro, a nord-est , venissero contempora­n e a m e n t e attaccati dagli amer ican i stessi». In real tà «gli

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americani avevano occupato la cima di Monte Maggiore ma i fianchi e rano ancora nelle mani dei tedeschi... in tal m o d o le fanterie italiane, trovatesi sotto un intensissimo fuoco im­previsto, dopo aver subito gravi perdi te dovet tero r ipiegare sulle posizioni di partenza, su queste resistettero con sforzo es tenuan te a un contrat tacco tedesco.. . Il 16 dicembre , nel q u a d r o di un ' az ione gene ra l e megl io organizzata , i l r ag­g r u p p a m e n t o conquistò e t enne l'obbiettivo fallito la p r ima volta». La prova n o n era stata fortunata, e le perdi te ingen­ti (Umber to di Savoia, dopo aver lamentato la sproporzione tra i compiti assegnati al r a g g r u p p a m e n t o e le sue forze, le valutò in 400 cadut i ) : e il 22 d i cembre il genera le Dap ino dovette chiedere il ritiro dell 'unità, stremata, dal fronte. Ma ufficiali e soldati si e r ano battuti bene .

Al di là degli elogi ufficiali - il generale americano Clark telegrafò a Badoglio che «la ferrea volontà dei soldati italia­ni... p u ò ben essere presa ad esempio da tutti i popoli euro­pei che combat tono l 'oppressione tedesca» - vi furono rico­noscimenti non di maniera . Il Times scrisse che le t r u p p e ita­liane «hanno sofferto perd i te pesanti , una circostanza che è stata messa a carico della inabilità nelle p r ime fasi dell 'attac­co. Fu tuttavia u n a p r o d e inabilità». Del res to , se l 'attacco del r a g g r u p p a m e n t o era stato in complesso sterile, l ' intera offensiva della 5 a a rmata americana e della 8 a bri tannica sta­gnava, bloccata dalla esperta tenacia di Kesselring. A questo stallo, a lmeno pe r qualche settimana, sembravano del resto rassegnati gli stessi Alleati che, avendo ormai lo sguardo in­tento al g r ande sbarco in Francia, relegavano il fronte italia­no in second'ordine. Se ne andavano i comandant i più pre­stigiosi, Eisenhower che assumeva le sue nuove funzioni di organizzatore del colpo di maglio decisivo alla fortezza Eu­ropa, e Montgomery che sarebbe stato il suo secondo. Mai-t land Wilson assumeva i l c o m a n d o del se t tore Medi te r ra ­neo, in sostituzione di Eisenhower, e Alexander quello delle forze alleate in Italia.

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Il «governo dei sottosegretari», che aveva consent i to a Ba­doglio di t i rare avanti alla meglio, ebbe pessima accoglienza da pa r t e della s tampa e degli ambient i politici. I p iù bene­voli lo definirono «un espediente». Sforza cont inuava a tuo­nare , accusando Badoglio di avere «mandato in linea quat­tromila uomin i m e n t r e nel Mezzogiorno vi sono molte mi­gliaia di uomini , sbandatisi dopo l'8 set tembre, che pot reb­bero diventare quasi un esercito», ma i generali e colonnel­li del Re che avrebbero dovuto comandar l i n o n davano affi­damen to (il conte si faceva illusioni sulla disponibilità di sol­dat i che avevano vissuto i g iorni del «tutti a casa»). Croce n o n tuonava, ma i suoi inviti, a p p a r e n t e m e n t e pacati , alla abdicazione di Vittorio Emanue le I I I (accennò tra l 'altro al­la eventualità di da re la Reggenza a Maria José , «la sola che si sia t enu t a da p iù ann i in re lazione con gli antifascisti, e con me addi r i t tu ra dal 1931») e rodevano i r reparabi lmente il poco credito della Monarchia . Il filosofo negò che pe r la r inuncia di Vittorio E m a n u e l e I I I s i dovesse aspe t ta re un re fe rendum: «L'abdicazione - dichiarò a Radio Napoli il 14 d i cembre - doveva sorgere , ed e r a aspe t ta ta da p iù mesi , spontanea nella coscienza del Re, pe r effetto della sua sen­sibilità morale , ed essere at tuata senza attesa di al trui giudi­zio.»

L'Italia l iberata si avviò così, in u n a atmosfera di preca­rietà politica, di umil iante vassallaggio, di d isordine , mise­ria e fame, alla fine di quel 1943. C o n a r r o g a n z a di occu­pant i e di vincitori - di tutti gli occupanti e di tutti i vincito­ri - gli anglo-amer ican i avevano p r o c e d u t o a requisizioni massicce di alloggi, cosicché «possedere u n a stanza da ba­gno passabi lmente attrezzata era un pericolo». I soldati al­leati e r a n o i ricchi del m o m e n t o , e gli i tal iani i pover i . «A Bari - r icordava Degli Espinosa - nei caffè di corso Vittorio, militari delle Nazioni Unite bevevano e mangiavano a g r u p ­pi, men t r e tut to a t to rno parecchi bambini si s tr ingevano in cerchio, posando gli occhi brillanti di cupidigia sui piatti di dolci. A volte, con mossa repent ina , un bambino si scagliava

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su u n o di questi piatti, e fuggiva inseguito dal militare deru­bato. In previsione di questi furti i camerieri facevano paga­re le consumaz ion i all 'at to del la consegna. . . A volte nelle piazze soldati inglesi dri t t i su camion fermi bu t tavano gal­lette e biscotti a folle di bambini e di d o n n e , e r idevano del­le zuffe che esplodevano ai loro piedi. Gli uomin i occupati nei magazzini alleati raccontavano della feroce sorveglianza esercitata dai soldati negri armati di lunghe fruste.»

Era l'Italia degli sciuscià (i lustrascarpe il cui nomignolo der ivò, è no to , dalle paro le inglesi shoe-shine), delle s t rade off-limits, vietate ai mil i tari alleati p e r c h é vi si t rovavano i bordelli , dei furti endemici ai r i fornimenti - con la compli­cità della stessa t r u p p a alleata, a Napoli si calcolava che un terzo delle merci sbarcate prendesse il volo - degli interven­ti di M P , gli uomin i della Military Polke, p e r r i d u r r e alla ra­g ione , con mangane l l a t e dis t r ibui te imparz i a lmen te , gli ubriachi . Incentivata dalla pover tà , la prost i tuzione dilaga­va, nelle forme più sfrontate ed indecorose. I sottosegretari di Brindisi t en tavano di istituire u n a parvenza di autor i tà , ma dovevano r i sponde re alla convocazione di un qualsiasi cap i tano inglese in vena di au to r i t a r i smo . I sot tosegreta­ri-ministri avevano gran difficoltà a t rovare locali pe r gli uf­fici, e automezzi pe r muoversi: tanto più che - analogamen­te a quan to era avvenuto nel no rd pe r la repubblica musso-liniana - i dicasteri e rano disseminati in varie città, la Mari­na a Taranto , la Gue r ra e gli In te rn i a Lecce, l 'Economia, le Ferrovie, le Poste, la Giustizia, i Lavori Pubblici, l 'Aeronau­tica a Bari . A Bari e ra anche l'ufficio s t ampa del governo , dove lavoravano, t ra gli altri il poe ta Diego Calcagno, Ga­briele Baldini, Alba de Cespedes, Antonietta Drago. Lo diri­geva Filippo Naldi, tornato da un esilio ventennale in Fran­cia, poi accusato del tut to infondatamente dagli azionisti di essere stato coinvolto nel deli t to Matteott i , e costret to alle dimissioni. Con prosa tipica del t empo LItalia del Popolo, or­gano a p p u n t o del Partito d 'azione, aveva insinuato che Nal­di, commissar io delle informazioni , volesse r i n v e r d i r e le

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prat iche del «non dimenticato cor ru t to re di D r o n e r o (Gio-litti)» o addi r i t tu ra del «funesto bura t t ina io di Predappio». Naldi , cui spettava anche il compi to di da re l'imprimatur ai quotidiani, lesse in anticipo l'attacco, e lo approvò senza bat­ter ciglio, congratulandosi anzi con il diret tore dell'Italia del Popolo, avvocato Pastina, «per il suo giornale che leggo sem­p r e con g rande profitto».

Gli anglo-amer ican i p rosegu ivano la loro lenta campa­gna d 'I tal ia , e il 22 genna io a z z a r d a r o n o quel lo sbarco di Anzio che nelle intenzioni di Churchil l avrebbe dovuto esse­re un «gatto selvatico» p r o n t o a graffiare e m o r d e r e nelle retrovie tedesche. Il gatto si rivelò piuttosto domestico, il 6° corpo d 'a rmata americano fu costretto in un per imet ro an­gusto e la linea Gustav di Kesselring, incernierata su Cassi­no, non cedette. L'Alto comando badogliano aveva trasmes­so al colonnello Montezemolo della resistenza romana , subi­to d o p o l ' annunc io dello sbarco, l ' o rd ine di «lottare con ogni mezzo possibile e con tutte le forze», t rascurando la po­litica fino a q u a n d o la Città e t e rna fosse stata l iberata. Ma quel l 'ora si rivelava assai più lon tana di q u a n t o quest 'Alto comando piuttosto disinformato riuscisse a pronost icare.

M a n c a n d o s e m p r e al Regno la sua capitale na tu ra le , si pensava a lmeno di trasferire la capitale provvisoria da Brin­disi ad u n a città che attestasse l 'allargamento della giurisdi­zione badogl iana , in effetti l imitata, fino a quel m o m e n t o , alle qua t t ro province della Puglia. Ma il p rob lema n o n era solo logistico o amministrativo: era di politica internaziona­le. I terri tori che via via si andavano agg iungendo al Regno e rano liberati o occupati? E il Regno era sempre ex-nemico, o cobelligerante, o alleato? Non si trattava di fare i conti con gli anglo-americani e basta: si trattava di farli con quel Con­siglio consultivo nel quale sovietici e francesi avevano voce in capitolo.

Eisenhower - ancora in carica p r ima di trasferirsi a Lon­d r a p e r p r e p a r a r e lo sbarco in N o r m a n d i a - p r o p o s e che passasse alla amministrazione italiana tutto il terri torio a sud

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della linea Salerno-Bari , incluse le isole: il che lasciava alla totale gest ione alleata p r o p r i o quelle città, Napol i o Saler­no, in cui il governo aveva intenzione di trasferirsi. Il Consi­glio consultivo fu convocato a Napoli il 10 gennaio. Il sovie­tico Viscinski, anno tò Macmillan «aveva u n a grossa squadra di segretari , contact-men, in te rpre t i ecc. A p p e n a arrivati , la maggior par te disparve, indubbiamente pe r cercare i comu­nisti italiani, e r icomparve solo q u a n d o fu il m o m e n t o di ri­partire». Alla r iunione fu ammesso anche Badoglio, che s'il­ludeva di poter regolarmente par tecipare , a p ieno titolo, ai lavori: ma su questo p u n t o fu presto disingannato. Il mare ­sciallo lesse un d o c u m e n t o a lquan to prolisso e p o m p o s o , che magnificava l ' appor to del l ' I ta l ia alla condo t t a della guer ra , e ometteva - perché n o n poteva farlo - di da re indi­cazioni concre te su l l ' a t t egg iamento di Vittorio E m a n u e l e I I I , e sulla sua abdicazione. Alla fine disse: «Mi si ch iede quale è e quale pot rebbe essere il nostro concorso, ma io ho u n a d o m a n d a da fare a voi, m e m b r i della Commiss ione consultiva, se cioè a questo tavolo seggo come amico o come nemico». Gli r ispose a n o m e di tut t i , cogl iendo la pal la al balzo, Viscinski, e assicurò Badoglio che la sua persona era considera ta «quella di un amico»: r ipe tendogl i poi a quat ­tr 'occhi che I ' U R S S voleva un ' I ta l ia l ibera e forte, e che lui, Viscinski, avrebbe preso d i re t tamente contatto con il gover­no di Badoglio. Del maresciallo riconosceva il «patriottismo realistico». Ques to a t t egg iamen to p re f igurò la successiva tattica «morbida» de l l 'URSS: tattica non contraddet ta - le pa­role sono parole e gli affari sono affari - dalla insistenza so­vietica pe r avere u n a par te della flotta.

Con miopia politica par i soltanto alla loro inerzia bellica i govern i inglese e amer i cano avevano in tan to a p p r o n t a t o , grazie all 'opera dei loro consiglieri legali, un piano di resti­tuzione di province alla sovranità italiana che n o n solo con­tinuava ad escludere Napoli e Salerno, ma ventilava super­visioni politiche - e lottizzatrici - sull 'amministrazione italia­na, in forza delle quali i greci avrebbero po tu to sovrinten-

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dere sulla Puglia, gli iugoslavi su mezza Valle Padana, i fran­cesi sulla Ligur ia e sul P iemonte , e così via. E isenhower e Bedell Smith ne furono costernat i , Macmillan si precipi tò da Churchil l . Dopo un laborioso negoziato Badoglio otten­ne - si e ra arrivati a fine genna io del 1944 - che il suo go­verno riacquistasse la sovranità, o a lmeno la amministrazio­ne, su tutti i terr i tori posti sotto u n a linea che passava a nord di Salerno e di Foggia. Il 27 gennaio l'Italia fu formalmente riconosciuta «territorio liberato» e in quegli stessi giorni la sede del gove rno fu trasferi ta a Sa lerno . L'11 febbraio di­venne operativo il «trapasso dei poteri». L'annuncio che Sa­le rno era d iventa ta capitale provvisoria giunse in città, ha osservato Degli Espinosa, «mentre u n a triste dimostrazione di d o n n e p iangent i protestava in piazza pe r la mancata di­stribuzione del pane». Il Re si sarebbe stabilito, fu deciso, a Ravello, nella villa dei marches i di Sangro . A fine d ' a n n o Vittorio Emanuele si era u n a volta di p iù crucciato con Ba­dogl io che , in un messaggio a u g u r a l e agli italiani, l 'aveva ignorato.

Il 28 e 29 gennaio i partiti antifascisti t ennero nel Teatro Piccinni di Bari, r i cor rendo il ventesimo anniversario della uccisione di Matteott i , un Congresso che aveva u n a chiara impron ta ant imonarchica. L'aveva p recedu to di pochi gior­ni, a Ta ran to , un r a d u n o di ex-combat ten t i , concluso «da n u m e r o s i discorsi patriott ici e da entusiast iche manifesta­zioni di fede monarchica»: un o rd ine del g iorno approva to da questi reduci ancora fedeli al Re sosteneva che «l'immi­nen te Congresso r appresen ta un icamente il pens iero di li­mitati g r u p p i politici». In un cer to senso e ra vero, pe r ché nell 'Italia martor iata , affamata e affranta di quei mesi le ne­cessità della sopravvivenza quot idiana facevano di gran lun­ga premio sul l ' impegno ideologico. Ma anche i delegati de­gli ex-combattenti , con la loro tronfia retorica, rispecchiava­no ben poco l ' immagine del paese. Con gesto diffidente, i l governo Badoglio nominò a Bari, p ropr io nella imminenza del Congresso antifascista, un sov r in t enden te speciale al-

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l 'o rdine pubblico nella pe r sona del genera le Pietro Cazze­rà, che e ra stato fatto pr ig ion ie ro in Africa Or ienta le , e da poco r impatr ia to: talché i diffidenti notabili dei parti t i di si­nistra pa r l a rono di «prò dit tatore» e di sabotaggio al Con­gresso, la cui ape r tu ra ebbe u n a cornice imponen te di forze di polizia italiane e alleate.

I delegati e rano stati limitati a 120, e ascoltarono con ri­spet to , e t ra gli applaus i , un nobile discorso di Benede t to Croce, che non si tolse il cappotto, salendo alla t r ibuna, per­ché il r i sca ldamento e r a insufficiente. Il vecchio filosofo por tò il d r a m m a italiano in u n a sfera alta e rarefatta di con­cetti, disse che «la presente gue r r a n o n è u n a gue r r a tra po­poli ma u n a gue r r a civile: e più esat tamente ancora n o n u n a gue r r a di interessi economici e politici ma u n a gue r r a di re­ligione» cosicché gli antifascisti italiani avevano po tu to di­staccarsi dal dovere di des iderare la vittoria del loro paese. Sforza fu sdegnoso ed egocentrico, e affermò tra l 'altro che la colpa del Re era maggiore di quella di Mussolini pe rché al p r imo lui, Sforza, aveva manda to un avvert imento scritto alla vigilia dell ' intervento, e al secondo no. Seguì u n a marea di interventi , e quindi un acceso dibattito pe rché le sinistre volevano un o rd ine del g iorno violento, e ad esso si oppo­nevano i modera t i . Il compromesso fu raggiunto su un do­cumen to che considerava «presupposto innegabile della ri­costruzione morale e materiale italiana l 'abdicazione imme­diata del Re, responsabile delle sciagure del paese»; procla­mava il Congresso «espressione vera e unica della volontà e della forza della nazione»; chiedeva fosse formato un gover­no «con i p ieni po te r i del m o m e n t o di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresenta t i al Congresso».

Ancora u n a volta era stato posto sul tappeto - e ormai in manie ra indilazionabile - il p rob lema istituzionale. Vittorio Emanuele I I I rifiutava, con cocciutaggine patetica, l'abdica­zione, ed era confortato in questa resistenza dai maldes t r i consigli di Acquarone che sentenziava: «Il Sovrano n o n in­t ende cedere alle imposizioni di u n a minoranza . Se gli Al-

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leati vogliono che abdichi bisogna che glielo impongano . In tal caso tutte le responsabilità r icadranno, na tura lmente , su di loro e su nessun altro». Badoglio fingeva di n o n impen­sierirsi pe r la bufera, e proseguiva nella sua azione «norma­lizzatrice». A Salerno aveva formato un governo di ministri e n o n di sottosegretari - furono finalmente dichiarati deca­du t i i minis t r i che e r a n o stati a b b a n d o n a t i a R o m a - che potè conta te su qualche nuovo nome di spicco, come quello di Vincenzo Arangio-Ruiz alla Giustizia. U n a volta di più i ministri furono sparpagliat i - alcuni r es ta rono add i r i t tu ra in Puglia - e i funzionari dovet tero sobbarcarsi lunghi tra­gitti sulle s t rade intasate dal traffico mil i tare e, ancor p iù , dal febbrile andirivieni dei piccoli e grandi trafficanti o sem­plicemente di gente in cerca di provviste. «Era u n a lotta del­l ' intera collettività retrocessa a secoli lontani. I piccoli centri rural i si r inchiudevano in u n a povera autarchia al imentare, i g rand i centr i u rban i come Napoli r icor revano a primitivi mezzi di commercio e di t raspor to . Uomini e d o n n e stimo­lati dalla miseria lasciavano in carovane le città e tornavano d o p o quindici, venti giorni con un carico di farina, carne e legumi. Due o tremila lire e rano sufficienti a costituire il ca­pitale d'esercizio cosicché quasi tut t i e r a n o primitivi com­mercianti , o lo divenivano in breve.»

En t ro ques ta cornice di convulso squal lore, le teste f ini del Regno del Sud si arrovellavano pe r escogitare la formu­la che estromettesse il Re ri lut tante senza costringerlo a fare ciò che assolutamente n o n voleva, ossia ad abdicare . Posto così il p rob lema, nessuno era in g rado di risolverlo meglio di Enrico De Nicola, la cui sapienza giuridica si accoppiava a un piacere quasi voluttuoso pe r la ricerca di cavilli subli­mi. Dopo r ipetut i incontri con Vittorio Emanuele , De Nico­la mise a p u n t o il proget to della Luogotenenza, che avrebbe spogliato il Re delle sue prerogat ive trasferite a Umber to di Savoia senza cos t r inger lo ad abdicare : p r o g e t t o che ebbe l 'assenso di Sforza. Ques ta era la successione degli avveni­ment i prevista da De Nicola:

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a) annunzio immediato di Vittorio Emanuele che, libera­ta Roma, U m b e r t o sarebbe des igna to L u o g o t e n e n t e con pieni po te r i m e n t r e egli stesso conservava solo il titolo di Re, ritirandosi a vita privata;

b) u n a volta a Roma il Re p rocederà d i re t t amente verso la sua villa, senza recarsi al Quir inale;

c) il governo Badoglio si d imet terebbe lo stesso giorno e Umber to chiamerebbe subito il candidato dei partiti centri­sti a p r imo ministro pe r formare il governo. Questo gover­no che ent rerebbe in funzione sarebbe già stato concordato pr ima di arr ivare a Roma.

Il principio della Luogotenenza rimase fermo. Ma a mo­dificare a lquan to le ipotesi più p r o p r i a m e n t e polit iche in­te rvennero svariati avvenimenti: tra gli altri il r i torno in Ita­lia di Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti.

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CAPITOLO QUINTO

IL PROCESSO

La Repubbl ica di Salò volle dars i anche i s t i tuz ionalmente un volto socialista. Era questa l 'ult ima d ispera ta carta del­l 'ultimo disperato Mussolini, che ne affidò la realizzazione a un Congresso del Partito, convocato pe r il 14 novembre in un salone di Castelvecchio, a Verona. L'assemblea voleva es­sere i l p ro logo di u n a Cost i tuente . Pavolini precisò infatti che essa avrebbe dovuto p ronunc ia r s i «sui p iù impor t an t i problemi statali e su quelle nuove realizzazioni da raggiun­gere nel c a m p o del lavoro le quali , p iù p r o p r i a m e n t e che sociali, n o n abbiamo alcuna per i tanza a definire socialiste». I l manifes to del n u o v o fascismo c o m p r e n d e v a 18 p u n t i , frutto di una puntigliosa elaborazione. Sembra certo che al­la p r ima stesura avesse posto m a n o Mussolini basandosi su un canovaccio di Nicola Bombacci.

Era costui un romagnolo , maestro come Mussolini, e co­me lui in gioventù socialista massimalista. Poi, m e n t r e Mus­solini veleggiava verso l ' interventismo e fondava il fascismo, Bombacci ader ì al neona to Partito comunista , nelle cui file fu eletto depu ta to . Dal pei fu espulso nel 1927, e vivacchiò successivamente in posizione equivoca: un rivoluzionario di sinistra fiancheggiatore del regime. Ora r iappariva in piena luce, come consigliere del Duce . La sua figura profetica -capelli bianchi e folti un po ' disordinati , barba imponen te -acquistò rilievo nella Repubbl ica di Salò. Bombacci conti­nuava a professarsi difensore del proletariato, il che lo met­teva in sintonia con gli aneliti populisti del fascismo risorto e a ques ta impos taz ione ader iva il d o c u m e n t o che aveva p r e p a r a t o . I l testo subì c a m m i n facendo varie modif iche,

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anche p e r in te rvento di re t to del proconsole tedesco R a h n che a t tenuò «le originarie tendenze molto accentuatamente socialiste nell ' interesse del man ten imen to della impresa pri­vata nella p roduz ione bellica» e cancellò «un p u n t o inserito dal Duce sulla preservazione della integrità territoriale». Di questo i tedeschi n o n volevano sentir par la re ; avevano già sos tanzia lmente annesso la Venezia Giulia, l'Alto Adige, e inoltre Zara, F iume, Spalato, Cat taro, e spingevano le loro superstiti ambizioni ben oltre. Basterà citare un a p p u n t o di Gòbbels: «Col F ù h r e r ho affrontato u n a ques t ione seria e impor t an te , d o m a n d a n d o g l i f in dove in tenda e spande re i l t e r r i to r io del Reich. Secondo la sua idea, noi d o v r e m m o avanzare fino ai confini del Veneto, e il Veneto stesso do ­vrebbe essere incluso nel Reich in forma autonoma».

Subite queste l imature e censure , i 18 p u n t i ebbero il sì definitivo di Mussolini , cui e r a n o stati sot topost i d o p o un suo breve soggiorno alla Rocca delle Caminate . Il documen­to mescolava cu r iosamente fascismo e socialismo, garant i ­smo e au to r i t a r i smo. Esso p rome t t eva , anz i tu t to , che u n a futura vera Assemblea costituente avrebbe dovuto dichiara­re la decadenza della Monarchia e proclamare la Repubbli­ca sociale, il cui capo sarebbe stato eletto «dai cittadini» ogni cinque anni . Venivano quindi sanciti il diritto del cittadino a r iot tenere la libertà dopo sette giorni di arresto senza incri­minazione , e l ' i nd ipendenza della magis t ra tura . Nella Re­pubbl ica sociale si sa rebbero svolte regolar i elezioni ma il Parti to sarebbe r imasto unico: l ' appar tenenza ad esso non sarebbe stata tuttavia richiesta pe r nessun ufficio o impiego. Religione di Stato la cattolica, rispetto pe r gli altri culti. Agli ebrei sarebbe spettato lo «status» di stranieri , e pe r la du ra t a della gue r ra sarebbero stati considerati di nazionalità nemi­ca. In politica estera la Repubblica sociale avrebbe persegui­to l'ideale di u n a comuni tà eu ropea risoluta a respingere gli intr ighi bri tannici . Sarebbero stati anche realizzati «l'aboli­zione del sistema capitalistico in terno e la lotta contro le plu­tocrazie mondiali». La Repubblica sociale si sarebbe «fonda-

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ta innanz i tu t to sul lavoro m a n u a l e tecnico e intellettuale» ma «la propr ie tà privata sarebbe stata garanti ta dallo Stato». Il g iorno p r ima che il Congresso si aprisse Mussolini scrisse che con la nuova Car ta «il fascismo, l iberato da tu t to quel­l 'orpello che ha ra l lentato la sua marc ia e dai t r opp i com­promessi che le circostanze lo h a n n o obbligato ad accettare, è r i tornato alle sue origini rivoluzionarie in tutti i settori, e par t icolarmente in quello sociale».

Al Congresso Mussolini d i ede i l suo viatico, ma n o n la sua presenza. Sentiva che quell 'assemblea di desesperados sa­rebbe stata tumultuosa e critica, e che n e p p u r e il suo perso­nale prest igio avrebbe p o t u t o r i sparmiargl i frecciate. Agli intervenut i indirizzò un proclama che a m a r a m e n t e ricono­sceva: «Non abbiamo più nulla, tu t to è da r icominciare. Ci r imane soltanto la volontà accompagnata da una dogmatica fede. Bisogna passare il più r ap idamente possibile da paese ine rme a paese combattente». Assente il Duce, Pavolini p re­siedette la discussione, spalleggiato da Renato Ricci. Il t ruce Cosmin aveva p red i spos to i l servizio d ' o rd ine , ass icurato con rozzezza da militi in maglione nero . In quell 'atmosfera eccitata - di u n a Convenzione suicida - era assai scarso il ri­spetto pe r le gerarchie, e qualche notabile del vecchio fasci­smo lo sper imentò a sue spese (ha r icordato Bocca nel suo La repubblica di Mussolini che un generale della Milizia cercò di sedersi nelle p r ime file, ma fu affrontanto da Cosmin che gridò: «O torni indietro o ti faccio but ta re fuori»). Non u n o degli oratori , n e p p u r e Pavolini, riuscì a par lare senza essere cont inuamente interrot to dai delegati delle varie federazio­ni, tra i quali gli squadristi antemarcia e rano mescolati a gio­vani fanatici acquisiti di recente al fascismo.

In quel torbido dibattito le invocazioni alla vendet ta con­tro i t raditori del Gran Consiglio, e soprat tut to contro Cia­no, fecero da con t r appun to ai proposit i di rifondazione del Partito. Fu invocata la costituzione di un Tribunale speciale che giudicasse i «rinnegati» del 25 luglio, e Pavolini promise di «portare questo voto al Duce, unico competen te a decide-

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re». I congressisti volevano il part i to unico, e l'esercito poli­tico, n o n di mestiere. Il segretario del Partito di Como chie­se maggiori poter i pe r la Milizia («non vogliamo più essere fregati») e l'esteta Pavolini s'indispettì. «Queste sono espres­sioni da caserma», disse. «Questa è una caserma» fu l 'aspra replica. L'approvazione dei 18 punt i o t tenne u n a sbrigativa unanimità , ma pe r il resto il Congresso si perse in battibec­chi, e n o n risolse nessuno dei veri nodi del momen to , a co­minciare dalla funzione del Partito e da quella dell 'Esercito.

C o m m e n t a n d o , con il segretar io Dolfin, la conclusione dei lavori, Mussolini disse: «E stata u n a bolgia vera e p r o ­pria. Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e preci­se. Si sono manifes ta te le t e n d e n z e più s t rane , c o m p r e s e quelle comunistoidi.. . E nessuno, dico nessuno di questi che h a n n o un bagaglio di idee da agitare, viene da me pe r chie­dermi di combattere . E al fronte che si decidono le sorti del­la repubbl ica , e n o n cer to nei congressi». Il Par t i to , con i suoi 250 mila iscritti («sono quanti tà e non qualità» aveva ri­levato Buffarini Guidi) r imaneva un'accozzaglia di corrent i e c o m p o n e n t i e t e rogenee . Ancora Buffarini Guidi notava che «moltissimi iscritti, soprat tut to i più in vista, rappresen­tano lo scarto di quello che fu il Partito fascista nel passato, e sono r i gua rda t i dalle popolaz ioni con disgusto , con di­sprezzo, e qualche volta con vero e p ropr io terrore».

V 'era stato, d u r a n t e i l Congresso, un intermezzo d r a m ­matico. Pavolini si alzò, chiese silenzio, e a n n u n c i ò che «il commissario federale di Ferrara, che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camera ta Ghisellini, t re volte medagl ia d 'ar­gento , tre volte medagl ia di bronzo, è stato assassinato con sei colpi di rivoltella». Dalla sala infiammata si alzarono gri­da di «tutti a Ferrara, vendichiamolo con il sangue». A sten­to Pavolini indusse l 'assemblea a p rosegu i r e i lavori , p r o ­met t endo che «quello che bisognerà fare sarà fatto, sarà or­dinato, e lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile».

Ghisellini e ra stato t rovato, la testa t rapassata da sei proiettili, nella sua Fiat 1100, sulla strada di Castel d'Argile

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di Cento. Il prefetto Marola, il vicequestore Poli, il t enen te dei carabinieri ebbero qualche perplessità sulla matrice par­tigiana del l 'a t tentato pe rché i cristalli del l 'auto r isultavano f rantumat i da l l ' in terno, e questo lasciava sospet tare che lo sparatore fosse a fianco della vittima. Ghisellini non andava a genio anche ad alcuni ultra del fascismo, che gli r improvera­vano d'essere moderato . Q u a n d o i tre espressero i loro dub­bi ai fascisti che sopraggiungevano, pront i alla rappresaglia, furono investiti da insulti, e trascinati nelle carceri di Ferra­ra. In poche ore ot tantaquattro persone cui erano rivolte ge­neriche accuse di antifascismo vennero rastrellate e ammas­sate in u n o stanzone della caserma Littorio. Altri ostaggi fu­r o n o prelevat i dalla pr ig ione . Undici sventurat i v e n n e r o messi a morte , par te in g ruppo par te alla spicciolata.

F in i rono pres to , con questa s t rage, gli appel l i alla con­cordia e l'illusione di alcuni fascisti che con la Repubblica se n o n socialista a lmeno sociale, si potesse a r r ivare a u n a ri­conciliazione degli italiani. La gue r ra civile det tò la sua leg­ge sangu inar ia , i GAP co lp i rono s e m p r e più a u d a c e m e n t e nelle città, tedeschi e fascisti r i sposero s e m p r e più crudel ­mente . Il 25 novembre i fascisti fecero i r ruzione nella gran­de masseria di Praticello, t ra Campegine e Gattatico, vicino a Reggio Emilia, dove viveva la famiglia Cervi. Erano, i Cer­vi, dei fittavoli che si e r ano insediati nel p o d e r e dal 1934: il p a d r e , Alcide, la m a d r e Genoveffa Cocconi , set te figli , i l maggiore di 42 il più giovane di 22 anni . Nel loro cascinale i Cervi avevano dato ospitalità dopo l'8 set tembre a prigio­nieri e sbandati - e di questo venivano sospettati dalle auto­rità fasciste - ma avevano anche organizzato azioni di squa­d re pe r d isarmare i presidi fascisti. Il ras t rel lamento del 25 novembre mirava p ropr io a snidare i prigionieri rifugiati a Praticello (vi furono infatti cat turat i un russo, d u e sudafri­cani , un francese gollista, un i r l andese , e un «r innegato» italiano). I maschi della famiglia Cervi furono tutti trasferiti nelle carceri di San Tommaso, a Reggio Emilia. Due giorni d o p o Nata le a Bagnolo in Piano, nelle c a m p a g n e di Reg-

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gio, venne ucciso da un commando il segretario fascista Vin­cenzo Onfiani , e ques to segnò la c o n d a n n a a m o r t e , p e r rappresagl ia , dei sette fratelli «rei confessi di violenze e ag­gressioni di carat tere c o m u n e e politico, di connivenza e fa­voregg iamento con e lement i antinazionali e comunisti». Il p a d r e n o n seppe della feroce s t rage fino a q u a n d o uscì di pr igione.

Altro sangue a Firenze dove il p r imo dicembre fu «giusti­ziato» da tre part igiani il comandan te del distretto militare, colonnello Gobbi, e cinque ostaggi antifascisti paga rono con la vita. Il 18 dicembre cadde sotto il fuoco dei guerriglieri il federale di Milano Aldo Resega, e in r isposta un p lo tone della Leg ione Mut i fucilò al l 'Arena di Milano nove «resi­stenti» che e rano nel carcere di San Vittore, e che un Tribu­nale speciale aveva sul t amburo condanna to a mor te . L'arci­vescovo di Firenze cardinale Elia della Costa tentò di p o r r e freno alla spirale del l 'odio con u n a «notificazione» nella quale r icordava a tutt i il qu in to c o m a n d a m e n t o , «non am­mazzare», pe r concluderne che e rano inammissibili le «ucci­sioni di arbitrio privato o a t radimento». Sul foglio clande­stino del Partito d 'azione Enzo Enriquez Agnoletti dep lorò a sua volta che il cardinale, «in un m o m e n t o tanto tragico e grave p e r la vita mora le e fisica di noi italiani», n o n avesse preferito tacere.

La catena degli a t tentat i - d u r a n t e i funerali di Resega un gappista aveva tirato da un tetto sul corteo, provocando u n a sparatoria nut r i ta e caotica - esasperò gli uomini delle formazioni fasciste più turbolente e violente. Buffarini Gui­di riferì al Duce che aveva dovuto affrontare le squadre del­la Muti pe r impedi re che effettuassero una «cosiddetta mar­cia sul Garda con la finalità di snidare il governo». Mussoli­ni e ra con t ra r io alle r appresag l i e , le cons iderava «un at to s tupido e bestiale», e prese di pet to Pavolini pe rché le con­sentiva. Ma poi fu cost re t to ad a r r e n d e r s i alla polit ica dell'«occhio pe r occhio, den te pe r dente» Il Capo del fasci­smo e ra o rma i p r ig ion ie ro dei «duri», disposti ancora ad

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osannar lo , ma n o n ad obbedirgl i q u a n d o sugger iva la cle­menza. Per salvaguardare la sua immagine , cavalcava ormai la t igre , e con r i lu t tanza dava soddisfazione ai fedelissimi, che lo aspettavano al varco: tra i tanti disertori del fascismo, ve n 'era u n o che meritava la massima punizione, ed era Ga­leazzo Ciano, i l gene ro del Duce . Su questo p u n t o i l Con­gresso di Verona, pe r altri aspetti così confuso, aveva espres­so una opinione perentor ia . La mor t e di Ciano era divenu­ta fatale nel m o m e n t o stesso in cui Mussolini e ra stato libe­ra to dal G r a n Sasso, n o n p e r c h é i tedeschi eserci tassero press ioni , ma p e r c h é , se n o n sacrificava Ciano , Mussolini abdicava al suo ruolo. Sulle interferenze tedesche, tendent i ad evitare che il conte sfuggisse al castigo, si è molto insisti­to, ne ha par la to Mussolini stesso. Una disposizione di Rib-b e n t r o p a R a h n n o n le conval ida. «Il F i ih re r ha stabilito - scrisse Ribbentrop - che il processo contro Ciano sia esclu­s ivamente u n a ma te r i a di c o m p e t e n z a del Duce e che da pa r t e nos t ra n o n si eserciti nessuna press ione in favore di u n a condanna .» I tedeschi si p r e o c c u p a r o n o mol to , pe r quanto li r iguardava, di r ecupera re i Diari di Ciano, e a que­sto scopo gli misero vicino, du ran t e tut to il soggiorno tede­sco, e poi d u r a n t e la prigionia, Frau Felicitas Beetz, un'abile spia - anche se sol tanto v e n t i d u e n n e - che si ch iamava in realtà Hi ldegard Burkha rd t . Inviata a Roma nel 1943, con il n o m e di Alice von Wedel - parlava cor ren temente l'italia­no - e r a stata segre tar ia nel Q u a r t i e r gene ra l e delle SS. Quel la di Frau Beetz, e di «ombra» del conte Ciano , fu la sua terza incarnazione. Felicitas Beetz era belloccia alla ma­niera delle giovani tedesche, con tendenza ad appesantirsi .

A Verona e ra stata invocata, con t ro i t rad i tor i , un 'a l ta corte di giustizia. In realtà il governo di Salò aveva provve­du to r ipr is t inando, fin dal 13 ot tobre del 1943, il Tribunale speciale di triste memor ia , e affidandogli specificamente il compi to di g iudicare «il t r ad imen to di coloro che sono ve­nuti m e n o n o n solo al p ropr io dovere di cittadini, ma anche al p r o p r i o g iu r amen to di fascisti». Stabiliva il decre to che i

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giudici dovessero essere «fascisti di provata fede». A questi requisiti r ispondevano cer tamente il ministro della Giustizia di Salò, Antonino Tringali Casanova, che era stato presiden­te del Tribunale speciale fino al 25 luglio, e il giudice istrut­tore del Tribunale speciale s t raordinario, Vincenzo Cersosi-mo, che aveva svolto ident iche funzioni nel Tr ibunale spe­ciale precedente . Galeazzo Ciano - che aveva r ipe tu tamente chiesto di p o t e r t o r n a r e in Italia dalla Baviera dove p u r e godeva di una certa libertà - fu accontentato il 19 ottobre e, sotto scorta delle SS, avendo accanto Frau Beetz, venne por­tato in aereo a Verona e subito trasferito al carcere cittadino degli Scalzi. Già vi si t rovavano i dissenzienti del Gran Con­siglio sui quali fascisti e tedeschi e rano riusciti a met te re le mani : Carlo Pareschi, ministro dell 'Agricoltura, Tullio Cia-netti, ministro delle Corporazioni , Luciano Gottardi , presi­d e n t e della Confederaz ione dei l avora to l i de l l ' indus t r ia , Giovanni Marinelli, pe r vent 'anni segretario amministrativo del Part i to fascista e da u l t imo sot tosegretar io alle Poste e Telegrafi. L 'o t tantenne maresciallo e q u a d r u m v i r o Emilio De Bono - collare dell 'Annunziata come Ciano - fu autoriz­zato data l'età a r imanere sotto sorveglianza fino alla vigilia del dibat t imento, nella sua villa di Cassano d'Adda, da dove fu por ta to d i re t tamente a Castelvecchio.

La scelta di Verona era di cattivo auspicio pe r gli imputat i : vi si respirava ancora il fanatismo del Congresso, vi spadro­neggiava l'oltranzista Cosmin, e il Quar t ie r generale di Pa­volini era vicino, a Made rno . I nomi dei giudici furono ap­provati il 24 novembre . Aldo Vecchini, il pres idente , e ra sta­to segretario del sindacato fascista degli avvocati e procura­tori , e federale di Roma, i c o m p o n e n t i della Cor te e r a n o tutti squadristi e ufficiali della Milizia. U no di essi, Celso Ri­va, opera io metal lurgico, aveva da poco perso il figlio p e r m a n o dei gappist i , a Tor ino . Tuttavia questi estremist i del fascismo avvert irono qualche tu rbamento , q u a n d o seppero di essere stati designati a giudicare - sarebbe meglio dire a

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condanna re - i membr i del Gran Consiglio: e lo stesso Vec-chini t en tò , senza riuscirvi, di essere esonera to . Si bar r icò quindi in Castelvecchio, facendo allestire alla meglio un al­loggio ad iacente al suo s tudio, e n o n se ne mosse più . Te­meva gli antifascisti, e temeva anche i fascisti. Renzo Monta­gna, luogotenente generale della Milizia, nomina to giudice, fu n o n solo perplesso, ma anche convinto che «ogni cosa era stata decisa e che il processo sarebbe stato fatto unicamente pe r dare veste legale a u n a sentenza già stabilita». Si p ropo­se di s t rappare qualche imputa to alla mor te , se gli fosse sta­to possibile.

A quel p u n t o accadde un imprevisto che parve agli accu­sati un colpo di fortuna. Un infarto uccise Tringali Casano­va, e il suo posto come minis t ro fu p reso da Piero Pisenti, che era un serio e ragionevole uomo di legge. Questi d iede un'occhiata ai fascicoli, e vide subito che l'accusa n o n regge­va. Chiese ud ienza a Mussolini , e si t r a t t e n n e con lui p e r d u e ore. Ha poi r icordato d'avergli det to: «Duce, ho esami­na to a t t e n t a m e n t e gli atti del processo: n o n c'è la min ima prova di u n a connivenza tra i firmatari del l 'ordine del gior­no Grandi e la Casa Reale. La votazione si è svolta in m o d o regolare e siete stato voi, Duce, a chiederla. Vi assicuro che l'accusa di t rad imento n o n è in alcun m o d o dimostrabile».

Secondo Pisenti, Mussolini d o m a n d ò allora, ro teando gli occhi, cosa si poteva fare, e il ministro suggerì che fosse al­m e n o evitata la pena capitale con la concessione delle atte­nuant i gener iche. «Parlatene con Vecchini» gli avrebbe det­to, congedandolo , il Duce. Ma Dolfin ha da to del colloquio u n a vers ione diversa. A Pisenti che insisteva, Mussolini avrebbe risposto che «voi vedete nel processo il solo lato giu­ridico... io devo vederlo sotto il profilo politico. Le ragioni di Stato sommergono ogni al tra considerazione. O r m a i bi­sogna anda re fino in fondo».

In rea l tà Mussolini e r a lacerato , sapeva che i tedeschi , anche se ostentavano neutrali tà, l 'avrebbero disprezzato ove si fosse d imos t ra to c lemente p e r ragioni familiari («il p r o -

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cesso di Verona era per i tedeschi la pietra di pa ragone del­le possibilità rivoluzionarie della repubblica italiana» scrisse poi); sapeva altresì che i fascisti del l 'ora es t rema volevano Ciano mor to , e che mor to lo voleva la moglie Rachele «deci­sa a far cadere la scure sul capo del novello Bruto» secondo il c o m m e n t o di E r m a n n o Amicucci, d i r e t to re del Corriere della Sera. Ment re il giudice Cersosimo svolgeva quei preli­minari che ebbero, ma non meri tavano, i l nome di istrutto­ria, Mussolini se ne stava isolato nella sua «capitale» lacu­stre, a r imuginare il passato e a scrivere articoli pe r la Corri­spondenza repubblicana. Q u a n d o accennava a Ciano Io faceva con frasi smozzicate e cont raddi t tor ie : «Non colpire Ciano sarebbe come dire che non è possibile colpire nessuno», ma «gli i taliani d i r a n n o d o m a n i che i l s angu ina r io sono stato io». Cersosimo procedet te agli in terrogator i degli imputat i , ed ebbe qua lche difficoltà, la p r i m a volta che si recò agli Scalzi, pe r vedere Ciano, sorvegliato dalle SS e pro te t to da Frau Beetz. N o n raccolse elementi che già non conoscesse. Coloro che avevano votato sì a l l 'ordine del g iorno G r a n d i e rano stati invitati da Mussolini stesso ad approvar lo o a di­sapprovarlo. Definire t rad imento questo atto era, dal p u n t o di vista giuridico, mostruoso.

Ciano e ra il catalizzatore degli odi e perciò il p e r n o del processo. Gli altri c inque - mancando il maggiore protago­nista del 25 luglio, Dino Grandi , salvo in Portogallo - aveva­no un ruolo di tragiche comparse . Per s t rappare Ciano alla mor te si p rod igarono , alla vigilia del dibat t imento - che co­minciò l'8 gennaio a Castelvecchio nello stesso salone in cui si era svolto il Congresso - e fino all ' imminenza della esecu­zione due donne , la moglie Edda e Felicitas Beetz. Rientra­ta dalla Germania il 20 set tembre dopo un ultimo gelido in­contro con Hitler, Edda aveva visitato la Rocca delle Carni-nate , p e r salutare la famiglia, e poi Roma, pe r affidare ad amici sicuri i Diari, sui quali contava molto pe r negoziare la liberazione di Galeazzo, liberazione pe r la quale si impegnò con u n a grinta che r icordava in lei - unica tra i figli - quella

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del p r i m o Mussolini . Fino al l 'u l t imo, scont randos i aspra­men te col pad re , t en tando e r i t en tando canali italiani e te­deschi, fece il possibile e l'impossibile pe r ot tenere la salvez­za di quel suo u o m o fatuo, leggero, forse un po ' disprezza­to, ma in fondo amato . A Mussolini g r idò in faccia: «Siete tutti pazzi! La gue r ra è pe rdu ta , è inutile che vi facciate illu­sioni. I tedeschi resis teranno qualche mese, ma n o n più. Tu sai quanto ho desiderato che si vincesse, ma ora non c'è più nulla da fare. E in queste condizioni si condanna Galeazzo».

Frau Beetz, spia capace e magar i cinica, ma p u r sempre donna , e nordica, e sensibile al fascino latino, s'era presa di Ciano: e Ciano, tombeur de femmes, s o p r a n n o m i n a t o dalla moglie «gallo», ebbe a lmeno, nelle ult ime sett imane di vita, questo conforto sent imentale e questa es t rema soddisfazio­ne alla sua vanità maschile. Nelle lunghe ore trascorse insie­me, i due par la rono sì dei Diari - p ropr io pe r carpirglieli la Beetz gli era stata appioppata come un 'ombra - ma par laro­no anche d ' amore . Così nei disegni della Beetz la trattativa sui Diari ebbe un dupl ice scopo: quel lo di accon ten ta re i «superiori» e quello di so t t r a r re Ciano al p lo tone d 'esecu­zione.

Il p iano di Felicitas Beetz era ingegnoso: d u e SS in divisa di militi fascisti avrebbero dovuto aggredire i tedeschi messi di guardia alla cella di Ciano, sopraffarli - con il consenso e la collaborazione degli assaliti - e rapire il pr igioniero. Cia­no sarebbe stato trasferito dappr ima in Ungher ia , quindi in Turchia: una volta in salvo, avrebbe provveduto ad avverti­re Edda che a sua volta avrebbe consegnato i Diari. Di que­sto copione fu informato il genera le delle SS Harster , e da lui r imbalzò a Ka l t enbrunner e infine al g ran capo H i m m -ler. A testimonianza della sua b u o n a fede Edda consegnò al­cuni document i - verbali di incontri con capi di Stato, mini­stri e diplomatici - che Ciano le aveva affidato: fu perf ino stesa una sorta di contrat to, firmata da Kal tenbrunner e da Ciano. H immle r e il suo vice avevano deciso «di tacere con Hitler e di agire da soli». «Invece - ha raccontato Hars ter -

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ogni cosa crollò all 'ult imo m o m e n t o . Hit ler seppe del p ro ­getto e si oppose, minacciando terribili punizioni . Il pome­riggio del 6 gennaio , la vigilia della fuga (e l'antivigilia del­l'inizio del dibat t imento, N.d.A.) mi chiamarono al telefono da Berlino. Mi fu ordinato di sospendere tutto.» A sua volta Frau Beetz ha espresso la convinzione che «la decisione di Hitler fu dovuta non tanto ad un intervento di von Ribben-t rop (che si r i t iene fosse stato in qualche m o d o informato, N.d.A.) quanto da un voltafaccia di Himmler, il quale all'ul­timo momen to ebbe pau ra del suo coraggio e andò a spiat­tellare tut to al suo Flihrer». Non sappiamo se H immle r e i suoi avessero in tenzione di r i spet tare il pa t to . L'avessero o no, Hitler fu pe r un 'ostentata inflessibilità.

Era la fine di ogni speranza . Galeazzo Ciano inviò alla moglie una lettera d 'addio nella quale trovò accenti di gran­de commoz ione : «Edda mia, m e n t r e tu vivi ancora nel la beata illusione che tra poche ore sarò libero e saremo nuo­vamente tutti insieme, pe r me è cominciata l 'agonia. Dio be­nedica i nostri bambini . A te chiedo che li educhi nel rispet­to di quei princìpi del l 'onore che io ho appreso da mio pa­dre...». Edda si rifugiò in Svizzera, dopo aver dato in conse­gna a Frau Beetz t re let tere che ri lanciavano la propos ta , i Diari contro u n a vita. Voleva Ciano a Berna en t ro t re gior­ni, scrisse al C o m a n d o tedesco in Italia, e se n o n l 'avesse avuto i Diari sarebbero stati pubblicati. A Hitler pose la stes­sa alternativa p r o m e t t e n d o che «se saremo lasciati in pace, nel fu turo voi n o n sent i rete più pa r l a re di noi». Più aspra che con ch iunque altro fu con il p a d r e : «Ho atteso sino ad oggi che tu mi mostrassi un min imo di sent imenti di uma­nità e di giustizia. Ora è t roppo . Se Galeazzo n o n è in Sviz­zera en t ro tre giorni.. . tutto ciò che so, con prove alla mano , lo userò senza pietà».

In una Verona bat tuta da sgherr i fascisti, e in un 'aula fune­reamen te addobbata , il processo cominciò la matt ina dell '8 gennaio. L'inverno era eccezionalmente mite, e alcuni degli

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imputa t i a r r iva rono nel salone di Castelvecchio senza cap­pot to. Ciano indossava un soprabito chiaro. Ai sei e ra stata data la possibilità di scegliersi un difensore (gli avvocati più in vista rifiutarono tuttavia l'incarico, che era senza speran­za e per icoloso, t an to che si dovet te r i co r r e r e a difensori d'ufficio), ma n o n di citare testimoni. Pr ima de l l ' aper tura i giudici si occuparono di Marinelli, che era malato e sordo, e che della seduta del Gran Consiglio, p ropr io perché non ci sentiva e perché era lontano dal Duce, aveva capito ben po­co. Q u a l c u n o p r o p o s e di so t topor lo a perizia , ma anche ques t ' idea fu a b b a n d o n a t a pe r ché n o n ci dovevano essere rinvìi. I tedeschi si t ennero os tenta tamente in disparte: assi­s te t tero sol tanto un ufficiale delle SS in un i fo rme , d u e in borghese , e Frau Beetz. Rahn si trovava in Germania , e al Deakin confidò successivamente che era a sua volta interve­nu to presso Hitler allo scopo di o t tenere l'assenso alla fuga di Ciano. Data la concezione che gli italiani avevano della famiglia, disse al Fuhrer, l 'esecuzione di Ciano avrebbe dan­neggiato l ' immagine di Mussolini. Hitler ribatté che la fac­cenda r iguardava esclusivamente il Duce e gli italiani.

Gli in terrogator i furono senza storia, e senza storia furo­no anche le tes t imonianze de l l ' ex p r e s i d e n t e del Senato Giacomo S u a r d o - che al Gran Consiglio si e ra as tenuto -dell 'ex segretario del Partito Scorza, di Farinacci. Ciano ave­va presenta to un memoria le di una ventina di pagine , altri ne avevano inviati a lcuni lat i tanti , Alfieri, Bast ianini , Bi-gnardi . Fu anche data le t tura del memoria le autodifensivo che Caval lero aveva scritto m e n t r e e r a d e t e n u t o a For te Boccea d u r a n t e i 45 giorni badogl iani , q u a n d o il genera le Carboni «gli cavava il sangue»: memoria le che accennava a propositi di sostituzione di Mussolini allorché questi, alla fi­ne del 1942, era stato seriamente malato. Si volle così raffor­zare il concetto di u n a vasta t rama cospirativa precedente il 25 luglio. Agli accusati Vecchini chiese r i p e t u t a m e n t e se avessero ben capito il d i lemma di Mussolini al Gran Consi­glio che si riassumeva così: o il Re mi dice caro Mussolini, le

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cose n o n sono andate effettivamente bene in questo ul t imo tempo, ma avete cominciato, cont inuate; o il Re mi dice, io accolgo il vostro invito a r iassumere le responsabilità milita­l i , ma poiché vi r i t engo responsabi le della si tuazione, ap ­profitto della vostra mossa pe r liquidarvi in un colpo. «L'or­dine del giorno Grand i - aveva allora concluso Mussolini -può met tere in giuoco l'esistenza del regime.» Questo batti e ribatti sul tasto del d i lemma intendeva dimostrare come i diciannove votanti pe r Grand i sapessero di segnare , con i l loro sì, la fine del fascismo.

Di significativo, in quella pa rod ia di dibat t imento, vi fu­r o n o sol tanto lo s m a r r i m e n t o e la p a u r a di Marinell i , e la perorazione quasi comiziesca di Cianetti, che r icordò d'ave­re inviato a Mussolini, poche ore dopo la fine del Gran Con­siglio, u n a lettera in cui ri trattava il suo voto. A quel p u n t o - dopo gli interventi dei difensori tra i quali il solo pa t rono di Cianetti, avvocato Arnaldo Fortini, sapeva di d isporre di ar­gomenti validi di fronte a u n a simile Corte - la sentenza era u n a formalità. Fu letta - dopo tre ore e mezza di attesa - al­le 14 del 10 gennaio. La voce a malapena udibile del presi­den t e Vecchini annunc iò : mor t e p e r tutti gli imputat i , con la sola eccezione di Cianett i , cui e r ano inflitti t r en t ' ann i di rec lus ione. Ossia u n a breve rec lus ione , f inché la g u e r r a avesse avuto il suo ormai scontato epilogo.

A quan to risulta dalle memor ie , n o n concordi , di alcuni tra i giudici, la discussione in Camera di consiglio ebbe mo­ment i di suspense. Secondo Montagna , Vecchini fece votare due volte perché la pr ima decisione era stata t roppo indul­gente. Secondo Franz Pagliani, la doppia votazione avvenne soltanto perché i giudici r isposero a d u e d o m a n d e : colpevo­li o innocenti? (e la risposta fu u n a n i m e : colpevoli), e deb­b o n o essere o no concesse le a t t enuan t i gener iche? (e su questo p u n t o Montagna si impegnò in difesa di De Bono ai cui ordini aveva combat tuto in Africa). Sempre secondo Pa­gliani vi fu totale accordo nel negare le a t tenuant i a Ciano, e invece u n a magg io ranza di misu ra (cinque con t ro quat -

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tro) nel negar le a Marinelli, De Bono, Pareschi e Got tardi . Maggioranza di c inque a qua t t ro , invece p e r conceder le a Cianet t i . Diversa, lo si è accenna to , la vers ione di Monta­gna, secondo il quale il console Battista Riggio, u n o dei giu­dici, che si era associato ai «clementi» pe r qua t t ro imputa t i - il che avrebbe salvato tutti t r anne Ciano - fu indot to a con­vertirsi alla durezza da Vecchini e dal fanatico Enrico Vezza-lini.

La sentenza fu ascoltata dagli imputat i in un silenzio sba­lordi to. Almeno alcuni t ra loro speravano che la c o n d a n n a n o n fosse quella capitale. Marinelli non aveva afferrato be­ne, chiese spiegazioni a Ciano che accennò a Cianetti, e dis­se: «Solo lui si salva, pe r noi è finita» e tracciò con la m a n o destra il segno della croce. Marinelli si afflosciò senza sensi.

A questo crimine giudiziario si tentò poi di da re u n a ra­zionalità legale con la motivazione della sentenza, coacervo di affermazioni politiche e di aberrazioni giuridiche. All'ini­zio di essa si affermava: «Non v'e dubb io che l ' o rd ine del giorno mirava a es t romettere il fascismo dalla vita nazionale e dalla condot ta della guerra. . . A questo p u n t o il Tribunale po t rebbe considerare già raggiunta la p rova della colpevo­lezza degli imputati». Il resto era d u n q u e macabro orpello.

Mussolini seppe sùbito della sentenza dal suo segretario Dolfin, che si era t enu to in contat to telefonico con Verona. Non fece nulla, giustificandosi in qualche m o d o col dire che «per me Ciano è mor to da tempo». Non fece nulla n e p p u r e quando , alle cinque del mat t ino successivo, il generale delle SS Wolff, cui Frau Beetz aveva trasmesso le t re lettere di Ed­da, gli lesse pe r telefono quella che lo riguardava. Wolff ha d ichiara to che Mussolini gli chiese un consiglio: doveva o no in te rven i re? Wolff r ibad ì che i l p r o b l e m a n o n e ra di competenza dei tedeschi, ma si p ronunc iò , personalmente , con t ro in t romiss ioni . A ogni b u o n conto , p e r d i m o s t r a r e che i tedeschi e rano estranei, dispose che cessasse la vigilan­za delle SS a t torno a Ciano.

Era la vittoria di Cosmin, che ne esultava, e di Pavolini

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(che forse d e n t r o di sé ne soffriva). Avevano o t tenu to ven­de t ta con t ro i t rad i tor i , e i m m e d i a t a m e n t e o r d i n a r o n o di r a d u n a r e , nella caserma della Guard ia nazionale repubbl i ­cana, u n a c inquant ina di militi da cui t r a r r e i l p lotone d'e­secuzione. Ma s ' interpose, a r e n d e r e frenetica la not te , un ostacolo: le d o m a n d e di grazia che gli imputat i avevano fir­ma te su sollecitazione dei difensori - aveva firmato anche Ciano, d o p o mol te esitazioni - e che dovevano p u r essere r e sp in te da q u a l c u n o (alla loro accet tazione Pavolini n o n pensava n e p p u r e lontanamente) . Logica avrebbe voluto che le d o m a n d e fossero p resen ta te al Capo dello Stato, ossia a Mussolini. Ma propr io questa soluzione r ipugnava a Pavoli­ni che le sottopose d a p p r i m a - il sugger imento era stato di Cersosimo - al genera le Umber to Piatti dal Pozzo, coman­d a n t e te r r i tor ia le del l 'Eserci to a Padova. Piatti dal Pozzo, con l'avallo di un consulente legale, declinò seccamente l'in­combenza: n o n competeva a lui di p ronunc ia r s i . Pavolini, Cosmin che aveva in tasca le d o m a n d e , Cersosimo, il p u b ­blico accusatore Andrea Fortunato, il Capo della polizia Tul­lio Tambur in i discussero un paio d 'o re , qu ind i s i mossero tutti verso Brescia, su un ' au to a gasogeno - al imentata cioè a carbone di legna - pe r interpellare il ministro della Giusti­zia Pisenti. Questi li ricevette subito nel suo ufficio, a Palaz­zo Mar t inengo, e disse chiaro e t ondo che avrebbe por ta to le d o m a n d e a Mussolini. Pavolini insorse a d d u c e n d o - era p ropr io il caso! - pretesti umani tar i : Mussolini n o n doveva essere posto di fronte a una alternativa dolorosa. Della fac­cenda si e r a s e m p r e occupa to esclusivamente il Par t i to , e avrebbe continuato ad occuparsene.

Ma colui che del Partito era segretario riluttava, pe r un singolare res iduo di legalitarismo, a p ronunc i a r e in p r ima p e r s o n a il fatale no . Da Brescia il g r u p p o si trasferì a Ma-de rno , per un consulto con il ministro del l ' In terno Buffari­ni Guidi , che voleva anche lui tener fuori Mussolini, ma ri­teneva si dovesse scovare un comandan te militare disposto ad assumersi la responsabilità. Pensarono all'ufficiale di gra-

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do più elevato della Guard ia nazionale repubbl icana a Ve­rona, e r i t ennero d'averlo trovato nel console Trevisan, ma questi obbiettò che c'era qualcuno sopra a lui, il console Ita­lo Vianini, ispet tore della V zona, q u a r a n t a q u a t t r e n n e , ex combat tente in Russia, fascista accanito, ma n o n disposto a caricarsi di un tal peso. Assediato e incalzato pe r o re dagli altri, Vianini si arroccò nel suo no. Cont inuò a r ipeterlo an­che q u a n d o da Boscochiesanuova gli venne l 'ordine di Re­nato Ricci, il suo comandan te . L'esecuzione era stata fissata pe r l'alba, ma alle 8 del mat t ino - lo ha na r r a to Silvio Ber­toldi nel suo Salò - si discuteva ancora. E si discusse finché Ricci ebbe la trovata risolutiva: «Senti Vianini, pe r tua t ran­quillità ho pa r la to con G a r d o n e , sono tut t i d ' accordo . Lo devi assolutamente fare». Gardone , ossia Mussolini. Vianini si rassegnò, ma volle un o rd ine scritto, e Tambur in i scrisse un biglietto nel quale attestava semplicemente che Ricci ave­va telefonato pe r o r d i n a r e a Vianini di firmare. Così, con p r o c e d u r a contorta, e d o p o un misero giuoco di scaricaba­rile, fu sottoscritto il documento che stabiliva di n o n inoltra­re la d o m a n d a di grazia, e dava via libera all 'esecuzione «in località tiro a segno».

Nella not te i sei - ma Cianetti faceva ormai pa r te pe r se stesso - furono assistiti dal cappellano del carcere, d o n Giu­seppe Chiot. A lui Ciano, risvegliandosi da un breve sonno, disse: «Com'è lunga a venire la morte». Ad eccezione di Ma­rinelli, che si disperava e tremava, i condannat i si comporta­rono bene, con dignità e controllo. Secondo il racconto che ne ha fatto Cianetti nelle sue memor ie Ciano tentò, in quel­le ore tormentate , di togliersi la vita. «Alle 4,20 - questa è la tes t imonianza del l 'unico i m p u t a t o p r e sen t e cui fu r i spar­miata la fucilazione - r i torno nel corr idoio e scambio qual­che parola con i militi delle SS germaniche. Ciano che sente la mia voce esce a sua volta dal 27 (il n u m e r o della sua cella, N.d.A.) e mi p r e n d e sottobraccio. È l egge rmen te agi tato. "Che hai?" gli chiedo. Riflette un at t imo, poi mi r i sponde : "Senti . . . ma sai che il c i anuro n o n m ' h a fatto n iente?" . Mi

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fermo di scatto: "L'hai d u n q u e ingeri to?". "Sì, da dieci mi­nuti ." "Perché Galeazzo hai fatto questo? Mi avevi p romes­so..." "Sì capisco... Mi sono sedu to sul letto ed ho at teso. Niente! Ho atteso. S e m p r e niente . Sono stato inganna to . " "Chi te lo ha p rocura to?" "Edda." Taccio ma non ci c redo. Un pensiero inequivocabile: la giovane tedesca che - chissà a quale prezzo politico - ha finto di p rocura re il tossico.»

Vennero così le sei del matt ino, e don Chiot potè scorge­re il riaffiorare della speranza sui volti di Ciano e degli altri. I l r i t a rdo pa reva un b u o n segno. Forse la grazia e ra stata concessa. Alle otto seppero la verità. «Passi pesant i - ha ri­cordato don Chiot - due ufficiali tedeschi delle SS, un brivi­do p r e n d e tutti. . . Un funzionario del Tr ibunale , passando di cella in cella, a n n u n c i a a ciascuno dei c inque il r ige t to della d o m a n d a di grazia. I l cancello resta ape r to , e n t r a n o squadrist i vocianti e rumoros i , a rmat i di mitra.» Ment re li conducevano via Ciano sussurrò al confessore: «Verrà p r e ­sto anche l'ora di Mussolini».

Un autobus por tò tutti al forte Procolo dove era in attesa il p lotone d'esecuzione. Nel r appo r to tedesco fu scritto che «l'unico pr igioniero che d iede ancora da fare fu Marinelli, che parecchia gente dovette legare alla sedia» e che un con­d a n n a t o , Pareschi o Got ta rd i , g r idò «Viva l 'Italia, Viva il Duce». Le sedie e rano malferme, gli uomini del plotone mi­ra rono male, e si videro a ter ra i corpi dei colpiti che ancora si contorcevano, e dovettero essere abbattuti con altre scari­che. La radio diede notizia dell 'esecuzione facendola prece­dere da Giovinezza, e Mussolini s'infuriò. «Gli italiani a m a n o mostrarsi in ogni occasione o feroci o buffoni» disse.

Poi convocò a Villa delle Orsoline d o n Chiot. Voleva sa­pere . «Io non ho ricevuto alcuna d o m a n d a di grazia» si giu­stificò con voce incer ta . E agg iunse : «Nell 'orr ibi le no t t e , ogni volta che accendevo la luce nella mia stanza, scoprivo la tentazione irresistibile della rivoltella sul mio tavolino». Congedato d o n Chiot, tornò alle sue inutili udienze di inu­tile Capo di Stato. Frau Beetz raccolse con affetto le cose di

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Ciano e le por tò di persona alla mad re , Carolina, confidan­dole: «Io l 'ho amato, contessa, io lo amo ancora».

Il processo di Verona fu il p iù clamoroso, ma n o n l'ulti­mo at to di vende t t a del n u o v o fascismo con t ro chi aveva contribuito a travolgere il vecchio. Vi fu u n a serie di arresti e di istruttorie contro gerarchi, pe r non aver ostacolato Ba­dogl io , o p e r avergli inviato at testazioni di obbedienza , o pe r arr icchimenti illeciti: p e r qualche t empo anche il pove­ro Starace finì in carcere, poi fu rilasciato, poi vi ritornò, in­fine fu def in i t ivamente l ibera to . Gli si impu tava di aver scritto, d o p o il 25 luglio, a Badogl io (lo aveva fatto anche Mussolini, ma a lui n o n lo si r improverò) . Carlo Scorza e il suo vice Alessandro Tarabin i , che d o p o i l G r a n Consiglio avevano quie tamente accettato che il Partito e la Milizia fa­cessero karakiri , furono processati , e assolti pe r in tervento diret to, questa volta, del Duce.

Farinacci respinse con veemenza l 'accusa d 'essere stato un profi t tatore. Non lo toccarono, comunque , era prote t to dai tedeschi. Fu incr iminato un g ran n u m e r o di general i e ammiragl i : t ra questi ult imi Gino Pavesi, che aveva conse­gnato Pantelleria agli anglo-americani , Pr imo Leonard i , la cui base, Augusta, si e ra arresa in circostanze a d i re il vero ignominiose, e infine Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, di nient 'a l t ro responsabili che d 'avere obbedito, nel Dodecan-neso, agli o rd in i che Badoglio impart ì , f irmato l'armistizio. Campioni e Mascherpa e rano , dal p u n t o di vista militare, in regola, e n o n s 'erano macchiati di viltà. Il capo d ' imputazio­ne diceva che «avendo r icevuto l 'o rd ine del C o m a n d o su­p r e m o di non ostacolare contatti e sbarchi anglo-americani» avevano obbedito «pur essendo tale ord ine palesemente cri­minoso». Su queste basi fu pronuncia ta l 'iniqua condanna a mor te , eseguita il 24 maggio 1944. Anche pe r i d u e ammi­ragli il ministro della Giustizia Pisenti aveva interceduto con ammirevole tenacia, recandosi da Mussolini in p iena not te tanto che, ha r icordato Silvio Bertoldi, «il Duce dovette rice­verlo in camera da Ietto». Ma n o n ci fu verso.

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Tra lo scorrazzare dei militi in camicia nera, la presenza tede­sca, le azioni dei GAP, le grandi città della Repubblica di Mus­solini, p r ima t ra tut te Milano, tentavano d ispera tamente di vivere. Erano aperti cinematografi e teatri, a San Siro si svol­gevano le corse di cavalli, squadre di calcio improvvisate con grandi campioni si incontravano, si poteva assistere a qualche buon concerto con la direzione di maestri di fama, come An­tonino Votto. I viveri e r ano scarsi con le tessere di raziona­mento , abbondant i alla borsa nera, che garantiva pane bian­chissimo, ottimo bur ro , pasta, riso, carne: ma a prezzo enor­memente maggiorato rispetto a quello ufficiale. Una trentina di lire al chilo il b u r r o della tessera, 150 quello clandestino: r a p p o r t o ancor peggiore pe r lo zucchero, da 11 a 100 lire. Sovente i quantitativi di alimenti garantiti dalla tessera - 100 grammi di carne al giorno, duecento grammi di pane nero -risultavano introvabili. Era ridotta l 'erogazione di elettricità, mancavano il carbone e la legna, inesistente il caffè, cuoio e tessuti rimpiazzati da prodott i «autarchici». Il coprifuoco im­poneva che tutti rincasassero presto, e gli spettacoli dovettero perciò essere spostati al pomeriggio. Ma il pubblico era egual­mente numeroso . Recitavano compagnie di p r im 'o rd ine , la Ruggeri-Marchiò, la Maltagliati-Cimara, la Torrieri-Carnabu-ci, la Ricci-Magni, e poi Memo Benassi, Giulio Donadio (lui sì fervente fascista), Rascel, Nino Taranto, perfino il varietà con Marisa Maresca. A Venezia era stato trasferito, insieme al cor­po diplomatico accreditato presso Salò, anche ciò che soprav­viveva di Cinecittà, ma i film in cantiere restarono quasi tutti incompiuti. Tra gli attori che si aggiravano in quella necropo­li di glorie passate, e rano anche Osvaldo Valenti e Luisa Feri-da entrambi famosi, che e rano legati nella vita e sarebbero ri­masti legati nella morte: lui ostentando, più per tracotanza di spaccone che pe r ansia gue r r i e r a o ferocia di rastrel latore, l 'uniforme della X Mas. Avrebbe perfino assistito a interroga­tori e torture di partigiani in quella palazzina di San Siro a Mi­lano che, divenuta Quart ier generale del feroce Pietro Koch, fu ribattezzata Villa Triste.

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Nel q u a d r o dell 'Italia n o n ancora occupata dagli anglo­amer ican i , R o m a aveva u n a posiz ione s ingolare : i n t an to p e r c h é il Vaticano e i palazzi apostolici che godevano del privilegio della extra terr i tor ia l i tà offrivano rifugio a molt i antifascisti, o ant i tedeschi , o in genera le a persegui ta t i . Le camere t t e dei seminaris t i del L a t e r a n o e r a n o g remi t e d i personal i tà politiche, e Pietro N e n n i ad esempio por tava il n o m e di d o n Porta, a p p u n t o i l seminarista del quale usur­pava - p e r le d rammat iche esigenze dell 'ora - il provviden­ziale alloggio. A questa presenza vaticana faceva da contrap­p u n t o l'assenza di ogni vera autori tà che esercitasse il pote­re in n o m e della Repubbl ica mussol iniana. Che Salò s'im­mischiasse nella Città e terna n o n lo voleva il Papa, che svol­geva u n a intensa e cauta azione pe r preservarla dalla distru­zione, e n o n lo volevano i tedeschi . Graziani e ra sovente a Roma, pe r discutere questioni militari con i «camerati ger­manici», e anche pe r intavolare contatti con il segretario di Stato cardinale Maglione (profittò di una di quelle visite pe r far pe rven i r e a Badoglio, via Santa Sede, un messaggio in cui p roponeva di evitare, ent rambi , la gue r r a civile: n o n eb­be r isposta) . Gli altri minis t r i scendevano di r a d o , p e r c h é n o n potevano da re ordini , e n o n des ideravano, forse, rice­ve rne . Quell i che si facevano vivi, e r a n o invitati a cena da Kesselring che alle 22 immancabi lmente li congedava: «Scu­satemi signori - diceva - ma io debbo fare la guerra».

Kesselring faceva la guer ra , e la faceva molto bene, ma le SS si dedicavano alla caccia degli ebrei. Vi si e r ano dedicate anche al n o r d - la Juden Aktion poteva finalmente dispiegar­si in tut to il suo rigore, ora che Mussolini era solo un fantoc­cio - e nella zona del Lago Maggiore avevano massacra to u n a c inquant ina di ebrei rastrellati. Ma a Roma l'azione fu se possibile ancora più proterva . Il 26 set tembre 1943 il te­nente colonnello Herbe r t Kappler, capo della Gestapo, ave­va i ng iun to al p r e s iden t e della c o m u n i t à israelitica, Ugo Foà, che gli fossero consegnat i 50 chili d 'o ro , ad evitare la depor taz ione di duecento ebrei . In d u e giorni quel quant i -

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tativo d 'o ro era stato raccolto. Foà s'era illuso d 'avere con ciò messo la comuni tà al r iparo da pericoli, tanto più che la l iberazione di Roma n o n poteva t a r d a r e mol to . «Abbiamo pagato le nostre vite» aveva det to. Si sbagliava, t ragicamen­te. Il 16 ottobre le SS si avventarono sul ghet to, pe r u n a raz­zia di ebrei, e poi al largarono la loro caccia agli altri quart ie­ri. Tutti dovevano seguire gli sgherri , ed e rano autorizzati a por ta re con sé viveri per otto giorni, carte annonar ie , carte d ' ident i tà , bicchieri, u n a valigetta con indumen t i , d e n a r o , gioielli. «Una nobi ldonna romana che si trova a passare nei pressi - h a n n o r icordato Piero For tuna e Raffaele Uboldi -scorge su un camion un g r u p p o di bambini ebrei, pallidi, gli occhi dilatati dal t e r rore , silenziosi, le mani aggrappa te alle fiancate del veicolo. In fondo a uno dei camion, alcuni neo­nati, affamati e intirizziti, buttat i a caso su un'asse di legno, g e m o n o sotto la p ioggia che con t inua a cadere.» I t ren i li p o r t a r o n o verso il n o r d , i campi di s terminio , le camere a gas.

In questa Roma che non era una vera città aper ta - Mus­solini aveva rifiutato di dichiarar la ufficialmente tale - ma che n o n e ra n e p p u r e u n a città governa ta , avevano pres to dilagato le «polizie speciali», vere bande delinquenziali e in­controllabili nelle cui mani ogni arrestato diventava un p ro ­babile «desaparecido», o un ostaggio da bara t t a re . Ques te polizie private imperversavano in tutto il terri torio della Re­pubblica, ma a Roma le guidava addir i t tura il federale della città, Gino Bardi , che aveva come complice Guglielmo Pol-lastrini, un ex-ufficiale dei carabinieri. Palazzo Braschi, sede della Federaz ione fascista, e ra d iventa to un i m m e n s o ma­gazzino di merci dep reda t e : in alcuni dei suoi locali veniva praticata abi tualmente la to r tura verso vittime che non con­fessassero, o non pagassero a sufficienza.

Questi arbitri avevano suscitato allarme perfino nei tede­schi, che q u a n d o in tendevano commet te rne , lo facevano in p r i m a pe r sona , e in g r a n d e , a s p o r t a n d o macch ina r i e at­trezzature, e i nondando l'Italia con i loro marchi di occupa-

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zione (dieci lire pe r un marco): ma n o n in tendevano tolle­r a r e le iniziative di quel la che Kapp le r definì sprezzan te ­men te «una banda di dilettanti». Il colonnello Eugen Doll-mann , capo delle SS a Roma, aveva segnalato a Mussolini lo scandalo, e dal suo e remo gardesano il Duce - usando quel poco di autori tà che gli restava - o rd inò alla polizia di inter­venire. L'incursione del questore Caruso fu organizzata mi­l i ta rmente , con molti agent i e carr i a rmat i leggeri . Il 5 di­cembre Palazzo Braschi venne circondato, Bardi e Pollastri-ni con u n a quaran t ina di loro manutengol i arrestat i . Subi­r a n n o c o n d a n n e lievi. «Il b u o n esempio» t i to larono i gior­nali, d a n d o notizia dell 'operazione.

Il Congresso di Verona aveva chiesto u n a svolta a sinistra della nuova Repubblica, e Mussolini, secondo il suo solito, volle t rasferire la responsabi l i tà della mossa dal par t i to al governo. Il 12 gennaio 1944 fu deliberata la legge sulla so­cializzazione delle imprese, che in effetti non venne mai at­tuata. Questa svolta dell 'ultimo fascismo fu insieme un pate­tico r i torno alle origini e un espediente . Ma arr ivò q u a n d o nessuno c redeva più alla sopravvivenza del r eg ime , e alla possibilità che la «socializzazione» fosse un e lemento stabile dell 'assetto economico italiano. Fu voluta da Mussolini, di­fesa dal ministro delle Corporazioni Angelo Tarchi, criticata pe r ché «insufficiente» dalla sinistra del fascismo, accettata con ri luttanza e prat icamente sabotata dai tedeschi, rifiutata dagli operai , condanna ta dagli avvenimenti.

Ecco il chiaro riassunto che R a h n ne fece a Berlino, dopo un colloquio con Tarchi: «Tutte le imprese i taliane, sia so­cietà che private, sa ranno socializzate (in prat ica statizzate, N.d.A.) nel caso abbiano un capitale d ' inves t imento supe­r iore a un milione e impieghino più di c inquanta persone . Il consiglio d 'amministrazione di u n a società sarà costituito in maniera che metà dei suoi membr i siano eletti da assem­blee di azionisti, men t r e l'altra metà sarà composta da r ap ­presentant i del personale. . . Nelle imprese private la par te ­cipazione del personale sarà assicurata dalla formazione di

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un consiglio di gestione con funzioni consultive consistente in un tecnico, un impiegato e un operaio. Nelle imprese di Stato metà del consiglio di amminis t razione sarà composto dal pe r sona le . In tu t te le imprese dello Stato e pr iva te il profitto netto risultante dai bilanci dopo la deduzione degli utili dei propr ie tar i , dei fondi di riserva e dei dividendi de­gli azionisti deve essere diviso tra i d ipendent i in proporzio­ne ai loro salari».

Sia Rahn, sia - e con maggiore accentuazione - i coman­dant i militari tedeschi e rano perplessi e infastiditi di fronte a una «rifondazione» della economia che rischiava di disse­starla ancor più, m e n t r e incalzavano le esigenze della p ro ­duz ione bellica. Per rassicurare Rahn , Mussolini gli scrisse che c'era «la t endenza in alcuni ambient i tedeschi a d r a m ­matizzare eccessivamente» e a imped i re u n a azione dire t ta cont ro quei dir igenti del l ' industr ia italiana «che a t t endono a braccia a p e r t e gli anglosassoni e sono in g r a n p a r t e re ­sponsabili del t rad imento dell '8 settembre».

Hi t ler fu m e n o r i lu t t an te di R a h n ad accet tare i l fatto compiu to n o n pe rché lo credesse efficace ma pe rché lo sa­peva inutile: «Il Duce p u ò agire in questo campo come sti­ma più conveniente , anche se n o n è prevedibi le che le mi­sure o t t e r r a n n o un g ran successo. Noi tedeschi dobb iamo guar i r e da l l ' ab i tudine di pensa re che è pe r noi un dovere essere i medici di tutta Europa». Può sembrare paradossale che alcuni industriali si mostrassero indifferenti di fronte a un decreto che li espropriava: la verità è che ne sapevano la inconsistenza e ne prevedevano la effimera vita. Per questo Vittorio Valletta, d i re t tore generale della Fiat, potè in tut ta tranquill i tà dichiarare che «la legge del Duce sulla socializ­zazione incon t re rà l 'approvazione di tutt i coloro che, al di sopra degli interessi privatisti, vedono nel p r o g r a m m a so­ciale del fascismo... la salvaguardia pe r un ' o rd ina t a convi­venza tra capitale e lavoro».

Per precaria e velleitaria che fosse, la socializzazione im­pensier ì i d i r igent i clandestini comunist i , che volevano af-

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fermare, in fatto di socializzazioni e di egualitarismo, il loro monopo l io . Un «comitato segreto di agi tazione p e r i l Pie­monte , la Lombard ia e la Liguria», composto in s t ragrande maggioranza di comunisti , p romosse pe r i p r imi di marzo, contro il p a r e r e di altri esponent i antifascisti, u n o sciopero generale nelle fabbriche, che fermò del tutto tre sezioni Fiat a Torino, ed ebbe un seguito parziale in altre industrie. Sin­dacalisti fascisti si affannarono a spiegare alle maestranze gli scopi della legge, ma u n o di lo ro a n n o t ò desolato che «le masse r i pud iano di ricevere alcunché da noi». La brutal i tà tedesca fece il resto. Per esplicita disposizione di Hitler pa­recchi opera i delle fabbriche «contagiate» furono deporta t i in Germania , e il divorzio tra i lavoratori e il regime fascista - che era visto come un regime tedesco-fascista, e in sostan­za lo era - si consolidò, anziché at tenuarsi . Con la socializza­zione il Mussolini di Salò non conquistò i favori di nessuno. Era venuta male, ed era venuta tardi.

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CAPITOLO SESTO

LE FATICHE D'ERCOLI

Il 14 marzo 1944 il governo Badoglio d i ramò un annunc io che suscitò scompiglio e disor ientamento nei partiti politici, sorpresa nella op in ione pubblica italiana, cos te rnaz ione a L o n d r a e a Washington.

«In seguito al desiderio a suo tempo ufficialmente espres­so da pa r t e italiana - diceva il comunicato - il governo del­l 'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche ed il Regio go­verno hanno convenuto di stabilire relazioni dirette tra i due paesi. In conformità a tale decisione sarà proceduto fra i due governi senza indugio allo scambio di rappresentant i munit i dello statuto diplomatico d'uso.»

Giuocando d 'ant ic ipo , Mosca met teva così in u n a posi­zione imbarazzante gli anglo-americani , che soppor tavano l ' intero peso mili tare della campagna d'Italia, che si at teg­giavano a protet tor i e tutor i dell 'Italia stessa, ma che appa­rivano meschini e prevaricatori , nei confronti di Badoglio e nei confronti del paese intero, a pa ragone con l'URSS. Stizzi­ti e impotent i , M u r p h y e Macmillan t en ta rono di muove re obbiezioni, rinfacciando ai sovietici la manca ta consultazio­ne con gli Alleati occidentali, e al governo di Salerno la vio­lazione delle n o r m e armistiziali. Ma le bizzose e velleitarie proteste servirono a poco; restava il fatto che con un colpo da maestri i sovietici avevano accumulato un «capitale poli­tico» ingente , tanto che il governo italiano promise di «non dimenticare» il gesto di Mosca «compiuto com'è in u n a del­le o re p iù t rag iche della nos t ra storia». Per comp le t a r e i l quad ro negativo vi fu, in quello stesso volgere di sett imane, il fallimento della offensiva anglo-americana su Cassino; fal-

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l imento che significò la r inuncia, pe r qualche altro mese, al­la liberazione di Roma.

Ment re I ' U R S S «apriva» a Badoglio, Palmiro Togliatti viag­giava verso l'Italia. Era part i to da Mosca, in aereo, il 18 feb­braio, ma fu costretto a seguire un i t inerario accidentato e tortuoso, con soste a Baku, Teheran, Il Cairo, Algeri (lì ospi­te del C o m a n d o alleato): infine da Algeri a Napoli a b o r d o di un piroscafo, il Tuscania, dal quale sbarcò il 27 marzo, in­fagottato in un abito di taglio russo, con un maglione a stri­sce b ianche e azzur re . Togliatti negò , successivamente, di avere saputo , p r ima di lasciare l ' U R S S , de l l ' imminente rico­noscimento di Badoglio da par te di Stalin: asserì che «si po­trà d i re tutt 'al più che la situazione mi spinse a cercare una via di uscita in una direzione che aveva qualcosa di analogo a quella accennata dalla diplomazia sovietica, ma niente di più». L'affermazione è comprensibi le (Ercole Ercoli e ra an­sioso di scrollarsi di dosso l 'uniforme di funzionario del Co-min te rn e di alto esponente del comunismo internazionale, pe r indossare la grisaglia del politico italiano) ma poco cre­dibile. La manovra risultò t roppo parallela, e t r o p p o fluida­men te orchestrata, pe r essere casuale.

Togliatti giungeva in Italia p recedu to da un prestigio in­discusso e da u n a consacraz ione sovietica che, al lora, e ra pe r l 'universo comunista de te rminan te . I compagni napole­tani che c redevano , nella loro esuberanza pre-r ivoluziona­ria, di incont rare un «pasionario» effervescente e cordialo-ne , si t rovarono di fronte a un gelido professore che usava di malavogl ia il tu , e prefer iva la s t re t ta di m a n o agli ab­bracci. Al Parti to comunis ta il leader venu to dal f reddo im­pose quella che fu ch iamata «la svolta di Salerno»: ossia la rinuncia ad ogni polemica ant imonarchica e antibadogliana in n o m e della s u p r e m a esigenza d i fo rmare u n a g r a n d e «unione nazionale e antifascista p e r la ricostituzione mate ­riale e morale della nazione e pe r un vigoroso contr ibuto al­la gue r r a contro i tedeschi».

Ch iunque avesse avuto credenziali m e n o solide di quelle

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togliattiane, ben difficilmente sarebbe riuscito a far digerire dai suoi una formula politica che contraddiceva i p receden­ti a t teggiament i del Parti to. Pochi giorni p r ima migliaia di militanti comunist i , insieme a socialisti e azionisti, avevano manifestato nella galleria U m b e r t o di Napol i cont ro il go­verno: sindacalisti di sinistra avevano tuona to cont ro i Sa­voia, e infine era stato approvato un ord ine del giorno che chiedeva «l 'epurazione dei residui del fascismo, compreso il Re». Era u n a impostaz ione r ivoluzionaria , della quale To­gliatti fece piazza pulita sosti tuendo ad essa un p r o g r a m m a di inserimento legalitario del PCI nel potere .

Lo stret to col laboratore di Stalin aveva, sulla divisione delle sfere di influenza in Europa , idee molto più chiare di quelle dei suoi compagni rimasti in Italia. Benedet to Croce nel suo diario colse subito la impor tanza e le intenzioni del giro di boa imposto da u n o «che ha il nome convenzionale di Ercoli, ma è un Togliatti... ha esortato a collaborare col go­ve rno Badogl io sa l tando la ques t ione del l 'abdicazione del Re... un abile colpo della repubbl ica dei Soviet vibrato agli anglo-americani , p e r c h é sotto il colore d ' intensificare la guer ra contro i tedeschi int roduce i comunisti nel governo».

Politico dut t i le , e maitre a penser (fondò subito la rivista ideologica-culturale Rinascita), Togliatti ebbe screzi con Cro­ce, cui rinfacciò la sua «resistenza privilegiata» du ran t e il fa­scismo, e con Sforza, ma non con Badoglio, che gli piaceva: e gli piacque anche la definizione che il maresciallo diede in p iemontese di Sforza, «l'è pien 'd voeid» è p ieno di vuoto. Con i rappresen tan t i degli altri part i t i Togliatti si batté pe r un accordo che allargasse i l gove rno Badogl io , dandog l i una più consistente base politica. Trovò resistenze in coloro che , secondo schemi logici, av rebbero dovu to essergli p iù vicini, socialisti e azionisti, e p r o n t a adesione nei democr i ­stiani. Ar rendevo le anche nella formulaz ione d i un docu­mento programmat ico , obbiettò soltanto pe r un «onde» se­guito da un infinito e chiese che, «almeno in considerazione del fatto che si era così vicini alla città dove aveva insegnato

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Basilio Puoti, l 'errore venisse corretto». Ma questa apparen­te morbidezza si accompagnava a un disegno preciso, e in­fatti, ha osservato Bocca nella sua biografia di Togliatti, in­te rvenne nuovamente sul testo definitivo - e questa volta il p roblema era di sostanza - pe r chiedere che n o n si parlasse del di r i t to del popo lo italiano a e leggere u n a «camera dei deputat i» , ma piut tosto del dir i t to a e leggere una «Assem­blea costituente». La differenza è di rilievo. Resta il fatto che pe r opera di Togliatti le t endenze radicali emerse nel Con­gresso di Bari furono ammorbid i te , con la benediz ione dei comunis t i e d e l l ' U R S S . La svolta di Salerno, squis i tamente politica, relegò sullo sfondo, pe r Togliatti, la lotta part igiana al no rd , nonos tan te la sua affermazione che dovessero pri­meggiare le esigenze della guer ra . Luigi Longo dichiarò più tardi , con i ronia piut tos to scoperta: «Credo che (Togliatti) abbia capito l ' importanza del movimento par t ig iano quan­do seppe che avevamo fucilato Mussolini a Dongo».

Gli anglo-americani avevano fretta di veder finalmente va­ra to quel governo ampliato che i loro ambient i politici e le loro opinioni pubbliche reclamavano. Ma per costituirlo era necessar io s u p e r a r e l 'ostacolo r a p p r e s e n t a t o da Vittorio Emanuele I I I , che n o n solo e ra risoluto a m a n t e n e r e i suoi po te r i formali fino alla p r e s a di Roma, ma rifiutava di p r e a n n u n c i a r e pubb l i camen te l 'abdicazione. Per p o r r e a l Re un ultimatum, i r a p p r e s e n t a n t i alleati r icorsero ad u n o s t r a t agemma, se n o n p r o p r i o scorre t to , ce r to disinvolto. Chiesero udienza a Ravello pe r presentare a Vittorio Ema­nuele I I I sir Noel Charles, che avrebbe sostituito Macmillan nel Consiglio consult ivo alleato. Ma q u a n d o i l gene ra l e MacFarlane, l 'americano M u r p h y e gli inglesi Macmillan e Charles furono davanti al Re, d iedero al colloquio un indi­rizzo imprevis to . Pre tesero che il Re decidesse e sottoscri­vesse se n o n p r o p r i o sedu ta s tante a lmeno in g io rna ta i l proclama con il quale rinunciava al t rono, e nominava Luo­gotenente il figlio Umber to . In un soprassalto d'orgoglio, il

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Re dichiarò che era disposto a quel gesto, ma non subito, e n o n pe r u n a intimidazione che Murphy aveva formulato in termini poco m e n o che brutal i . Avrebbe firmato, disse, ma l ' indomani . Vi fu un altro aspro scambio di parole , e a quel p u n t o Vittorio Emanue l e I I I , r i t rovando pe r un a t t imo la fierezza e la fermezza di Peschiera, r ipetè di essere disposto a firmare, cedendo alle pressioni, ma che si r ipresentassero 11 giorno d o p o «che la vostra presenza mi ha già t roppo in­fastidito». E congedò i r app resen tan t i alleati. Rievocando, anni dopo , la penosa scena, Robert Murphy descrisse così il Re: «Egli cont inuava a stare molto eret to e dignitoso, ma il suo m e n t o t r emava e le l agr ime r i e m p i r o n o i suoi occhi chiaro-azzurri men t r e parlava con orgoglio della millenaria storia di Casa Savoia».

D u r a n t e la not te Badoglio e Acquarone lavorarono alla s tesura della d ichiarazione sovrana che fu resa pubblica il 12 apri le . Essa recava tra l 'altro: «Il popolo italiano sa che sono s e m p r e stato al suo fianco nelle o re gravi e nelle o re liete. Sa che otto mesi or sono ho posto fine al fascismo e ho por ta to l'Italia, nonos tan te ogni pericolo e rischio, a fianco delle Nazioni Unite, nella lotta di liberazione contro il nazi­smo... Verrà il giorno in cui, guari te le nostre profonde feri­te, r i p r e n d e r e m o il nostro posto, da popolo libero accanto a nazioni l ibere. P o n e n d o in at to quan to ho già comunica to alle autor i tà alleate ed al mio governo, ho deciso di rit irar­mi dalla vita pubblica n o m i n a n d o L u o g o t e n e n t e genera le del Regno mio figlio Principe di Piemonte. Tale nomina di­venterà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri , lo stesso g iorno in cui le t r u p p e alleate e n t r e r a n n o in Ro­ma. Ques t a mia decis ione, che ho ferma fiducia faciliterà l 'unione nazionale, è definitiva e irrevocabile».

Badoglio singhiozzava quando gli sottopose il documento pe r la firma («Maestà, sono cinquantacinque anni che servo la Vostra Casa, e non mi at tendevo di t rovarmi a questo, la­sciate che pianga») ma il Re si limitò a battergli u n a m a n o sulla spalla. Si sfogò, pe r quel tanto che glielo consentiva il

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suo freddo riserbo, con il generale Puntoni: «Non si p u ò di­re che da quando s'è formata l'Italia le cose siano andate be­ne pe r la mia Casa. Solo mio n o n n o ne è uscito bene. Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non ave­vo nessuna in tenzione di succedere a mio p a d r e e l 'avevo quasi convinto ad accogliere il mio proposi to di r inunciare alla corona. Ma fu ucciso e io, in quell 'ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul t rono. Se l'avessi fatto avrebbero detto che ero un vile». Di quanto riferisce Puntoni , non c'è motivo di dubitare. Resta il fatto che, restio a salire sul t rono, Vitto­rio Emanuele I I I lo fu altrettanto a discenderne.

La via e ra sgombra p e r la formazione del nuovo gover­no, e su di essa s ' incamminarono pres to , facendo ressa, gli aspirant i a un posto presidenziale o ministeriale: anche in quella mezza Italia disastrata le pol t rone facevano gola. Per la carica di Pres idente il candida to ovvio era Badoglio, ma furono fatti c i rcolare altr i nomi , anche quel lo di Sforza - presto accantonato perché , avendo definito Churchil l u n a «testa di passerotto» n o n era indicato a dialogare con lui -di Croce, che rifiutò sdegnosamente , perfino dell 'azionista Cianca. Ma si trattava di assaggi senza costrutto. Q u a n t o al resto, ha r icordato Degli Espinosa: «Da ta lune città giunse­ro interi ministeri già formati. Giungevano vecchie au tomo­bili sdrucite e polverose: i viaggiatori cercavano alloggio in­vano, n o n sapevano dove mang ia re , ma la fede che l i ani­mava e ra inflessibile, ed essi ch iedevano di essere ricevuti dal maresciallo Badoglio vincendo i più aspri disagi».

Il 22 apri le , un sabato, il governo dell 'esarchia - d e m o ­cristiani, comunisti , socialisti, azionisti, liberali, demolabur i ­sti - e ra finalmente formato. Badoglio - affranto pe r ché a Roma gli era stato a r res ta to il figlio Mario - t enne p e r sé, o l t re alla Presidenza, gli Esteri. Ministri senza portafoglio furono Benede t to Croce, Carlo Sforza, Giulio Rodino (de­mocrist iano), Palmiro Togliatti, Pietro Mancini (socialista). Agli In t e rn i a n d ò il democr is t iano Aldisio. Molti i sottose­gretari . Il governo fu presenta to a Ravello al Re, che si disse

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lieto «di sentire che le eminent i personali tà che oggi entra­no a far par te del governo, e che le diverse tendenze politi­che della nazione, a tutto an tepongono il sup remo interesse del Paese». Di rilevante, nella dichiarazione programmat ica , v 'era l 'annuncio che «la forma istituzionale dello Stato n o n pot rà risolversi se non quando , liberato il Paese e cessata la guerra , il popolo italiano sarà stato convocato ai liberi comi­zi... ed eleggerà l'Assemblea costituente e legislativa».

In maggio gli Alleati furono finalmente p ron t i pe r lanciare la «Operazione Diadem» che li avrebbe portat i a Roma. Sulla linea Gustav di Kesselring - alle cui spalle era la linea Hitler formata da capisaldi sui quali e rano state piantate, pe r ren­derli p iù efficienti, le to r re t te di carr i a rmat i - si e r ano in­franti i tenaci e sanguinosi attacchi di d u e a rmate mult ina­zionali, po ten temen te a rma te e appoggiate da u n a aviazio­ne che dominava il cielo. Il C o m a n d a n t e in capo, l 'inglese Alexander , e ra un f reddo e raffinato gen t i luomo, ma non certo un fantasioso stratega. La capacità dei comandi tede­schi, e la d e t e r m i n a z i o n e delle loro t r u p p e , l 'avevano in­chiodato davanti a Cassino, e nella testa di sbarco di Anzio. A me tà marzo e ra stato compiu to u n o sforzo i m m a n e p e r sfondare a Cassino - e l'Abbazia fu sottoposta a bombarda ­ment i tanto devastatori quanto , dal p u n t o di vista militare, insensati - ma la linea Gustav n o n si era spezzata. I r r i ta to , Churchi l l aveva chiesto che Alexander gli spiegasse «come mai questa vallata presso la collina dell 'Abbazia di Monte-cassino, larga appena dai 3 ai 5 chilometri , r appresen t i l'u­nico fronte contro cui dovete cont inuamente da r di cozzo». Era così sfumato il sogno di un r icongiungimento tra il gros­so dell'esercito e le t r u p p e di Anzio, ed era sfumato anche il sogno di una i r ruzione verso Roma.

Il fronte en t rò in u n a fase di relativa stagnazione, anche se i bombardier i alleati non i n t e r ruppe ro un solo m o m e n t o il marte l lamento delle vie di comunicazione, degli obbiettivi militari, e di quelli che e rano sospettati di esserlo o di poter-

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10 diventare . L'«Operazione Strangle» - il t e rmine «strango­lare» bastava a qualificarne le finalità - fu m e n o efficace di q u a n t o si potesse s u p p o r r e , pe r le eccezionali dot i di im­provvisazione e di a d a t t a m e n t o delle un i t à t edesche : ma non lasciava respiro. Tra il 15 marzo ed il 10 maggio - il da­to è in Roma 1944 di Raleìgh Trevelyan - furono compiute 3.807 missioni. «Il genera le Eaker - ci t iamo ancora Tre­velyan - r a g g r u p p ò le città i tal iane che van tavano m o n u ­ment i storici e religiosi in t re categorie. Quelle che n o n do­vevano in nessun caso venir bombarda te senza la sua auto­rizzazione e rano Roma, Fiesole, Firenze, Venezia e Torcello. Nella seconda categoria figuravano Ravenna, Assisi, San Gi-mignano , Pavia, Urbino, Montepulciano, Parma, Aosta, Ti­voli, Ud ine , Gubbio , Volterra, Spoleto, Ascoli Piceno, Co­mo, Pesaro ed altri centr i elencati en igmat i camen te come Borgo San Spolone ed Aquia, cui verosimilmente corrispon­devano Borgo San Sepolcro e l'Aquila.» «Il b o m b a r d a m e n t o di queste città - affermava la direttiva di Eaker - che al p re ­sente n o n h a n n o a lcuna speciale i m p o r t a n z a mil i tare , dev'essere evitato finché è possibile. Se pe rò voi giudichere­te essenziale pe r ragioni operative bombarda re un obbietti­vo situato in u n a qualsiasi di esse, p rocedete senza esitazio­ne , ed io mi a s sumerò la p i ena responsabi l i tà dei r isultat i della vostra azione.» Nel terzo capitolo di quest 'apocalisse figuravano città come Siena, Orvieto e Perugia, di cui la di­rettiva di Eaker diceva: «In queste città o nelle loro vicinan­ze sono situati impor t an t i obbiettivi militari , che d e b b o n o essere bombarda t i . Qual i che siano i d a n n i che ne risulte­r anno , essi sono accettati in partenza».

Il fallimento della offensiva alleata di marzo si era r iper­cosso sull ' intero sviluppo della strategia europea , che aveva 11 suo pilastro, ormai , nello sbarco in N o r m a n d i a . A Tehe­r a n i t re «grandi» avevano stabilito che, p r i m a di Overlord (questo era il n o m e convenzionale dell 'attacco da settentrio­ne alla fortezza Francia), le a rmate anglo-americane d'Italia fossero press 'a poco sulla l inea Pisa-Rimini, e che insieme

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ad Overlord scattasse il p iano Anvil, ossia lo sbarco sulle coste meridionali francesi. Ma il cronicizzarsi della testa di sbarco di Anzio con t inuava ad i m p e g n a r e mezzi navali che si sa­r ebbe ro voluti utilizzare pe r Anvil, cosicché questa b ranca della tenaglia in cui la Francia - o per meglio dire i tedeschi che l 'occupavano - avrebbe dovu to essere schiacciata n o n agì fino a metà agosto: con il rinvio l 'operazione cambiò an­che nome , da Anvil a Dragoon.

In quest 'ul t imo scorcio d ' inverno e nelle p r ime settima­ne di pr imavera i repar t i del r a g g r u p p a m e n t o motorizzato i tal iano che a Monte L u n g o avevano m a n o v r a t o male e combat tu to bene , uscendone con il morale fiaccato, furono riorganizzati. L'ambiente non era certo favorevole agli slan­ci patriottici, con i galoppini di alcuni part i t i che gi ravano tra i soldati del r a g g r u p p a m e n t o incitandoli , in quan to sa­voiardi e badogliani, a disertare. Il Comando alleato aveva a quel p u n t o proget ta to di tenere nelle retrovie l 'unità italia­na, perché si unisse agli altri «reparti lavoratori», in pratica umi le manova lanza da adib i re ai bassi servizi. I l genera le Umber to Utili, che sostituì Dapino, aveva capacità, grinta e personali tà . Si rivolse d i re t t amente a Clark, il c o m a n d a n t e della 5 a a rma ta americana, e gli chiese di r inunc ia re al de­classamento dei suoi uomini , impegnandos i dal canto suo a r icavarne u n a vera forza mil i tare. M a n t e n n e la promessa . Posti alle d ipendenze del Corpo d ' a rmata francese di Ju in , e successivamente di quel lo polacco di Anders , gli italiani del ribattezzato C I L (Corpo Italiano di Liberazione) si d imo­s t ra rono all'altezza delle al tre t r u p p e . Avevano avuto l 'ap­po r to di un battaglione di alpini, u n o di arditi , u n o di ber­saglieri, u n o di marinai da sbarco. Quind i si aggiunse loro il grosso della divisione paracadutist i Nembo, proveniente dal­la Sardegna. Sulla efficienza bellica di questa unità n o n v'e­r a n o dubbi : ve n ' e r ano invece - e gli inglesi li affacciarono ost inatamente - sulla sua affidabilità politica. Era avvenuto infatti che dopo l'armistizio un battaglione della Nembo, pe r sollecitazione dei suoi ufficiali, fosse passato ai tedeschi, che

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successivamente lo impiegarono al fronte (dove si compor tò eccellentemente). Altrettanto bene si ba t te rono poi in cam­po opposto, nonostante i dubbi inglesi, i battaglioni rimasti fedeli al Re. Il che dimostra che nelle t r u p p e speciali lo spi­r i to di co rpo e il sen t imento de l l ' onore s tanno molto al di sopra dell 'ideologia. Da cinquemila che e rano nel r aggrup­p a m e n t o motorizzato, i combattenti italiani diventarono co­sì 15 mila: poca cosa nel complesso di una forza militare im­ponen te , ma abbastanza pe r attestare che c 'erano ancora in Italia dei giovani disposti a rischiare la vita per la loro ban­diera . U m b e r t o di Savoia avrebbe voluto a s sumere i l co­m a n d o del C I L , ma la Commissione alleata di controllo glie­lo vietò con pretesti burocratici - un generale d 'a rmata (per la prec is ione U m b e r t o era maresciallo d ' I tal ia ma n o n ne por tava i gradi , N.d.A.) n o n poteva essere messo a capo di quella che in sostanza n o n era che una divisione - che ma­scheravano ragioni politiche. Il Principe si disse disposto a essere retrocesso a generale di divisione o a colonnello ma, ha scritto Leandro Giaccone nel suo Ho firmato la resa di Ro­ma, « n e p p u r e ques to modes to obolo fu concesso al regale mendicante d 'onore».

L'offensiva di A lexande r fu scatenata il 12 maggio , e al Comandan te alleato va riconosciuto un merito: i preparativi v e n n e r o condot t i con molta segretezza e con accorgimenti che consent i rono di cogliere i tedeschi a guardia abbassata. Kesselring supponeva che la macchina mili tare alleata, co­lossale ma anche pachidermica, non potesse essere di nuovo a p u n t o p r i m a del l 'u l t ima se t t imana del mese. Per di p iù gravava sul feldmaresciallo la minaccia di sbarchi sulla costa tirrenica, a Civitavecchia o a Livorno, e questo lo induceva a tenere di riserva, pe r un intervento mobile, unità preziose. Infine v'era l'intensificarsi della guerriglia partigiana. Fidan­do incautamente su un momento di respiro, l'Alto comando della Wehrmach t aveva chiamato Vietinghoff, comandan te della 10 a a rmata sulla linea Gustav, in Germania, dove Hitler voleva di persona appuntargl i sul pet to un'alta decorazione.

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Il Capo di Stato Maggiore di Kesselring, Westphal, il coman­dante del XIV corpo Panzer, Senger, e il comandan te della 9 0 a divisione dei Panzer Grenadiere , Baade, e rano in licen­za. Furono richiamati in gran fretta.

«Non posso r ipensare a quei giorni senza un moto d'or­rore» disse in seguito Kesselring. Le uni tà tedesche, p u r a ranghi incompleti, e consapevoli della superiori tà nemica in uomini armi e materiali, difesero s t renuamente le posizioni. L'esercito alleato aveva le uni tà della 5 a a rma ta amer icana schierate sulla sinistra, dalla costa t i r renica fin ad ovest di Cassino; poi, p roseguendo verso est, l '8 a a rmata britannica. Con gli americani e rano i francesi di Ju in , con gli inglesi in­diani, polacchi, canadesi, italiani e sudafricani.

Lo svolgimento delle azioni n o n fu certo facilitato dalla ostilità di Mark Clark, i l c o m a n d a n t e della 5 a a rma ta , pe r Alexander . I l genera le amer i cano r i lu t tava a cons ide ra re Alexander un suo vero e d i re t to super io re : ed aveva il so­spetto che gli inglesi volessero defraudarlo del privilegio di far e n t r a r e le sue t r u p p e pe r p r ime nella capitale italiana. «Noi n o n solo volevamo l 'onore di conquis ta re Roma, ma pensavamo di averlo abbondan temente meritato. . . Non sol­tanto in tendevamo diventare il p r imo esercito che in quin­dici secoli conquistasse Roma da sud, ma volevamo che in patr ia la gente sapesse ch 'era stata la 5 a a rmata a compiere l ' impresa e sapesse anche a qual prezzo c 'eravamo riusciti.»

Il p r imo sfondamento della linea Gustav fu meri to delle t ruppe di Ju in , che aveva alle sue d ipendenze anche i corag­giosi ma feroci «goumiers» marocchini dei quali la popola­zione italiana conservò poi un ricordo d 'or rore : «Durante le vent iquat t r 'ore di contat to con i marocchini soffrimmo più che negli otto mesi sotto i tedeschi. Questi si p r endevano le nostre capre, le nostre pecore e il nostro cibo, ma rispettava­no le nostre donne e i nostri magri risparmi. I marocchini si get tarono su di noi come diavoli scatenati. Sotto la minaccia delle mitragliatrici violarono bambini, donne , uomini , giova­ni, dandosi freneticamente il cambio come altrettante bestie.

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Si presero il nostro denaro . Ci seguirono fino al paese e por­ta rono via ogni cosa, compresa la nostra biancheria e le no­stre scarpe. Quelli dei loro ufficiali che tentarono di interve­nire in nostra difesa furono anch'essi minacciati».

Nell'Abbazia di Montecassino en t ra rono i polacchi, all'al­ba del 18 maggio. Le rovine e rano state evacuate dai tede­schi, che vi avevano lasciato soltanto i feriti gravi. Si scoprì che le g rand i cant ine a volta avevano resistito a migliaia di tonnellate di bombe, e che molti libri e rano ancora intatti ne­gli scaffali. Kesselring aveva dovuto impart i re personalmen­te ai paracadutis t i della p r ima divisione l 'ordine di lasciare l'Abbazia. Non volevano andarsene ed era quello, egli disse, «lo svantaggio di avere personal i tà così forti come coman­danti e subordinati». Il 23 maggio si mossero, finalmente, an­che le divisioni della testa di ponte di Anzio, e lo fecero con il formidabile appoggio di artiglieria e aereo, che era nella tec­nica e nelle possibilità delle armate anglo-americane.

Kesselring si ritirava con sufficiente ordine , ma senza po­ter contrastare una avanzata che gli veniva sferrata con vio­lenza da due diverse direzioni, e che pun tava verso Roma. Ancora il 2 g iugno , m e n t r e la Città e t e r n a e ra già in vista delle avanguard ie alleate, Alexander e Clark discussero su chi dovesse entrarvi . «Quando Alexander comunicò a Clark il p ropr io desiderio che l '8 a a rmata partecipasse alla conqui­sta di Roma, Clark prese violentemente cappello... disse ad Alexander che se gli avesse impart i to un ord ine del genere si sarebbe rifiutato di obbedire e se l '8 a a rmata avesse tenta­to di marciare su Roma avrebbe dato istruzioni ai suoi uo ­mini di spararle addosso.. . Alexander n o n insistè.»

Nel ta rdo pomeriggio del 4 giugno i pr imi repar t i ameri­cani p e n e t r a r o n o nell 'abitato; il 5 giugno Clark ebbe l'ago­gnato alloro e raggiunse in j eep il Campidoglio ma il trionfo fu oscura to , a l m e n o nelle c ronache giornal is t iche, dal lo sbarco in Normand ia che, avvenuto a distanza di poche ore , soffocò l'eco della campagna d'Italia, e di questa sua svolta decisiva.

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CAPITOLO SETTIMO

I SILENZI DI PIO XII

Nei mesi che precedet te ro la caduta di Roma Mussolini non potè mai r ivedere la città amata-odiata nel cui n o m e aveva costruito l ' impalcatura coreografica e lessicale del fascismo. Per i piccoli uomini che con o senza convocazione formava­no le folle oceaniche , la do t t r ina del fascismo e ra tu t ta lì, ne l l ' Impero che risorgeva sui colli fatali, nei littori, nei cen­turioni e nelle quadra te legioni. Ma Roma, Palazzo Venezia e il balcone fatidico e rano stati dichiarati off-limits, pe r il Du­ce, già p r i m a che vi i r r o m p e s s e r o i soldati del genera le Clark. Tra Salò e R o m a cor reva u n a linea divisoria che si ch iamava 8 se t t embre . I tedeschi e r a n o i p a d r o n i d o v u n ­que , ma a Roma e rano i soli padron i , sia p u r e con dei ma­nutengol i fascisti pe r i bassi servizi. Tre Italie: il Regno del Sud, la Repubblica di Salò, e Roma.

In questo cupo t r amon to della loro potenza, l 'Italia e ra pe r i militari e i funzionari tedeschi una destinazione ambi­ta. Lo era perfino pe r chi doveva battersi al fronte, Io era a maggior ragione pe r gli ufficiali e i repar t i destinati alle re­trovie. Il clima relat ivamente mite, la bonarietà della massa della popolazione - anche se GAP e guerriglia part igiana da­vano molti fastidi - la prospet t iva , a sconfitta avvenuta , di u n a prigionia nei campi anglo-americani , spiegano lo stato d ' an imo degli occupant i , molt i dei quali a r r ivavano nelle belle città i tal iane dal l ' inferno di neve e di ghiaccio delle p ianure russe. Un nugolo di tedeschi si era insediato in Ita­lia pe r «spremere il l imone neofascista e quindi l'italiano più che sia possibile», come disse R a h n ; ma anche p e r conce­dersi gli ultimi balli su un Titanic che affondava.

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I «protettori» tedeschi sorvegliavano e vessavano quella parodia di Stato che era Salò, tentavano di r idare vigore al­la p roduz ione industriale, e organizzavano su vasta scala la razzia delle risorse. Sempre più f requentemente Mussolini p r o r o m p e v a in amar i sfoghi con t ro ques ta a r roganza : «E perfe t tamente inutile che questa gente si ostini a chiamarci alleati. E preferibile che butt ino u n a buona volta la masche­ra e ci dicano che siamo un popolo e un terr i torio occupato come gli altri». Anche q u a n d o non lo dicevano, i tedeschi la pensavano esa t tamente così, e il generale Wolff spiegò che «non gli davo ordini (a Mussolini) ... in pratica però egli non poteva decidere niente contro la mia volontà e i miei consi­gli». Per la verità in quella pr imavera del '44 l 'ossatura eco­nomica e p rodut t iva dell 'Italia set tentr ionale - che era poi l'Italia industriale - diede segni di ripresa. Per taluni settori (gli autocarr i della Fiat, che furono 759, l 'energia elettrica, oltre un milione di chilowattore, l'acciaio, 138 mila tonnel­late) nel maggio furono raggiunti i livelli n o n solo degli altri anni di guer ra , ma addir i t tura del 1939. Fu comunque una breve f iammata seguita da un rapido declino.

Q u a n t o alle spogliazioni, v 'e ra un genera le , H a n s Leyers, che Hitler aveva incaricato di sovr intendere ad esse, spiegandogli succintamente: «Che i pantaloni glieli leviamo noi o glieli levino gli inglesi è del tu t to indifferente». La g a m m a dei prodot t i che p r e n d e v a n o la via della Germania era varia, a volte molto curiosa, e così (cito dalla Storia dell'I­talia partigiana di Bocca) vi furono inclusi otto tonnellate di p ipe e t r en tadue di bottoni , cravatte, scarpe, scope. Ma an­che le a rmi del Bresciano: in aprile del '44 7.500 mitraglia­trici, 7.000 pistole, 10.000 fucili, 100 pezzi di artiglieria. In­fine un quar to degli ortaggi e della carne. Il governo di Salò si oppose come meglio poteva, e poteva poco, alle p re tese dei tedeschi, i cui piani pe r il saccheggio d ivennero operat i­vi quando , infranta la linea Gustav, fu chiaro che l'Italia in­tera rischiava di cadere a breve te rmine nelle mani degli Al­leati. Con quel la delle cose, veniva tenta ta anche la razzia

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degli uomini , ma la opposizione era diffusa e tenace a tutti i livelli: v 'e ra i l sabotaggio della burocraz ia repubb l ich ina , v 'era la solidarietà popola re , v 'era infine l 'aiuto della Resi­stenza, che a sbandati e fuggiaschi offriva u n a rete di prote­zione e, in caso e s t r emo , la macchia . Il Gauleiter Kur t Sauckel («tipica figura da galeotto» lo aveva definito il di­p lomat ico tedesco Moel lhausen) escogitò le mi su re p iù spregiudicate e brutali pe r ca t turare braccia, tra l'altro reta­te nei c inematograf i , ne i teatr i , per f ino t r appo le all 'uscita dalle chiese. Ma gli italiani sono furbi, ed escogitarono vali­de con t romisure . Sta di fatto che, ad esempio , «a Pinerolo su 700 lavoratori convocati se ne p resen ta rono 10, a Cuneo 7 su 800», poche centinaia di uomini venne ro r agg ruppa t i in un ' a rea che c o m p r e n d e v a Genova, Milano, Padova, Bo­logna.

L'Italia piaceva ai tedeschi che vi venivano destinati, ma indispettiva il sempre invasato é t rasognato Hitler, che il 22 e 23 aprile si incontrò - ancora u n a volta nel fastoso castello di Klessheim presso Salisburgo - con il suo amico e ostaggio Mussolini. Un a n n o p r ima i d u e avevano discusso, in quella stessa sede, in un 'atmosfera già gravida di tristi presagi, ma a lmeno fo rmalmente assai diversa. Paradossa lmente , p r o ­pr io pe rché era ormai di fronte a un vassallo, Hitler rispar­miò ai suoi interlocutori il torrenziale monologo iniziale cui e r ano di n o r m a sottoposti . Con Mussolini e r ano Graziani , Mazzolini, Anfuso e l 'addet to militare a Berl ino colonnello Morera ; con Hit ler e rano Ribbent rop , Keitel, Rahn , Wolff, Toussaint e Dol lmann. Ment re il F ù h r e r ascoltava ingoian­do ogni t an to le pillole mag iche prescr i t tegl i dal med ico­stregone Morell, Mussolini tracciò un quad ro della situazio­ne . Riconobbe che l ' in te rnamento in Germania delle t r u p ­pe i tal iane e ra stato «consigliabile» e «necessario», ma ac­cennò all'ansia delle loro famiglie in Italia, il che faceva mi­lioni di persone, e chiese che vivessero in condizioni miglio­ri . Si occupò, b r e v e m e n t e , della nazionalizzazione a t tua ta dall'alleato in Alto Adige e in Venezia Giulia, ma senza t rop-

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po insistere, tanto che Graziani commentò , successivamen­te: «Mussolini. . . n o n aveva m o r d e n t e , n o n sapeva pa r l a r chiaro». Il Duce riconobbe che la maggioranza degli italiani oscillava tra scetticismo e pessimismo, che c 'era u n a mino­ranza a t t ivamente ostile, che la Chiesa e ra «esitante» o av­versa. D o m a n d ò un p iù caldo r iconoscimento tedesco p e r gli sforzi del Partito fascista, e promise di r ichiamare alle ar­mi a lcune classi p e r d a r e gli u o m i n i che Sauckel, Gòr ing (per le batterie antiaeree) e Kesselring (per i servizi di re t ro­via) volevano. Più r u d e fu Graziani , q u a n d o v e n n e il suo t u r n o . Disse che i l suo lavoro e ra stato ostacolato in mille modi , che n o n aveva potu to d isporre di un servizio telefoni­co e telegrafico perché questi e rano riservati ai tedeschi, che mancavano forze di polizia sufficienti pe r obbligare i richia­mati alle armi a presentarsi e che interi repar t i disertavano perché la p r o p a g a n d a nemica insisteva sul fatto che la Ger­mania aveva i rr imediabi lmente perso la guer ra .

Quel mattino Hider in ter ruppe la riunione, atteso com'era da un consulto con i suoi generali, e ricomparve nel pomerig­gio pe r spiegare il suo punto di vista. Fu amaro, tenuto conto del suo temperamento , perfino realista. «Non sappiamo se e dove può aver luogo un'invasione» ammise, ma aggiunse che se essa non fosse stata realizzata entro sei o otto settimane l'In­ghilterra sarebbe entrata in crisi, e tra gli Alleati si sarebbero verificate frizioni. Mussolini chiese come potesse essere accele­rato questo processo di disfacimento della coalizione: non eb­be risposta.

L'indomani vi furono altri due colloqui, e Hitler espresse la sua diffidenza verso gli italiani. «Se dei 600 mila internat i militari 200 mila sottoscrivessero pe r il servizio attivo, lo fa­rebbero solo pe r migliorare la loro sorte e non sarebbero il genere di t r u p p e necessario ad affrontare i sacrifici necessa­ri in torno a Cassino.» Mussolini rispose dicendosi disposto a «chiamare venti classi e impiegarle in battaglioni di lavoro». Pr ima di cenare a tu pe r tu con Mussolini, Hit ler disse an­cora di aver rot to tutti i contatti con l'Italia e di volerli man-

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t enere solo con il Duce. «La Germania e l'Italia - concluse -devono vincere, al tr imenti i d u e popoli e i d u e paesi crolle­r a n n o insieme in rovina.»

Congedatosi dal camerata tedesco, Mussolini confidò ad Anfuso che «le sue affermazioni sulla fine della g u e r r a gli e r ano parse d a n n a t a m e n t e ottimiste». Il g r u p p o italiano si trasferì qu ind i al c a m p o di a d d e s t r a m e n t o di Grafenwòhr, dove e rano gli uomini della divisione Monterosa: 600 ufficia­li e dodicimila sottufficiali e soldati che r iserbarono al Duce u n a accoglienza entusiastica. Egli se ne sentì rigenerato, e «riprese in p ieno la confidenza in se stesso e nel doman i del­la patria».

Per allestire quello che fu l'esercito di Salò, cioè la forza militare teoricamente apolitica cui Graziani aspirava, e rano stati in t ruppat i , con lusinghe e con la costrizione, uomini di varia provenienza: veterani prelevati dai campi di prigionia tedeschi, ragazzi di leva, volontari . Furono messe in cantie­re quat t ro divisioni, la San Marco, la Monterosa, l'Italia, la Lit-torio. Dovevano avere u n a composiz ione mode l la ta sugli schemi tedeschi; pe r ciascuna di esse d u e reggiment i di fan­teria su t re battaglioni, un reggimento di artiglieria, un bat­taglione pionieri , un g r u p p o esplorante, r epar t i au tonomi , in totale 16 mila uomini pe r le divisioni ordinar ie (20 mila, a lmeno in proget to , pe r la divisione Monterosa che era alpi­na). La San Marco e la Monterosa furono manda te , sia p u r e a organici incomplet i , in Ge rman ia , p e r l ' addes t r amen to : a Grafenwòhr, come s'è accennato, e a Miinzingen. Per le al­tre d u e ci si affannava a racimolare reclute, e a fine maggio le quat t ro uni tà contarono, tutte assieme, 57 mila uomini .

Sot topost i ai me tod i di a d d e s t r a m e n t o tedeschi («dal mat t ino alle 5 a n d i a m o dri t to fino alle 19 - scrisse un uffi­ciale della Monterosa - e molte volte ol tre , specialmente chi d u r a n t e la g iorna ta n o n ha p i e n a m e n t e soddisfatto le esi­genze degli istruttori. . . l ' addes t ramento è lungo perché cu­rato nei p iù piccoli particolari»), i soldati delle divisioni fa­sciste formarono forse le uni tà meglio p repa ra te al combat-

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t imento che l'esercito italiano avesse mai avuto. Ouesto fin-che r imasero in Germania , r inserra te in un cordone sanita­rio psicologico e ambienta le , pr ive di notizie e di contat t i . Q u a n d o furono r impatr ia te pe r l ' impiego, la realtà italiana, il disprezzo della popolazione, le vicende della g u e r r a p ro ­voca rono pres to diserzioni in massa. N o n avevano tut t i i torti i tedeschi, dal loro p u n t o di vista, q u a n d o consigliava­no di impiegare le divisioni di Salò o sul fronte orientale o nella difesa antiaerea in Germania (la proposta suscitò il fu­ro re di Graziani che, a tu pe r tu con Keitel, minacciò di di­mettersi . Keitel cedette).

Alla resa dei conti i repar t i efficienti di Salò si r idussero sempre a poca cosa. Mussolini fece in maggio, conversando con il d i re t tore del Messaggero B r u n o S p a m p a n a t o , la cifra di 400 mila soldati , ma vi inc ludeva e v i d e n t e m e n t e , con molta disinvoltura (oltre ai 57 mila delle 4 divisioni), i 140 mila della Guard ia nazionale repubbl icana, i 55 mila di cui Graziani d isponeva p e r la sua «burocrazia militare» (gente di distretto e di caserma) e infine tutti i repar t i sfusi e auto­nomi che i tedeschi e rano andat i organizzando n o n solo in Italia ma nei Balcani (ve ne furono impegna t i per f ino sul fronte russo).

Per i corpi che s 'erano incorporat i nella Wehrmacht i te­deschi, s empre meticolosi, avevano escogitato u n a formula di g iu ramento abbastanza generica: ma pe r le SS italiane (se ne mise in piedi u n a divisione, la 29 a , p e r min ima par te uti­lizzata al f ronte , p e r la mass ima p a r t e in bruta l i rastrel la­menti) la formula era ben più esplicita: «Davanti a Dio p re ­sto questo sacro g iu ramen to : che nella lotta pe r la mia pa­tr ia i tal iana con t ro i suoi nemici sarò in m a n i e r a assoluta obbediente ad Adolf Hitler supremo comandan te dell 'eser­cito tedesco, e qua le soldato valoroso sarò p r o n t o in ogni m o m e n t o a da re la mia vita pe r questo giuramento».

A n c h e in chi s 'era così i m p e g n a t o H i m m l e r n o n aveva c o m u n q u e mol ta f iducia p e r c h é «la debolezza del popo lo italiano è nel suo sangue , nella sua razza». Anche nelle SS

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i tal iane, come in tu t ta ques ta accozzaglia di r epa r t i che i l p iù delle volte s embravano , p e r lo spir i to se n o n p e r l'in­q u a d r a m e n t o , b a n d e rinascimentali , v 'era, come ha scritto Ricciotti Lazzero, di tut to: «Idealisti, illusi, fanatici, profitta­tori, gente in b u o n a e malafede, persone che colsero l'occa­sione p e r r i en t ra re in Italia dai campi di concen t r amen to , individui violenti, altri che c redevano in un nuovo o r d i n e e u r o p e o al l 'ombra della svastica e ne volevano essere i for­giatori e quindi a un certo m o m e n t o i privilegiati, ed anche pr ig ionier i messi di f ronte a un 'a l te rnat iva , o con noi o al m u r o . I diser tor i furono molti , alcuni passarono alla Resi­stenza e d ivennero noti combattenti partigiani». Dove si ve­de q u a n t o possa essere labile, in t empi di g u e r r a civile, i l confine ideale e fisico tra l 'uno e l'altro schieramento. Le SS italiane, l ' abbiamo visto, i gnoravano Mussolini. La X Mas del principe Borghese gli fece la fronda, tanto che il suo co­mandan te fu a un certo p u n t o arrestato. I fascisti di Salò lo rilasciarono, ha r icordato Luigi Del Bono, che nella X Mas militò, q u a n d o «avevamo minacciato u n a marcia sui laghi, dov 'era sistemato il nuovo governo».

Kesselring ha scritto che «il movimento par t ig iano diventò p e r la p r i m a volta moles to nel l ' apr i le del '44 , q u a n d o le b a n d e cominciarono ad agire sull 'Appennino». In pr imave­ra, questo è certo, la lotta si dilatò e d ivenne ancora più cru­dele, fino al b a n d o del Capo di Stato Maggiore dell 'Esercito Mischi - che aveva sosti tuito G a m b a r a , r i t e n u t o t r o p p o morbido - con cui si annunciava che chi non si fosse ar reso en t ro i l 25 maggio n o n avrebbe avuto pietà. Ma pietà n o n ce n 'era n e m m e n o pr ima, dal l 'una e dall 'altra par te . Del re­sto un al t ro gene ra l e r epubb l i ch ino aveva osservato che i ren i ten t i alla leva «sono cert i della impun i t à , la defezione dei carabin ier i ne ha i m p e d i t o la ricerca» e poi «ci sono i consigli subdoli e sottili dei pret i , la sfortunata coincidenza con eventi bellici poco favorevoli, la genera le depress ione della popolazione...» Vennero realizzati rastrellamenti mas-

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sicci, con d u r e p e r d i t e par t ig iane : come nella p iemontese Val Casotto dove la formazione del maggiore Enrico Marti­ni (Mauri) fu annienta ta da seimila tedeschi, lasciò sul ter re­no c inquan ta mor t i , e in m a n o nemica 160 pr ig ionier i , in g ran pa r t e passati pe r le armi ; o come in Val Varaita (sem­p r e in Piemonte) dove seicento garibaldini e au tonomi fu­rono sgominati, ebbero 150 caduti e 200 prigionieri depor­tati nei campi di s te rminio . Assai megl io ressero le agili «bande» di «Giustizia e Libertà». A fine apri le - citiamo da Bocca - le forze pa r t ig i ane con tavano in tu t to e pe r tu t to poco p iù di dodicimila combat tent i , di cui 9.000 nel N o r d Italia e oltre tremila nel Cent ro e nel Sud. Più cospicuo, ma n o n maggior i t a r io , l ' appo r to dei gar ibaldini , ideologica­m e n t e ispirati dai comunist i , 5.800; e poi 3.500 au tonomi , 2.600 giellisti, 700 cattolici. (Ma c'e chi afferma che queste cifre sono in difetto pe r q u a n t o r i g u a r d a i cattolici «per il colossale appor to dato da pre t i e religiosi alla lotta contro il nazifascismo».)

I GAP cont inuavano ad agire nelle città. Pochi uomini , al massimo qualche decina nei centri maggiori , che prendeva­no di mi ra tedeschi e fascisti, colpivano e sca tenavano le rappresaglie, rischiavano la vita e pagavano, sovente, con la vita. Alcuni d ivenne ro veri professionisti de l l ' aggua to . Ve n 'e rano di già sperimentat i , come Giovanni Pesce, veterano (nelle file «rosse») della g u e r r a di Spagna. Avevano pe r co­m u n e denomina to re u n a determinazione implacabile e una forte carica di ideologia e di fanatismo. Uccidevano anche a freddo, disposti a sacrificarsi e al tret tanto disposti a sacrifi­care gli ostaggi innocenti che, dopo ogni impresa, e rano fu­cilati. In questa spirale di odio - fatale caratteristica di ogni gue r r a civile - s'inserì un episodio che divise anche l'antifa­scismo: l'«esecuzione» di Giovanni Gentile.

II filosofo siciliano, u n o degli ingegni più lucidi della cul­tura italiana, fascista fervente (tanto che Mussolini gli aveva affidato l'incarico di compilare la voce «fascismo» per la En­ciclopedia Treccani salvo poi r imode l l a rne le par t i t r o p p o

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r igorosamente ideologiche), autore della riforma della scuo­la, discussa da molti ma da tutti r ispettata pe r i suoi conte­nut i e pe r la sua ispirazione, aveva ader i to alla Repubblica di Salò. Era stato in ques to coe ren te con il suo passato: e Mussolini l'aveva r icompensato con la nomina - p iù perico­losa che onorifica, in quei frangenti - a pres idente della Ac­cademia d'Italia.

Genti le dava senza dubb io un appogg io au torevo le a l nuovo reg ime di Mussolini. Esortava alla «cessazione delle lotte t r anne quella vitale contro i sobillatori, i traditori , ven­dut i o in b u o n a fede ma sadisticamente ebbri di sterminii». Si sforzava tuttavia di m a n t e n e r e un tono alto, patr iot t ico, coerente con l'«idealismo» della sua filosofia e con u n a fede patetica nella possibilità che molto potesse essere cambiato pu rché si volesse cambiarlo. «Questo è t empo di costruire.. . Ci sono tante colpe da espiare, tanti torti da r iparare ; tanto male che un doveroso esame di coscienza ci p u ò r improve­rare . Ma oltre il male, c'è il bene , che ora più che mai biso­gna r a m m e n t a r e se n o n si vuol finire nella disperazione.»

Nessuna par tec ipaz ione sua, né mora le né t an to m e n o mater ia le , ad atti di repress ione . L'uomo - lo ha ammesso Roberto Battaglia - «era persona lmente bonar io e tolleran­te e, come risulta da molteplici test imonianze, si era d imo­strato avverso alle violenze e agli o r ro r i pe rpe t r a t i in quel p e r i o d o a Firenze dalla b a n d a Carità». C h e e ra u n a delle tante polizie private che imperversavano. Nella sua p ropen­sione verso il fascismo di Salò, Gentile era stato anche inco­raggiato dalla comprens ione che il ministro della Istruzio­ne , Biggini, aveva d imost ra to verso i l m o n d o accademico, tanto da confermare nella carica di re t tore della Università di Padova Concet to Marchesi : l ' i l lustre latinista e grecista aveva accettato di res tare al suo posto, p u r p r o n u n c i a n d o , presente in forma privata lo stesso Biggini, e sotto la sorve­glianza inquietante di un g r u p p o di armati , una prolusione coraggiosa, a f fermando che «qui d e n t r o si r a d u n a ciò che dis t ruggere non si può». Ma il Partito comunista - cui Mar-

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chesi appa r t eneva e a p p a r t e n n e fino alla mor t e , schieran­dosi nelle file dei p iù indiscriminati esaltatori dello stalini­smo - gli ingiunse di lasciare la sua pol trona, e di rinnegai^ l'amicizia con quel ministro pe r bene (che era oltretutto suo vicino di casa) con il quale aveva stabilito un pat to di «invio­labilità dell 'Ateneo». Tra i migliori esponent i della Repub­blica Sociale e la cul tura v 'era stato d u n q u e un tentativo di reciproco rispetto, e ad esso Gentile voleva ispirarsi.

Ma p r o p r i o Concet to Marchesi, u n a volta t roncato il le­game con Biggini, aveva risposto con l ' intransigenza d u r a agli appell i - pe r pa r t e di Gentile non insinceri - alla con­cordia. «Quanti oggi inci tano alla concordia sono complici degli assassini fascisti e nazisti, quant i oggi invitano alla tre­g u a vogl iono d i sa rmare i patr iot i e rifocillare gli assassini nazisti pe rché indisturbati consumino i loro crimini.. . Per i manu tengo l i del tedesco invasore e dei suoi scherani nazi­sti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sua sentenza: morte!».

Sulla esatta pa te rn i tà di questo testo, appa r so nel foglio clandestino comunista La nostra lotta, vi sono fondati dubbi. E probabile che pe r la massima par te esso sia stato di p u g n o di Marchesi: ma è altrettanto probabile - pe r molti sicuro -che l 'u l t ima frase, quella che pa rve u n a sen tenza capitale pe r Gent i le , fu agg iun ta dai d u r i del Par t i to , insensibili a sollecitazioni e r e m o r e culturali . Si è poi fatto, al r iguardo , il nome di Girolamo Li Causi. Concetto Marchesi n o n volle mai sconfessare il Partito: ma p r iva tamente negò più volte d 'aver firmato l 'espressione che accomunava Gentile ai peg­giori sgherr i fascisti. I familiari di Gentile h a n n o dichiarato d'aver sempre saputo che Marchesi aveva coperto i comuni­sti, e che non gli si poteva imputa re quella conclusione spie­tata.

L'atmosfera fiorentina si intr ise di od io d o p o che il 22 marzo 1944 c inque par t ig iani furono fucilati al C a m p o di Marte dai militi della Legione Muti. I gappisti del iberarono di r i spondere al te r rore con il t e r rore : e q u a n d o si trattò di

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scegliere un bersaglio esemplare n o n ebbero da faticare pe r t rovarlo. Era stato indicato, inequivocabilmente. I gappisti si a p p o s t a r o n o il 15 apr i le , alle 13,30, nei pressi di Villa Montaldo al Salviatino, dove Gentile abitava. Gli «esecutori» della sentenza, B runo Fanciullacci e Antonio Ignesti , si ac­costarono all 'auto t enendo sotto braccio dei libri, come fos­sero studenti . C r e d e n d o volessero parlargli , Gentile abbas­sò il vetro, e fu colpito a bruciapelo men t r e Fanciullacci gri­dava: «Non uccido l ' uomo ma l 'idea». Dalla villa uscì cor­r e n d o i l f igl io m i n o r e Benede t to , m e n t r e l 'autista avviava precipi tosamente l 'auto e trasportava il filosofo moren te al­l 'ospedale, dove era di servizio un altro figlio, Gaetano, me­dico. Non ci fu nulla da fare.

Curiosamente , molti a Firenze pensarono che gli uccisori di Genti le potessero essere es t remist i «repubblichini», sgherr i della banda Carità ansiosi di liberarsi d 'un modera­to di prestigio. Negli ambienti della Resistenza la verità era tut tavia nota , e il p i t to re Ot tone Rosai, nella cui casa Fan­ciullacci aveva cercato rifugio, subito lo r improverò : «Bella impresa uccidere un povero vecchio». I soli a sostenere la legittimità morale dell ' impresa furono i comunisti . L'antifa­scismo liberale ne fu indignato, e Benedet to Croce espresse il suo cordoglio. Ma anche gli azionisti, p u r così du r i e in­transigenti , si d imos t ra rono perplessi. Alcuni, come Trista­no Codignola , a p e r t a m e n t e dissenzienti pe r ché «non p u ò sfuggire a nessuno l 'odiosità di un simile a t ten ta to con t ro u n a personal i tà alla quale il paese in tero avrebbe po tu to e dovuto chiedere conto del suo opera to nella forma più alta e solenne». Ma implacabili r ibat terono i comunisti che Gen­tile, il quale «tanto spesso ha vantato la provvidenzialità del­la storia, cade vittima della moralità della storia».

Roma, l 'abbiamo det to , faceva par te pe r se stessa. N o n era città aper ta - gli Alleati, in particolare gli inglesi, avevano ri­f iutato di p roc lamar la tale, r i c o r d a n d o la smania mussoli-n iana di par tecipare ai bombardamen t i su Londra , e i tede-

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schi, p u r pa t tegg iando con il Vaticano, minacciavano di di­fenderla «casa pe r casa» - ma n o n era n e p p u r e una città che potesse essere considerata alla s t regua delle altre. Il Vatica­no, le basiliche, i conventi, con i loro privilegi di extraterr i ­torialità, e rano un p e r m a n e n t e in toppo pe r tedeschi e fasci­sti, cui era vietato oltrepassare, in piazza San Pietro, una li­nea bianca, che fissava il confine. All ' interno di questa fron­t iera Pio X I I tracciava le l inee di u n a condo t ta religiosa e politica difficilissima. Suo scopo pr imar io fu quello di otte­ne re che Roma n o n f inisse distrutta dai tedeschi: pe r realiz­zarlo era necessario che n o n divampasse, q u a n d o la Wehr-mach t avesse ba t tu to in r i t i rata , un ' i n su r r ez ione genera le part igiana, sul tipo di quella che si era verificata a Napoli, e di quel le che si sa rebbero poi verificate a Milano, Tor ino , Genova.

La manovra riuscì. Al «Vicario» furono poi r improvera t i cediment i filonazisti. L'accusa è, se non infondata , discuti­bile e p r o b a b i l m e n t e ingiusta . Pio XI I , su ques to n o n v'è dubbio, aveva pe r il popolo e la cul tura tedesca - non pe r il naz i smo - r i spe t to e a m m i r a z i o n e . Del suo sogg io rno in G e r m a n i a come nunz io apostolico aveva conservato i l mi­gliore r icordo, e molte amicizie: ed ebbe vicino a sé fino al­l 'ultimo collaboratori e domestici tedeschi. Tra essi il bava­rese p a d r e Pancrazio Pfeiffer, super iore generale dell 'ordi­ne salvatoriano, che in t ra t teneva ottimi r appor t i con il Ca­po di Stato Maggio re di Kesselr ing, Westphal , e suo r Pa­squalina, anch'essa bavarese, onnipresen te e fin t roppo po­tente . Non è dubbio n e m m e n o che Pio XII fosse preoccu­pato pe r i progressi militari sovietici. Ma, nonos tan te i «si­lenzi» ufficiali che gli fu rono addeb i ta t i , si p r o d i g ò p e r s t r appa re alla loro orribile sorte molti ebrei , e p e r salvare vite u m a n e in pericolo. Alcune delle accuse cont ro Pio XII p a i o n o suffragate da r a p p o r t i de l l ' ambasc ia to re tedesco presso la Santa Sede, Weizsaecker. Ma l 'ambasciatore, n o n lo si deve diment icare , descriveva a Hitler un Papa benevo­lo verso la Germania , pe r evitare che il d i t ta tore o rmai in-

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vasato mettesse in atto il proposi to di sequestrarlo. «Noi sa­pevamo - ha scritto l 'ambasciatore - che u n a protes ta vio­lenta contro la persecuzione degli ebrei avrebbe cer tamen­te fatto co r re re al Pontefice gravi pericoli personal i , e n o n avrebbe salvato u n a sola vita ebraica.» Pio XI I aveva fatto sapere ai cardinali che mai e pe r nessuna ragione avrebbe lasciato Roma, se n o n costretto con la forza, anche se li di­spensava dall 'obbligo di seguirlo.

Un suo gesto so lenne di d e n u n c i a della ferocia nazista l 'avrebbe senza dubbio innalzato, nel giudizio storico. Non c r ed i amo che l 'abbia t r a t t enu to dal farlo i l pens ie ro della sua personale incolumità: piuttosto l'ansia di salvaguardare la Santa Sede e Roma da una rappresaglia distruttrice, e la preoccupazione pe r le migliaia di rifugiati che dietro lo scu­do della extraterri torial i tà Vaticana avevano r iparo . Egli fu senza dubbio cauto, f in t roppo cauto, consentendo soltanto che i vescovi, di loro iniziativa, q u a n d o lo volevano, condan­nassero la barbar ie antisemitica e ant ipar t ig iana. Il g iorno stesso in cui Montini d ivenne Papa, fu pubblicato sul gior­nale cattolico inglese The Tablet un suo articolo che difende­va Pio XI I : «Assumere un a t t egg iamen to di p ro tes ta o di condanna sarebbe stato, peggio che futile, dannoso : e que­sta è l ' intera verità sulla faccenda».

Mont ini poteva pa r l a re con conoscenza di causa. Aveva vissuto quegli avvenimenti da compr imar io impor tante , co­me sostituto della Segreter ia di Stato. La comuni t à diplo­matica in Vaticano - che inc ludeva i r a p p r e s e n t a n t i delle po tenze bell igeranti - lo ammirava senza riserve. L'inglese Osborne disse che era un u o m o «di men te aper ta e di gran­de coraggio, dotato di un bril lante, sarcastico senso umor i ­stico», e n o n riusciva a capire «come potesse lavorare tanto e così intensamente». Weizsaecker coniò pe r lui questa defi­nizione: «La più operosa delle api operose». E si r ammar i ­cava di dover «disturbare questo pre te sovraccarico di lavo­ro con le mie questioni senza importanza». Ma Paolo VI do­veva difendere Pio XII : del quale si p u ò dire concludendo,

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che fu in quei f rangent i tragici più il Vescovo di Roma e il Sovrano dello Stato pontifìcio che il Capo spir i tuale della immensa comuni tà cattolica.

Qua lcuno disse che a Roma metà della popolazione na­scondeva allora l 'altra metà . Ebrei , antifascisti, reni tent i al lavoro obbligatorio e alla leva militare affollavano case, col­legi religiosi e conventi. Vi fu lo slancio della solidarietà, e vi fu l 'abbiezione delle delazioni. I comandi delle polizie tede­sche e fasciste e rano stupiti dalla valanga di denunce , ano­n ime o f i rmate , che p iovevano sui loro tavoli. Il Vaticano fingeva di ignorare ciò che gli istituti religiosi facevano, ma sapeva tu t to . Cen toc inquan ta convent i e monas te r i e r a n o divenut i il rifugio dei persegui ta t i ebrei : qua t t rocen to dai francescani di San Bar to lomeo all 'Isola, un cent ina io dai Fratelli delle scuole cristiane, altrettanti dai padr i Stimmati-ni e dai Salesiani di San Giovanni Bosco, quasi d u e c e n t o dalle suore di Nostra Signora di Sion e centoquattordici dal­le Maestre Pie Filippini. Qua ran t a ebrei, 15 dei quali battez­zati, avevano ospitalità in Vaticano.

Altri ebrei e rano stati accolti nel Seminario Laterano, un imponen te edificio sul re t ro della basilica di San Giovanni, dove si tenevano nascosti anche i maggior i esponent i clan­destini della vita politica, essendo il Seminario considerato più sicuro di a l t re sedi religiose, e spec ia lmente p ro t e t t o dalla extraterr i tor ial i tà . Vi alloggiava il p res iden te del CLN Ivanoe B o n o m i con la mogl ie , vi a l loggiavano Nenn i , De Gasperi e ufficiali del disperso esercito.

I tedeschi t enevano d'occhio quell 'isola ostile, ma senza ostentazione, e non intervenivano pe r bloccare l 'andirivieni dei p e r s o n a g g i (alcuni dei quali , come B o n o m i e Nenn i , non e rano credenti) . La radio con cui il CLN teneva i contat­ti con il sud era altrove, ma di fatto le fila della vita politica pre-l iberazione furono tessute nel Seminario. Nenn i ha la­sciato nel suo diar io u n a tes t imonianza di ques te «fughe» avventurose dal «santuario» vat icano. «Oggi (18 marzo 1944, N.d.A.) r iunione del Comitato di Liberazione. Siamo

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arr ivat i sul luogo d e l l ' a p p u n t a m e n t o con M a u r o (Scocci-marro) e Ugo (La Malfa) dopo una corsa mat tut ina in auto­mobile attraverso Roma e lungo il Tevere. C 'erano nell 'aria una dolcezza e un fremito primaverile che invitavano all'ot­timismo. Ma il dibattito mi ha lasciato la bocca amara. . Per­ché tut to con t inua a essere subord ina to alla l iberazione di Roma m e n t r e tu t to dovrebbe essere subord ina to alla lotta p e r la l iberazione di Roma?. . . Bonomi n o n ha che u n a preoccupazione: sganciarsi dalla formula "governo straor­dinar io mun i to di tutt i i poter i dello Stato" pe r a n d a r e in­contro a un compromesso con il Re o col Principe o con la Reggenza.»

La tutela extraterr i tor ia le garanti ta dagli edifici vaticani pa rve compromessa q u a n d o a R o m a p iombò - si e ra agli inizi di febbraio - il nuovo questore Pietro Caruso. Napole­tano, Caruso n o n aveva nulla della bonar ie tà della sua gen­te. Era un fanatico - si e ra recato appos i t amente a Verona per assistere alla esecuzione di Ciano - e smaniava dalla vo­glia di d imos t ra re q u a n t o valesse, come sbirro. Assunta la carica men t re era in corso u n a retata dei tedeschi, che bloc­cata la via Nazionale avevano ras t re l la to indiscr iminata­mente duemila uomini da m a n d a r e presso il fronte a com­piere i lavori, o in Germania , p ro lungò la caccia pe r por ta re al bot t ino i l con t r ibu to di altri d u e c e n t o poveracci . C o m e a iu tante , Caruso si prese Pietro Koch, or iginar io di Bene­vento, ex-commerciante di vini (come Ribbentrop), pe r vo­cazione tor tura tore . Una notte , complice un p re te che ave­va chiesto l ' ape r tu r a delle p o r t e f ingendosi b isognoso di aiuto, gli sgher r i di Caruso i r r u p p e r o nella basilica di San Paolo Fuori le Mura. Vennero arrestat i l 'abate benede t t ino e i rifugiati, u n a settantina: t ra essi molti ebrei e il generale Monti . Fu rono compiut i vandalismi, e seques t ra to quan to - a l imenti e al tro - e ra custodi to nel recinto della basilica. Monsignor Montini non potè intervenire tempest ivamente perché era a Messa e non lo si r intracciò. La protesta della Santa Sede fu c o m u n q u e energica. Pio XI I o t t enne il rila-

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scio dell 'abate benedet t ino , n o n quello del generale Monti . E Mussolini, informato, rispose dal no rd - secondo il conso­le tedesco Moel lhausen - con u n a dirett iva lapidaria: «Be­nissimo, continuate». Ma i tedeschi si protes tarono estranei all 'iniziativa, che n o n si r ipetè . Si con t inuò a braccare alla spicciolata gli ebrei e i resistenti: i pr imi «venduti» da dela­tori pe r cifre che oscillavano tra le cinque e le c inquantami­la lire. Tra le j e n e che si specializzarono in questa odiosa bi­sogna era una ebrea r innegata , Celeste di Porto, diciotten­ne, b runa , bella, ex-prosti tuta, soprannomina ta «la pan te ra nera».

Al t r ad imento e rano soggetti na tura lmente anche i poli­tici, ed e r ano soggetti gli animosi ufficiali che si e r ano rac­colti nel Fronte militare a t torno al colonnello Giuseppe Cor­de rò Lanza di Montezemolo: un aristocratico di molto co­raggio, c redente , monarchico . Poiché il g rado di Monteze­molo non pareva - nell'ottica burocratica del Regno del Sud -a d e g u a t o ad un c o m a n d o i m p o r t a n t e , l a d i rez ione del Fronte mil i tare e ra stata d a p p r i m a affidata al genera le Si­m o n e Simoni: un soldato che veniva dalla gavetta, e che si e ra compor ta to eroicamente nella p r ima gue r ra mondia le . Tra il Fronte militare e il CLN non correva buon sangue: fe­dele alla Monarchia il pr imo, tendenzialmente - e in alcuni suoi c o m p o n e n t i accesamente - r epubb l i cano il secondo. Per app ianare i dissensi, e realizzare u n a soddisfacente coo­pe raz ione , Simoni aveva organizzato a lcuni incont r i con i politici. Ma la sua attività fu troncata da una i r ruzione delle SS che lo ca t turarono in casa, e lo t rascinarono nel famige­rato C o m a n d o della Gestapo in via Tasso dove si svolgevano i più crudeli in te r rogator i : e dove Kappler, informato del­l 'arresto, gli si rivolse, gelido e appa ren t emen te cortese, con la frase «finalmente abbiamo l 'onore di dar le il benvenu to qui». Simoni fu sottoposto a feroci sevizie, pe rché rivelasse quanto sapeva e soprat tut to dove si trovasse Montezemolo, ma tacque, stoicamente.

E r a n o i g iorni (fine genna io del 1944) in cui gli Alleati

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sbarcavano ad Anzio, e la liberazione di Roma pareva immi­nente . Montezemolo sperava di po te r scatenare una guerr i ­glia che accelerasse l 'evacuazione nazista, e il generale Qui­rino Armellini, che era stato designato a comandare la piaz­za di Roma, anticipò alquanto fantasiosamente gli eventi ra­diotelegrafando al Comando badogliano che le «bande» del Lazio e dell 'Abruzzo e r a n o in azione, che Collefiorito (un paesotto delle Marche, N.d.A.) era stato occupato dai parti­giani e che «altre regioni en t rano in azione m a n m a n o rag­giunte ordine». Lo sbarco lo sappiamo, fu un fallimento, e lo fu anche il proget to insurrezionale. Per colmo di sventu­ra, il 25 gennaio finì in via Tasso anche Montezemolo, che qua lcuno vide, d o p o il «trattamento» della Gestapo, con la mandibola slogata, gli occhi enfiati, le labbra coper te da una schiuma rossastra. N o n fiatò, n e p p u r e lui. Ma l 'organizza­zione militare ne ebbe un colpo grave, e altri ne subì succes­s ivamente: i l che spiega, ma solo in pa r t e , la mancanza di u n a g rande fiammata di rivolta q u a n d o i tedeschi se ne an­darono .

Simoni, Montezemolo, Armellini e rano contrar i alle im­prese terrorist iche dei GAP, che esponevano alle più brutal i rappresaglie la popolazione civile, e che r ipugnavano al lo­ro concetto della guer ra , e anche della guerriglia. Così p u r e alcuni politici che operavano nella clandestinità deplorava­no attentati p u r a m e n t e dimostrativi, che provocavano i na­zisti senza ot tenere risultati efficaci. Certo è che talune azio­ni por tavano alla liberazione di prigionieri antifascisti ed al­t re po r t avano alla loro esecuzione. Con un colpo di m a n o fondato u n i c a m e n t e sull 'astuzia e r a n o stati s t rappa t i a l «braccio» tedesco di Regina Coeli Giuseppe Saragat e San­d r o Pert ini , i futuri p res iden t i della Repubbl ica , sui quali incombeva una condanna a mor te . Grazie a document i con­traffatti, e a una rete di coraggiose complicità, i d u e capi an­tifascisti furono dimessi dalla p r ig ione . Q u a n d o da Radio L o n d r a la voce di Paolo Treves annunciò la fuga, Kappler e Dol lmann che r ego la rmen te l 'ascoltavano o r d i n a r o n o u n a

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inchiesta, minacciando provvediment i rigorosi contro i col­pevoli. Si sent i rono r i spondere che nel l 'ordine di scarcera­zione tut to era autentico: tut to, t r anne le firme in calce.

L'attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeati-ne che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza ci­vile, e lo p o n g o n o tut tora allo storico, il p rob lema d 'un giu­dizio sulla legittimità morale dell 'attentato, sulla ammissibi­lità della rappresagl ia , sulla responsabilità personale di chi volle l 'attentato e di chi volle la rappresaglia. L'attacco al re­par to tedesco che ogni pomeriggio , pun tua lmen te , percor­reva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno cen­t ro di Roma, era stato p r e p a r a t o da un GAP comunis ta con scrupolosa cura , e con un contro l lo minuzioso dei t empi . L'incarico di collocare le d u e b o m b e - l 'una dodici chili di t r i tolo, l 'altra sei chili - fu affidato a Rosario Bent ivegna , s tudente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al m o m e n t o della fuga, da Carla Cappon i . E rano en t r ambi giovani ma sper imentat i gappisti, cimentatisi in imprese contro il cine­ma Barber ini , e cont ro Regina Coeli. In u n a via laterale si s a rebbero appos ta t i altri par t ig ian i , t ra essi Franco Cala­mandre i , pront i a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio pe r accrescere il panico. Bent ivegna si travestì da spazzino, pose su un carre t to d u e b idoni con l'esplosivo, e r imase in attesa.

Quel g iorno i tedeschi e rano in r i ta rdo. Attesi pe r le 15, fecero udi re il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Ca­l a m a n d r e i si tolse il cappel lo (era il segnale convenu to ) , Bentivegna accese la miccia e si al lontanò verso via Qua t t ro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi , che lo copri con un impermeab i l e . Quel la che stava m a r c i a n d o e ra l a l l a

compagnia del terzo bat tagl ione del Polizei Regiment Bozen, terr i torial i altoatesini che, t r o p p o anziani pe r essere man­dati al f ronte , e r a n o stati dest inat i al servizio d ' o r d i n e in città. Lesplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mi­tra. Il leader comunista Giorgio Amendola discuteva in quel

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m o m e n t o con De Gasperi , in un edificio non lontano. A De Gasperi , che si domandava cosa potesse essere quella esplo­sione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle no­stre» e l 'altro, con un b l ando sorriso: «Dev'essere così. Voi u n a ne pensa te e mille ne fate». Poi r ip rese ro a occupars i della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimetter­si pe r i contrasti che lo dilaniavano.

Gli ordigni esplosivi fecero strage. Tren tadue militari te­deschi r imasero sul t e r reno insieme a un bambino e a sei ci­vili italiani, che pe r fatalità e rano in quei pressi (il comando par t ig iano affermò poi che i civili e r a n o stati vit t ime della spara tor ia forsennata cui i tedeschi si e r a n o abbandona t i , nella p r i m a reaz ione a l l 'a t tenta to) . I l decesso d ' u n ferito por tò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunse­ro in breve il comandan te militare di Roma generale Maelt-zer, il colonnello Dol lmann e il console Moellhausen. Con­gestionato pe r l 'emozione, e anche perché veniva da un lun­go e copioso pranzo all 'Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quar t ie r genera­le (era malanda to in salute, e pochi giorni p r ima aveva do­vuto ord inare l 'occupazione del l 'Ungher ia pe r t imore di un « t rad imento all 'italiana» del l ' ammiragl io Hor thy) , dispose che fosse raso al suolo un in tero quar t ie re , e che venissero passati pe r le armi c inquanta italiani pe r ogni mor to tede­sco. Kesselring, in ispezione al fronte, e ra introvabile , ma quando tornò r i tenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu u n a sorta di pat teggiamento t ra Kappler - il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di t rovare gli ostaggi da sacrificare - Kesselring e il Quar t ie r generale del Fùhrer , e la p r o p o r z i o n e di dieci a u n o fu accettata, e r i t enu ta da Kesselr ing equa , t an to che alle 7 del g io rno successivo ri­par t ì pe r il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare pa­d re Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo p regò di interve­nire perché si p reparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all 'ambasciata tedesca, pe r sapere se fos-

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sero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Se­de stava p o r t a n d o a conclusione la trattativa con i tedeschi pe r la proclamazione di Roma città aper ta , e n o n aveva in­teresse a r o m p e r e i ponti .

Kappler si mise al lavoro, quella sera stessa, pe r compila­re l 'elenco delle vittime; e Moellhausen (l 'episodio è r ipor­tato in Roma 1944 di Raleigh Trevelyan) lo t rovò che acca­rezzava un cane ammala to m e n t r e allineava i nomi . Anche inc ludendo tutti gli ebrei disponibili, all'alba Kappler aveva non più di 223 nomi (su qua t t ro soltanto era già stata p ro ­nuncia ta una c o n d a n n a a mor te ) . Chiese aiuto al ques tore Caruso e a Koch, che interpel larono Buffarini Guidi, mini­stro de l l ' I n t e rno di Salò, casualmente a Roma e alloggiato ne l l 'Hote l Excelsior. Il minis t ro , svegliato di soprassal to e ansante , assentì. «Sì sì dateglieli sennò chissà cosa po t rebbe succedere.» Ma anche con l'aiuto di Caruso la lista r imane­va incompleta , e così ci si rivolse a Celeste di Por to p e r c h é procurasse altri ebrei . L'orribile «pieno» fu così r agg iun to (anzi, come si vide poi, risultò sovrabbondante) .

Per la legge di gue r ra il dubbio «onore» di s terminare gli ostaggi sarebbe toccato al battaglione Bozen, ma il maggiore che lo comandava , Dobrich, rifiutò p e r c h é «i miei uomin i sono vecchi, alcuni molto religiosi, altri pieni di superstizio­ni». Lincarico passò alle SS di Kappler. Fu supera to anche un p r o b l e m a d i macabra logistica. Dove ammassa re tant i corpi? Un ufficiale del genio suggerì delle cave di pozzolana sulla via Ardea t ina , da lui visitate alla r icerca di rifugi an­tiaerei. Eseguita l 'operazione, l ' ingresso sarebbe stato fatto saltare, t rasformando le cave in u n a fossa comune .

Cinque alla volta, i prigionieri tratti da via Tasso e da Re­gina Coeli - molti convinti che li si stesse avviando al lavoro forzato in Germania - furono fatti en t ra re e finiti con colpi alla nuca . Gli ufficiali e r ano tenut i a d a r e il b u o n esempio s p a r a n d o anch'essi , e Kapp l e r r i ncuo rò i carnefici, a lcuni dei quali assaliti da nausea e disgusto, facendo fuoco perso­nalmente e dis t r ibuendo cognac in abbondanza. Alle otto di

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sera - 24 marzo - tu t to e r a finito. 335 corp i - 5 in p iù di quelli che la p r o p o r z i o n e di dieci a u n o avrebbe sia p u r e c rude lmente legittimato - e rano accatastati nelle cave. Cad­dero alle Fosse Ardeat ine, con un gran n u m e r o di ebrei, al­cune tra le più luminose figure della Resistenza: il colonnel­lo Montezemolo, il genera le Simoni, il generale Fenulli già vice c o m a n d a n t e della divisione Ariete, i comunist i Valerio Fiorent ini e Gioacchino G e s m u n d o , gli azionisti A r m a n d o Bussi e Pilo Albertelli, il colonnello dei carabinieri Frignani, alcuni giovanissimi, quasi adolescenti . Il 25 marzo i quoti­d iani pubb l i ca rono un comunica to che par lava della «vile imboscata» ordi ta da «comunisti badogliani» e annunc iava la rappresaglia , «già eseguita». Q u a n d o si seppe cos'era av­venuto Carla Capponi provò secondo quan to essa stessa ha de t to «un'angoscia, u n a d i speraz ione terribile» e Bentive-gna fu assalito «da ira dolore sdegno pe r la vigliaccheria di una rappresaglia simile». Capi ed esecutori materiali già ca­pivano che l ' immane t ragedia n o n sarebbe stata addebitata ai soli tedeschi, e Amendola scrisse, in tono di autogiustifi­cazione: «Noi par t ig iani combat tent i avevamo il dovere di n o n presentarc i , anche se il nos t ro sacrificio avesse po tu to impedi re la mor te di tanti innocenti. . . Avevamo solo un do­vere: cont inuare la lotta». Ma EOsservatore Romano, p u r nel suo linguaggio circospetto, r icordò le oltre t recento «perso­ne sacrificate pe r i colpevoli sfuggiti all 'arresto». Il che n o n piacque né ai tedeschi né ai gappisti.

Due fatti sono certi: il p r imo è che n o n vi fu alcun invito delle au tor i t à tedesche p e r c h é gli au to r i mater ia l i dell 'at­tentato si costituissero. La r i torsione terribile fu o rd ina ta a t ambur bat tente, e at tuata in segreto. Il secondo è che i gap­pisti n o n potevano pensare che la strage, proget ta ta ed ese­guita men t r e si negoziava pe r proclamare Roma città aper­ta, e rivolta contro un repar to non impegna to nei combatti­menti , restasse senza conseguenze pe r gli sventurati , ebrei e n o n ebre i , che e r a n o in m a n i naziste e fasciste. Sul p i ano mil i tare , l 'azione avrebbe p o t u t o avere un significato, sia

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p u r e simbolico - e ra chiaro che Roma sarebbe stata liberata en t ro breve te rmine - solo se si fosse collegata a u n a insur­rez ione ci t tadina. R o m a n o n p rese le a rmi , né al lora né q u a n d o le t r u p p e alleate furono a distanza di pochi chilo­metri . Le divisioni di Kesselring po te rono r ipiegare in ordi­ne . I mor t i delle Ardeat ine e rano stati sacrificati alla ragio­ne politica, al proposi to di dimostrare , pe r fini a p p u n t o po­litici, che i tedeschi se ne andavano non soltanto pe rché in­calzati dagli anglo-americani , ma pe rché scacciati dalla po­polazione. Questo scopo fallì. In un libro (Achtung Banditeti!) pubbl icato di recen te Bent ivegna ha r ivendicato la legitti­mità, anche morale , dell 'at tentato, agg iungendo: «E proba­bile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto (la rappresag l ia , N.d.A.) qua l cuno di noi , o forse tutt i , av remmo preferito mor i re al posto dei mart ir i delle Ardea­tine. È ve ramen te diffìcile d i re dopo se ci s a r emmo sponta­neamente presentat i ove ce ne fosse stata offerta prima l 'op­portunità».

Nel l ' imminenza della evacuazione di Roma da par te dei tedeschi anche i l nuovo c o m a n d o mili tare c landest ino che s'era formato era caduto in pezzi. Arrestati c inque generali , t ra i quali Angelo O d d o n e e Fi l ippo Caruso , a n c h e il co­mandan te Roberto Bencivenga era stato individuato: e solo una paz ien te azione vat icana riuscì ad o t t ene re che r ima­nesse agli arresti domiciliari, con la garanzia della Santa Se­de che n o n avrebbe fatto nulla. Gli ufficiali tedeschi comin­ciarono a vuotare le stanze degli alberghi e a spedire al nord i bagagli i ngombran t i . La capitale stava c a d e n d o come un frutto da t e m p o m a t u r o . Ma vi fu u n a inut i le , s tup ida e spietata ferocia de l l 'u l t ima ora . Da via Tasso v e n n e fatto uscire un au tocar ro con quattordici detenut i , diretti , si dis­se, verso Firenze; t ra essi Bruno Buozzi, sindacalista sociali­sta di g r ande ingegno e prestigio e il generale Pietro Dodi. In località La Storta, che al t e m p o delle diligenze era stata l'ultima stazione di posta p r ima della città, furono fatti scen­dere e fucilati. Gli aguzzini Caruso e Koch presero la via di

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Milano, part ì Kappler, par t ì Maeltzer dopo aver ciondolato ubriaco fradicio pe r il suo Quar t ie r generale . Pronto a leva­re i tacchi, Dol lmann ebbe un gesto da signore. Andò a Fra­scati a salutare Kesselring, s t remato e te r reo . Poi lasciò a sua volta R o m a «pr ima che tut t i s i ge t tassero a l l eg ramen te ai piedi dei loro liberatori».

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CAPITOLO OTTAVO

B O N O M I U N O E DUE

Perdu ta Roma, Kesselring dovette decidere cosa gli conve­nisse fare. Sull 'onda del successo, i generali alleati si illude­vano di costringere i tedeschi sconfitti ad u n a ritirata preci­pitosa fino alla p i a n u r a p a d a n a , e poi alle Alpi. La 14 a ar­mata di von Mackensen, sulla quale si e ra abbat tu to il pos­sente sforzo della 5 a a rmata americana, era stata scompagi­na ta , ed aveva il mora l e a t e r ra . Kesselr ing sostituì von Mackensen con il gene ra l e Lemelsen , e d i ede o r d i n e alla 10 a a rma ta di von Vietinghoff - f iaccata assai m e n o grave­men te - di inviare t re divisioni in soccorso dell 'altra g r ande un i tà per ico lan te . Il mov imen to si svolse t ra difficoltà im­mense : le divisioni t edesche , ba t t u t e ins tancab i lmente da u n a aviazione spadroneggiante nel cielo, furono costrette a un t rasfer imento tor tuoso. Ma in qualche m o d o quella che in taluni p u n t i aveva assunto l 'aspetto di u n a rot ta divenne u n a ordinata azione ri tardatrice, e il feldmaresciallo tedesco fu in g rado di p red i spor re i suoi a r re t rament i con sufficien­te metodicità. Sapeva che n o n si sarebbe c o m u n q u e po tu to f e rmare p e r u n a resis tenza p r o l u n g a t a , p r i m a della l inea gotica. Era così chiamata u n a serie di robuste posizioni che, pe r u n a lunghezza di 320 chilometri , tagliava la penisola da Viareggio sul T i r r eno a Rimini sull'Adriatico. Le ope re for­tificate della linea gotica avevano carat tere semipermanen te - poche quelle in cemento a rmato - con piazzuole pe r arti­glieria, postazioni pe r mitragliatrici, ricoveri, r iservette pe r munizioni , campi minati , fossi ant icarro. Ma alla linea goti­ca Kesselring voleva arrivarci dopo aver creato alle sue spal­le un «deserto logistico» e d o p o aver costret to gli Alleati a

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pagare a caro prezzo ogni loro progresso su altri provvisori sbarrament i : la linea del Tras imeno p r ima , qu ind i la l inea dell 'Arno. Hitler aveva preteso u n a resistenza a oltranza, ti­po Stalingrado, ma Kesselring insistette sul suo p iano, sen­sato e intel l igente: ed ebbe il coraggio di d i fender lo in un concitato colloquio col Fiihrer, al Quar t i e r generale , \10kw trovò del resto modo, nei tragici frangenti in cui la Germa­nia mil i tarmente si trovava, di distogliere qua t t ro divisioni - dai Balcani, dalla Danimarca , perf ino dalla Russia - p e r inviarle di rinforzo in Italia.

I tedeschi ebbero un aiuto insperato dai disegni strategici anglo-americani - nel caso specifico sarebbe più esatto d i re americani - che venivano predisposti con ostinata miopia e quindi attuati senza alcuno sforzo di immaginazione militare e politica. Alexander era ansioso di sfruttare il momen to fa­vorevole'. Per farlo, doveva disporre di tutte le sue forze, ed avere via libera nello scagliare le sue due armate contro i te­deschi ancora deboli. Egli sperava di en t ra re in Firenze nella seconda metà di luglio e di sfondare la l inea gotica a metà agosto, proiet tandosi verso la p ianura padana , e il Brenne­ro, e il valico di Lubiana, con Vienna quale obbiettivo finale. E facile capire quali prospettive schiudesse questa strategia, e quali mutament i essa avrebbe potu to por ta re alle successi­ve sorti dei Balcani, dell'Austria e del l 'Europa intera. Chur ­chill patrocinò calorosamente presso Roosevelt questo pia­no, e si sentì r i spondere con un messaggio il cui finale era avvelenato. Scriveva infatti il P res iden te amer i cano che a Teheran era stata concordata una certa linea di condotta , e che se gli inglesi des ideravano modificarla e ra necessario chiedere l'assenso di Stalin (il che equivaleva a bocciarla, pe r motivi ovvi). Deluso ma non rassegnato Churchill to rnò alla carica, e Roosevelt si appellò questa volta a esigenze elettora­li e di popolari tà: «Io n o n riuscirei quaggiù a sopravvivere n e m m e n o a un semplice regresso dell'Overlord se si sapesse che forze abbastanza consistenti sono state dirottate nei Bal­cani». Per volontà di Roosevelt e di Eisenhower - inconsape-

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voli avvocati delle tesi staliniane - la Francia restò la pr ima­ria se non unica preoccupazione dello Stato Maggiore com­binato anglo-americano, l'Italia divenne un settore seconda­rio, e ogni proposito di accelerare la penetrazione nei Balca­ni fu abbandonato . A sostegno del suo pun to di vista Roose­velt aveva scritto a Churchill che secondo «i miei pr imi rudi­ment i di geometria u n a linea retta è la più breve distanza tra d u e punti», volendo in tendere che conveniva p iombare sul cuore della Germania dalla Francia, anziché lungo direttrici periferiche. In nome della geometria e lementare mezza Eu­ropa fu forse sacrificata.

Si insistette così sulla Operaz ione Anvil (o Dragoon), ossia sullo sbarco sussidiario pe r metà agosto nella Francia meri­dionale, in appoggio a Overlord: e pe r realizzarlo venne de­ciso che già l ' i l g iugno sarebbe stato rit irato dal fronte ita­liano il VI Corpo d 'a rmata USA, che p r ima della fine di giu­gno se ne sarebbero anda te al tre t re divisioni amer icane , e che in luglio le avrebbero seguite due divisioni francesi par­t icolarmente addes t ra te alla g u e r r a in m o n t a g n a (e quindi ada t te a operaz ioni su l l 'Appennino) . Ad Alexander venne fatta la vaga promessa che, u n a volta por ta ta a te rmine l 'O­perazione Anvil, le forze sottrattegli sarebbero state restitui­te, riorganizzate e meglio equipaggiate.

In concreto Alexander perse divisioni preziose, il settan­ta pe r cento delle forze aeree d 'appoggio, e repar t i logistici: res tò con 18 divisioni, e la 5 a a r m a t a amer i cana si r idusse addir i t tura a cinque divisioni. A compenso gli furono offer­ti, in tut to e pe r tut to, la 9 2 a divisione negra USA, il cui arr i­vo era previsto pe r set tembre, e u n a divisione brasiliana at­tesa pe r la fine di ot tobre. Gli rimase tuttavia quan to basta­va ad assicurare una decisa superiori tà sulle a rmate di Kes­selring, e il completo dominio del cielo.

Un altro e lemento pregiudicò la condot ta degli Alleati, e l'efficacia del loro inseguimento. «Ragioni di prestigio, anzi di punt ig l io t ra amer ican i e inglesi - ha scritto il genera le Mario P u d d u nel suo Guerra in Italia - influirono gravemen-

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te sulle operazioni . Sembra infatti che il C o m a n d o alleato del G r u p p o d 'Armate , cons ide rando che Salerno e Napoli e rano state occupate dagli americani, abbia posto a base dei suoi proget t i , dal l 'ot tobre 1943 in poi, che in Roma doves­sero en t ra re p r ima gli inglesi. Ora, poiché.. . anche a Roma e rano entrat i p r ima gli americani fu disposto che il g r ande obbiet t ivo successivo - F i renze - dovesse essere occupa to dagli inglesi. Una sana condot ta operativa imponeva di diri­gere la 5 a a rmata verso la linea dell'Aimo a valle di Pontas-sieve, per le direttrici Aurelia e Cassia, e l '8 a a rmata bri tan­nica su Rimini e la R o m a g n a , p e r le diret t r ic i Flaminia e Adriat ica. Invece, p e r aver voluto d i r ige re la massa delle forze de l l ' 8 a a r m a t a su Fi renze , si dovet te c o m p r i m e r e in m o d o assolutamente irrazionale la 5 a a rmata amer icana su u n a ristrettissima fascia del litorale tirrenico.»

In effetti il fronte de l l '8 a a rmata era quat t ro volte il fron­te della 5 a amer icana . Ne de r iva rono contras t i a livello di comandi , ingorghi e confusione sul t e r reno . I progressi fu­rono così notevolmente più lenti di quanto Alexander aves­se previsto, e la resistenza tedesca si a n d ò consol idando. Il 18 luglio i tedeschi sgomberarono Ancona, il 19 gli america­ni e n t r a r o n o in Livorno, e il 4 agosto le t r u p p e di Kessel­r ing evacuarono Firenze d o p o aver fatto saltare tutti i pont i sull 'Arno ad eccezione del Ponte Vecchio. Il 22 agosto il II Corpo d ' a rmata polacco, inquadra to ne l l '8 a a rmata br i tan­nica, si at testò sulla riva mer id iona le del Me tau ro , poco a sud di Pesaro. La linea gotica era stata investita, e i coman­dant i alleati in Italia p repa ravano i piani pe r il suo sfonda­mento .

A ques te operaz ioni par tec ipò , ne l l ' 8 a a rma ta , i l C o r p o Ital iano di Liberazione, o CIL, che o rmai contava 13 batta­glioni di fanteria, d u e regg iment i di artiglieria da campa­gna, un g r u p p o di art iglieria pesan te e r epa r t i del genio . Dopo essere stato aggrega to al V Corpo d ' a rma ta inglese, ed avere liberato varie località (tra esse Orecchio, Orsogna, Guardiagrele , Chieti), il CIL fu trasferito alle d ipendenze del

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genera le Ander s , che comandava i polacchi. In questa se­c o n d a fase ebbe par t ico lare rilievo i l comba t t imen to dei pa ra della Nembo per la conquista di Filottrano, s t rappata a due battaglioni del 994° reggimento di fanteria tedesco. «La battaglia - ha r icordato il colonnello Leandro Giaccone che vi combatté - era stata durissima. La metà dei difensori era­no morti , o feriti, o prigionieri : anche le perdi te della Nembo erano state pesanti , più di t recento tra mort i e feriti.»

L'Operazione Olive, il cui obbiettivo era di infrangere in più pun t i la l inea gotica, d u r ò dalla fine di agosto all 'otto­bre , e consentì qualche successo, ma n o n la vittoria. Le 16 divisioni di Kesselring re t rocede t te ro in più p u n t i e con la presa di Rimini l '8 a a rmata i r r u p p e sulla p ianura : ma poi la c in tura difensiva si r isaldò, e Alexander dovet te segnare il passo, r i nunc iando a ogni p roge t to ambizioso. Ques ta len­tezza e ra pa r t i co la rmen te f rus t rante se messa in r a p p o r t o con quan to accadeva negli altri scacchieri, dove gli avveni­ment i galoppavano. Eisenhower aveva preso e superato Pa­rigi, le forze dello sbarco Anvil-Dragoon si e r ano congiunte l'I 1 set tembre a Digione con le forze dello sbarco Overlord, a est i sovietici e r ano a Varsavia, la Romania aveva cambiato campo - come già l'Italia l'8 se t tembre 1943 - d ich ia rando gue r r a alla Germania , la Bulgaria si era ritirata dal conflitto e gli ungheres i davano chiari segni di volerla imitare. L'im­p e r o tedesco e ra in disfacimento, ma la l inea gotica t e n n e pe r un altro abbondan te inverno.

Nei giorni in cui Roma veniva liberata, Vittorio Emanuele I I I combatté un'ult ima malinconica battaglia per congedarsi dal t rono non solo con dignità, ma anche con qualche solennità: e la perse. Questo vecchio signore ostinato era, per gli Alleati, un fastidio, tanto che Macmillan, deposta la sua flemma e cor­tesia britannica, aveva detto a MacFarlane: «Se il Re fa qual­che sciocchezza lo metta su un aereo e lo mandi nel Kenia».

Ormai il Re non guardava alle contingenze presenti , ma alla storia: e p r epa rava le pezze d ' appoggio p e r riscattarsi

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di fronte ad essa. Il p r imo g iugno aveva p repa ra to con Ac­qua rone un a p p u n t o nel quale rivendicava ad esclusivo suo meri to la cacciata di Mussolini. «Caro Acquarone , l 'autoriz­zo a dichiarare che fin dal gennaio 1943 io concretai defini­t ivamente la decisione di p o r r e fine al r eg ime fascista e re ­vocare il Capo del governo Mussolini. L'attuazione di que­sto p rovved imen to , reso più difficile dallo stato di gue r r a , doveva essere minuziosamente p repa ra ta e condot ta nel più assoluto segreto, m a n t e n u t o anche con le pe r sone che ven­nero a par larmi del malcontento del paese.»

A Badoglio il Re chiese che il trapasso dei poter i al Luo­gotenente avvenisse a Roma o in provincia di Roma, quasi, come ha scritto Benedet to Croce, pe r attestare un suo «for­malistico e simbolico r i to rno dove e ra q u a n d o la pubblica­zione dell 'armistizio lo costrinse a mettersi in salvo nell 'Ita­lia meridionale». Ques ta pre tesa suscitò genera le imbaraz­zo. Gli Alleati avevano già altri grossi problemi da risolvere: la sostituzione di Badoglio - che n o n desideravano, anzi, ma che era diventata, pe r i part i t i antifascisti e sopra t tu t to pe r gli esponent i del m o n d o politico romano , u n a pregiudiziale irrinunciabile -, i tempi del trasferimento a Roma della au­torità italiana, la composizione di un nuovo governo. Quel­la che , nella loro ottica, e r a la pe tu l anza di Vit torio Ema­nuele I I I , introduceva un ulteriore n o d o in un groviglio già abbastanza intricato.

Anche quando , mossa a compassione, la Commissione al­leata parve disposta a concedere a Vittorio Emanuele di toc­care , porta tovi da un ae rop lano , i l suolo di Roma, e di fir­m a r e là i l dec re to , r imase i l no dei politici. Arangio-Ruiz , Rodino , Croce t rovavano che n o n c 'era n ien te di male nel d i re sì a «questo vecchio signore che ci chiede un piacere, e a noi n o n costa nulla». Ma gli altri insorsero con t ro il «Re fuggiasco». Il 5 g iugno Badoglio e MacFarlane d o m a n d a r o ­no u d i e n z a al Re, che la f issò alle 15. «Sono arr ivat i con mezz'ora di r i tardo - annotò Puntoni - e MacFarlane era in pantaloni corti e in maniche di camicia. H a n n o subito chie-

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sto a Sua Maestà di f i rmare il decre to pe r il passaggio dei poter i e pe r la nomina del Principe a Luogotenente del Re­gno. Il Sovrano si è irrigidito nuovamente e ha chiesto che gli venisse concesso di f i rmare il decre to nella capitale. Ha r isposto MacFar lane : "E impossibi le . Le condiz ioni nella città sono tali da sconsigliare la vos t ra p re senza in Roma . Per di più a Roma n o n si p u ò ar r ivare né pe r via aerea né p e r s t rada. . ." . I l Re ha de t to : "Sta b e n e . Voglio al lora che tut to ciò mi sia messo pe r iscritto dal Capo del governo. . ." . Badoglio ha risposto: "Manderò la lettera, secondo i deside­ri di Vostra Maestà. In tan to è necessario che Vostra Maestà f i rmi" . I l Re ha repl icato: " N o n f i rmo nul la se p r i m a n o n f i rmerà lei...". Badoglio ha cercato d i p r e n d e r e t e m p o ma date le insistenze del Sovrano ha dovuto compilare la lette­ra che il Re p re t endeva . Solo allora Sua Maestà si è deciso ad a p p o r r e la sua firma al decre to il cui testo, compila to a Salerno nella sede del governo, pe r un incidente del moto­ciclista che lo recava, è g iunto con notevole r i tardo. Dopo la firma, il maresciallo e MacFarlane h a n n o preso congedo dal Sovrano. Badoglio si e inchinato e singhiozzando ha baciato le mani al Re. Sua Maestà ha accolto il gesto con molta fred­dezza e ha invitato il maresciallo a uscire subito.» A Vittorio Emanue le I I I fu perf ino proibi to di trasferirsi immedia ta ­mente , come avrebbe voluto, a Napoli. E q u a n d o vi traslocò, gli o r d i n a r o n o di t o rna re a Ravello. I n topp i , anche se mi­nori , de r ivarono dal desiderio del Luogotenen te di recarsi al più presto possibile a Roma, e di potersi installare al Qui­rinale.

I problemi r iguardant i i Savoia si intrecciavano del resto con quelli r iguardant i il governo, che i politici sia a Napoli sia a Roma volevano dimissionario, pe r vararne un altro de­mocra t icamente rappresenta t ivo . La sorte di Badoglio, co­me Capo del governo, era d u n q u e segnata. Egli stabilì con MacFar lane che u n a de legaz ione del g o v e r n o - Badogl io più alcuni ministri in r app re sen t anza dei part i t i - avrebbe ragg iun to Roma pe r consultarsi con i pe r sonagg i r iemersi

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dalle p e n o m b r e catacombali della clandestinità, e decidere insieme le linee future. A Roma volò anche Umber to , cui fu permesso di sostare al Quir inale , e di ricevervi alcune per ­sonalità, p r ima di r ien t ra re a Napoli. Con l'occasione il Luo­gotenente fece visita in Vaticano al Pontefice e al Segretario di Stato cardinale Maglione. Pio XII ricevette anche il gene­rale Clark.

Al G r a n d Hote l , dove e r a stato f issato ques to conclave polit ico, Badogl io ar r ivò con c inque minis t r i - Benede t t o Croce pe r i liberali, Sforza pe r i repubblicani , Rodino pe r i democristiani, Togliatti pe r i comunisti , Pietro Mancini pe r i socialisti - in più l 'azionista Alberto Cianca, che minis t ro non era, e che perciò si sentiva libero di gu idare l'offensiva con t ro il marescial lo . Dei r o m a n i i n t e r v e n n e r o il l iberale Casati; il demolaburis ta Ruini, il comunista Scoccimarro, l'a­zionista La Malfa, De Gasper i , Nenn i , e infine, come indi­penden t i , Bonomi e Vittorio Emanue le Or l ando . In quella stessa saletta del Grand Hotel , dove alle 18 - presente Mac­Farlane - si cominciò a discutere, Mussolini aveva formato, d o p o la Marcia su Roma, il suo p r imo ministero.

I delegat i r o m a n i n o n p e r s e r o t e m p o p e r d i re a Bado­glio, sia p u r e in toni diversi, che doveva anda r sene pe r far posto a Bonomi. Nessuno dei ministri che l 'avevano accom­p a g n a t o fiatò, t r a n n e Togliatti che dichiarò di ade r i r e alla p ropos ta di Ruini (il p r i m o ad intervenire) p u r dolendogl i di separarsi da Badoglio «col quale aveva così se renamente collaborato». Badoglio si alzò e tese la m a n o al leader comu­nista: subi to d o p o Scoccimarro d i ede a t to a l marescial lo d'essersi compor ta to «da vero patriota» («on a u r a tout vu» commentò acidamente Nenni nel suo diario). Quind i Bado­glio si disse p ron to a cedere la presidenza «alle mani esper­te dell 'amico Bonomi»: ma, rivolto ai «romani», non mancò di sfogare la sua amarezza: «Siete ora riuniti in torno a que­sto tavolo in Roma liberata n o n pe rché voi, che eravate na­scosti o chiusi nei conventi , abbiate po tu to fare qualche co­sa: chi ha lavorato finora, assumendo le più gravi responsa-

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bilità, è quel militare che, come ha det to Ruini, n o n appar ­tiene a nessun partito».

Al Luogo tenen t e , che come abbiamo accennato e ra an-ch'egli nella capitale, Badoglio presentò subito d o p o forma­li dimissioni. MacFarlane sapeva quel che stava accadendo e in qualche modo , fallita la speranza di far r iconfermare Ba­doglio, l'aveva accettato: n o n così Churchil l , che considerò la «svolta democratica» u n o smacco personale , e lo fece sa­pe re a Roosevelt con il suo solito pittoresco linguaggio: «La sosti tuzione di Badoglio con ques to g r u p p o di decrepi t i e affamati poli t icanti è , io c r edo , un g r a n disas t ro . Sin dal t e m p o in cui, a sprezzo del nemico, Badoglio consegnò in­tatta la flotta nelle nostre mani , egli è stato per noi un utile s t rumento . . . Noi ci t roviamo ora davant i questo b ranco as­solutamente non rappresentativo».

Vi fu il pericolo che la Commissione alleata considerasse come non avvenuta la r inuncia di Badoglio e la designazio­ne di Bonomi , p e r c h é a t tuat i senza i l suo placet: t an to che Sforza protestò veementemente con il Dipar t imento di Sta­to americano. «Noi siamo pron t i ad anda re in pr igione così come ad essere fucilati da u n a reazione militare piuttosto di t r ad i re la causa della l ibertà italiana», p roc lamò un po ' gi­g ionescamente . Roosevelt, d a p p r i m a contagia to da l l ' emo­zione di Churchill , concluse poi che «sarebbe un serio e r ro ­re se n o n pe rme t t e s s imo la p r o n t a p roc lamaz ione del go­ve rno Bonomi». E gl'inglesi f inirono p e r adeguars i . Tut ta­via furono impost i al nuovo Pres idente , pe r la formazione del minis tero, garanzie e impegni a n o n finire: il Capo del gove rno e ogni singolo minis t ro dove t te ro sottoscrivere le clausole del lungo armistizio, e si impegna rono a n o n allac­ciare relazioni con altri paesi e a n o n r i apr i re la quest ione istituzionale senza il consenso degli Alleati. Vennero inoltre confermati i ministri militari e quelli tecnici, e Sforza, desti­na to in iz ia lmente agli Esteri , r imase senza portafogl i (gli Esteri furono assunti, con gli In tern i , da Bonomi, e solo Bo­nomi g iurò nelle man i del Luogotenente ) . Con i l loro giu-

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r a m e n t o alla naz ione , n o n alla mona rch i a , i minis t r i p r o ­mettevano di non compiere «fino al momen to in cui si possa convocare l'Assemblea costituente» atti capaci di «pregiudi­care la soluzione della questione istituzionale».

Nel n u o v o gove rno Bonomi , Croce , Sforza, Togliatti , Ruini, De Gasperi , Cianca e Saragat furono ministri senza portafoglio. Tra gli altri incarichi ci teremo quello di Tupini , democrist iano, alla Giustizia, del liberale Soleri al Tesoro, di Gronchi , anch'egl i democris t iano, a l l ' Industr ia , del comu­nista Gullo al l 'Agricoltura, del socialista Romita ai Lavori Pubblici, del l iberale Casati alla G u e r r a . N e n n i n o n en t rò nel ministero, nonostante le sollecitazioni dei «compagni» e le insistenze di Togliatti che tentò «fino all 'ult imo il ricatto di ritirarsi se non accettavo». Nenni spiegò di essere rimasto fuori pe rché in tendeva dedicarsi all'Avariti!, pe rché n o n gli piaceva la s t ru t tura del governo con t roppi ministri e t roppi sottosegretari, e perché non aveva fiducia in Bonomi che «è un b u o n u o m o e noi abbiamo invece bisogno di un u o m o forte». Infine gli seccava, ha lasciato scritto, l ' a r roganza al­leata.

Il 22 g iugno, a Salerno, i ministri t enne ro il loro p r imo consiglio. A metà luglio il governo fu autorizzato a insediarsi a Roma, anche se con ben scarsa autonomia («per r imuovere un fattorino lamentava VAvanti! - è necessario il consenso di una Commissione di controllo»). Gradua lmente le province liberate furono restituite alla amminis t razione italiana, e la Commissione alleata di controllo perse quest 'ul t ima qualifi­cazione (e fu Commissione alleata tout court) a simboleggiare una ulteriore at tenuazione dei vincoli armistiziali.

Roma app laud iva i vincitori , Pio X I I regalava rosar i ai soldati alleati che facevano ressa nelle udienze general i - e tanti ne distribuì che a un certo p u n t o le riserve vaticane si e rano esaurite -, folle di dimostrant i devastavano le sedi fa­sciste delle quali sveltamente p rendevano poi possesso par­titi e associazioni antifasciste, scritte, fregi e insegne sfuggiti al repulisti del 25 luglio venivano immolati al nuovo corso,

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la toponomast ica subiva gli ul ter iori adeguamen t i di rito, i quot id iani t radizionali - a cominciare dal Messaggero e dal Giornale d'Italia - e r a n o costretti a sospende re le pubblica­zioni, il cambio del dollaro veniva fissato a 100 lire e quello della sterl ina a 25, e ra soppressa l 'Accademia d 'I tal ia, e il p r imo agosto il conte Sforza, lasciato il governo, assumeva la carica di Alto commissario alla epurazione.

Questa aveva già mosso i p r imi incerti passi nella b u r o ­crazia minis ter ia le e mil i tare e nella selva dei prof i t ta tor i (tra gli inquisiti Achille Lau ro ) . A fianco di Sforza furono posti , quali alti commissar i aggiunt i , Mario Ber l inguer , M a u r o Scoccimarro , Mario Cingolani e Felice S tangoni . Scoccimarro assicurò che «nessuno sfuggirà alle p ropr ie re­sponsabilità come a nessuno sarà negato il r iconoscimento dei diritti acquisiti». E aggiunse: «Né alcuno deve illudersi che sarà facile trarci in inganno con il sistema delle pos tume benemerenze che fiorisce oggi a Roma o con scappatelle del d o p p i o gioco che ta luni h a n n o concepi to e a t tua to come u n a specie di controassicurazione pe r tutte le eventualità». Per i potenziali «imputati» fu i m p o r t a n t e cercare e p rocu­rarsi u n a coper tu ra a sinistra: la sola in grado di r idare can­dore alle più inquinate fedine personali e politiche. Lo fece con g rande prontezza il generale Carboni, «vilain» della tra­gedia armistiziale. Ma come tutte le cose italiane, l 'epurazio­ne ebbe pe r caratteristica la volubilità, la casualità, un impe­tuoso fervore iniziale e u n a successiva apatia, e infine la in­certezza sulle conclusioni. Pagò caro chi fu colpito presto. Il p iù delle volte accadde p r o p r i o ciò che gli alti commissari ga ran t ivano di voler evi tare: vo la rono gli stracci. D'a l t ro canto il fascismo era du ra to così a lungo, ed aveva avuto ap­poggi e consensi così ramificati - e inevitabili - che il voler spingere la indagine al di là della precisa responsabilità pe­nale, pe r reati comuni , era insieme fazioso e velleitario, e in definitiva inutile. Lo si constatò presto. I proclami epurativi d iedero la stura, anche questo va accennato, ad una grandi­ne di d e n u n c e e di le t tere a n o n i m e : molti vedevano nella

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epurazione del collega o del super iore una garanzia di p ro ­mozione.

Anche la sorte dei peggior i sgher r i , cer to meri tevoli di ogni pena - mor t e compresa - dipese molto, e questo vale anche pe r gli avvenimenti successivi al 25 aprile 1945 nell 'I­talia set tentrionale, dal m o m e n t o e dal l 'ambiente in cui fu­r o n o processati ( quando furono processati) . La giustizia a t a m b u r ba t t en t e fu d r a c o n i a n a e spicciativa, q u a n d o n o n sommar ia : quel la d i lazionata fu i n d u l g e n t e e a volte fin t roppo, e soggetta poi al rituale colpo di spugna. Davanti al­la Cor te d'Assise d i Roma v e n n e c o m u n q u e p o r t a t o con s traordinaria sollecitudine il questore Caruso, che nei gior­ni della liberazione della capitale s'era diret to al n o r d in au­tomobile, ma, f in i to con t ro un albero, ne aveva avuto u n a gamba fracassata. Era così rimasto intrappolato. Non aveva dubbi sulla sentenza che lo aspettava, e da Regina Coeli ave­va scritto alla moglie d'essere p ron to a «espiare con la vita il d a n n o che ho a r reca to alla società». Q u a n d o il processo si apr ì , i l 18 se t tembre , l 'atmosfera era rovente . Con i m p r u ­denza, pe r non dire con incoscienza, fu chiamato a testimo­niare l ' ex-di re t tore di Regina Coeli, Dona to Car re t t a , che nello svolgimento dei suoi compiti aveva sempre dato prova di umani tà , prodigandos i pe r sot t rarre alla pena capitale o alla depor taz ione il maggior possibile n u m e r o di ebrei e di «politici». Eccitata dalla invettiva di u n a d o n n a isterica, u n a di quelle pasionarie o «tricoteuses» che a queste recite truci n o n m a n c a n o mai , la folla esagitata che gremiva l 'aula si scagliò contro lo sventurato Carret ta , e, dopo un pestaggio violento, lo t rascinò a l l ' aper to . Q u a l c u n o t ra i p iù feroci p re tendeva che un t ram gli passasse sopra, ma il manovra­tore rifiutò. «Carret ta - h a n n o scritto For tuna e Uboldi - è allora gettato nel Tevere, dove r ip rende conoscenza e cerca di to rnare a riva. Con dei remi gli spingono la testa sott'ac­qua, finché annega.» Caruso, condanna to a mor te , fu fucila­to nel pomeriggio del 21 set tembre.

Così, m e n t r e gli e p u r a t o r i cercavano di d i sc r iminare ,

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nella ammin i s t r az ione e t ra i notabil i , i compromess i dai non compromessi (finirono in carcere, tra i più insigni, l'ex luogotenente generale in Albania Francesco Jacomoni , l'ex Governatore della Banca d'Italia Azzolini e il generale Roat­ta) e i sicari dei tedeschi si r in tanavano pe r sfuggire alla cat­tura (tra essi Celeste di Porto, presa solo nel 1945), v 'erano italiani che, nel g r a n d e collasso spiri tuale e mater iale , e di f ronte alla i ndecen te esul tanza di t r o p p i prof i t ta tor i e di t roppi antifascisti dell 'ultima ora, avvertivano un profondo moto di disgusto. Ques ta r epu l s ione e ques to scoramento spinsero al suicidio Fecia di Cossato, sommergibilista eroico. Alla m a d r e scrisse una let tera di congedo , da Napol i : «Ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi tro­vavo in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo pe r ché ci è stata p resen ta ta come un o rd ine del Re... Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati i ndegnamente traditi e ci t roviamo ad avere commesso un ignobile gesto senza alcun risultato... Da mesi penso ai miei mar ina i che sono onorevo lmente in fondo al mare , e penso che il mio posto è con loro...». Si ca­pisce questa disperazione. La Napoli di allora, come tut to il Mer id ione l iberato, dava u n a immagine avvilente d i anar ­chia, servilismo e povertà (anche se, insieme, di inesausta e caotica vitalità). I treni locali cont inuavano ad essere tradot­te del merca to ne ro (era accaduto che il fumo di u n a loco­motiva bloccata sotto u n a galleria, nei d in to rn i di Potenza, asfissiasse cent ina ia di passegger i ) e u n a organizzazione commerciale e industriale del l 'emergenza si e ra instaurata e consol idata nel l ' a rb i t r io . Labora to r i ar t ig iani s fornavano pezzi di r icambio pe r auto fatti a m a n o o quasi (essendo le fabbriche nel nord ) e una classe di nuovi ricchi dei traffici clandestini cominciava ad emergere , con ostentati e grosso­lani lussi.

Il governo, sotto il b lando impulso di Bonomi, tentava di fare la sua s t rada t rascinando alcune pesanti palle al piede. La p r i m a era la presenza alleata, i cui o r i en tamen t i e r ano

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t ra l 'altro resi mal decifrabili dai contrasti che, nello stesso campo anglo-americano - pe r non par lare dei rappor t i con l 'Unione Sovietica - esistevano. La seconda era l ' incognita istituzionale, di fronte alla quale i part i t i avevano atteggia­menti diversi. La terza era la precarietà di un ministero che, lo si sapeva, si sarebbe sfasciato - a Italia totalmente liberata -sotto l ' imperversare del «vento del nord», così come il mini­s tero Badogl io e ra stato t ravol to dal p o n e n t i n o r o m a n o . L'ultima era la disgregazione del l ' appara to amministrat ivo, che stentava a r icomporsi pe r la minaccia della epurazione, p e r gli appe t i t i dei funzionar i p iù spregiudica t i , e p e r le spinte centrifughe del paese. Si litigava e si spettegolava do­v u n q u e . Rilevò Pun ton i , d o p o u n a p u n t a t a nella capitale: «Non metto piede al Quir inale che del resto, da quanto ven­go a sapere, ha cessato di essere il palazzo del Re. Il Sovra­no è dimenticato, chi lo r icorda lo fa p u r t r o p p o pe r sparlar­ne . Al Minis tero della G u e r r a l 'atmosfera n o n è diversa. I generali si sbranano fra loro. Quelli che sono risaliti dal sud sono attaccati da quelli che sono rimasti a Roma insieme con Bencivenga. L'esercito r o m a n o attacca l 'esercito borbonico delle Due Sicilie!».

B o n o m i e r a cost re t to a ba rcamena r s i t ra sollecitazioni contrastanti . Le preoccupazioni maggiori , dal p u n t o di vista dell 'equilibrio governativo, gliele davano gli azionisti e i so­cialisti, i p r imi pe r in t rans igenza antifascista e an t imonar ­chica (e anche pe r quella voluttà del dissenso che fu il loro p u n t o d'orgoglio, e la ragione del loro sfascio); i secondi pe r massimal ismo velleitario e pa ro la io . Caut i , b e n s a p e n d o quel che volevano, i comunisti , e Nenn i registrava con stu­pefatta ammiraz ione , d u r a n t e un incontro con loro, che la tattica di Togliatti era «opportunista nelle sue manifestazio­ni e s t e rne , r ivoluzionar ia nei suoi obbiettivi». Dopod iché trasecolava p e r c h é Saragat , p r e sen t e alla r i un ione , aveva «accentuato t roppo la nota della diffidenza pe r la democra­zia dei comunisti».

In politica estera Bonomi aveva confermato la scelta di

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campo di Badoglio, in qualche m o d o consolidandola. La vi­sita di Churchil l in Italia all'inizio di agosto del 1944, gli die­de m o d o di rafforzarsi nella convinzione che l'Italia potesse segui re un solo indir izzo: la col laborazione s e m p r e p iù stretta, non solo pe r i l futuro immediato ma anche pe r quel­lo lontano, con le democrazie occidentali. In quell 'occasione Churchil l aveva incontrato, a Napoli , Ti to, e ne aveva otte­n u t o ingannevol i assicurazioni sulla a u t o n o m i a iugoslava dalla U n i o n e Sovietica. A Roma egli vide - ol t re al premier greco Giorgio P a p a n d r e u , con il quale doveva m e t t e r e a p u n t o i l p iano dello sbarco di un corpo di spediz ione br i ­tannico in Grecia, ad evitare che ai tedeschi si sostituissero i par t ig iani comunis t i - anche Bonomi , Badoglio, U m b e r t o di Savoia, i capi dei maggiori parti t i , infine il Papa. Il Luo­gotenente disse poi che Churchil l si era espresso nei riguar­di degli italiani «in te rmini più amichevoli di quan to si po­tesse sperare». A Pio XII il p r i m o ministro inglese ribadì il suo ant icomunismo, t rovando nell ' interlocutore la più calo­rosa comprens ione . Se ne a n d ò tuttavia amareggia to dalla stagnazione dell'offensiva militare che lo privava di un suc­cesso di cui «avevamo così malede t tamente bisogno», e con il cruccio di sapere irrealizzabile la pun ta t a su Vienna, pe r s t rappar la alla conquista sovietica. Svaniva il suo sogno di u n a «pugnala ta all 'ascella adriatica» della Ge rman ia . Con attivismo giustificato dall 'incalzare degli avvenimenti Chur­chill incontrò Roosevelt a Quebec il 13 set tembre, senza or­mai po te r lo conver t i re alla sua crociata cont ro la pene t r a ­zione di Stalin ne l l 'Europa centrale e nei Balcani, il 9 otto­bre vide a tu pe r tu Stalin, a Mosca. Fu allora che Churchill r iassunse in un mezzo foglio di carta il suo proge t to pe r la sistemazione delle zone di influenza in Europa: Romania 90 p e r cento alla Russia e 10 pe r cento agli anglo-amer icani ; Grecia 90 pe r cento agli anglo-americani e 10 pe r cento alla Russia, Iugoslavia e Ungher ia 50 e 50; Bulgaria 75 alla Rus­sia e 25 agli anglo-americani (l'Italia era data pe r acquisita, i n t e r a m e n t e , all ' influenza degli Alleati occidentali) . Stalin

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tracciò sul l ' appunto un grosso «visto», e quindi lo restituì a Churchil l con le parole : «Conservatelo voi». Il di t ta tore già sapeva in qual m o d o avrebbe trasformato quei 90 o 75 o 50 pe r cento in suo favore in altrettanti cento per cento.

Pur nelle disastrate condizioni dell 'Italia liberata (nell'Italia cen t ra le , ha scritto Franco Cata lano , si calcolava che il 94 pe r cento degli impianti elettrici fosse stato distrutto) i p ro ­blemi alimentari , finanziari e in definitiva economici e rano gravi, ma con s intomi di mig l io ramen to . L'UNRRA (Uni ted Nations Relief and Rehabilitation Administrat ion) già stava va rando u n a vasta ope ra di assistenza sanitaria e al imenta­re , l'Italia era autorizzata a r i p r ende re gli scambi con l'este­ro , e ai p r imi di o t tobre Roosevelt dispose che le s o m m e spese dal governo di Roma per i l man ten imen to delle t rup­pe americane gli fossero in tegralmente rifuse, in dollari. So-leri, ministro del Tesoro, poteva g u a r d a r e con qualche mi­nor apprens ione all 'avvenire. Non così Bonomi, come mini­stro degl ' Interni . Sull 'onda del nuovo corso, e sotto la sferza dei disagi e della povertà, si accendevano fiammate di ribel­lione. Grupp i di braccianti e contadini occupavano le t e r re dei grandi proprie tar i - o magari anche dei non grandi -, la forza pubblica era sollecitata a intervenire: e se a volte resta­va del tutto latitante, altre volte eccedeva in durezza. Vi fu­rono in set tembre mort i e feriti a Licata - pe r u n a dimostra­zione contro il capo dell'Ufficio di collocamento, cui e r a n o impu ta t i p r e c e d e n t i fascisti - un a l t ro m o r t o si con tò ad Anagni dove e rano state invase le t e r re dei principi Balestra del Drago e Doria, e un altro ancora in ot tobre a Ortucchio nel Fucino (proprietà Torlonia). Una vera jacquerie, violenta e caotica, si scatenò il 18 ot tobre a Palermo, sulla scia di u n a manifestazione contro il carovita indet ta dai d ipenden t i del C o m u n e e dell 'esattoria. A questo p r imo nucleo si aggregò ben presto una folla tumul tuan te , nella quale non mancava­no, è certo, né i teppisti né gli eversori.

«Da via Maqueda - citiamo da For tuna e Uboldi - il cor-

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teo degli scioperanti muove verso il Comune , che è ret to da un commissar io prefett izio, i l b a r o n e Enrico Mer lo : in se­guito, travolti i cordoni di polizia, si dirige verso la Prefettu­ra dove in assenza del prefetto il suo vice, dot tor Pampillo-nia, chiede aiuto al c o m a n d o del Corpo d ' a rmata di Paler­mo. La richiesta è pressante: il comando del Corpo d 'arma­ta invia un con t ingen te di militari della divisione Sabauda, che è comanda ta dal generale Castellano, l 'uomo dell 'armi­stizio di Cassibile. Giunti alla Prefettura, i soldati r i tengono di trovarsi di fronte a una sommossa, fanno uso delle armi . Vengono uccisi novanta dimostranti ; un centinaio di feriti.» Q u a n d o si diffuse a Roma, la notizia suscitò sgomento : ma la stessa s t ampa di sinistra pa r lò di p rovoca tor i infiltratisi tra i dimostrant i : che c 'erano davvero, anche se mai fu chia­rito quale matr ice ideologica avessero, se p u r e ne avevano una . Tutto induce a pensare che in questo scatenarsi di rab­bia e di aggressività avessero u n a par te i separatisti, che sta­vano d iventando un grosso problema, sociale e politico.

Il separatismo siciliano s'era fatto vivo n o n appena gli Al­leati avevano messo p iede nell'isola, r ivendicando in qual­che m o d o la p r imogen i tu ra del disfattismo e del t rad imen­to. Conf luivano nel m o v i m e n t o i nd ipenden t i s t a siciliano (MIS), che aveva una sua organizzazione militare clandestina (EVIS), varie componen t i : ba ron i nostalgici e ansiosi di im­possibili restaurazioni, contadini che in una Sicilia sganciata dall 'Italia e p ro te t t a dagli Alleati speravano di conquis tare la p r o p r i e t à della t e r r a su cui lavoravano, affaristi at t i rat i dal miraggio di buon i commerci con gli Stati Uniti , mafiosi che nello stretto col legamento politico con l 'America vede­vano schiudersi ampie prospett ive pe r traffici leciti o illeciti. Leader del MIS e ra Andrea Finocchiaro Aprile, un avvocato e professore d 'università che veniva da una famiglia di nota­bili e nell 'epoca prefascista era stato deputa to , e sottosegre­tario nel 1919 con Nitti. Converti tosi a l l ' ind ipendent i smo, ne difendeva e diffondeva le tesi con virulento slancio.

Gli argoment i degli indipendentis t i - un loro movimento

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si formò anche in Sardegna, ma con minore presa popolare e ancora più fragili giustificazioni storiche - si rifacevano al «sopruso» piemontese, e alla politica di dominio, e di sman­tel lamento delle iniziative isolane, che il Regno unitario ave­va praticato. Finocchiaro Aprile coinvolgeva nelle sue accu­se non solo i Savoia ma anche i Borboni , r ivendicando alla Sicilia u n a p e r e n n e insofferenza sia verso Napoli , sia verso Tor ino , sia verso Roma . Per l iberarsi del giogo i tal iano, il MIS si appellava agli americani e agli inglesi: «Le nostre sof­ferenze, l'assoluta privazione della libertà, l 'odio del gover­no italiano verso di noi - era scritto in un suo documento -ci fanno desiderare che gli Stati Uniti e l ' Inghil terra rioccu­p ino mi l i t a rmen te l'isola». Da p a r t e di singoli ufficiali ed esponent i alleati, p iù che da pa r t e dei governi , a r r iva rono indubb iamen te ai separatisti incoraggiament i sot terranei e strizzate d'occhio allusive. Or iund i siciliani in USA pensava­no all'isola come alla 4 9 a stella della bandiera americana. Fi­nocchiaro Aprile in u n a r iun ione pubblica del Movimento asserì che Churchill e Roosevelt l 'appoggiavano e che insie­me avevano discusso della questione siciliana. Non era vero. I d u e statisti - Churchil l in particolare - potevano anche co­vare tentazioni di quel t ipo, ma con la consapevolezza che e ra impossibile t r a d u r l e in real tà: a m e n o che gli anglo­americani - i cui proget t i terri toriali dovevano essere con­certati con Stalin, e con i suoi vassalli, t ra gli altri Tito - fos­sero disposti a consentire l ' ingerenza sovietica in un ' inedi ta sistemazione del Medi ter raneo.

Nessun avallo anglo-amer icano, d u n q u e , al Mis, ma an­che l ' impossibilità p e r un gove rno debole , incer to e sotto tutela come il Bonomi p r imo d'agire a carico dei separatisti con le misure che il loro l inguaggio e il loro compor tamen­to avrebbero richiesto. Si t rat tava di autent ico t r ad imen to , con i l suppo r to di u n a organizzazione a rma ta clandest ina. Anche quando - t ramite l 'ambasciatore sir Noel Charles - la Gran Bretagna fece sapere ufficialmente di non essere affat­to schierata con il movimento separatista, Bonomi r i t enne

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o p p o r t u n o placar lo , d a n d o qua lche offa a i suoi a d e r e n t i modera t i , anziché repr imer lo . Aderì così alla impostazione di d o n Luigi Sturzo che vedeva nel regionalismo il r imedio ai dann i del centralismo sabaudo e la «caratteristica dell 'Ita­lia risorta». Fu costituita, presso l'Alto commissariato pe r la Sicilia, u n a Consul ta d i 24 m e m b r i , che r a p p r e s e n t a v a n o organizzazioni economiche e pol i t iche, alla quale sarebbe spettato di formulare proposte pe r l 'o rd inamento regionale dell 'isola: e fu stanziato un mil iardo p e r la t rasformazione del latifondo e 500 milioni pe r lo sviluppo dell ' industria si­ciliana: p r ime di u n a serie di elargizioni che doveva d u r a r e nei decenn i , a titolo di sol idarietà naz ionale , con risultat i de luden t i : così come d e l u d e n t e fu la Regione a u t o n o m a , q u a n d o divenne realtà.

I l p r imo ministero Bonomi en t rò in crisi, venuto novem­b r e , n o n p e r gli i m m a n i p r o b l e m i de l l ' o rd ine pubbl ico e della ricostruzione, ma per la frattura che, den t ro la compa­gine governativa, si stava sempre più al largando tra le sini­stre - in par t icolare i socialisti e gli azionisti - e lo schiera­men to modera to , del quale si faceva portavoce lo stesso Pre­sidente del Consiglio. Formalmente Bonomi rassegnò le di­missioni nelle mani del Luogotenente , i l 26 novembre , pe r contrasti tra i ministri Soleri e De Cour ten e il g rande epu­r a to r e Scoccimarro . Ques t ' u l t imo in t endeva inquis i re su funzionari e ufficiali che i titolari del Tesoro e della Marina r i tenevano al di sopra di ogni sospetto. Ma nella sostanza la burrasca incombeva da molti giorni: a lmeno da quando , il 7 n o v e m b r e , U m b e r t o di Savoia aveva concesso al New York Times una intervista in cui sosteneva l 'oppor tuni tà di affida­re la decisione del p rob lema istituzionale a un r e fe rendum popola re . Ques to contrastava con u n a del iberazione che i l governo aveva preso in giugno, e che deferiva invece la scel­ta a u n a Assemblea cos t i tuente . Le sinistre r e a g i r o n o con asprezza, anche perché si seppe che Bonomi aveva avuto in visione il testo delle dichiarazioni del Luogotenente e le ave­va approva te «appor tandovi anzi qualche correzione», co-

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me anno tò Puntoni . A sinistra il r e fe rendum - la cui corret­tezza democratica era difficile contestare - riusciva sgradito p e r u n a serie di rag ioni impor t an t i . Si t emeva che la Mo­narchia potesse far leva sul sent imental ismo e sul tradizio­nalismo di vasti strati della popolazione, soprat tut to nel Me­r idione: si sapeva che la formula del r e f e rendum - che de­mandava d i re t tamente ai cittadini di dire Monarchia o Re­pubblica - avrebbe permesso ad alcuni partiti , in particola­re alla Democrazia cristiana, di manteners i agnostici: il che n o n avrebbero po tu to fare in una discussione e in u n a vota­zione di tipo pa r l amenta re . Le forze «progressiste» che vo­levano esautorare i prefetti in favore del CLN, e che avevano subito come un grave smacco politico, oltre che mili tare, i l rinvio alla pr imavera della liberazione del nord , sbandiera­vano il pericolo delle «forze occulte della reazione in aggua­to» (fu coniata perf ino u n a sigla, Fodria, pe r r iassumere lo slogan). Il Consiglio dei ministr i fu costret to a r ibad i re , in un comunica to , che l 'Assemblea cos t i tuente era lo sbocco normale della p rocedura istituzionale.

Ment re democrist iani e liberali pigiavano sul freno, i so­cialisti tentavano di forzare la m a n o a tutti, comunisti com­presi. Per c o m m e m o r a r e il XXVII anniversario della Rivo­luzione russa si r iun i rono il 12 novembre (del '44 si capisce) allo stadio di Domiziano sul Palatino (era stata rifiutata da Bonomi piazza Navona) ottantamila persone , e Nenn i s'ine­briò di demagogia: «Questo popolo - scrisse a lquanto t rom-bonescamente nel suo diario - mi considera come il suo in­t e r p r e t e . Direi che sente che la pa ro la mi è stata da ta p e r espr imere il mio pensiero, m e n t r e intuisce in Togliatti u n a riserva mentale che lo turba. E stata una successione di ova­zioni che h a n n o raggiunto il delirio ogni volta che ho attac­cato la Monarchia . Non v'e dubbio che l 'odio della massa è oggi diret to contro il Quir inale . E questa è stata, in g r ande par te , opera mia. Anche Togliatti stamattina ha dovuto alfi­ne p ronunc ia re la parola Repubblica».

Era u n a crisi pa r t i co l a rmen te complessa , quel la che s i

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ap r ì a fine n o v e m b r e del '44, p e r c h é c o n t r a p p o n e v a d u e autor i tà o rma i inconciliabili, e irreconciliabili. Il Luogote ­nen te d iede l'avvio, nella più r igorosa osservanza delle for­me , a consultazioni con le alte personalità dello Stato, e con quegli esponent i politici che accettavano di farsi consultare. Ma il CLN r ivendicava il dir i t to di des ignare esso stesso, in n o m e dell 'antifascismo, chi dovesse a s sumere la gu ida del paese , e lo fece c h i a m a n d o a d i r igere i suoi lavori il conte Sforza: che diventava così l 'anti-Bonomi. Questa preferenza delle sinistre p e r il conte si scontrò subito con un veto bri­tannico a che fosse nomina to n o n soltanto Capo del gover­no , ma minis t ro degli Esteri. Se i l p r i m o veto, del g iugno , era stato u n a iniziativa personale del generale MacFarlane, dalla quale gli amer icani si e r a n o dissociati, ques to di fine n o v e m b r e fu comunica to ufficialmente a Bonomi e al CLN dall 'ambasciatore di Londra , Charles.

Gli inglesi n o n p e r d o n a v a n o a Sforza d 'aver r innega to , r i en t rando in Italia dal lungo esilio, la promessa di mostrar­si collaborativo verso Badoglio e rispettoso verso la Monar­chia. Par lando ai Comuni , Churchil l disse che il veto era sta­to u n a r i tors ione agli «intrighi (di Sforza ovviamente) che e r ano culminat i nella espuls ione del maresciallo Badoglio dal suo ufficio». Ma più tardi - avendo gli americani p reso le d is tanze a n c h e ques ta volta - addossò a l l ' ambascia tore Charles la responsabil i tà maggiore del pesante in tervento , che n o n fu pe rò reso noto. Nel CLN Sforza spiegò la sua po­sizione. Ammise - e Nenn i Io registrò - d'essersi impegna to ad appoggia re con la sua autor i tà Badoglio e il Re, ma ag­giunse che, g iunto a Brindisi, aveva visto «che il Re e Bado­glio n o n avevano al tro p ropos i to che di salvare il fascismo nella sua sostanza se n o n nel suo nome».

Escluso Sforza, che r inunciò alla pres idenza del CLN, so­cialisti e comunisti cercarono di r ipiegare su Meuccio Ruini: ma nella schermagl ia che si andava svolgendo Ruini fu ri­fiutato dai liberali e accettato dalla DC solo «in via subordi ­nata», cioè se fosse caduta la r iconferma di Bonomi. Questi

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sapeva di m a n o v r a r e da u n a posizione di forza, p e r c h é i suoi avversari e rano disuniti, gli Alleati t endevano alla stabi­lità, e il L u o g o t e n e n t e avrebbe visto con soddisfazione un reincar ico, che sarebbe anche stato u n a sconfitta, palese o mascherata, del più acceso schieramento repubblicano. Bo­nomi agì con accortezza da vecchia volpe: a democrist iani , socialisti e comunist i inviò let tere con cui p roponeva di as­sociarli s t re t tamente , dandogl i tre vicepresidenze, nella ge­stione del futuro governo.

Scontata l ' in t rans igenza del Par t i to d 'az ione del qua le tuttavia si andava sempre più r ivelando la scarsa presa po­po la re , la pegg io re posizione e ra quel la dei socialisti, che n o n volevano Bonomi , n o n volevano r o m p e r e l 'uni tà d'a­zione con i comunis t i , ma n e p p u r e volevano segui re i co­munist i nel governo. La conclusione fu che Bonomi formò (7 dicembre) un ministero a quat t ro (liberali, democristiani, democratici del lavoro, comunisti) , m e n t r e socialisti e azio­nisti ne r imasero fuori. «Ieri - osservò amaramen te Nenni -i comunis t i avevano pubblicato che n o n si sarebbero divisi dai socialisti, ma è evidente che pe r loro marciare coi socia­listi vuol dire che, in ogni caso, i socialisti devono seguirli.»

P u r di conc ludere , Bonomi d iede al pei qualche soddi­sfazione: elaborò un p r o g r a m m a in base al quale l 'epurazio­ne e la repress ione dei delitti fascisti sarebbero state accen­tuate (così come l'avocazione dei profitti di regime), lo sfor­zo di g u e r r a avrebbe avuto u n a accelerazione, al CLNAI sa­rebbe stata data u n a delega di poter i governativi. Tutte que­ste sot tol ineature antifasciste n o n riuscivano pe rò a cancel­lare la sensazione che la crisi avesse giovato ai modera t i più che alle sinistre. Togliatti ebbe u n a vicepresidenza, e un'al­t ra il cattolico Rodino. A De Gasperi a n d a r o n o gli Esteri, al comunis ta Pesenti le Finanze, al l iberale Arangio-Ruiz l 'I­struzione.

Quello stesso 7 dicembre, in un salone del Grand Hotel, il generale inglese Maitland Wilson, Comandan te delle for­ze alleate nel M e d i t e r r a n e o , f i rmò un protocol lo formale

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con i quat t ro delegati che il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) aveva inviato da Milano via Lugano-Lione: e r a n o Ferruccio Parr i , Giancar lo Pajetta, E d g a r d o Sogno, e Alfredo Pizzoni (ques t 'u l t imo «ministro delle Fi­nanze» della organizzazione part igiana).

Si era discusso, nei giorni precedent i - tra notevoli diffi­denze alleate - sui lanci di a rmi al no rd e sul finanziamento del la guerr ig l ia . Mai t land Wilson offriva cen to milioni al mese, Pizzoni ne voleva 160, e li o t tenne: 60 al Piemonte, 20 alla Liguria, 25 alla Lombardia , 20 all'Emilia, 35 al Veneto. Il p ro tocol lo r i conobbe il CLNAI e il CVL (Corpo Volontar i della Libertà), stabilì che a liberazione avvenuta le a rmi sa­r ebbe ro state r iconsegnate , e che la Resistenza avrebbe ri­nunciato a p r e t ende re l ' inserimento dei suoi uomini nell 'E­sercito regolare . Parr i r icordò così la breve cerimonia: «Da un canto imponen te , maestoso come un proconsole sir Mai­tland Wilson: dall 'altra noi quat t ro . Un bicchiere di qualche cosa, qualche parola , u n a stret ta di m a n o : poi la f irma. Mi d o m a n d o se q u a n d o i proconsoli britannici f irmano pro to­colli con qualche sul tano del Belucistan o d e l l ' H a d r a m a u t n o n sia un po ' la stessa cosa». I delegati n o n videro Bonomi, indaffarato a sciogliere i nodi della crisi. Tra il Sud e il Nord c 'era qualcosa di p iù della l inea gotica: c 'era u n a f ra t tura politica e psicologica. Ma il protocollo di Roma ci ricollega ad un al tro f i lone di avveniment i , quello della Repubblica di Salò e della Resistenza, che dobbiamo r ip rende re al p u n ­to in cui l 'abbiamo lasciato.

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CAPITOLO NONO

L'ULTIMO DISCORSO

Per la caduta di Roma, Mussolini aveva ord ina to tre giorni di lutto nella sua Repubblica che si andava rimpicciolendo, con ch iusura dei teatri , dei cinematografi e di ogni cen t ro di r i t rovo. «La Repubblica - egli disse in un p roc lama agli italiani - è minacciata dalla plutocrazia e dai suoi mercenar i di ogni razza.» Duran te la avanzata alleata fino alla linea go­tica fascisti e tedeschi avevano constatato, una ennesima vol­ta, quanto poco affidamento potesse essere fatto sui repar t i italiani ricostituiti alla meglio. La gua rn ig ione dell 'Elba si era arresa agli anglo-americani , fanfara in testa, n o n appe­na essi si e r ano affacciati sulle coste, i carabinieri disertava­no dovunque e l iberavano i prigionieri . A Graziani che con­tinuava a insistere pe r la creazione di u n a s t rut tura militare valida, i tedeschi replicavano con diffidenza del tutto giusti­ficata. «Ci dobbiamo convincere - scrisse il colonnello Heg-genreiner, ufficiale di collegamento con il Quar t ie r generale di Graziani - che un popolo a cui e già stata messa davanti agli occhi la prospett iva della pace n o n è più capace di por­tare le armi, ma solo di essere sfruttato pe r lavoro. Il mare­sciallo Kesselring dopo l'episodio dell'Elba, non vuole avere niente più a che fare con le t r u p p e italiane in cui ha pe rdu ­to ogni fiducia.»

Vi e rano conati di energia molto simile alla disperazione. Proprio in quel volgere di t empo Pavolini r agg ruppò i fede­lissimi evacuati da R o m a e dalla Toscana pe r cost i tuire le Brigate Nere , e terogenee formazioni di sbandati , esaltati, e a volte de l inquent i , un «esercito personale» del segretar io del Partito. Ha scritto Ricciotti Lazzero: «Non vi furono mai,

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nella nostra storia recente, repar t i di più basso livello mora­le e tecnico-mil i tare , e fu subito ev idente a tut t i , anche a Mussolini, che quell ' insieme di giovani e vecchi, riottosi alla disciplina... n o n contava mil i tarmente e poteva soltanto co­stituire un t a m p o n e alla guerr igl ia dal p u n t o di vista poli­ziesco. Alla prova del fuoco, quelle poche volte in cui venne­ro chiamate accanto ai tedeschi a far n u m e r o in azioni diffi­cili, le Brigate Nere , che p u r ebbero molti mort i , dimostra­rono - sempre salve le eccezioni - di essere del tut to impre­parate. . . Squallido e lugubre il loro stile, nefande certe loro azioni di vendetta. I tedeschi, che li controllavano e li cono­scevano molto bene , avendo l 'esper ienza dei cosacchi, dei mongoli, degli ucraini, dei croati e di tutti gli altri collabora­zionisti, non permisero mai che si affacciassero al fronte, do­ve avrebbero rappresenta to un pericolo gravissimo».

Is t igato da Pavolini, il Duce tuonava con t ro i «ribelli» p r o m e t t e n d o di annientar l i tutti con u n a «marcia della Re­pubblica sociale contro la nuova Vandea», ma si trattava di paro le a l vento . Salò contava s empre m e n o anche pe r ché , raggiunta dagli Alleati la linea gotica, la giurisdizione mili­tare tedesca - che escludeva in sostanza ogni altra autori tà -era stata estesa a tut te le province sulla s p o n d a des t ra del Po. Il terr i torio su cui l 'ultimo fascismo esercitava ancora un qualche effettivo po te re fu diviso in qua t t ro regioni ammi­nistrative, nello sforzo di f renare la disgregazione: Emilia-R o m a g n a , Veneto, Ligur ia , P i emonte , c iascuna posta agli ordini di un commissario «con il nominale controllo assolu­to - come ha r icordato il Deakin - sui prefetti e su tut te le funzioni di polizia, e d i re t t amente responsabile di fronte a Mussolini». Ma ogni dir igente della Repubblica di Salò, con u n a parziale eccezione sol tanto pe r Mussolini in pe r sona , era esposto al discredito e al disprezzo dei tedeschi. Ne fece­ro esper ienza il Capo della polizia Tambur in i e il minis t ro deg l ' In t e rn i Buffarini Guidi , accusati - s icuramente n o n a torto - d 'avere incamerato argenteria e altri beni di cui era­no stati spogliati gli ebrei. E ancora: un giorno il colonnello

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tedesco Dietrich si presentò al sottosegretario all 'Aeronauti­ca, Manlio Molfese, a Bellagio, pe r annunciarg l i che i suoi avieri dovevano passare nelle formazioni tedesche e che gli aeropor t i e rano tutti presidiati e occupati dalla Luftwaffe.

Il Duce inviò una queru la protesta al Fi ihrer («tutto ciò è inintelligente, tut to ciò è sommamen te dannoso alla nostra causa, tutto ciò giova sp lend idamente ai nostri nemici») fa­cendo eco a precedent i lamenti di Graziani («perché n o n mi è consentito di r imet tere in piedi un vero esercito?»). Accad­de perfino che a funzionari ministeriali di Salò fosse ordina­to dai tedeschi di scavare t r incee in riva al Ga rda , e che il minis t ro delle Finanze Pellegrini Giampie t ro n o n trovasse più, all'uscita da una r iunione, la sua automobile di servizio, che un ufficiale delle SS aveva requisito. Il governo di Mus­solini e ra q u o t i d i a n a m e n t e ridicolizzato, e anche q u a n d o riusciva a far qualcosa lo faceva male , t ra dissensi e vere e p ropr i e risse (litigarono anche il generale Mischi e Pavolini, p e r c h é le formazioni militari del Part i to n o n i n t e n d e v a n o sottostare a comandi dell 'Esercito).

Di questo sfascio si fece c lamorosamente eco, in un arti­colo di fondo dal titolo «Se ci sei batti un colpo», il d i re t tore della Stampa di Torino, Concet to Pett inato: chi doveva bat­te re un colpo - come i fantasmi evocati al tavolino a t re gambe - era la inesistente autori tà di Salò. Mezzasoma giu­dicò quella sortita «il colpo più d u r o finora inferto al presti­gio del governo fascista repubblicano». Pettinato n o n aveva agito di testa sua: s'era fatto espressione della profonda de­moralizzazione dei fascisti piemontesi - e anche dei tedeschi -pe r la latitanza totale di un governo che si faceva vivo solo con ampollosi o truculenti proclami, ma che n o n riusciva a imped i re il di lagare della guerrigl ia, e gli scioperi nelle in­dus t r ie . Su un p u n t o il p a d r o n a t o e gli opera i e r a n o d'ac­cordo: che si lavorasse il m e n o possibile, ma senza po r t a re le cose a un p u n t o tale da i n d u r r e l 'occupante a trasferire subito gli impiant i in Germania . Le istruzioni del senatore Agnelli (Fiat) a Valletta furono esplicite: «Contrar re la p r o -

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duzione senza scendere sotto il min imo tollerabile e a iutare i partigiani, sia assumendoli sia finanziandoli in larga misu­ra». Torino era prat icamente assediata: «I ribelli la possono occupare q u a n d o vogliono» scriveva un r a p p o r t o . E Petti­nato rincarava la dose: «Il bandit ismo.. . in barba alla repres­sione minacciatagli p r ima del 25 maggio ruba, saccheggia e ammazza come se i po te r i costituiti n o n fossero se n o n un r icordo di altri tempi». Chiedeva infine che si trasferissero a Torino a lmeno alcuni degli organi centrali del governo.

In questa cupa atmosfera il Duce smagri to dell 'ultimo fasci­smo decise di compiere , in Germania , una nuova ispezione alle qua t t ro divisioni che stavano concludendo il loro adde­s t ramento e che si sospettava avrebbero avuto la p r ima p ro­va del fuoco non al fronte ma al m o m e n t o del r impatr io . Al­lora si sarebbero contati i disertori. Con l'occasione Mussoli­ni avrebbe visto Hitler.

La par tenza da Gargnano pe r la Germania fu fissata pe r il 15 luglio: sul t reno speciale presero posto, insieme al Du­ce, Graziani, Mazzolini, Anfuso, Vittorio Mussolini e Rahn . Il viaggio subì interruzioni pe r gli allarmi aerei - «è u n a for­tuna che siano solo qua t t ro divisioni» m o r m o r ò a un certo m o m e n t o Rahn , spazientito e p reoccupa to da quel girova­gare, all 'orecchio di Anfuso - ma r ianimò Mussolini. Con la puntua l i tà e infallibilità di sempre , il suo magne t i smo fun­zionava. I ragazzi delle divisioni gli t r ibutarono accoglienze entusiastiche, n o n foss'altro, probabi lmente , che p e r i l pia­cere di r i t rovare un capo italiano d o p o tanti giorni di sog­gezione ai d u r i sergent i tedeschi . Il 18 luglio Mussolini si congedò da quelli che avrebbero dovuto essere i soldati del­la sua Repubblica, a Sennelager, n o n lontano da Paderborn dove nel 9 d o p o Cristo le tr ibù teutoniche di Arminio ave­vano ann ien t a to le legioni di Varo. Graziani , nella sua ro ­boan t e conclone , t en tò anche di rifarsi a quel p r e c e d e n t e storico, ma s'accorse che n o n era il caso, date le circostanze: e cambiò argomento , imbarazzato.

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Il t r eno speciale si avviò quindi verso il Quar t ie r genera­le di Rastenburg nella Prussia orientale: nella vet tura salone di Mussolini, il g r u p p o degli italiani p repa rò , d 'accordo con Rahn, un elenco dei punt i da discutere con Hitler: al p r imo posto stava il p roblema degli internat i in Germania , e della loro sorte (e utilizzazione). Q u a n d o il t reno si approssimava ormai alla meta - e ra il 20 luglio - fu improvvisamente av­viato alla stazione di Gòrlitz (non si t rat tava di u n a località ma del nome convenzionale dato al centro ferroviario crea­to a b reve dis tanza dal Q u a r t i e r genera le ) su un b inar io m o r t o . Gli italiani n o n sapevano cosa stesse accadendo ; i l ba rone Doernberg , capo del protocollo della Wilhelmstras-se, che li accompagnava era agitato ma ermetico. Poi il cam­m i n o r ip rese , ma con caute le d r a m m a t i c h e : «Qualcosa d i grave era avvenuto - r icordò Anfuso -, e tanto grave da co­stringerli (i tedeschi, N.d.A.) a ra l lentare la marcia del t re­no , e farci g iungere a Ras tenburg con le finestre ermetica­men te chiuse ed oscurate... Infine il t reno, s empre in quella sinistra b l inda tura , g iunse a dest inazione. Doe rnbe rg apr ì con ogni cautela qualche f inestr ino. . . Da questo f inestr ino apparve il solito schieramento: Hit ler qualche passo avanti a G ò r i n g e d ie t ro , all ineati , R ibben t rop , Himmler , Bor-m a n n , Keitel, Doenitz e altri capi nazisti».

Avvolto in un mantello nero , appa ren t emen te calmo an­che se la m a n o des t ra t r e m ò un poco alzandosi nel saluto nazista (e sulla m a n o si vedeva una leggera scalfittura), Hi­tler andò incontro a Mussolini e disse: «Duce, p ropr io ades­so mi e stato scagliato un infernale ord igno» . Poco p r i m a (12,42) era esplosa nella Wolfschanze, la «tana del lupo», la bomba portatavi dal colonnello von Stauffenberg. Il Fiihrer, uscito miracolosamente i ndenne dall 'at tentato - e vide nella sua salvezza un segno del destino - aveva già dato le p r ime disposizioni p e r la scoper ta dei congiura t i e pe r la r ep res ­sione che avrebbe por ta to all ' impiccagione, o alla fucilazio­ne , di circa cinquemila tedeschi: t ra essi alti ufficiali, diplo­matici, funzionari, uomini politici, religiosi. Sospettati di es-

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sere implicati nella t r a m a fu rono costret t i a l suicidio d u e feldmarescialli, von Kluge e Rommel .

Era d u n q u e un Hit ler fu r ibondo e assetato di vende t ta quel lo che accolse i visitatori i taliani, ai quali dedicò poco t empo , impegna to com'era a concer tare con i suoi collabo­ra to r i - ma solo chi si t rovava nella Wolfschanze e ra vera­mente al di sopra di ogni sospetto - le spietate contromisu­re. La sua esposizione era cont inuamente interrot ta da mes­saggi e te lefonate cui seguivano o rd in i concitat i . Dopo le congra tu laz ion i d i Mussolini p e r lo scampa to per icolo , «prova speciale del l ' in tervento divino», Hi t ler spiegò sbri­gat ivamente le cause, a suo dire tecniche, del grave momen­to che la Germania attraversava, e quindi si di lungò sul suo t ema preferito, perché schiudeva la por ta all 'ultima speran­za: le a rmi segrete. Già le VI avevano cominciato a piomba­re su L o n d r a , e n e l l ' a u t u n n o sa rebbero e n t r a t e in az ione anche le V2 delle quali il Fi ihrer illustrò le caratteristiche ri­voluzionarie, assicurando che la capitale bri tannica sarebbe stata martellata «fino alla completa distruzione».

La V di queste a rmi stava p e r Vergeltung ( rappresaglia) . La VI era, in parole povere, un aeroplanino a reazione sen­za pilota, imbottito di u n a tonnellata di esplosivo. La sua ve­locità n o n superava i 400 chi lometr i orar i , e la sua quota i mille metr i . La V2 era invece un razzo che, sempre con u n a tonnellata di esplosivo, volava a quasi seimila chilometri l'o­ra e toccava u n a quo ta di un cent inaio di chi lometr i , r ag­g iungendo poi si lenziosamente l 'obbiettivo pe rché viaggia­va più rapida del suono. L o n d r a fu colpita da 2.419 V I , al­tri pun t i del l ' Inghi l ter ra da 3.132, Anversa da 2.448. Delle V2, ne cadde un migliaio su L o n d r a e sul resto dell ' Inghil­terra , e 1.265 su Anversa. Pur temibili e distruttrici, queste armi non ebbero gli effetti apocalittici su cui Hitler contava, e che Churchill temeva.

Illustrati i piani pe r l'utilizzazione delle nuove armi, Hi­tler r ibadì che e ra esclusa ogni resa al nemico , e si occupò dell ' I talia p e r ch iedere che gli fossero forniti uomin i e re-

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part i . Allo Stato Maggiore tedesco avrebbe fatto comodo di t ra t t enere in Germania le d u e divisioni italiane già p ron te , pe r destinarle alla cont raerea sul fronte orientale. Ma Mus­solini, repl icando a Hitler, p ropose e o t tenne subito - il suo interlocutore aveva fretta - che le divisioni r impatriassero, e che gli in te rna t i avessero migliore t r a t t amen to e impiego . Anche nel viaggio di r i torno il t reno speciale procedet te con i finestrini e rmet icamente chiusi. A Gargnano Mussolini os­servò con sollievo: «Non siamo p iù soli in q u a n t o a t radi ­menti».

L'euforia pe r gli applausi delle reclute italiane in Germania , e l 'acre soddisfazione pe r la riedizione del 25 luglio che era toccata - assai più sanguinosa e truce, come si addice a tutto ciò che è tedesco - a Hitler, svanirono presto . Hit ler consi­derava Mussolini «il mio migliore amico, e forse l 'unico al mondo», ma la mir iade di uffici tedeschi disseminati in Ita­lia - 73 nella sola Milano, secondo un a p p u n t o del Duce a Gòbbels - n o n t enevano in a lcun conto il gove rno che «o sarà posto in condizione di funzionare o si dimetterà».

Benché Hitler si aggrappasse alle sue farneticazioni otti­mistiche - contava sempre su u n a ro t tu ra della «innaturale alleanza» tra anglo-americani e sovietici - e benché il Duce fingesse a sua volta di aver fiducia, fascisti e tedeschi in Ita­lia già p e n s a v a n o a l l ' es t rema d i spe ra ta resis tenza. In u n a lettera a Mussolini dell '8 se t tembre il segretario del Partito Pavolini affacciò l'idea («nella depreca ta eventuali tà di u n a ul ter iore e pressoché completa invasione del ter r i tor io re­pubblicano») di «arroccarci con le camicie ne re , con le no­stre a r m i e con i l nos t ro gove rno in u n a zona difendibi le quale la provincia di Sondr io e pa r te di quella di Como». I tedeschi p r o p e n d e v a n o s e m p r e p e r M e r a n o , ma lo stesso Pavolini osservava che tale scelta avrebbe «tolto ogni valore al nos t ro propos i to di u n a resistenza es t rema del fascismo mussoliniano in u n a roccaforte italiana», perché «a Merano si t rat terebbe di un governo fantasma ospitato malvolentieri

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dal Gauleiter Hofer». Mussolini costituì u n o speciale organi­smo, «il r idot to repubblicano alpino», per lo studio del p ro ­blema, ma esso non diede altro frutto che qualche proget to cartaceo.

Cresceva intanto l'attività part igiana, e in u n a lettera del­l 'ottobre a Rahn il Duce avvertiva che «le bande sono diven­tate br igate e divisioni r ego l a rmen te i n q u a d r a t e e coman­date da generali di carr iera sottoposti ad u n o Stato Maggio­re centrale», che i l loro a r m a m e n t o e ra «ottimo», che in molti luoghi i tedeschi pa t t egg iavano con i par t ig ian i alle spalle dei fascisti, e che infine «l 'organizzazione par t ig iana in Italia con un totale di centomila uomini ripartit i in 60 bri­gate costituisce un pericolo crescente contro il quale n o n si agisce con la dovuta efficacia».

La Resistenza si andava in effetti i r robus tendo , e le sue formazioni acquistavano una più precisa s t ru t tura militare, anche se con profonde sottolineature politiche. Ansiosi - co­me sempre in queste fasi fluide della lotta politica o rivolu­zionaria - di stabilire una larga convergenza a carattere na­zionale, i comunisti , che p u r e avevano già un loro comando unico, accettarono la istituzione di u n o Stato Maggiore par­tigiano cui tutte le «bande» facessero capo. Nelle loro istru­zioni essi avevano del resto r a c c o m a n d a t o ai capi locali di n o n dimenticare che «l'unità militare n o n appar t iene al par­tito, non è un organo di part i to, non ha e non deve avere il cara t tere di par t i to . Essa è un o rgano del Corpo Volontari della Libertà». Ai buon i proposit i facevano seguito, sovente, azioni che c lamorosamente li contraddicevano. Ma al verti­ce i b u o n i p ropos i t i fu rono tu t to s o m m a t o r ispet ta t i . Il 9 g iugno venne costituito un «Comando generale pe r l'Italia occupata del Co rpo Volontari della Libertà», diviso in più sezioni (assistenza, operaz ioni , informazioni e cont rospio­naggio, aviolanci, trasporti e collegamenti, prigionieri allea­ti, falsi).

Al settore operazioni, ovviamente il più impor tan te , ven­nero prepost i Ferruccio Parri e Luigi Longo. A comandan te

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fu designato - d o p o che un aereo alleato l'aveva paracadu­tato sull'Italia del n o r d - il generale Raffaele Cadorna , che a 55 ann i s 'era dovu to a l lenare p e r il pericolóso lancio. Il suo addes t r amen to era stato cura to , nella base di San Vito dei Normann i , dagli inglesi della Special Force. Q u a n d o Ca­d o r n a fu p ron to , lo affiancarono, nel salto verso l ' ignoto, il capitano inglese Oliver Churchil l e il tenente della Guardia di F inanza Augus to De Lauren t i s . De Lauren t i s era stato scelto perché Cadorna risultava, a giudizio degli inglesi, un po ' «impacciato» (senza dubbio a causa dell'età) e pareva op­p o r t u n o vi fosse qualcuno che l'aiutasse dopo l 'atterraggio.

La p r e p a r a z i o n e dei lanci di r i fo rn iment i e di uomin i , così come la p repa raz ione di agent i di col legamento, r ien­trava nei compiti dei servizi segreti anglo-americani , ricchi di mezzi ma gelosi delle rispettive competenze e poco incli­ni a collaborare: la già citata Special Force inglese e l'oss (Of­fice of Strategie Services) statunitense. Oltre che a San Vito dei N o r m a n n i gli allievi paracadut i s t i e r a n o addes t ra t i in Algeria: lì formò la sua esperienza, tra gli altri, Edgardo So­gno, poi int repido capo delle formazioni Franchi (di impron­ta l iberale e monarch ica ) , che s e m p r e i n t r a t t e n n e ot t imi r a p p o r t i con gli Alleati n o n solo p e r la sua m o d e r a z i o n e ideologica, ma anche pe rché parlava per fe t tamente l'ingle­se. Sogno stesso ha racconta to come fosse stato accolto, al Club des Pins di Algeri (un villaggio balneare) dall 'allora ca­pi tano di artiglieria Alberto Li Gobbi - anch'egli poi paraca­duta to sul no rd - che gli mostrò le at trezzature e gli spiegò la tecnica d e l l ' a d d e s t r a m e n t o : ques to d u r ò u n a dec ina d i giorni, con molta ginnastica e cinque lanci.

I rappor t i di Cadorna con i vice comandant i Parri e Lon­go (in particolare con il secondo, sospettoso e, nonostante la l inea ufficiale del suo Parti to, deciso a m a n t e n e r e al movi­mento par t igiano u n a forte impron ta di sinistra) n o n furo­no facili. C a d o r n a e ra visto insieme come un possibile re­s taura tore dei classici pr incìpi gerarchici militari cont ro la spontaneità popolare delle bande , e come un in terpre te dei

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disegni strategici degli Alleati contro la volontà rivoluziona­ria delle masse. Senza ammorb id iment i diplomatici, Longo scrisse che il genera le e ra stato «inviato dagli Alleati nel N o r d con il preciso compi to di cont ro l la re e c o n t e n e r e il movimento partigiano». Sogno ha spiegato a Franco Fucci, au tore di un libro (Spie per la libertà) sui servizi segreti nella Resistenza, come fosse difficile pe r Cadorna far valere le sue pre roga t ive di c o m a n d a n t e . «Ceixai - ha de t to Sogno - di rafforzare il più possibile la posizione di Cadorna in seno al C o m a n d o genera le del CVL fornendogl i servizi quali i tra­sporti e i collegamenti , ma sopra t tu t to facendo passare at­traverso il genera le e il suo staff militare le informazioni di cui venivo in possesso. Ciò p e r c h é ogni par t i to cercava di far passare le informazioni at traverso i p rop r i canali e n o n attraverso Cadorna . Il PCI e il Partito d 'azione pe r esempio m a n d a v a n o il loro mater iale al Sud scavalcando il coman­dante generale del CVL.»

E certo che Alexander, a t tenendosi del resto alle istruzio­ni di Churchill , preferiva dest inare i suoi lanci alle «bande» n o n comunis te , e organizzare i contat t i delle sue missioni segrete in m o d o da favorire i l m e n o possibile quella pa r t e della Resistenza che ostentava proposi t i n o n solo an t imo­narchici, ma antiborghesi , anticapitalisti, e - p e r quan to ri­gua rda i comunisti - filosovietici. Tuttavia un foglio di istru­zioni di cui C a d o r n a fu m u n i t o p r i m a di r a g g i u n g e r e il N o r d era abbastanza imparzia le : «Purché ogni organizza­zione in Alta Italia si dimostri capace e p ron ta ad effettuare operaz ioni offensive con t ro i tedeschi , il colore politico di tale organizzazione non ci interessa». Ma, aggiungeva il do­c u m e n t o , «dove le t e n d e n z e poli t iche in terfer iscono con l 'organizzazione e con i p ian i di ope raz ione che fo rmano u n a pa r t e in tegra le della avanzata alleata in Italia, l 'aiuto non verrà fornito da questo Quar t ie r generale».

Le direttive di massima di Alexander e rano poi t radot te in pra t ica in man ie r a farraginosa, a volte con t radd i t to r ia , dai servizi segreti. «Gli Alleati - ha rilevato Parri , e su que-

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sto n o n possiamo dargli tor to - conoscevano poco l'Italia e noi, né e r ano sempre bene informati e qu indi ben or ienta­ti.» La linea politica generale spettava agli inglesi, ma capi­tava che gli americani si in t romet tessero con il loro ottimi­smo schematico e impiccione aggravando la confusione e le incertezze. Il t imore del comunismo influiva sul compor ta ­m e n t o degli inglesi, e ciò che stava avvenendo nel q u a d r o genera le della g u e r r a (e nella azione di Stalin) legitt imava p ienamente le loro diffidenze. Il sospetto - anch'esso rievo­cato da Parri - che i comunisti «avrebbero fatalmente assor­bito e fagocitato le altre corrent i , a lmeno sul p iano militare» e che gli azionisti avrebbero po tu to ader i re a «un frontismo generico a direzione comunista» era avvalorato dai fatti. Ca­d o r n a e Sogno rappresen ta rono u n a qualche garanzia con­tro questo rischio.

Ancora da un r icordo di Parri - pe r concludere con que­sta sintesi della s t r u t t u r a pa r t ig i ana - ci t iamo alcuni dat i : con l 'avvertenza che, nello schema da lui tracciato, comandi e repar t i sembrano assai p iù organici, razionali e collegati al cen t ro di q u a n t o in concre to fossero. M e n t r e la fine della German ia si appross imava inesorabi lmente , le «bande» ac­quistavano consistenza numer ica e determinazione. Non di­venne ro mai, né lo po tevano in quelle condizioni, un vero esercito, o un vero controesercito.

Spiegò d u n q u e Parri: «Dipendevano dal C o m a n d o gene­rale i comandi regionali costituiti a Torino, Genova, Milano, Padova e Bologna e formati da un comandan te militare, che fu spesso un valente genera le , assistito da r a p p r e s e n t a n t i dei g r u p p i di formazioni.. . Si venne e laborando nel t e m p o un organico dell 'esercito par t igiano semplice ed uni forme: dall 'unità e lementare , che era la squadra , si saliva al distac­camento , forte di 3-5 squadre : 2-3 distaccamenti compone­vano g e n e r a l m e n t e un ba t tag l ione , 2-3 bat tagl ioni s i rag­g r u p p a v a n o in u n a b r iga ta che e ra la nos t ra un i t à tattica fondamenta le , legata ad u n a de te rmina ta valle, della forza tipica di circa 300 uomini . Col t e m p o si fo rmarono le divi-

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sioni che organizzarono mi l i ta rmente o u n a g r a n d e valle o alcune valli collegate: ebbero forza assai variabile che passò, secondo le regioni , da c inquecento a c inquemila uomini . . . Ai repar t i co r r i spondevano i gradi : pe r noi valeva soltanto la gerarchia part igiana; ed un ex cuoco od un sergente de­gli a lpini po t è c o m a n d a r e u n a divisione.. . Volemmo cioè, res i s tendo ad ogni sollecitazione e press ione in con t ra r io , sa lvaguardare il carat tere borghese del movimento». Dove il t e rmine borghese significa, in realtà, carat tere politico e n o n tecnico.

Tra il luglio e l'agosto del 1944, men t r e gli Alleati ancora avanzavano, lasciando sperare in u n a totale liberazione del­l'Italia, la Resistenza intensificò la sua attività, e nella zona di Montefiorino, in Emilia, sostenne contro i tedeschi quella che p u ò essere definita una battaglia campale di t ipo classi­co. Alle spalle della l inea gotica, sulle p r o p a g g i n i del l 'Ap­p e n n i n o , i part igiani pres id ia rono in quell 'area (tra le p ro ­vince di Reggio e di Modena) un terr i torio di c inquanta chi­lomet r i pe r o t tanta : e i tedeschi impegna t i a fondo con t ro gli anglo-americani ne e r ano così allarmati che nella secon­da metà di luglio p ropose ro alle forze ribelli, comandate da un contadino improvvisatosi capo militare, A r m a n d o Ricci, u n a t regua. Fu promessa la sospensione dei rastrel lamenti e la l iberazione degl i ostaggi , a pa t to che i par t ig ian i in ter ­rompessero la loro attività. Ricci respinse il documen to del gene ra l e Messerle che a fine mese lanciò, con effettivi se­condo il Battaglia equivalenti a t re divisioni, la sua offensi­va. I par t igiani , che e r a n o stati a b b o n d a n t e m e n t e riforniti con aviolanci alleati, combat te rono b ravamente ma non fu­rono in g rado di bloccare l'attacco. Riuscirono tuttavia a ri­p iegare o rd ina tamen te in u n a «zona di salvezza» mon tana . Le pe rd i t e furono pesant i da e n t r a m b e le par t i , con qual­che centinaio di morti .

A Montefiorino era stata creata, pe r il t empo in cui la zo­na fu sgombra dai tedeschi, u n a mini repubblica, con ordi­n a m e n t i embr iona l i . Di ques te piccole r epubb l i che Luigi

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Longo ne elencò quindici nel suo Un popolo alla macchia: ma si t rat tò p e r lo più di effimeri e precar i «santuari» partigia­ni, pres to spazzati via. Tre furono - oltre quella di Monte-fiorino - le piccole repubbl iche di qualche importanza: Os­sola, Carnia e Alto Monferrato.

Nell 'Ossola, dove i par t ig ian i e r a n o privilegiati p e r la contigui tà con il confine, i presidi fascisti si a r r e se ro l 'uno dopo l'altro, demoralizzati e demotivati, tra la fine d'agosto e i pr imi di set tembre: alle loro richieste di rinforzi i coman­di di Milano n o n r i s p o n d e v a n o n e p p u r e . I l 9 se t t embre , raggiunto un accordo con i tedeschi che venivano autoriz­zati a defluire senza subire attacchi, le formazioni garibaldi­ne e quelle cattoliche di Di Dio e Cefis en t r a rono nel capo­luogo, Domodossola, seguite da un nugolo di politici che si e rano rifugiati in Svizzera, e che lì r i t rovarono il gusto della democrazia , e anche della bizantina rissa verbale: t ra essi i comunisti Concetto Marchesi, Giancarlo Pajetta e Terracini, il sindacalista socialista F e r n a n d o Santi e gli altri socialisti Ezio Vigorelli e Mario e Cor rado Bonfantini, il democristia­no Piero Malvestiti. Ettore Tibaldi, un medico socialista che aveva tenuto i rappor t i t ra i part igiani e gli esuli in Svizzera (e anche tra i part igiani e gli emissari alleati Alien Dulles e McCaffery) fu des igna to p r e s iden t e della g iun ta . La sua «giurisdizione» si estendeva dalle sponde del Lago Maggio­re alla Valsesia, da Gravellona al Sempione. Il clima fu all'i­nizio di entus iasmo confusionario, con g rand i discorsi sul­l 'universo scibile, c o m p r e s o il Sud America , la ques t ione femminile, la differenza tra democrazia sostanziale e demo­crazia formale. Si respirava aria di Grande Costi tuente e di piccola patria, con molte velleità, molte parole , e anche con mol ta onestà . Ma q u a n d o , cominc iando l 'o t tobre , Kessel­r ing ebbe stabilizzato la linea gotica, e potè distogliere forze dal fronte pe r occuparsi delle p laghe domina te dalla Resi­stenza, p e r la repubbl ica del l 'Ossola fu la fine. La città fu persa il 10 ot tobre, il 20 Tibaldi ripassò il confine reggendo u n a borsa in cui teneva i document i contabili della sua ge-

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stione. Nelle battaglie dell'Ossola Ezio Vigorelli aveva perso i d u e figli, B runo e Fofi.

Ad Ampezzo fu insediata il 26 set tembre, d o p o u n a lenta e g r adua l e azione di a m p l i a m e n t o della «zona libera», la giunta della Carnia, che sovrintendeva a 37 comuni con cir­ca ottantamila abitanti, su un terr i torio di circa 2.500 chilo­met r i quadra t i . A f ine n o v e m b r e anche ques ta repubbl ica mor ì nel sangue, debellata da quarantamila uomini che era­no u n a internazionale nazifascista; oltre ai tedeschi e ai «re­pubblichini», i terribili cosacchi, gli ustascia croati, i francesi di Vichy. Stranieri militavano anche nelle forze part igiane; tra gli altri i russi di un battaglione Stalin che e rano fuggiti dai campi di prigionia della Stiria. Si difesero fianco a fian­co, m e n t r e il ras t re l lamento procedeva implacabile nel gri­giore au tunnale , nelle vallate e su pe r i costoni, i garibaldini dal fazzoletto rosso e i cattolici dal fazzoletto ve rde della Osoppo . In pochi giorni le forze agli ordini dei tedeschi fe­cero spietata «pulizia», men t r e i sopravvissuti si r aggruppa­vano in posizioni defilate. Per questa povera Osoppo sacrifi­cata nella difesa della Carnia si p reparava un altro d u r o col­po (ant ic ipiamo qui la c ronologia degli avveniment i ) nel febbraio del 1945: non glielo asses tarono i tedeschi , ma i «compagni» garibaldini. Episodio di lotta feroce fra «bande» part igiane che, nonostante i conclamati proposi t i di concor­dia contro il comune nemico, rivelò la tensione e la faziosità politica sotto la appa ren te «neutralità militare».

La Osoppo combatteva al confine con il m o n d o slavo: in un settore cioè dove Tito e i suoi emissari già annunciavano i più avidi propositi di annessione di terri tori italiani, e do­ve i garibaldini , d iversamente dagli altri part igiani italiani, e r a n o disposti in n o m e del l ' ideologia ad accet tare questa «mainmise» s t raniera . Tra Ti to e Bonomi (o Cadorna) sce­glievano Ti to . È stato scritto dalla pubblicistica comunis ta - ripresa da Bocca piuttosto acri t icamente - che la Osoppo commise l 'errore di lasciare alle malghe di Porzus un distac­c a m e n t o agli o rd in i di Francesco de Gregor i de t to Bolla,

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«uomo sbagliato nel luogo sbagliato». Perché sbagliato? Per­ché (citiamo da Bocca) «è un attesista affetto da grafomania, il quale invece di d i fendere l 'italianità del luogo sui campi di battaglia scrive in continuazione rappor t i al CLN di Udine sulle m e n e slavo-comuniste». Porzus è in c o m u n e di Attimis, a nord-es t di Ud ine , e Bolla con i suoi uomin i della Osop-po-Friul i aveva stabilito lassù un' isola «verde» in un m a r e «rosso». Tanto attesista tuttavia il Bolla non doveva essere se in memor ia gli fu concessa la medaglia d 'oro al valor milita­re . Era invece un deciso anticomunista, preoccupato dall 'e­spansionismo titino: il che gli era valso l 'odio dei garibaldini della brigata Natisone, i quali operavano agli ordini del IX Corpus s loveno. Tra i gar ibaldini e r a Mario Toffanin de t to «Giacca», un gappista padovano che osannava Stalin e vede­va spie dovunque , anche tra gli altri part igiani , se n o n era­no della sua risma. Per Toffanin «Bolla» era perciò un tradi­tore, e come lui lo e rano tutti coloro che gli stavano in torno . Il 7 febbraio del 1945 «Giacca» marciò sulle malghe di Por­zus, cat turò con u n o s t ra tagemma gli uomini della Osoppo , e li s terminò accusandoli di inesistenti collusioni con i tede­schi. Tutt i fascisti, decre tò , avviando le esecuzioni. Ques ta vicenda attestò nel sangue che, sul confine, i comunist i sta­vano «dall'altra parte». Lo si vide anche nel CLN di Trieste, dal quale i delegati del pei uscirono d o p o che era stata re ­spinta la loro propos ta di inserirvi un rappresen tan te degli sloveni.

In ord ine di nascita, la «repubblica» dell'Alto Monferra to fu l'ultima. Il suo atto di battesimo, con la data del 5 novem­bre, è così riassunto in un te legramma a Bonomi: «In n o m e e pe r o rd ine di codesto governo e del CLNAI insediasi oggi g iunta popola re governativa zona libera provincia Asti, de­stra Tanaro , comprens iva qua ran t a comuni». Difendevano la zona l ibera d u e «divisioni» gar iba ld ine , c o m a n d a n t i Giambattista Reggio e Davide Lajolo (Ulisse), e una divisio­ne au tonoma appa r t enen t e alle formazioni di «Mauri»: no­me di battaglia di Enrico Martini, maggiore in servizio per-

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manen te effettivo dell 'Esercito, che aveva raccolto in torno a sé alcuni ufficiali coraggiosi e centinaia di giovani, e guidava i suoi part igiani au tonomi con piglio r igoroso e a volte con metodi spicciativi verso veri o presunt i t radi tor i e spie. Già il 10 ot tobre Mauri - in concorrenza con i garibaldini - ave­va occupato Alba, e q u a n d o il p r imo novembre gli e ra stata int imata dai tedeschi la resa aveva spava ldamente risposto issando il tricolore sul campanile. Ma dovette sgomberare , e alcuni giorni d o p o anche l'Alto Monferra to r icadde sotto il controllo nazifascista.

N o n tutti i repar t i tedeschi e n o n tutti i repar t i fascisti ebbe­ro, in questa gue r r a che - come tutte quelle con connotazio­ni di g u e r r a civile - e ra sporca e feroce, eguale compor ta ­mento . Ve ne furono di sufficientemente umani , se n o n cor­ret t i , e ve ne furono di spietati . V ' e r a n o differenze anche t ra le molte polizie - ufficiali e «private» - che imperversa­vano nelle città, e tra le «ville tristi» dove sgherri , autorizza­ti e non , si abbandonavano alle loro vendet te , eseguivano le loro to r tu re e le loro uccisioni. Le polizie e rano l 'una contro l 'al tra a r m a t e , e il bieco Koch, trasferitosi a Milano come sappiamo, d o p o la caduta di Roma, e messosi agli ordini di Buffarini Guidi, fu arrestato il 24 set tembre da un drappel ­lo della Legione Muti al comando del questore Bettini: per­ché, osservava Bettini, la Koch «è ormai diventata.. . un'infa­mia e un marchio di Milano». Nei locali della Villa Triste mi­lanese di via Paolo Uccello a San Siro, che di Koch e ra il Quar t ie r generale, furono scoperti «un gran n u m e r o di pri­gionieri che e rano stati nei decorsi mesi o passati alle carce­ri o rimessi in libertà... con atto assolutamente arbi t rar io si usava dividere quello che si toglieva al prigioniero». Gli in­te r rogator i della Villa Triste di Milano avevano u n a sceno­grafia car icaturalmente giudiziaria, un lampadar io 900 pen­deva dal soffitto a stucchi, Koch presiedeva, d o m a n d e e ri­sposte e r ano in terrot te da percosse e tor ture . U n a segreta­ria verbalizzava 1'«udienza» alla macchina da scrivere ma di

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tanto in tanto si alzava pe r sferrare calci negli stinchi ai pr i­gionier i . Capi tava che si affacciasse alla po r t a della sala Osvaldo Valenti, s t ralunato pe r la d roga o pe r la commozio­ne ; e consolava le vittime, «poverini come siete conciati», e le esortava a par la re , «è p e r il vostro bene». Forse fingeva, forse no, i suoi sentimenti e rano contorti e confusi, la sepa­razione tra messinscena cinematografica e c r u d a real tà ri­maneva pe r lui incerta. Almeno agli or ror i di via Paolo Uc­cello l ' intervento della Muti - nel ruolo molto inconsueto di r iparat r ice di torti - pose finalmente t e rmine . Ma Koch fu presto liberato pe r intervento di Farinacci.

Non è che un esempio di come in questo crepuscolo - or­mai quasi t enebra - della G e r m a n i a e della Repubbl ica di Salò tutto fosse in decomposizione: e questo valeva, in qual­che modo , anche pe r i tedeschi, che «tenevano» con straor­dinaria tenacia al fronte ma affrontavano il d isperato avve­nire in varia maniera . Se la Wehrmacht continuava a batter­si con onore , e il capo delle SS in Italia genera le Wolff già meditava i suoi proposit i di trattativa e di resa, altri come il maggiore Reder dava sfogo a un furore insieme metodico e allucinato. V 'e ra u n a logica militare nei rastrellamenti che i tedeschi compirono a ridosso della linea gotica, pe r ripulir­ne le retrovie, a costo di creare la te r ra bruciata. Ma l'inter­pre taz ione che alcuni ufficiali ne d iede ro fu terrificante. Il Battaglia ha ritracciato l ' itinerario di sangue dei battaglioni SS. Reder, det to il monco , cominciò la sua opera il 12 ago­sto a Sant 'Anna di Stazzema in Lucchesia (360 vittime civi­li); qu ind i , supera to l 'Appennino , fece 107 vit t ime a Valla, poi o rd inò d ' impiccare a San Terenzio 53 ostaggi che dalla Lucchesia s'era trascinati dietro. Il 24 agosto, affiancato da brigatisti ner i , dis trusse Vinca nel c o m u n e di Fivizzano, i l 13 set tembre procedet te alla fucilazione di 108 rastrellati, il 16 se t tembre devastò e uccise a Bergiola, e infine t ra il 29 set tembre e il p r imo ottobre compì l 'ultima e maggiore stra­ge a Marzabotto.

Marzabot to è u n a borgata de l l 'Appennino emiliano, t ra

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la s trada por re t t ana e la s trada pistoiese. Ecco un resoconto di ciò che vi avvenne: «Due reggiment i di SS Adolf Hitler, di r i torno da un rastrel lamento, c i rcondano la zona oltre il fiu­me Reno. Nella frazione Casaglia u n a folla s'è raccolta nella chiesa, in preghiera . I r r o m p o n o i tedeschi, uccidono il p re ­te officiante: nella chiesa t ruc idano tre vecchi che n o n obbe­discono in fretta all ' intimazione di uscire. Gli altri, in n u m e ­ro di 147, tra cui 50 bambini , sono ammassati nel cimitero e mitragliati: 28 famiglie sono s terminate al completo , si sal­vano solo a lcuni bambin i . Centose t te , t r a cui 24 bambin i , sono gli assassinati della frazione Caprata . In casolari poco discosti per iscono 282 pe rsone , a g r u p p i o isolate, t ra loro 38 bambini e d u e suore. In località Cerpiano 49 infelici, tra cui 24 d o n n e e 19 bambini , sono rinchiusi in un orator io e mitragliati a g ruppi . Si salvano una maestra e d u e bambini. Altre 103 vit t ime i nazisti d i s seminano poco lon t ano , sco­vandole casa pe r casa. Ripiglia la strage più oltre... Il comu­ne di Marzabotto lamenta 1.830 morti , t ra cui 5 preti».

Nefando episodio, con aspetti di ferocia belluina. Le stes­se autori tà fasciste s tentarono a c redere alle p r ime testimo­nianze: q u a n d o i l segre tar io comuna le Agostino Grava ne riferì a Bologna al prefetto Dino Fantozzi si sentì r i sponde­re che era impossibile, n o n poteva essere vero. Ma poi Fan-tozzi, persuaso, andò a Gardone e vide d u e volte Mussolini. «Nemmeno lui ne sapeva nulla - e alle mie parole si impres­sionò e si adirò. Chiamò al telefono Hitler e gli disse: "Non si p u ò protes tare pe r le fosse di Katyn q u a n d o qui in Italia c'e Marzabotto".»

A Marzabotto fu praticata la strage pe r la strage, gratui­ta. Il suo unico risultato fu di suscitare odio. Per questo an­cora più odiosa, Marzabotto, delle Fosse Ardeat ine, un mas­sacro che a lmeno aveva la sua giustificazione nel codice di guer ra : e quindi più odiosa anche dell 'altro eccidio di piaz­zale Loreto a Milano, dove il 9 agosto i gappisti avevano fat­to saltare, in viale Abruzzi, un au tocar ro mili tare germani ­co: c inque soldati mor t i sul colpo, altri qua t t r o nei g iorni

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successivi, a causa delle ferite. Kesselring voleva fosse appli­cata anche lì la regola del 10 p e r u n o , poi l 'arcivescovo Schuster riuscì, suppl icandolo , a r i d u r r e da 50 a 15 il nu ­mero degli ostaggi da sacrificare. Un plotone d 'esecuzione di fascisti s t e rminò accanto al d i s t r ibu tore di benz ina di piazzale Loreto, all'alba del 10 agosto, i prescelti, tutti dete­nu t i politici prelevat i da San Vit tore . Come macabro con­trappasso a quel sacrificio di antifascisti, Mussolini e G a r e t ­ta Petacci finirono poi appesi a quello stesso distr ibutore.

A novembre del 1944, benché gli anglo-americani fosse­ro sul Reno e i sovietici in Ungher ia e in Cecoslovacchia, fu chiaro a tutti che un altro inverno di gue r ra aspettava l'Eu­ropa . In Italia, A l e x a n d e r n o n sperava p iù di s fondare la linea gotica: l 'onore e l 'onere di farlo sarebbe spettato all'a­m e r i c a n o M a r k Clark, che gli succede t te in g e n n a i o (Alexander, promosso, era d ivenuto C o m a n d a n t e dell ' inte­ro scacchiere medi te r raneo) . Appres tandosi al congedo dal teatro di operazioni italiano, Alexander n o n colse altri allo­ri militari, e in compenso incappò in un infortunio nei suoi rappor t i con il movimento par t igiano. Diramò il 13 novem­bre un proclama - pa re in realtà fosse stato steso da un suo maldest ro a iutante - che dava alla Resistenza italiana istru­zioni pe r l ' inverno. Avvertiva il p roc lama che «i patr iot i de­vono cessare la loro attività p receden te pe r p repara rs i alla n u o v a fase di lotta e f ron tegg ia re un n u o v o nemico , l 'in­verno», che l 'aviazione alleata avrebbe po tu to volare poco ed effettuare pochi lanci e che qu ind i era o p p o r t u n o «ces­sare le operazioni organizzate su vasta scala, conservare le muniz ion i e i mater ia l i e teners i p r o n t i p e r nuovi o rd in i ; appro f i t t a r e p e r ò u g u a l m e n t e delle occasioni favorevoli pe r at taccare tedeschi e fascisti e con t inuare nella raccolta di notizie di ca ra t t e re mil i tare c o n c e r n e n t i i l nemico». Si a c c o m p a g n a v a n o a ques te disposizioni «attesiste» le con­gratulazioni di r i to p e r l'efficace a p p o r t o della Resistenza alla lotta comune .

Tutto sommato , le dirett ive di Alexander e rano logiche.

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Ma furono diffuse pe r rad io (il che consentì ai tedeschi di sapere che avrebbero goduto di un per iodo di relativa t ran­quillità sia da par te degli Alleati sia da pa r te delle «bande») e inol t re e r a n o formula te con u n a pe ren to r i e t à cer to n o n diplomatica. Esse fecero pessima impressione su quei part i­giani di base che ormai non volevano più da r t regua agli av­versar i , e p rovocò cos te rnaz ione al vert ice t ra chi - come Longo - al fine militare associava un fine politico, e temeva u n o squagl iamento massiccio. In effetti tra l 'ottobre e il di­cembre - a volte con la giustificazione di «licenze», concesse a mal incuore - gli effettivi partigiani si r idussero da ot tanta a c inquan tami la uomin i . Ques to benché L o n g o , i n t e rp r e ­t ando a m o d o suo gli ordin i di Alexander , ammonisse che «noi dobbiamo prevedere n o n u n a contrazione, non un in­debol imento della lotta part igiana, ma bensì la sua intensifi­cazione», e scontando l'affievolirsi dei lanci e degli aiuti fi­nanziari alleati intimasse a «banchieri industriali profittatori che h a n n o trovato miliardi d i buona moneta pe r f inanziare le imprese fasciste» di t rovare «i mezzi pe r sostenere la no­stra lotta di liberazione».

La Repubblica di Mussolini era agonizzante, e il suo Capo lo sapeva: tanto lo sapeva che aveva avviato trattative a Ber­na nel tentativo di assicurare un asilo sicuro ai suoi familia­ri, e si e ra liberato dell 'ormai ingombrante propr ie tà del Po­polo d'Italia, v e n d u t o al l ' industr ia le Gian Riccardo Cella (i t e rmin i f inanziari dell 'affare sono poco chiari , p e r ché for­ma lmen te Cella n o n pagò nulla, ma si accollò soltanto i 35 milioni di debiti che gravavano sul quotidiano). I vertici fa­scisti ondeggiavano tra estremi sogni di riscossa e la pred i ­sposizione alla fuga, e in quel crepuscolo torbido continua­vano ad agitarsi gli eretici di varia t endenza che a l l 'ombra dell 'ult imo fascismo avevano abbozzato stravaganti iniziati­ve politico-culturali.

Accenneremo soltanto alla Crociata Italica di don Tullio Cal­cagno, un prete di Terni che in quella città era divenuto cano-

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nico e parroco della cattedrale e che dopo l'8 settembre 1943 si era schierato senza esitazioni dalla pa r te degli irriducibili. Protetto e foraggiato da Farinacci, Calcagno pubblicò appun­to a Cremona Crociata, Italica, disordinato guazzabuglio di cat­tolicesimo e di fascismo: «Noi crociati italiani abbiamo procla­mato e proclamiamo alto e forte, senza ambiguità, che la no­stra Patria, l'unica vera nostra Patria è l'Italia che il 22 maggio strinse il Patto d'Acciaio con la Germania , il 10 giugno 1940 scese in guerra contro le plutocrazie occidentali Francia e In­ghilterra, l'8 settembre 1943 non abbandonò e non tradì l'al­leata Germania». Tra i grandi nomi, solo Ezra Pound, Giovan­ni Papini e Pericle Ducati ade r i rono al movimento , inviso a molti fascisti, e avversato dalle gerarchie ecclesiastiche che pri­ma sospesero a divinis, poi scomunicarono don Calcagno, uc­ciso infine nella grande mattanza del dopo 25 aprile.

Ancor più singolare fu la vicenda della «opposizione so­cialista» del filosofo E d m o n d o Cione: professore di liceo, n a p o l e t a n o , pe r qua lche t e m p o reggiborsa d i B e n e d e t t o Croce, e a Croce così umi lmen te appiccicato che l 'avevano soprannomina to 'o vaccariello, il vitellino che sta sempre die­tro la mucca. Queste sue frequentazioni gli avevano acquisi­to fama di antifascista, e meri ta to alcuni mesi di carcere al­l'inizio della g u e r r a . Poi aveva ro t to con Croce , ma p e r or ientarsi verso il socialismo, e, trasferitosi a Milano, vi in­trat teneva rappor t i con uomini come Lelio Basso e Placido Martini , che sarà ucciso alle Fosse Ardeat ine . In campo fa­scista conosceva e st imava Carlo Alberto Biggini, minis t ro del l 'Educazione Nazionale di Salò. E p r o p r i o a Salò, m e n ­tre faceva del cicloturismo - nonostante i tempi calamitosi -'o vaccariello aveva rivisto Biggini, che l 'accompagnò (luglio 1944) da Mussolini . I l Duce e ra in u n a fase psicologica di p ro fondo rancore verso i tedeschi, che lo usavano insieme come simbolo e come ostaggio, e di revival socialista (aveva riallacciato ad e sempio i r a p p o r t i con Car lo Silvestri, un giornalista un po ' pasticcione che se n 'era anda to dal Corrie­re della Sera, p e r coerenza antifascista, q u a n d o ne furono

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estromessi gli Albertini, e che ora aveva messo in piedi una «Croce Rossa Silvestri» il cui scopo era di bat ters i pe r sot­t r a r re gli antifascisti alle polizie di Salò). Per impress ionare Cione, Mussolini esordì , incont randolo , con u n a rivelazio­ne : «Diciannove ann i fa ho pubb l i camen te d ich iara to che non avevo letto n e p p u r e un rigo di Benedet to Croce. Non è vero: ne conosco tutte le ope re e posso dire di essermi for­ma to sul suo pensiero». Q u i n d i chiese: «Sareste capace di sacrificare al patriott ismo di cui offrite nobile esempio il vo­stro passa to antifascista p e r capegg ia re un m o v i m e n t o d i oppositori che... mettessero da par te i r isentimenti pe r col­l abora re alla difesa de l l ' onore e del p a t r i m o n i o nazionale ed all 'attuazione dei princìpi di Verona?».

Cione si dichiarò disposto a costruire questo «ponte» tra fascismo e antifascismo: nacque cosi il « R a g g r u p p a m e n t o nazionale repubblicano socialista». A nome di esso, Cione fu autor izza to a p r e n d e r e contat t i con e sponen t i della Resi­stenza: in particolare con Cor rado Bonfantini, comandan te delle formazioni socialiste Matteot t i . Vale la p e n a di r am­m e n t a r e che Bonfantini , a r res ta to , fu l iberato nel genna io del 1945 pe r in tervento diret to di Graziani, probabi lmente suggerito da Cione. Ancora Cione si adope rò perché il fasci­smo, in segno di pacificazione, scarcerasse alcuni antifascisti democristiani di Como, tra essi Enrico Falk e Mentasti. Il fi­losofo ebbe anche un suo giornale , LItalia del Popolo, dalla vita breve e travagliata (gli squadristi , inferociti dagli attac­chi ai gerarchi del ventennio, in particolare a Starace, inva­sero e devastarono la redazione). Il pon te non fu mai crea­to, e il R a g g r u p p a m e n t o rimase soltanto come sintomo del­lo sforzo trasformistico con cui la par te modera ta di Salò vo­leva arr ivare a un trapasso morb ido dei poteri . Basta legge­re, pe r capire quale aria tirasse, il testo di questa lettera del Capo della polizia genera le M o n t a g n a a Silvestri (1° feb­bra io 1945), let tera r i g u a r d a n t e la l iberazione di Parr i im­prigionato: «Sono anch' io del tuo pa re re che la sua (di Par-ri, N.d.A.) presenza alla testa delle forze di liberazione, data

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la sua serietà e il suo s incero pa t r io t t i smo, costituisca u n a garanzia di cui sarebbe bene n o n privarsi.. . La par tenza di Parri pe r Verona n o n deve impressionare. Egli non sarà in­viato in campo di concen t r amen to e sarà t ra t ta to con ogni r iguardo». Tra un Pavolini e un Montagna o un Biggini c'e­ra o rma i un abisso, quasi maggiore di quello che divideva un Montagna o un Biggini dalla Resistenza.

Men t re la catastrofe si avvicinava, Mussolini uscì - fu l'ulti­ma volta pr ima della es t rema resa dei conti - dal suo limbo lacustre, e pe r tre giorni tornò a Milano dove il fascismo era nato e dove stava per mor i re . Volevano la sua r iapparizione i fascisti intransigenti , e la volevano anche i tedeschi. Anfuso scrisse d 'aver saputo da R a h n che il Duce , esor ta to a cele­b ra re a Milano la r icorrenza della Marcia su Roma, il 28 ot­tobre, aveva rifiutato perché «sentiva di n o n avere niente da dire». Ol t re a ques to , t emeva ce r t amen te di essere accolto con ostilità in u n a metropol i devastata dai bombardament i , p rova ta dalle sofferenze, consapevole della sconfitta cui la Germania e il fascismo e rano irresistibilmente avviati. Ma il 13 dicembre decise di tentare la prova, e fissò per il 16 suc­cessivo, alle 11 del mat t ino, il suo discorso al Teatro Lirico: p u r insistendo perché il suo p r o g r a m m a e i suoi spostamen­ti r imanessero segreti fino all 'ultimo.

I l m o m e n t o era propiz io . L'offensiva tedesca nelle Ar-d e n n e , scatenata quello stesso g iorno , provocò scompiglio nello schieramento anglo-americano in Europa , e offrì u n a imprevista d imos t raz ione di vitalità dei tedeschi . La not te che precedet te l ' adunata i fascisti della città furono avvertiti con una serie di telefonate, poi la radio p reannunc iò «la cro­naca di una manifestazione di eccezionale importanza». Dal­la provincia affluirono i fedelissimi. Q u a n d o Mussolini salì sul palco, in u n a vecchia e d isadorna divisa, il volto smagri­to ma gli occhi sempre magnetici, la sala del Lirico era gre­mita, e migliaia di p e r s o n e si assiepavano al l 'esterno. Mol­tissimi i «camerati» in un i fo rme, ma mol ta anche la gen te

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qua lunque incuriosita e affascinata da quel fantasma nel cui n o m e si r iassumevano tanti anni e tanti avvenimenti .

Dal 1936 il Duce n o n parlava più in pubblico a Milano. Non improvvisò né recitò il suo discorso, lo lesse. Ri tornò, come ormai faceva ossessionantemente, sul tema del «tradi­mento», p u r r ivendicando all 'Italia i l mer i to d 'aver t radi to m e n o obbrobr iosamente di altri p e r ché «romeni bulgar i e finnici, d o p o avere anch'essi ignominiosamente capitolato e u n o di essi, il bulgaro , senza avere sparato un solo colpo di fucile, h a n n o nelle vent iqua t t ro ore rovesciato i l fronte ed h a n n o attaccato con tut te le forze mobili tate le uni tà tede­sche, r e n d e n d o n e diffìcile e sanguinosa la ri t irata». Esaltò l ' appo r to della Repubbl ica alla g u e r r a e p romise che nel 1945 esso avrebbe avuto «maggiori sviluppi». Promise che le «armi nuove» avrebbero r idato ai tedeschi l'iniziativa e as­sicurò che «questo è nel limite delle u m a n e previsioni quasi sicuro e anche n o n lontano». E infine, con un appel lo su­p r e m o : «Noi vogliamo di fendere con le ungh ie e coi dent i la valle del Po: noi vogliamo che la valle del Po resti r epub­blicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. E Milano che deve da re gli uomini , le armi, la volontà e il segnale del­la riscossa». Gli applausi furono del irant i , d e n t r o e fuori il tea t ro , e si r i nnovarono q u a n d o Mussolini percorse in una cupa scenografia di edifici distrutti le vie di Milano pe r tor­n a r e nel rifugio sul Ga rda . I tedeschi , che t e m e v a n o u n a azione della guerriglia, furono stupefatti sia da questa fiam­mata di popolari tà, sia dalla inerzia dei part igiani . Ma l'eco del discorso si spense pres to , così come si e ra a rena ta , tra­sformandosi in disastro, la avanzata nelle Ardenne . Il Duce t o r n ò alla sua burocra t i ca e d i spe ra ta routine, p r o c e d e t t e perfino a un «cambio della guardia» ministeriale desti tuen­do il 21 febbraio 1945 Buffarmi Guidi, ministro degl ' Inter­ni, «un uomo che ha molti meriti ma è odiato da tutti, anti­fascisti e fascisti: è odiato pers ino più di me». Erano, le sue, mosse inutili su u n a scacchiera che andava in pezzi. Non c'e­ra nulla da cambiare. La guard ia n o n esisteva più.

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CAPITOLO DECIMO

LA LUNGA RESA

A par t i re dalla seconda metà di gennaio del 1945 la guer ra accelerò implacabilmente il suo corso, in Europa , str ingen­do sempre più la Germania in u n a morsa della quale solo il vaneggiante Hitler si rifiutava di riconoscere la forza morta­le. Cominc iò a muovers i - e qui sconfiniamo b r e v e m e n t e dagli avven iment i i taliani pe r megl io inserir l i nel q u a d r o genera le - il fronte or ienta le : più esa t tamente , cominciò a crollare sotto l 'urto di t re milioni di russi che avanzavano a valanga dal Baltico alla Slesia, appoggiati da 46 mila canno­ni, 8 mila carr i a rmat i , e 10 mila aeroplan i . Il 25 , il m a r e ­sciallo Koniev informò Stalin che le sue avanguardie aveva­no stabilito u n a testa di pon te presso Glogau, sulla riva occi­denta le del l 'Oder . Il 3 febbraio anche il G r u p p o d 'Armate di Zukov at traversò il fiume nella zona di Kùstrin. Il 3 feb­bra io venne accerchia ta Breslavia. Il g io rno successivo, a Yalta, Roosevelt, Stalin e Churchil l si r iun i rono pe r decide­re le sorti del m o n d o ; pe r deciderle, in verità, adeguandole a quan to era già stato largamente fissato, sul t e r r eno di bat­taglia, dalle opposte offensive.

I t re «grandi» s 'erano incontrati quattordici mesi p r ima a Teheran , in ben altra atmosfera. Gli Stati Uniti a quell 'epo­ca non avevano ancora completato il loro gigantesco spiega­mento di forze, né avevano tolto alla Gran Bretagna lo scet­t ro di regina dei mari . L'URSS, a sua volta, benché avesse su­pera to l ' immane crisi iniziale dello scontro con i tedeschi, e fosse passata ovunque alla controffensiva, aveva ancora l'e­sercito di Hit ler sul suo terr i tor io. Tutto era o rmai cambia­to. L'America g r o n d a v a po tenza e ricchezza, l ' I ngh i l t e r r a

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era fiera ma esausta e l 'Unione Sovietica - come Stalin si af­frettò ad annunc ia re d o p o u n a telefonata di Zukov - aveva p i an ta to b a n d i e r a a se t tan ta ch i lomet r i da Ber l ino . Se la Confe renza d i T e h e r a n e ra stata sop ra t tu t to un dia logo Churchi l l -Roosevel t , con Stalin in t e r locu to re i m p o r t a n t e ma n o n a r rogante , quella di Yalta fu un duet to , pe r n o n di­re un idillio, t ra Roosevelt e Stalin, e Churchil l ebbe il ruolo del terzo incomodo. Inascoltata Cassandra, Churchil l tentò di r icordare a Roosevelt - pe rché ne tenesse conto nelle di­scussioni - che il pericolo nazista stava pe r essere eliminato, ma il pericolo comunista ne risultava, pe r un fatale gioco di contrappesi , ingigantito. La tragedia degli Stati Uniti (e del­l 'Occidente intero) fu d 'essere impersona t i in quella occa­sione da un u o m o molto malato e t ragicamente stanco, co­me la sua mor t e dimostrò poche set t imane dopo . Roosevelt fu, se n o n circui to , cer to ab i lmen te inf luenzato da Stalin, che p e r dimostrargl i i suoi b u o n i proposi t i aveva sciolto il C o m i n t e r n : e ques to avrebbe dovu to essere un segnale di r inuncia ad ogni politica di espansione ideologica, e rivolu­zionaria. Là dove Roosevelt aveva sempre davanti agli occhi l 'esigenza di p u n i r e la Germania , Churchil l aveva quella di c o n t e n e r e l'URSS. Ma era , se Roosevelt n o n l ' appoggiava , impotente .

Questo il clima in cui fu disegnato lo schema del l 'Europa di Yalta. La Germania, mutilata e smembrata, avrebbe cessa­to di esistere come Stato unitario. L'Austria e l 'Ungheria sa­rebbero tornate ai confini del 1918 e cosi p u r e la Cecoslovac­chia, salvo la cessione della Rutenia subcarpatica all'URSS. La Iugoslavia avrebbe ot tenuto vantaggi territoriali a spese del­l'Italia, e la Polonia si sarebbe ripagata delle ter re cedute al-I'URSS con terre strappate ai tedeschi. LURSS avrebbe ingloba­to, oltre alla Rutenia, alla Bessarabia, a una larga fetta di Po­lonia, e agli sventurati Paesi baltici, anche par te della Prussia or ientale , incluso il capoluogo Kònigsberg, pa t r ia di Kant ; t r u p p e russe avrebbero «temporaneamente» occupato tutta l 'Europa orientale e centrale, fino all'Elba e al Danubio.

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Questo pe r i confini. Ma il criterio delle zone d'influenza - quello che Stalin e Churchill avevano già abbozzato a Mo­sca, come abbiamo accenna to in p r ecedenza - peggiorava l 'arbitrio delle mutilazioni territoriali, che avrebbero provo­cato do lorose migraz ion i d i popolaz ioni in te re . C o n quel criterio si consentì, median te una formula ambigua - ma da Stalin capita senza ambiguità alcuna - che l'URSS affermasse la sua supremazia su tutte le nazioni in cui e rano arrivate le sue t r u p p e : e vi imponesse n o n solo un d o m i n i o mil i tare - p e r forza di cose t r a n s e u n t e - ma u n a cappa ideologica pe r enne . Tutto questo non avvenne subito, né fu subito del tut to evidente. A Yalta, pe r la verità, era stato formalmente sancito che in ogni nazione occupata o liberata - incluse ov­viamente quelle dell 'orbita sovietica - fossero tenute libere e genu ine elezioni, e i popol i potessero scegliere il reg ime, i d i r igen t i e la cost i tuzione che pre fe r ivano . In real tà , am­messa la ingerenza russa in mezza Europa , quella mezza Eu­r o p a era votata al to ta l i tar ismo stal iniano. Ci si ch iede se Roosevelt sapesse di consegnare alla t i rann ide 130 milioni di europe i . Forse n o n lo immaginò , e fu ingenuo . Forse lo i m m a g i n ò e lo consent ì , e fu cinico; forse lo i m m a g i n ò , e avrebbe voluto evitarlo, ma n o n seppe, e fu semplicemente impar i alle sue responsabilità.

A Yalta non si parlò solo della divisione della Germania e de l l 'Eu ropa . Fu a p p r o v a t o i l p r o g e t t o p e r la c reaz ione dell 'ONU, che a Roosevelt - p e r m e a t o di insoppr imib i le idealismo americano - pareva stare a cuore più d 'ogni altra cosa. C o m u n q u e Roosevelt ga ran t ì che , d ive r samen te da quan to era accaduto con Wilson e la Società delle Nazioni, gli Stati Uniti, g rand i p romotor i dell'ONU, ne sarebbero an­che d ivenut i membr i . I piani p e r la nuova organizzazione in ternazionale a n d a r o n o in por to q u a n d o Stalin o t t enne i l d i r i t to di veto, e inol t re l 'ammissione come Stati i nd ipen­dent i aventi diritto di voto - il che era una smaccata finzio­ne - dell 'Ucraina e della Bielorussia. Fu infine raggiunto un accordo di massima sulla punizione dei criminali di guer ra .

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Ment re la conferenza e ra in corso, gli Alleati passa rono all'offensiva sul fronte occidentale. L'8 febbraio, t ra Nime-ga e Aquisgrana, si mossero c o n t e m p o r a n e a m e n t e sette ar­mate - t re amer icane , t re anglo-canadesi e u n a francese -che e r a n o divise in t re g r u p p i , r i spe t t ivamente al coman­do di Montgomery , Bradley e Devers . Con t ro di loro von R u n d s t e d t schierava c inque a r m a t e , t r e delle quali e r a n o reduci dal massacro delle A r d e n n e . I carr i a rmat i tedeschi e r a n o al l ' incirca u n o p e r c inque avversar i , l a p r o t e z i o n e a e r e a n o n esisteva p iù . C i o n o n o s t a n t e i t edesch i r e s se ro p e r un paio di se t t imane, poi le loro linee furono sfondate da M o n t g o m e r y a no rd -oves t di Dusseldorf . Von R u n d ­s tedt si d imise da c o m a n d a n t e del f ronte occ identa le e a p r e n d e r n e i l pos to fu ch iamato dal l ' I ta l ia Kesselr ing. La breccia si allargò r ap idamen te , il 6 marzo gli Alleati e r ano attestati sulla riva occidentale del Reno p e r l ' in tero t ra t to t ra St. Goar e Colonia, il 7 lo t r ave r sa rono servendosi del famoso p o n t e di Remagen , il solo che non fosse stato fatto sal tare , il 22 Pat ton, forzato il passaggio sul f iume Eifel e scavalcato a sua volta il Reno a O p p e n h e i m , si lanciò verso il cuore della Germania . Ai p r imi di apri le , in Italia, cedet­te la l inea gotica, spezzata in iz ia lmente - t ra il 10 e l 'I 1 -nel set tore adriat ico, dove ope ravano i g r u p p i di combatt i­m e n t o i tal iani , e poi demol i t a g r a d u a l m e n t e a n c h e negli altri tratt i .

I l 12 apr i le mor ì , s t ronca to da u n ' e m o r r a g i a ce rebra le men t r e posava pe r un ritratto a olio, Franklin Delano Roo­sevelt, che nonostante l 'aspetto da vecchio, e ra soltanto ses­santa t reenne . Gli succedette Har ry T ruman . Hitler lo com­m e m o r ò con un comunicato in cui si affermava che «il p iù g r a n d e cr iminale di guer ra» si e ra «sottratto alla giustizia degli uomini». Pare impossibile, ma la fine di Roosevelt riac­cese in Hitler e in Mussolini fugaci e assurde speranze di ri­volgimenti , nella coalizione nemica, che offrissero ai tede­schi u n a via d'uscita certo non vittoriosa, ma negoziata. Tut­to d u r ò lo spazio di un giorno.

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Nelle d u e Italie - ancora pe r poco divise - quelle ult ime set­t imane fu rono vissute con sen t iment i cont ras tan t i . I l sud «ufficiale» era impegna to in u n a routine penosa e affannosa insieme, aspe t tando l ' impatto con l 'ormai imminen te e im­petuosa folata di «vento del nord». Il governo emanava de­creti su decreti , a volte razionali, a volte improvvisati e vel­leitari, p e r da re prova di socialità e di antifascismo, così da n o n dover poi subire t roppe critiche dagli intransigenti del CLNAI. Fu dato il voto alle d o n n e , e vennero epura t i in mas­sa ufficiali e funzionari , m e n t r e l'Alta cor te di giustizia in­fliggeva p e n e severe a not i gera rch i e general i , accusati di n o n aver fatto il loro dovere . In effetti la casistica prevista dai provvediment i era così t r emenda che - l 'ha rilevato Ma­rio Silvestri - molti si d o m a n d a v a n o quale italiano sarebbe passato indenne al setaccio dei tre commissariati in cui l'Al­to commissar ia to e r a stato diviso: p e r i delit t i fascisti, p e r l 'epurazione e pe r i profitti di regime. Bonomi si e ra giusti­ficato affermando che, se il governo n o n faceva il terribile, ci avrebbero pensato a farlo, molto più realisticamente, i co­munis t i . «Lo sband ie ra to t e r r o r e legale - c i t iamo s e m p r e Silvestri - e ra un mezzo p e r c o m p r i m e r e i l t emu to t e r ro re illegale...». I l Minis tero de l l ' I s t ruz ione aveva messo sotto giudizio qualche dozzina di uomini illustri, quali Francesco Severi, Giuseppe Ungaret t i , Gioacchino Volpe e Ugo Spiri­to. Il senatore Sforza e p u r ò quat t ro quinti del Senato esclu­d e n d o solo coloro che a sentirli, «avevano indossato la cami­cia ne ra pe r necessità». Si verificavano casi paradossali , co­me quello di Giacomo Acerbo che, c o n d a n n a t o a mor t e in contumacia nel processo di Verona pe rché aveva votato, in G r a n Consiglio, a favore de l l ' o rd ine del g io rno Grand i , si beccò poi 48 anni di reclusione come fascista (presidente del collegio giudicante era un tale che nel febbraio 1927 aveva fatto c o n d a n n a r e Amer igo Dumin i , impl icato nel del i t to Matteotti, p e r «offesa alla sacra persona del Duce»). Acerbo venne, dopo tante vicissitudini, scagionato, come moltissimi altri: e fu prosciolto - grazie all 'amnistia deliberata dal guar-

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dasigilli Togliatti nel 1946 - ins ieme all 'avvocato A n d r e a F o r t u n a t o , che a Verona aveva chiesto la sua testa. Fu in­somma un r igore all'italiana, nel quale pagò con la vita chi pagò subito, e gli altri dovet tero soltanto aspettare l 'ora del­l ' indulgenza, che sopravvenne puntua le .

Ma in quel clima di caccia al col laborazionista , che confondeva stoltamente i veri criminali con i semplici arrivi­sti, o con i mediocr i conformisti , suscitò ind ignaz ione - in par te autentica e in par te gonfiata pe r fini di par te - la noti­zia che il generale Roatta era fuggito dall 'ospedale militare di via Giulia a Roma, dove, d o p o l 'arresto, l 'avevano ricove­rato perché accusava disturbi cardiaci. All 'ex Capo di Stato Maggiore dell 'Esercito era addebi ta ta l'attività svolta come capo del SIM (e la implicazione nella fine dei fratelli Rossel­li). Su di lui fu posta u n a taglia, allora eno rme , d ' un milione di l ire, e i part i t i di sinistra indissero pro tes te veement i , a ca ra t t e re sp icca tamente an t imona rch ico . I l 6 marzo u n a manifestazione al Colosseo finì nel sangue. Annotò Puntoni : «Un g rande comizio di protesta si è concluso con una dimo­strazione ostile davant i al Quir ina le . Tra la folla sono state get ta te b o m b e a m a n o . C'è stato un m o r t o e diversi feriti. La folla, impadroni tas i del cadavere , l 'ha alzato sulle teste come una bandie ra e l'ha por ta to davanti al Viminale chie­d e n d o con urla selvagge le dimissioni del governo».

Fu diffusa la voce che la polizia avesse usato le a rmi . In realtà la bomba era scoppiata nelle mani di un dimostrante che si accingeva a lanciarla. C o m u n q u e per l ' incidente saltò i l c o m a n d a n t e dei carabinier i genera le O r l a n d o , sostituito dal generale Brune t to Brunet t i , e con lui il questore di Ro­ma, m e n t r e con t inuava a esservi f e rmen to nelle piazze, e anche Regina Coeli era in rivolta. Probabilmente anche pe r placare gli animi fu annuncia to che Federzoni, Bottai e Ros-soni e r a n o stati deferiti all'Alta cor te di giustizia, che con­d a n n ò a m o r t e (12 marzo) Fi l ippo Anfuso, al l 'ergastolo Roatta, Emanue le e Navale (tutti r i tenut i responsabil i del­l'uccisione dei Rosselli), a 24 anni l 'ex-luogotenente in Alba-

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nia Jacomoni e l 'ex sottosegretario agli esteri Suvich. È inu­tile agg iungere che i funzionari addet t i alle p rocedu re d'e­puraz ione avrebbero dovuto in massima par te , s tando alla lettera della legge, essere epura t i essi stessi.

Umber to di Savoia, nel Quir inale assediato dalle polemi­che e dalle accuse, cercava di conciliare la neutral i tà richie­stagli come Luogo tenen te con la difesa degli interessi mo­narchici, e la lealtà di figlio con una inevitabile presa di di­stanza «politica» dalla persona e dalla figura storica di Vitto­rio Emanue le I I I , d iventato , secondo Punton i , «il paraful­mine sul quale si scaricano tut te le responsabilità». Il Luo­gotenente poteva tut tora contare sui capi militari, rimastigli fedeli anche a t t raverso la ca tena delle sostituzioni e delle epuraz ion i . Ma t endeva a lasciarsi cond iz ionare da consi­glieri t r o p p o spesso miopi , e mediocr i . P r o p e n s o com 'e r a alla d iscrezione, n o n al lenato a dec ide re e a c o m a n d a r e , t roppo elegante pe r essere un capopopolo e t roppo corret­to p e r essere u n o sp reg iud ica to r e s t au ra to r e , U m b e r t o s i destreggiava, d a n d o anche a chi c redeva in lui sensazione di incertezza, a volte di confusione. In febbraio il nuovo Ca­po di Stato Maggiore dell 'Esercito, genera le Ronco, si e ra sfogato: Umber to si appoggiava t roppo agli Alleati e così fa­voriva «la p r o p a g a n d a di coloro che sostengono che la mo­narchia p u r di r imanere al po te re non esita a vendersi agli eserciti s tranieri che s 'accampano sul terr i tor io nazionale». Secondo Ronco il Luogotenente avrebbe dovuto «accostarsi di più alle t ruppe , familiarizzare di più con i soldati».

Come Umber to potesse scrollarsi di dosso la tutela degli inglesi, che si bat tevano per lui, non si vede bene. Probabil­m e n t e gli sarebbe stata utile la immedia ta abdicazione del p a d r e - la consigliava anche Falcone Lucifero - ma il vec­chio Re, che presto avrebbe o t tenuto di trasferirsi da Ravel­lo a Napol i , cont inuava a rifiutarla con senile ost inazione. In t e rp re t e dei suoi pensieri , Puntoni era esplicito: «L'abdi­cazione equivarrebbe alla ro t tu ra del compromesso e della cosiddetta t regua. L'atto di Sua Maestà poi po t rebbe essere

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sfruttato dai par t i t i es t remist i con t ro la Dinastia. Ho l 'im­pressione che si cerchi di staccare il figlio dal pad re , e la co­sa ce r tamente c reerà al tre amarezze pe r il Re». Comunis t i , socialisti e Par t i to d 'az ione n o n p e r d e v a n o occasione p e r so t to l ineare la i ndegn i t à di U m b e r t o a r a p p r e s e n t a r e la nuova Italia, e q u a n d o , nel p r imo anniversario dell 'eccidio delle Ardeat ine, egli fu presente in Santa Maria degli Ange­li a u n a messa di suffragio, v ' e r ano state invett ive e g r ida contro di lui.

Vittorio Emanuele I I I vedeva abbastanza di r ado il f iglio. Nel suo isolamento amaro , seguiva tuttavia a t ten tamente gli avveniment i , e li commentava con la freddezza - altri dice con il c inismo - che e r a n o nella sua n a t u r a . Sapu to che a Salò e ra stato des t i tu i to i l min is t ro d e l l ' I n t e r n o Buffarmi Guidi , osservò secco: «Non ha perso l 'abi tudine di combi­n a r n e di grosse. Ha finito pe r stancare anche i suoi». Parve impassibile a n c h e il g io rno in cui s e p p e - si e r a o r m a i a metà aprile - che la figlia Mafalda era morta , otto mesi pri­ma, nel campo di concen t ramento tedesco di Buchenwald. Con quella lut tuosa notizia Vittorio Emanue le I I I , che p e r l'8 set tembre aveva già d u r a m e n t e pagato sul p iano politico e militare, pagava ora c r u d e l m e n t e sul p iano u m a n o , e fa­mil iare. Mafalda cadde infatti vit t ima delle incertezze con cui l'armistizio fu at tuato, e dei segreti dai quali fu avvolto.

Mafalda era moglie del pr inc ipe tedesco Filippo d'Assia che Hitler aveva più volte utilizzato come speciale «portalet­tere» pe r i suoi r appor t i con Mussolini: e aveva raggiunto a fine agosto del 1943 la Bulgaria, per assistere ai funerali di re Boris, spirato al r i torno da un burrascoso incontro con Hitler - si parlò di complotto e di assassinio, ma senza prove - e pe r confortare la sorella Giovanna, vedova di Boris. I funerali si svolsero a Sofia il 5 settembre, e Mafalda ripartì pe r l'Italia il 7 usando ancora - come nell 'andata - un mezzo lento e peri­coloso, il t reno. Né le venne dal Quirinale alcuna sollecitazio­ne a cambiare i suoi p r o g r a m m i e a scegliere l 'aereo: il che p u ò provare che Vittorio Emanuele I I I sacrificò i suoi affetti

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alla ragion di Stato, ma p u ò anche attestare che il Re e i suoi consiglieri, confidando sempre che l'armistizio n o n sarebbe stato p roc lamato p r ima del 12 se t tembre , s u p p o n e v a n o vi fosse t e m p o sufficiente p e r i l r i en t ro della principessa, che era accompagnata da un genti luomo di Corte, i l conte Fede­rico Avogadro di Vigliano. La sera fatale dell '8 se t tembre il t reno traversava la campagna r u m e n a . Mafalda fu avvertita dal persona le ferroviario che la regina m a d r e Elena di Ro­mania sarebbe salita sulla vet tura , in p i ena not te , a Sinaja, per u n a comunicazione urgente: e la comunicazione era quel­la dell 'avvenuto armistizio. Tuttavia il viaggio proseguì senza inciampi, Mafalda arr ivò a Budapes t dove il capo missione italiano Anfuso le suggerì di raggiungere Francoforte: in fin dei conti era una cittadina tedesca (ma non sapeva che il ma­rito, al Quart ier generale di Hitler, era più un sorvegliato spe­ciale, ormai, che un alto ufficiale con incarichi importanti) . In ansia p e r i t re figli (Enrico, Ot to ed Elisabetta) che e r a n o a Roma, la principessa n o n accettò il consiglio. Ot tenne invece che un ae reo mili tare italiano raggiungesse Budapes t pe r rimpatriarla, e IT 1 set tembre a t terrò a Pescara, dove ancora non si e rano insediati i tedeschi. Con lentezze e ingenuità in­credibili, Mafalda e il Vigliano rimasero da quelle parti fino al 20 settembre, quando in t reno riuscirono a raggiungere Ro­ma. La principessa t o rnò addi r i t tu ra nella sua residenza di Villa Polissena, visitò i figli che vivevano in Vaticano sotto la protezione di monsignor Montini, ebbe insomma u n a enne­sima occasione di sottrarsi alla cattura. Candida e mal consi­gliata com'e ra , accorse invece all 'ambasciata di German ia quando il «padrone di Roma» colonnello Kappler le fece sa­pere che doveva recarvisi d 'urgenza pe r u n a comunicazione telefonica con il marito.

Era u n a trappola. Fu arrestata, t rasporta ta a Ciampino e di là in volo a Berl ino: d o p o u n a sosta di t re se t t imane, la t rasfer i rono a Buchenwald , il c a m p o che n o n era, tecnica­mente , di sterminio, ma nel quale si conta rono 60 mila mor­ti su 260 mila prigionieri immatricolati.

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A Buchenwald, Mafalda di Savoia non fu r inchiusa nella par te in terna del campo, ma lasciata con altri prigionieri il­lustri (tra essi Leon Blum, il leader comunista tedesco Thàl-m a n n , poi «eliminato», l ' industriale dell'acciaio Thyssen) in baracche poste all 'esterno del recinto. Divideva la sua con i coniugi Brei tscheid, lui un ex -depu ta to socialdemocrat ico (morirà come Mafalda sotto un b o m b a r d a m e n t o alleato), lei amica e confidente. Adiacente alla baracca (l'alloggio di Ma­falda aveva anche u n a cucina e un b a g n o , e pe r le pulizie l 'aiutava un'al t ra prigioniera, Maria Ruhnau) era un giardi­ne t to : p iù ol tre un m u r o alto t re met r i so rmon ta to da filo spinato. Il 24 agosto 1944 le s i rene d iede ro l 'al larme, e gli occupan t i della baracca n u m e r o 15, quel la di Mafalda, s i bu t t a rono in un fossato. Lì caddero t re bombe la cui esplo­sione uccise il Breitscheid, e ferì gravemente a un braccio la principessa. Le cure che le vennero praticate e rano proba­bilmente sommarie e inadeguate : il 26 agosto, pe r evitare la cancrena, fu praticata l 'amputazione dell 'avambraccio. Ma­falda, debolissima, n o n resse all ' intervento. Come tanti sol­dati che l'8 set tembre aveva votato alla prigionia e alle r ap ­presagl ie tedesche , anche lei mor ì lon tana dall ' I talia e dai suoi.

All'inizio del l 'ul t ima p r imavera di g u e r r a la G e r m a n i a era d ivora ta dai cingoli sovietici e ang lo-amer ican i . Nel suo Bunker Adolf Hit ler era il condot t iero di una gue r r a virtual­m e n t e già finita, e impart iva ord in i ad a rma te n o n più esi­stenti, o sottratte o rma i al suo dire t to control lo. Alcuni dei supremi gerarchi a t torno a lui, e i proconsoli lontano da lui, pensavano concre tamente a u n a sola cosa: la resa. Agivano senza coordinazione, o addi r i t tu ra in concorrenza. Ma agi­vano. Cauti accenni di compromesso e rano stati fatti da Rib-b e n t r o p , e K a l t e n b r u n n e r aveva incaricato agent i fidati di esegui re sondaggi . Ma l 'approccio p iù opera t ivo e ra stato tentato da Himmler, che aveva visto crescere e n o r m e m e n t e il suo po te re d o p o l 'a t tentato del luglio '44 e la sostanziale

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emarginazione di Gòring, e che voleva accordarsi - p ropr io lui, il peggiore dei nazisti - con gli anglo-americani . S'illu­deva che restasse spazio p e r un p a t t e g g i a m e n t o : l 'offerta delle divisioni di SS agli Alleati occidentali, pe rché le usasse­ro in funzione antisovietica.

La m a n o v r a era , in que i t e rmin i , ina t tuabi le : ma i d u e uomini che se ne incaricarono - il colonnello Dollmann co­me discreto e capace tessitore, a livello personale , e il gene­rale Wolff, cui restava l 'unico impor tan te comando delle SS fuori del t e r r i to r io tedesco, a livello ufficiale - le d i e d e r o fo rma in m o d o realistico e sp reg iud ica to . I p ropos i t i di H i m m l e r co inc idevano, a l m e n o p e r ques to aspe t to , con quelli della cur ia milanese, che in tendeva r i spa rmia re alla città le d is t ruzioni che s a r ebbe ro avvenu te ove fosse stata applicata la tattica della t e r r a brucia ta , e a n c h e con quelli degli ambient i economici svizzeri, che nell 'Italia set tentrio­nale avevano interessi important i .

Un u o m o d'affari i ta l iano ab i tua to a bazzicare gli am­bienti internazionali , il ba rone Luigi Parrilli, si p ropose co­me t ramite pe r allacciare i contatti che, egli pensò ragione­volmente , n o n avrebbero avuto successo se fossero avvenuti a t t raverso i comand i militari alleati, r igidi nei loro schemi; p iù o p p o r t u n a m e n t e dovevano essere tenta t i a t t raverso i servizi d ' informazione, ossia a t t raverso quel po t en t e Alien Dulles che aveva stabilito il suo Quar t i e r genera le a Berna. Napole tano, cavaliere di Malta, cameriere di cappa e spada del Pontefice, Parril l i n o n fece g r a n d e impress ione agli emissari di Dulles q u a n d o p e r la p r i m a volta li avvicinò a Lucerna . Dulles l 'ha descrit to come «un signore basso, ma­gro e calvo dai modi cerimoniosi, che faceva pensare al p ro­prietar io di un alberghetto italiano, che volesse convincerci a mang ia re da lui». Ma l ' in termediar io d imost rò la sua ca­pacità, e fece in m o d o che, in u n a successiva fase di sondag­gio, fossero p resen t i Do l lmann e un ufficiale del Q u a r t i e r genera le di Wolff, il t enen te Zimmer. Non si trattava, nelle intenzioni degli Alleati, di contravvenire al diktat della resa

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incondizionata, ma sempl icemente di o t t enere che le venti divisioni tedesche in Italia - più le formazioni fasciste - de­ponessero le a rmi a pat to che si consentisse loro di ritirarsi senza essere martor ia te dagli Alleati e senza essere sottopo­ste ad agguat i par t ig ian i . D u e e lement i e r a n o vitali, nella trattativa: che Wolff, conc ludendola , potesse o t t ene re l'as­senso del comandan te delle t r u p p e maresciallo Kesselring, e che Hitler non ne venisse a conoscenza. Il Capo della poli­zia di Verona, generale Harster, che era un emissario di Kal­tenbrunner , ne era invece al corrente .

A Do l lmann fu chiesta i m m e d i a t a m e n t e u n a p r o v a di buona volontà, che attestasse le intenzioni dei suoi capi: os­sia la l iberazione di Ferruccio Par r i e di Anton io Usmiani (quest 'ul t imo, maggiore degli alpini, e ra un par t ig iano in­t repido che, scrisse lo stesso Dulles, «aveva raccolto p e r me informazioni militari in Italia settentrionale, facendo un la­voro magnifico»). Sia Parr i che Usmiani e r ano cadut i nelle mani delle SS, e un audace tentativo di Edga rdo Sogno pe r s t rappare «Maurizio» ai suoi carcerieri, nell 'Hotel Regina di Milano, e ra fallito ma lamen te , p o r t a n d o alla ca t tu ra dello stesso Sogno. Parr i e Usmiani furono liberati, e messi a di­sposizione di Alien Dulles in Svizzera. Q u a n d o vide l 'ameri­cano, Parr i , con il coraggio che era la sua miglior dote , gli disse senza preamboli : «Quali patti ha fatto coi tedeschi pe r convincerli a farmi uscire? Voglio che lei sappia che n o n ac­cetterò restrizioni di sorta alla mia libertà d'azione. I n t endo r i t o r n a r e i m m e d i a t a m e n t e in Italia e c o n t i n u a r e la lot ta contro tedeschi e fascisti».

Di lotta, in verità, n o n c'era più molto bisogno. I tedeschi e rano pron t i a cedere , e Wolff dimostrò che faceva sul serio r a g g i u n g e n d o Zur igo e incon t randos i con Alien Dulles. Il genera le delle SS spiegò, in r iassunto, che il suo scopo era quello di evitare inutili distruzioni e spargimenti di sangue, che aveva dalla sua l 'ambasciatore R a h n , e che contava di convincere Kesselring. Per sé n o n chiese alcuna speciale im­muni tà . Promise di i n t e r rompere la lotta ai partigiani, di li-

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be ra r e a lcune cent inaia di ebrei de t enu t i a Bolzano, di far passare in Svizzera Sogno, e infine di garant i re il b u o n trat­t a m e n t o dei p r ig ion ie r i di g u e r r a amer ican i e inglesi. La faccenda sembrava bene avviata ma subì u n a bat tu ta d 'a r re­sto pe r ché - come sapp iamo - Kesselring fu des ignato co­m a n d a n t e del f ronte occidenta le in sost i tuzione di von Rundstedt , e un aereo inviato appos i tamente da Hit ler l'a­veva già a l lontanato dall ' I tal ia. Si t ra t tava o r a di ch iede re l 'assenso del nuovo c o m a n d a n t e in capo, genera le Vietin-ghoff, che Wolff informò il p r imo aprile di quan to accadeva (intanto, o t t emperando a u n a richiesta degli Alleati, egli di­spose che le unità ai suoi ordini non procedessero a distru­zioni di impianti industriali e il 6 aprile si sforzò di p iegare le ult ime esitazioni di Vietinghoff, abbai~bicato ai concetti di ono re e di fedeltà al Fùhrer ) .

F ina lmente pa reva fatta. Ma poi la t r a m a si incagliò, ri­schiando il naufragio, pe r d u e gravi e c o n t e m p o r a n e i sco­gli, messi sulla sua ro t ta da Ber l ino e da Wash ing ton . Himmler, che osava e poi si pentiva, chiamò Wolff a r appor ­to. Questo generale delle SS che sapeva così bene essere di­plomatico (e che in Italia si era anche acquistata fama di se­dut tore) aveva del fegato. N o n invocò scuse - e gli sarebbe stato facile - ma a n d ò a Berlino (17 aprile) e subito fu sotto­pos to alle critiche incrociate di H i m m l e r e di Ka l t enbrun-ner, che avevano volu to o a p p r o v a t o i l negozia to , ma o r a l 'accusavano d 'avere ecceduto in zelo. Qu ind i fu ammesso, in p iena not te , nel Bunker di Hitler, che si mos t rò amareg­giato più che in collera. Disse d 'aver saputo da Kal tenbrun-ner dei suoi sondaggi con gli Alleati e di considerar l i «una colossale mancanza di r igua rdo verso i superiori». Come s'e­ra a r rogato , lui semplice generale , il diritto di p r e n d e r e ini­ziative di tanto rilievo, senza riflettere che potevano essere in cont ras to con i p ian i strategici globali s tudiat i dal Fùh­rer? Invitato così b ruscamente , e da quell ' interlocutore pa­ranoico, a discolparsi, Wolff dovet te essere - s tando al suo racconto , unica fonte di cui d i spon iamo pe rché ogni al t ro

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test imone è mor to - di u n a straordinaria abilità: pretese d'a­vere «aperto u n a via che metteva d i re t t amen te in contat to col p res iden te degli Stati Uniti e col p r imo minis t ro Chur ­chill, s empre che i l F ù h r e r in tendesse servirsene». Era so­stanzialmente una panzana, ma funzionò. Hitler rispose che ci avrebbe pensa to , e d iede a p p u n t a m e n t o a Wolff p e r il giorno dopo .

L' indomani Hit ler esordì t racciando un p roge t to strate-gico-politico che n o n aveva a lcun nesso con la real tà . In G e r m a n i a sa rebbero stati organizzati t re g r a n d i capisaldi, uno a t torno a Berlino, un secondo a no rd con lo Schleswig-Holstein, la Dan imarca e la Norvegia , il terzo a sud con il cosiddetto ba luardo alpino: questo in attesa che anglo-ame­ricani e sovietici arrivassero al conflitto aper to . Hit ler si sa­rebbe allora schierato «con la pa r t e che mi offrirà di più», disposto a cedere i suoi poteri (stanco com'era di esercitarli) «al p iù compe ten te fra i miei collaboratori». Wolff avrebbe voluto u n a risposta precisa circa gli agganci con gli Alleati, ma Hitler, distratto e quasi t rasognato, lo congedò esortan­dolo a resistere a oltranza, e incaricandolo di por ta re i suoi saluti al bravo Vietinghoff. Wolff decollò da Tempelhof e il 20 aprile era nel suo Quar t ie r generale di Fasano.

L'altro i n toppo era venu to ad Alien Dulles da Washing­ton, ed era il riflesso dei bastoni tra le ruote messi da Mosca. I sovietici, saputo del negoziato, p re tendevano che n o n p ro ­cedesse a meno che fosse consentito loro di intromettervisi . E gli Stati Maggiori r iunit i di Washington e r a n o stati presi dal panico - come sempre accadeva q u a n d o Stalin si faceva a r r o g a n t e m e n t e vivo - e avevano posto l'alt ad Alexander che l'aveva trasmesso ad Alien Dulles. Gli uomin i di Wolff a t tendevano invano, in Svizzera, d'essere chiamati a Caserta pe r la firma dell 'atto di resa già p ron to nei suoi termini .

Le ragioni della mossa sovietica e rano di tut ta evidenza. «Un crollo p r e m a t u r o del fronte tedesco nel l ' I ta l ia del no rd , p r i m a della proc lamazione della insur rez ione gene­rale da pa r t e dei par t ig iani italiani e del l 'arr ivo del m a r e -

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sciarlo T i to a Trieste avrebbe ostacolato - ha osservato il Deakin - i p ian i poli t ico-mili tari del g o v e r n o sovietico in ques to se t tore e u r o p e o . E significativo anche che l 'o rd ine generale d i insurrezione da par te del C o m a n d o par t igiano venne dato il 25 apri le , d o p o il veto di Stalin alla manovra di Dulles e pr ima che il maresciallo Alexander fosse riuscito a o t tenere il consenso a dar seguito all 'operazione.» Vedre­mo più avanti come la manovra di Wolff si sia intrecciata al­la abortita mediazione del cardinale Schuster a Milano, e al­l 'azione del CLNAI. Basterà p e r ora c h i u d e r e il capitolo di­cendo che alle 14 del 29 aprile d u e plenipotenziari tedeschi inviati da Vietinghoff e da Wolff (ques t 'u l t imo aveva nel f ra t tempo trasferito a Bolzano, dopo d rammat i che per ipe­zie, il suo Quar t i e r generale) firmarono a Caserta quella che Ferruccio Lanf ranchi definì «la resa degli ot tocentomila». L'entrata in vigore del cessate il fuoco fu fissata al 2 maggio, ma i tedeschi del fronte italiano avevano già smesso da gior­ni di combat tere contro gli Alleati.

Ment re t rat tavano i tedeschi, tentavano di t rat tare - con as­sai minore prestigio e ascolto, pe r la trascurabilità delle loro forze - anche i fascisti. Mussolini - o rmai un travicello tra­scinato dalla cor ren te vorticosa degli avvenimenti - oscilla­va senza coerenza tra proposit i di resistenza a oltranza, lun­ghi moment i di rassegnazione passiva e incerti passi pe r una resa condizionata. Il 6 marzo aveva ripetuto i concetti vigo­rosi del Lirico in un discorso agli ufficiali della Guardia na­zionale repubblicana: «Noi abbiamo promesso che difende­r e m o la valle del Po città pe r città, casa pe r casa. Ques to è un impegno sacro che dobbiamo p rende re . Se poi gli avve­niment i ci permet tessero di p r o r o m p e r e oltre l 'Appennino - nessuno p u ò escluderlo - io c redo che t roveremo un 'on ­da ta d i en tus iasmo c o m e forse n o n s u p p o n i a m o n e m m e ­no». E il 22 marzo il Consiglio dei ministri decise che en t ro il 21 apri le fossero socializzate tut te le imprese con a lmeno cento d ipendent i e un milione di capitale, una «mina socia-

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le» che il Duce voleva p o r r e sul cammino di ch iunque arr i ­vasse dopo di lui. Wolff - che già conduceva la sua trattativa -s'era sforzato, senza successo, di dissuaderlo r icordandogl i che dato l 'at teggiamento inglese «volto a ser rare le file con­servatrici in Europa cont ro i russi, sarebbe stato forse inte­ressante r i tardare l 'applicazione della legge». Mussolini ten­ne du ro . Ma, p u r at teggiandosi a oltranzista con i tedeschi, inviò il figlio Vittorio dall 'arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso Schuster, come latore d ' una propos ta di pace. Al t e m p o del fascismo trionfante, Schuster, il cui aspetto asceti­co nascondeva u n a notevole volontà e capacità di manovra politica, e ra stato t ra gli alti prelat i più «collaborazionisti». Ora pensava soprat tut to alla protezione della sua diocesi, e di Milano, p u r m a n t e n e n d o nella corr ispondenza con il Du­ce un tono deferente, quasi affettuoso. Q u a n d o aveva sapu­to, in febbraio, che si proget tava, negli ambient i di Salò, di fare della metropoli lombarda un caposaldo di difesa dispe­ra ta alla man ie r a di Sta l ingrado, si e ra rivolto a Mussolini supplicandolo pe rché rinunciasse ad un tale proposi to. «La d i s t ruz ione di Milano cost i tu i rebbe un del i t to storico che tutti i secoli condanne rebbe ro . Bisogna salvare la Lombar­dia p e r risalvare l'Italia.» A Schuster fu d u n q u e recapi tato un abbozzo di disegno secondo il quale la pace sarebbe stata possibile, ma a condizioni che - de t t a t e da chi e ra a capo della fatiscente Repubblica di Salò, e vassallo della agoniz­zante po tenza tedesca - appa r ivano , p iù ancora che a r r o ­ganti, sciocche. In base ad esse le Forze Armate di Mussolini av rebbe ro m a n t e n u t o l ' o rd ine fino a q u a n d o n o n fossero sopravvenut i gli anglo-americani; ogni «movimento incon­trollato ed estremista» da pa r t e di «formazioni i r regolar i e di piazza» sarebbe stato cont robat tu to «dalle Forze Armate repubbl icane e da quelle alleate»; il C o m a n d o alleato dove­va impegna r s i a « impedi re che le formazioni pa r t ig i ane svolgano azioni indiscriminate e di rapina e p rovvederanno al loro d isarmo p r i m a delle formazioni regolar i della Rsi»; infine dovevano «immediatamente cessare gli arresti , i p ro -

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cessi e ogni altra forma di persecuzione. . . pa r iment i si gra­d i rebbe conoscere la sorte che avrebbero i m e m b r i del go­verno e quant i h a n n o avuto funzioni di comando nella Rsi». In c o m p e n s o «il Part i to r epubb l i cano fascista si scioglie». Trami te i l nunz io apostolico in Svizzera questi t e rmin i ap­p r o d a r o n o alla Santa Sede, e di là al Quar t i e r genera le al­leato, la cui risposta fu la solita: nessun negoziato, resa sen­za condizioni. I tedeschi si e r ano d u n q u e dimostrati più rea­listi di Mussolini, res t i tuendo agli italiani, con gli interessi, le bugie dell '8 set tembre. A metà marzo R a h n disse a Melli-ni Ponce de Leon, che reggeva il Ministero degli Esteri do­po la mor te di Mazzolini in attesa che vi si insediasse pe r po­chi g iorni Fil ippo Anfuso, r ich iamato da Ber l ino: «Io n o n i n t e n d o segui re l 'esempio e i sistemi che ha usato con me Badoglio. I l Duce p u ò essere sicuro nel m o d o più assoluto che di qualsiasi decisione di abbandono di zone o di qualun­q u e t ra t ta t iva in p ropos i to con i nemici o coi ribelli , n o n manche re i di informarlo . In ogni caso, egli n o n ha che da in t e r roga rmi e io gli r i sponderò con tut ta franchezza». Ma ancora il 14 apri le , q u a n d o Wolff, Vietinghoff e Dol lmann s ' incontrarono a Gargnano con Mussolini, n o n gli fu det to nulla di preciso sul dialogo con Alien Dulles. La posizione dei tedeschi - a lmeno di quelli che non dovessero r isponde­re di crimini di gue r ra - e dei fascisti era ben diversa, e que­sto spiega molte cose. I tedeschi, ufficiali e t r uppa , sapeva­no che, u n a volta r iguadagna ta la Germania o consegnatisi nelle mani degli Alleati, avrebbero dovuto tutt 'al più affron­tare i disagi della pr igionia: ma in Patria nessuno avrebbe p o t u t o r i m p r o v e r a r loro al t ro che d 'aver comba t tu to fino a l l ' es t remo, con eroica risolutezza. I fascisti sapevano che p r o p r i o nel loro paese , e pe r m a n o dei loro connazional i , avrebbero corso i più gravi pericoli, affrontato le più spieta­te vendet te .

Per ques to , come Mussolini , anche molt i alti ge ra rch i e rano all'affannosa ricerca di uscite di sicurezza. «Montagna e Zerbino , Buffarmi Guidi e Tarchi - rivelò Leo Valiani -

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sono tra le decine di gerarchi fascisti che ci fanno sapere (al CLNAI, N.d.A.,) a t t raverso le vie più tor tuose che sarebbero disposti a negoz ia re la p r o p r i a resa.» Lo e ra perf ino l'in­transigente Pavolini. Vi furono avances curiose, come quella di Carlo Silvestri che s'illudeva, ha osservato Ber toldi , «di coinvolgere i socialisti con l'offerta di consegnare loro la so­cializzazione». Certo è che Mussolini avrebbe po tu to fino al­l 'u l t imo salvarsi, qua lo ra si fosse risolto ad a b b a n d o n a r e i seguaci e a trovare scampo solo pe r sé e la famiglia. Il sotto­segretario all 'Aeronautica Ruggero Bonomi aveva disposto che un S79 fosse tenuto p r o n t o al l 'aeroporto di Ghedi (Bre­scia) p e r p o r t a r e i l fuggiasco in Spagna , dove l ' avrebbero accolto i parent i della moglie di Luigi Gatti, il suo ult imo se­gretar io part icolare, che era spagnola. «Per copr i re nel mi­glior m o d o l 'operaz ione e diss ipare ogni sospet to tedesco - ha lasciato scritto Bonomi - avevo provveduto a far iscri­vere i m e m b r i del l 'equipaggio all 'Aeroclub di Ghed i come no rma l i appass iona t i d i volo, m e n t r e e r a n o ga ran t i t e ad ogni istante le scorte di carburante e le possibilità di imme­dia to decollo. . . Que l volo ebbe luogo e que l l ' apparecch io passò rea lmente e senza ostacoli in Spagna; fu esat tamente i l 22 apr i le 1945. S e n o n c h é a b o r d o n o n c 'era Mussolini . Nella car l inga del l 'S79 sedevano quel g io rno i l professor Francesco Petacci, sua moglie e sua figlia Myriam, la moglie dell 'ambasciatore germanico a Lisbona e l 'avvocato Manci­ni, un amico dei Petacci che portava con sé u n a documenta­zione dei crediti italiani nei r iguardi della Spagna. Atterra­rono indenni a Barcellona.»

Mancavano, in questo g r u p p o di famiglia, d u e dei Petac­ci, Claretta e Marcello, rimasti insieme al Duce e destinati a mor i re con lui. Alla sorella Myriam, Claretta aveva affidato u n a let tera-testamento in cui scriveva tra l 'altro: «Io seguo il mio destino, che è il suo. Non lo abbandonerò mai, qualun­q u e cosa avvenga». E a un amico confidò: «Dove va il pa­d rone , va il cane».

La favorita aveva voluto essere accanto a Mussolini, nel-

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l 'ora della disfatta, con u n a abnegazione patetica e suicida, in qualche modo eroica. Nessuno la voleva sul Garda, quan­do la Repubblica sociale vi installò i suoi vertici: n o n la vole­va Rachele, ovviamente , n o n la volevano i fascisti intransi­genti, che a Claretta imputavano la mollezza e l 'imborghesi­mento del Duce, non la voleva il Duce stesso che, debole e ir­resoluto com'era in queste cose, finì pe r cedere alle sue insi­stenze: chiese soltanto che n o n si installasse a Gargnano, ma a qualche distanza, e così fu scelta Villa Fiordaliso che era a quat t ro chilometri dalla residenza di Mussolini, e che appar­teneva all ' industriale Polenghi. A far b u o n a guardia su Cla­re t ta i tedeschi avevano des igna to un ufficiale al toatesino delle SS, Franz Spoegler, ven to t tenne , che finì p e r affezio­narsi a quella donna melanconica e appassionata, sempre in attesa delle r a r e visite del suo Ben così come lo era stata a Palazzo Venezia: solo che ora l 'onnipotente e l ' insonne era il fantasma di se stesso, e Claret ta doveva fargli coraggio. At­torno alla Petacci ribollivano odi e piccole congiure, con Buf­farmi Guidi che si divideva tra la moglie e l 'amante del Du­ce, confidente e complice di en t rambe, e di nessuna.

Vi fu rono , in quel sogg io rno g a r d e s a n o della Petacci, episodi drammatici , episodi melodrammatici , e scene da po­chade. Un giorno, avendo Rachele det to al mari to che «quel­la» passava regolarmente ai tedeschi le lettere ch'egli le an­dava scrivendo, un funzionario di polizia, il questore Emilio Bigazzi Capanni , fu incaricato di perquisire Villa Fiordaliso, e secondo alcune testimonianze la Petacci si oppose addirit­tu ra i m p u g n a n d o u n a pistola. Claret ta scrisse a Ben, d o p o l ' incursione del Bigazzi, che «è la delusione p iù atroce che io abbia avuto da te e dalla vita, aver tanto dato senza aver lasciato nulla...» Ma accadde qualcosa di peggio, poco tem­po d o p o (era l 'o t tobre del 1944). Rachele , t an to p iù forte quanto più Mussolini e ra vulnerabile e frastornato, si risolse ad aggred i r e la rivale nel suo rifugio, facendosi accompa­gnare pe r la bisogna da Buffarmi Guidi e da alcuni tipi fida­ti. Spoegle r t en tò di bloccare il «commando» al cancello,

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m e n t r e Buffarini Guidi , m a d i d o pe r la pioggia che cadeva fitta e pe r il sudore , teneva pe r la gonna Rachele che, furio­sa, accennava ad a r r ampica r s i , n o n o s t a n t e la mole , sulle sbarre di recinzione. Finalmente Claretta fece en t ra re i visi­tatori, e Rachele l 'abbordò con u n a bat tuta sarcastica: «Che cosa siete voi? Signora o signorina?». Della conversazione, che in alcuni m o m e n t i d ivenne al terco, in altri scenata, in altri ancora quasi confidenze tra d o n n e t radi te (è tipico di queste situazioni), n o n vale la p e n a di r iferire mol to . Essa ricalcava i luoghi comuni , e li ricalcò anche la telefonata che Mussolini, preoccupato , fece m e n t r e le sue d u e d o n n e era­no insieme, ing iungendo a Rachele di piantarla, e di torna­re a casa. Il r eper to r io di Rachele era quello classico: «Che eleganza! Veste p r o p r i o b e n e la m a n t e n u t a ! Ecco come si veste la m a n t e n u t a di un capo di Stato! E guarda te me che me lo sono sposato». I l Capo del fascismo m o r e n t e n o n te­lefonò a Claret ta né r incasò p e r incont ra re Rachele quella sera; trascorse la not te su u n a b r a n d a in ufficio.

Poco altro c'è da d i re sul soggiorno ga rdesano della Pe­tacci. Si trasferì a un cer to p u n t o , p e r motivi di sicurezza, dalla Villa Fiordaliso nella Villa Mirabella, situata all ' inter­no del Vittoriale dannunz iano ; pa re avesse anche propos to il fratello Marcello e l'avvocato Mancini pe r d u e cariche im­por tan t i nel governo di Salò (addir i t tura il Ministero delle Finanze e il Ministero della Pubblica Istruzione) provocan­do u n a reazione sdegnata di Mussolini. Ma ormai queste co­se n o n con tavano , e in fondo Clare t ta lo sapeva. Q u a n d o Mussolini lasciò Ga rgnano p e r la Prefe t tura di Milano, in­g i u n g e n d o alla Petacci di n o n muovers i , lei n o n intese ra­gioni, si precipi tò a sua volta a Milano, e subito telefonò al Duce, che le suggerì di rifugiarsi in Spagna con la famiglia. Il no di Claretta fu perentor io .

I tedeschi e il card ina le Schuster speravano che Mussolini restasse quieto sul lago ad aspet tare gli eventi che precipita­vano, senza creare problemi. Lo sperava Wolff, pe r il quale

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la Repubbl ica fascista e ra d ivenu ta , nel negozia to e nella proget ta ta ritirata verso l'Alto Adige, u n a zavorra inutile: lo sperava Schuster che sapeva, lo si è det to, come il Duce p ro ­gettasse un r i to rno a Milano, la città del fascio pr imigenio: un r i t o r n o alla culla ne l l 'o ra del la m o r t e . Ma Mussolini a Milano poteva significare combatt imenti , distruzioni, lutti e complicazioni . Tuttavia il capo del fascismo covava la sua idea, e l 'andava concre tando: perché a Milano, pensava, po­teva essere ragg iun to , t ramite la Curia , un eventuale com­promesso, e da Milano le t r u p p e della Repubblica avrebbe­ro po tu to p u n t a r e sul r idot to valtellinese. Un comando po­litico-militare italiano a Sondr io avrebbe dovuto r i m a n e r e in co l l egamento con i l Q u a r t i e r gene ra l e tedesco in Alto Adige, tut te le forze sparse del fascismo di Salò si sarebbero r iun i t e in un eserci to r ego la re d i 30-50 mila uomin i , u n a t r e n t i n a di emissar i inviati in Svizzera av rebbe ro d o v u t o provvedere a creare u n a «centrale fascista» e a costituire un fondo di valuta es tera . Il p r o g e t t o sarebbe stato folle - di fronte alla s t rapotenza alleata - anche se avesse avuto qual­che possibilità d i a t tuaz ione . Ma n o n ne aveva nessuna . Q u a n d o Pavolini lo illustrò a Vietinghoff e Wolff, il p r i m o obbiet tò che e ra difficile d a r e a d e g u a t a p r e p a r a z i o n e alla raccolta di quella massa di t ruppe ; il secondo l 'approvò ma «dimost rando scarso interesse». Sapp iamo pe rché . Grazia­ni, presente , n o n si faceva illusioni tanto che q u a n d o Rahn, con scarso tatto, gli aveva fatto d o n o qualche t e m p o p r ima d 'una pistola d 'ant iquariato, aveva supposto che si trattasse di un implicito invito al suicidio.

La matt ina del 16 aprile il Duce annunc iò ai ministri riu­niti la imminen te par tenza pe r Milano. Alle sette di sera del 18 aprile un convoglio di cinque automobili con un furgone p e r i bagagl i , e un r e p a r t o delle SS come scorta, si mosse dal Garda diret to alla Prefettura di corso Monforte. Musso­lini aveva rifiutato la Villa Reale di Monza, un po ' perché vi era mor to U m b e r t o I , e gli pareva un soggiorno di malau­gurio, un po ' perché la Prefettura era vicina all'Arci vesco va-

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do. Rahn , che insisteva ancora pe rché rinunciasse a trasfe­rirsi, spiegando che Milano poteva diventare una t rappola, si sentì r i spondere che di lì era più facile aprirsi u n a strada verso la Valtellina per l 'ultima resistenza. In quel suo prov­visorio ufficio, vigilato da sentinelle tedesche, il Duce tenne u n a serie di febbrili r iunioni e colloqui legati alle uniche al­ternative che o rmai gli si offrivano: o una «soluzione italia­na», ossia un accordo con il CLNAI, O la fuga in Svizzera, o il r idotto montano della disperazione.

P rop r io m e n t r e Mussolini ar r ivava a Milano gli Alleati avanzavano a ventaglio, p iombando a est su Ferrara , Vero­na e Padova, m e n t r e al centro le forze di Clark, disceso l'Ap­penn ino , pun tavano su Modena e Bologna dove l 'onore di e n t r a r e pe r p r imi sarebbe toccato agli italiani del g r u p p o Legnano. L'offensiva n o n incontrava ostacoli seri, tanto che la mat t ina del 21 - q u a n d o gli Alleati varcarono il Po - Gra­ziani, in u n o dei tanti conciliaboli, aveva commenta to : «Se sono abbastanza audaci possono essere qui domani».

Tut to crollava. I l g io rno p r ima , 20 apr i le , Hi t ler aveva celebrato il suo cinquantaseiesimo compleanno . Dal Bunker della vecchia Canceller ia , dove viveva o rma i r i n t ana to da tre mesi, era salito fino al cortile e vi aveva passato in rivista un picchetto d 'onore : duecen to ragazzi della Hitler-]ugend, tutti fra i 14 e 16 anni . Imbacuccato in un pas t rano militare, col bavero alzato, il Fùh re r andò loro incontro con passo in­certo, si fermò a par lare con alcuni e al più piccolo diede un buffetto sulla guancia. Poi ridiscese nel sot terraneo da dove non sarebbe uscito mai più. Vi fu un breve rinfresco cui par­tec iparono tut te le alte gera rch ie del Reich: Gòr ing , Gòb­bels, Himmler , R ibben t rop , Speer, B o r m a n n , Keitel, Jod l , Doeni tz e il n u o v o capo di stato magg io re del l 'eserci to Krebs. Gòbbels ammise che tutto era finito e che ai capi del nazismo n o n restava che immolarsi tra le macerie di Berli­no . Ma Hit ler contava ancora sul cosiddetto G r u p p o d'Ar­m a t e Steiner che operava in Baviera e avrebbe po tu to ac­cor re re verso nord . Tracciò quindi un piano in base al qua-

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le Doenitz avrebbe dovuto assumere il comando della Ger­mania nord-occidentale non ancora occupata, e Kesselring quello della Baviera e dell'Austria. Steiner si sarebbe lancia­to al salvataggio di Berl ino. Non e r a n o che favole. A sud i russi avevano oltrepassato Vienna, a ovest gli Alleati avanza­vano su Monaco di Baviera. E il g r u p p o di a rmate Steiner si e ra dissolto una sett imana pr ima.

Hitler delirava, e Mussolini tentennava. Almeno per quan­to r iguardava lui e i gerarchi più famosi, o famigerati, la pro­spettiva del l 'espatr io in Svizzera svanì pres to . Il 20 apri le Mellini Ponce de Leon ebbe incarico di sondare il consigliere commerciale elvetico a Milano - in effetti un ambasciatore uf­ficioso - signor Troendle e di domandargl i quale sarebbe sta­to l 'a t teggiamento del suo governo «in caso si determinasse una situazione minacciosa» pe r la vita dei gerarchi e dei loro familiari. La sollecitazione ebbe accoglienza fredda. Troendle r i tenne «né materialmente possibile né consigliabile di inizia­re una procedura pe r ot tenere un visto vero e proprio». Ag­giunse a titolo personale che «le famiglie delle personalità po­litiche - donne e bambini - in qualunque momento si fossero presentate alla frontiera svizzera sotto una minaccia seria ed immediata per la loro sorte sarebbero state fatte entrare». Al­tro discorso per le personalità politiche, che potevano essere accolte «purché n o n siano del inquent i comuni» ma che co­m u n q u e dovevano essere indicate in una lista da consegnare al dipart imento federale che avrebbe deliberato in merito. In quei frangenti , e con il r i tmo che gli avveniment i avevano preso, era un larvato rifiuto.

Chiusa la via svizzera, restava quel la di un pa t to con il Comita to di Liberazione Nazionale t rami te la Curia . Delle intenzioni e iniziative di Schuster si è già det to. Bisogna tut­tavia agg iungere che il cardinale aveva intessuto, parallela­mente a quella con Mussolini, u n a t rama con il solito Wolff, al quale era stato sottoposto un p iano che mirava, come gli altri, a salvaguardare Milano, la sua popolazione e le sue in­dustr ie , e che promet teva l 'azione della Curia «per persua-

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dere i g ruppi d 'opposizione e par t icolarmente i partigiani a non fare alcuna azione contro i tedeschi p r ima e d u r a n t e la loro ritirata», con l 'avvertimento tuttavia che «questo si rife­risce solo ai tedeschi, n o n ai fascisti». E Wolff aveva da to a Schuster affidamenti, lasciandogli addir i t tura c redere di po­ter venire a Milano pe r f i rmare la resa, deciso invece a fir­marla , sì, ma nei confronti degli Alleati, che in quei giorni tergiversavano intimiditi dal veto di Mosca. Altro p u n t o di r i fer imento essenziale della situazione era il CLNAI: ma pe r e saminarne il compor t amen to , le perplessità, le divisioni e le decisioni dobb iamo fare un al tro dei f requent i passi in­dietro in questa storia fitta di vicende parallele.

La Resistenza, nei pr imi mesi del 1945, n o n era più un fatto militare n e p p u r e nella misura in cui lo era stata p receden­t e m e n t e . Era sol tanto un fatto polit ico. Gli e sponen t i dei partiti di sinistra - in particolare comunisti e azionisti - ave­vano un p roge t to preciso: t ravasare la s t ru t tura , gli equili­bri, le finalità del CLNAI nello Stato italiano, e far camminare il paese, a totale liberazione avvenuta, sui binar i tracciati al nord . Gli Alleati avrebbero dovuto limitarsi a fiancheggiare e garant i re , con la loro presenza, un 'azione politica e ammi­nistrativa che, nonostante i cauti riconoscimenti formali, era contro la linea degli Alleati stessi, contro la linea del gover­no legale, e con t ro la p romessa di lasciare i rr isol to p e r il m o m e n t o il p rob lema istituzionale. Così, q u a n d o alla metà di febbraio del 1945 i comandi delle formazioni garibaldine e di Giustizia e Libertà p roposero la «unificazione» dei par­tigiani, ossia la r inuncia alle etichette di par te , e la trasfor­mazione dei vari nuclei in repar t i di un vero esercito, la p ro ­posta appa ren t emen te apartitica aveva un profondo signifi­cato partitico. Longo - che p r o p u g n a v a questa concezione, e aveva anche forza sufficiente pe r t en ta re di imporla - sa­peva che quell 'esercito part igiano spoliticizzato sarebbe sta­to in effetti un esercito a disposizione del Partito comunista. Ove questo esercito fosse stato travasato, come elemento do-

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minante e maggiori tario, nelle Forze Armate regolari del ri­nato Stato italiano, il PCI avrebbe raccolto un frutto immen­so - specificamente politico - dalla Resistenza.

La manovra e ra abile, ma anche molto evidente . Ne af­ferrò tutte le possibili implicazioni il generale Cadorna , che constatava q u o t i d i a n a m e n t e q u a n t o poco valore avesse la sua carica di comandan te militare: intanto perché c'era po­co da c o m a n d a r e , o rma i , e poi p e r c h é i v icecomandan t i , sorret t i dai parti t i , ignoravano o ostacolavano o cont raddi ­cevano i suoi ordini . Per C a d o r n a il CLNAI e ra una emana­zione del potere di Roma, e inoltre un organismo vincolato da obblighi di lealtà verso gli anglo-americani: pe r comuni­sti, socialisti, giellini era l 'elemento de te rminan te di un nuo­vo corso, il già accennato «vento del nord».

Lo scontro sfociò in u n a crisi. Cadorna si dimise con mo­tivazioni aspre: «Ho colto al volo l'occasione favorevole, che at tendevo da un pezzo, pe r most rare che, se da un lato com­p r e n d o le esigenze di t ransazione in questo comando assai più politico che militare, dall 'altro n o n in tendo farmi mena­re per il naso come un bura t t ino ed avallare, col credito del­la mia pe r sona , cer te m a n o v r e dei part i t i . So lamente se i l CLNAI mi da rà serie garanzie r i p r e n d e r ò il mio posto . Co­m u n q u e lo r i p r ende rò a testa alta... Non in tendo assumere la responsabili tà della anarchia che r egna nelle formazioni pe rché i maneggi dei parti t i d is t ruggono il principio di au­torità in tutta la gerarchia».

Il dissidio fu composto laboriosamente, e Cadorna si im­p e g n ò a r ispet tare le dirett ive del CLNAI «purché esse con­cordino con quelle degli Alleati e del governo italiano». Ma era un ra t toppo . Nella Resistenza o g n u n o lavorava pe r sé, o rma i . E i comunis t i l avoravano p e r il fu turo polit ico del part i to.

Con iniziativa au tonoma il PCI aveva d i ramato il 10 apri­le le «direttive pe r l ' insurrezione» in base alle quali, ricono­scendo che «l'esercito tedesco è in rotta disordinata su tutti i fronti», avvertiva che «anche noi dobbiamo scatenare l'assal-

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to definitivo... Non si tratta più solo di intensificare la guer­riglia ma di p r e d i s p o r r e e sca tenare vere e p r o p r i e azioni insurrezionali». Ancora ammoniva , la dirett iva comunis ta , che «per nessuna ragione il nostro part i to e i compagni che lo rappresentano. . . devono accettare proposte , consigli, pia­ni tendent i a limitare, a evitare, impedi re l ' insurrezione na­zionale di tutto il popolo». Quan to agli Alleati anglo-ameri­cani, «dobbiamo essere intrattabili sul p u n t o della necessità dello sca tenamento della lotta insurrezionale di tutto il po­polo». Un'ossessione, questa di n o n lasciar p e r d e r e la gran­de occasione, che comportava odio profondo verso gli «atte­sisti», ossia verso coloro che consideravano inutili sul p iano militare altri lutti e rovine, e ingenuo o velleitario sul p iano politico il tentativo di r idare all'Italia una verginità antifasci­sta acquistata men t r e Hitler stava pe r immolarsi nel Bunker di Berlino e Mussolini era finito.

Nella sua storia della Resistenza, Rober to Battaglia ha riassunto con foga tribunizia il pun to di vista comunista defi­n e n d o «rete d'intrighi, vero e p ropr io nido di vipere che de­ve essere schiacciato decisamente» ogni tesi anti- insurrezio-nale. Il Battaglia riconosce che «la liberazione d'Italia si inse­risce tra gli avvenimenti già scontati sul p iano militare» ma aggiunge che ne restava impregiudica to «il m o d o , decisivo pe r l'avvenire del nostro paese». Quello che esaminava pro­poste e trattative di resa era d u n q u e un CLNAI ufficialmente unitario e sostanzialmente diviso, anche se andava adot tan­do provvediment i di r igore rivoluzionario: come quello se­condo cui Mussolini e i suoi gerarchi avrebbero dovuto esse­re considerat i cr iminali di gue r r a , e c o n d a n n a t i a mor t e . Tuttavia, p ronuncia ta la sentenza, i delegati del CLNAI si in­contrarono ancora con il maggiore tra i criminali di guerra .

Nella Prefe t tura , a t t o rno alla quale e ra stato crea to un r u d i m e n t a l e sistema di reticolati e fortificazioni ch iamato pomposamen te «il quadrilatero», dove il Duce affermava di sentirsi «a casa sua», quei giorni preziosi p r ima dell 'epilogo furono sprecati in chiacchiere, con r iunioni militari che n o n

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decidevano nulla, ma p rendevano semplicemente atto della inarrestabile avanzata alleata e della disgregazione delle for­ze fasciste, e con Consigli dei ministri - a lmeno quelli p re ­senti - dei quali il titolare della Educazione nazionale Biggi­ni ci ha lasciato, in un diar io pubblicato molto d o p o la sua mor te , un resoconto che è, nella sua aridità, p iù e loquente d ' una descrizione appassionata.

«Alle ore 11 - è il 22 aprile 1945 - mi sono recato in Pre­fet tura in ud ienza dal Duce. In an t icamera , m e n t r e a t ten­devo di essere ricevuto pe r i l consueto r appor to , ho parlato della situazione militare, aggravatasi con la perdi ta di Bolo­gna, e di quella politica, con il maresciallo Graziani , con i minis t r i Pavolini, Zerb ino e Mezzasoma, con la medagl ia d 'oro Borsani, con Gemelli sottosegretario alla Marina, con vari capi provincia e con altre personalità. Ricevuto dal Du­ce ho conferito con lui a t torno alle cose più urgenti ; la nuo­va legge sui maestri , definitivamente concordata e approva­ta, u n a comunicaz ione da fare alla rad io su q u a n t o da me realizzato in ques t 'u l t imo a n n o p e r il c o m p l e t a m e n t o e il po tenz iamento del l 'Universi tà di Trieste...» Giorgio Bocca r i corda che «il gene ra l e Diamant i sceglie p r o p r i o ques ta g iorna ta (24 apri le) p e r p r e s e n t a r e a l Duce suo f igl io che desidera u n a foto con autografo; i dirigenti della RAI vengo­no a sot toporgl i un p r o g r a m m a di lavori; i l commissar io della M o n d a d o r i gli p r e sen ta un libro di Settimelli, Trenta anni di commenti a Mussolini». Il quale Mussolini dimostrava, come rileva il suo medico tedesco dot tor Zachariae, «un'as­soluta mancanza di energia e di intelligenza». Non mangia­va e n o n dormiva quasi più. A un g r u p p o di fascisti r aduna ­ti nel cortile del palazzo si limitò a dire che «l'ora è grave, io posso passare ma voi dovete str ingere i vincoli del camerati­smo», e p romise di da re ord in i adeguat i al federale Costa: ma poi si limitò ad assistere alla proiezione di un documen­tario sulla sua visita a Milano in dicembre. Ancora il 24 apri­le giunse in Prefettura un messaggio di Hitler, l 'ultimo della lunga corr ispondenza tra i d u e dittatori.

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«La lotta p e r l 'essere e il n o n essere ha ragg iun to il suo p u n t o culminante . Imp iegando grand i masse e materiali i l bolscevismo e il g iuda i smo si sono impegna t i a fondo p e r r iunire sul terr i torio tedesco le loro forze distruttive al fine di precipi tare nel caos il nostro continente. Tuttavia nel suo spiri to di t enace sprezzo della m o r t e i l popo lo tedesco e quant i altri sono animati dai medesimi sentimenti si scaglie-r a n n o alla riscossa, per quanto d u r a sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno muta re il corso della guer­ra in questo storico momen to in cui si decidono le sorti del­l 'Eu ropa pe r i secoli a venire». Ins i eme a ques to e s t r emo sproloquio, un po ' amletico e un po ' invasato, l'alleato tede­sco fece arr ivare alla Repubblica sociale, t ramite l'ambascia­tore Rahn, u n a delle sollecitazioni burocrat ico-amministra-tive alle qual i i sacerdot i della scartoffia n o n r i n u n c i a n o n e p p u r e sull 'orlo dell'abisso. Un a p p u n t o che Mellini Pon­ce de L e o n t rasmise a Mussolini il 25 apr i le spiegava che «l 'ambasciatore R a h n ha p r e g a t o d i farvi p r e sen t e , Duce , come un rifiuto del governo italiano a pagare il contr ibuto di gue r ra in questo momen to avrebbe, dopo tanti sforzi fat­ti in comune , il risultato di creare u n a sfavorevole atmosfe­ra in tut to l 'ambiente militare germanico». Par di sognare.

Il 25 apr i le I ldefonso Schuster, arcivescovo di Milano, s'illudeva di sovrintendere, con la sua abilità di media tore e con la sua autori tà di principe della Chiesa, alla resa dei te­deschi . Aveva inviato in ma t t ina ta un messaggio a Wolff spiegandogl i di po te r convocare «in qualsiasi momento» le al tre par t i , ossia in definitiva il CLNAI, p e r da re esecuzione alle proposte della Curia, da tutti ormai accettate. L'atto n o n poteva essere differito. «Per favore - ammoniva la lettera di Schuster - dite l 'ora precisa e le persone incaricate di firma­re pe r i tedeschi. Per il luogo: l'Arcivescovado a n d r à bene.» Ma n o n si poteva p ro roga re la firma, insisteva Schuster, ol­tre le sei del pomeriggio. Q u a n t o a Cadorna aveva già fatto sapere d'essere p ron to a firmare alle d u e precise. Wolff ave­va tu t t ' a l t re intenzioni , e doveva trovarsi a Bolzano pe r la

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fase definitiva delle trattative con gli Alleati. Tuttavia inca­ricò il suo rappresen tan te a Milano colonnello Rauff di an­nunc ia re che in serata sarebbe stato (lui Wolff) a Milano. I fascisti n o n e r ano previsti, come protagonis t i di questa so­l enne capi tolazione. Ma vi s ' inser i rono grazie ai manegg i del l ' industr iale Riccardo Cella, che da Mussolini aveva ac­quistato i macchinari e l'edificio del Popolo d'Italia e che si ri­volse a Marazza, esponente democrist iano del CLN, p e r sol­lecitare un incontro t ra Mussolini e i capi della Resistenza. Questi ultimi acconsentirono, in linea di massima. E il Cella la mat t ina del 25 aprile riferì in proposi to al Duce, che ave­va incaricato Zerb ino e M o n t a g n a di i n t r a p r e n d e r e passi pe r un passaggio dei poteri , ma che ora si risolse ad agire di persona. Il futuro si stava colorando di sangue per i fascisti, e già si aveva notizia di ammazzament i indiscriminati nelle città liberate dagli Alleati o dall ' insurrezione part igiana, che stava d i lagando. C inque giorni p r i m a e ra stata del iberata , dal Comi ta to di Liberaz ione , l ' ist i tuzione di Tr ibuna l i s traordinari .

Nelle p r ime ore pomer id iane del 25 aprile - le t re all'in-circa - Mussolini lasciò la Prefet tura su una vet tura di r ap ­presentanza , dignitosa e ant iquata , che era stata inviata da Schuster. E rano con lui il prefet to Bassi, il sot tosegretar io alla p res idenza Bar racu , Zerb ino , e Cella: a l l 'u l t imo mo­mento si aggregò un tenente delle SS che - anche qui in ob­bedienza alla routine - n o n volle dividersi dal l 'uomo che era stato incaricato di p ro teggere , e s'infilò a forza sulla limousi­ne «sedendo quasi sulle ginocchia di Mussolini». Graziani , che aveva saputo del colloquio, e sconsigliato a Mussolini di par tec iparvi , seguì in r i t a rdo . La si tuazione era equivoca, pe rché Schuster credeva di avere nel suo s tudio i p lenipo­tenziari part igiani , tedeschi e fascisti, Mussolini credeva di anda re a pat teggiare , il CLNAI - che aveva designato a r ap ­presentar lo Cadorna , Marazza e Lombard i - credeva di ri­cevere la resa incondiz ionata di tedeschi e fascisti. Poiché Mussolini aveva p recedu to tutti, Schuster fu costretto a in-

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t ra t teners i con lui in un tu p e r tu imbarazzante e penoso . Tanto p e r p r e n d e r t e m p o , i l ca rd ina le assicurò Mussolini che «gli onesti avrebbero riconosciuto il valore del suo po­s tumo gesto». Poi par la rono di varia umani tà , t ra l'altro del­le relazioni t ra Stato e Chiesa du ran t e il ventennio. «Veden­dolo un po ' depresso - rivelò poi Schuster, e n o n si p u ò dire mancassero motivi p e r quella depress ione - insistei pe rché gradisse a lmeno un po ' di conforto. Egli pe r cortesia si in­dusse ad accettare un bicchierino di rosolio con un biscot­to.» In questa atmosfera felpata la conversazione p rosegu ì s tentatamente, Schuster fece dono a Mussolini di u n a vita di San Benedet to . Finalmente si passò a pa r la re del presente , e il Duce illustrò il suo proget to di sciogliere l ' indomani l'e­sercito e la Guardia nazionale repubblicana, e di ritirarsi poi con tremila fedelissimi in Valtellina. «Ella ha in tenzione di cont inuare la guer ra sulle montagne?» s'informò il cardina­le, e Mussolini, con u n a sorta di candore : «Ancora p e r un poco poi mi a r renderò» . Q u a n d o Schuster, affabile ma n o n disposto a lasciar passare affermazioni t emera r i e , osservò che tremila decisi a tutto n o n e rano facili da t rovare, e che forse era più ragionevole contare su 300, Mussolini ebbe un sorriso malinconico. «Forse sa ranno un po ' d i più ma n o n di molto. Non mi faccio illusioni.» In t an to nel l ' ant icamera Graziani schiumava pe r ché il prefet to Bassi aveva appreso - r iferendogliene immedia tamente - che i tedeschi trattava­no da tempo. Ma il Cella, con ostentazione d'ott imismo lom­bardo , volle far capire che a tutto c'è r imedio: «Animo, ma­resciallo! Oggi è u n a g rande giornata. Ora g iungerà anche il generale Wolff e sarà firmato l'armistizio».

Dopo che Mussolini aspettava da un 'ora abbondante , ar­r ivarono i delegati del Comitato di Liberazione, che entra­rono nello studio di Schuster, seduto su un divano accanto a Mussolini, e si accomodarono , senza saluti e presentazioni , a un lato del tavolo: all'altro presero posto i fascisti. Uno del CLN - non è ben chiaro se Marazza o Lombard i - avvertì che ai fascisti poteva essere concessa solo la resa incondizionata,

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e che i t e rmin i di essa dovevano essere accettati en t ro d u e o re . Le forze fasciste si sa rebbero dovu te concen t r a r e nel t r iangolo Milano-Como-Lecco. A questo p u n t o - e il Duce pa reva incline ad acconsent i re - si in t romise Graziani p e r dire del negoziato tedesco, Mussolini s'infuriò e minacciò di denunc ia re pe r radio «il t radimento», Schuster esortò alla calma. Mussolini e i suoi si c o n g e d a r o n o p r o m e t t e n d o di dare una risposta en t ro un 'ora , liberi com'erano da ogni ob­bligo di lealtà d o p o il colpo basso dei tedeschi . Riccardo L o m b a r d i n o n c rede t t e alla sorpresa di Mussolini, che «si espresse con parole acri quando apprese (o finse di appren­dere , perché era impossibile che egli non sapesse) le tratta­tive dei tedeschi, e disse che avrebbe protestato». Retrospet­t ivamente , riesce diffìcile capi re quale i m p o r t a n z a avesse, men t r e l 'universo nazifascista veniva polverizzato, chi e co­me avesse trattato, e con chi.

Nell 'Arcivescovado i delegati della Resistenza aspet taro­no la risposta di Mussolini, ed ebbero intanto u n a ennesima - e come le p r eceden t i falsa - conferma dai tedeschi circa l ' intenzione di Wolff di venire a Milano. Solo che l 'appunta­m e n t o con lui doveva essere rinviato a l l ' indomani . Ques te tergiversazioni accrescevano, tra i capi del CLN, le incertezze e anche i contrasti. Sandro Pertini, che nel Partito socialista impe r sonava l'ala più in t rans igen te , s apu to de l l ' incon t ro nello s tudio del cardinale , p roc lamò a g ran voce che ogni negozia to e ra impensabi le e che Mussolini doveva essere considera to un pr ig ion ie ro d i g u e r r a «da consegnare poi , forse, agli Alleati». Poco d o p o le 8 di sera ci si decise a te­lefonare dall 'Arcivescovado in Prefet tura pe r sapere quale fosse la risposta del Duce. Il prefetto Bassi rispose che Mus­solini era già part i to; il «quadrilatero» era ormai sguarni to. I tedeschi t ennero in piedi anche l ' indomani la messinscena de l l ' imminente arr ivo di Wolff, e Schuster p r e p a r ò inutil­m e n t e i l discorso che avrebbe a n n u n c i a t o , la sera del 26 aprile, la fine delle ostilità in Italia.

To rna to in Pre fe t tu ra dal l 'Arcivescovado, Mussolini si

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chiuse nel suo ufficio, n o n p r i m a p e r ò d 'essersi scagliato con t ro Cella, minacciandolo add i r i t tu ra di fucilazione per­ché quel convegno era stato un inganno: «Volevano giunge­re un icamen te alla mia ca t tura e a un altro 25 luglio». Era ossessionato dall ' idea del t rad imento : «Qui mi si vuole a r re ­stare un 'a l t ra volta». S tando a u n a test imonianza del gene­rale Diamant i , medi tò il suicidio, e t r a endo da un cassetto una rivoltella disse: «A me ci penso io». Era smarri to, irreso­luto, ma poi agiva d ' impulso, come spinto da una oscura fa­talità. Buttò giù due lettere, le sue ultime, a Carlo Silvestri e a Miglioli - l 'uno e l 'altro interpret i dell'ipotesi «ponte», os­sia di un passaggio morb ido dalla Repubblica sociale ai so­cialisti resistenziali - infine alle ot to di sera, sollecitato da Pavolini, decise: «Andiamo!». Un saluto r o m a n o pe r i fedeli, qua lcuno dei quali invocava «non par t i re , n o n lasciarci so­li», qu ind i salì di scatto sul l 'auto. Aveva accanto a sé Bom­bacci, che portava con sé soltanto una valigia molto piccola, e a Vittorio Mussolini che se ne stupiva spiegò: «E di che al­t ro c'e bisogno? Sono esperto di queste cose, e ro nell'ufficio di Len in a Pie t roburgo q u a n d o le t r u p p e bianche di J u d e -nic avanzavano sulla città e ci p repa ravamo ad abbandonar ­la». Seguivano altre auto, ul t ima la berl ina a gasogeno del­l ' industriale Cella il cui autista, un vecchio milanese che sa­peva fiutare i l ven to , visto che tu t te le macch ine u s c e n d o svoltavano a sinistra, annunciò : «Commendatore , noi voltia­mo a destra», e si al lontanò in direzione opposta. Si ferma­r o n o in Prefet tura , oltre a Bassi, il minis t ro della Giustizia Pisenti e il Capo della polizia, generale Montagna. All'alba il palazzo fu occupato dalle Guard ie di Finanza il cui coman­dante , generale Malgeri, collaborava da t empo con la Resi­stenza. Restavano nuclei abbastanza consistenti ma demora­lizzati di fascisti armati , e i part igiani n o n si stavano ancora muovendo ; e rano cauti, l'Albergo Regina, in qualche m o d o fortificato, e ra sempre in m a n o ai tedeschi, e si temeva che i repar t i fascisti superstiti fossero in grado di tentare qualco­sa. Le p r i m e formazioni par t ig iane e n t r a r o n o in Milano il

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28 aprile alle 17,30: e rano seicento uomini provenient i dal­l 'Oltrepò Pavese. Mezz'ora d o p o sopraggiunsero, dall 'Osso-la, uomini dell 'ottava brigata Matteotti, con l'avvocato Anto­nio Grepp i che si era uni to ad essa da poco, proveniente dal rifugio svizzero, e che d i v e n n e poi s indaco della città. In quegli stessi giorni si assistette alla moltiplicazione dei part i-gianii da 70 mila d ivenut i centomila , e poi t recentomi la . L ' insurrezione gene ra l e d ivampò , in prat ica, q u a n d o n o n c'era più nulla contro cui insorgere.

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CAPITOLO UNDICESIMO

MACELLERIA MESSICANA

Da Milano a Como l 'autocolonna con Mussolini e i gerarchi p rocede t t e senza in toppi , e alle nove di sera del 25 apr i le aveva r a g g i u n t o la sua des t inaz ione: un ' a l t r a Pre fe t tu ra - l 'ultima di questa vicenda - altri inconcludenti conciliabo­li, altre indecisioni fatali. Nel d isordine , t ra l 'andirivieni di armigeri stravolti e di funzionari pallidi di paura , la moglie del prefetto ebbe p u r sempre m o d o di organizzare nel salo­ne, con vasellame di lusso, un pranzo du ran t e i l quale furo­no un 'ennes ima volta discusse le opzioni che si offrivano ai nauf ragh i de l l ' avven tura fascista. Mussolini aveva sciolto dall 'obbligo di fedeltà tutti i suoi seguaci, anche se con i re­par t i fascisti «milanesi» che affluirono nella no t te a C o m o avrebbe p o t u t o t en t a r e efficacemente u n a azione a r m a t a verso la Valtellina, o a lmeno asserragliarsi a difesa fino al­l 'arr ivo degli Alleati che ga loppavano verso le Alpi . Ma in questo frangente - come il 25 luglio - del Duce fu straordi­nar ia sop ra t tu t to l 'abulia, quasi un inconscio des ider io di au todis t ruz ione . N o n l ' autodis t ruzione folle e a suo m o d o epica di Hitler, ma la r inuncia a lottare. Era svuotato di pas­sione politica, e svuotato anche, in qualche modo , di affetti persona l i . Si lasciò i m p o r r e il m o d o , lo scenar io , le circo­stanze e i personaggi della scena finale. Con Rachele par lò pe r telefono (ma qua lcuno asserì che la moglie si e ra fatta b r e v e m e n t e vede re in Prefe t tura) . Rachele Mussolini e ra con i figli minor i , Anna Maria e Romano , a Villa Mante ro , poco distante. Mussolini vi m a n d ò alcuni brigatisti, con l'in­carico di r i t i r a re la sua roba , e r imase a r i m u g i n a r e con i commensali impossibili uscite di sicurezza.

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Buffarmi Guidi suggerì che il g r u p p o tentasse di passare in Svizzera, altri insistette pe r il r idot to valtellinese, non fa­cile da r agg iunge re pe rché della valle si s tavano i m p a d r o ­n e n d o i par t ig ian i . L'asilo svizzero avrebbe consent i to a Mussolini n o n sol tanto di salvare la pelle, ma anche di «spendere» nel migliore dei modi la sua merce di scambio, document i vari, e in part icolare le let tere che Churchil l gli aveva inviato du ran t e i mesi della cobelligeranza italiana. Di quei document i molti e rano informati, tanto che il rozzo ca­po della Muti, Colombo, gli aveva gr idato in faccia: «Duce, se volete anda re in Svizzera pe r i document i , anche in Val­tellina possono essere messi in salvo». Ma gli svizzeri, già lo sappiamo, n o n e r ano inclini ad accollarsi visitatori ingom­branti , tanto che Rachele si vide rifiutare l 'ingresso a Ponte Chiasso. Buffarini Guidi, fervido di trovate, aveva escogita­to u n a soluzione: «Sfondiamo la sbarra di confine con l'au­tomobile e una volta di là ci tengono». Mussolini non si p ro ­nunciava. Non s'era voluto servire del l 'aereo che l 'avrebbe po r t a to in Spagna p e r n o n a b b a n d o n a r e i suoi fedeli, ma poi f in ì p e r abbandona r l i e g u a l m e n t e , in u n a fuga incoe­ren te e avvilente.

Da Como si trasferì d' improvviso, l ' indomani pr ima del­l'alba, a Menaggio, dove ancora vagolò incerto, men t r e i ge­rarchi lo tallonavano dubbiosi, ma incapaci di t rovare solu­zioni diverse, e Pavolini por tava di rinforzo un p u g n o di mi­liti e un au tocar ro ar t ig ianalmente corazzato e t rasformato in autobl indo. Il tenente tedesco Fritz Birzer, cui Hitler ave­va ordinato di non mollare mai il Duce, gli stava alle costole ostinato e implacabile. Vani e r ano stati i tentativi di «semi­nar lo». E vani anche quelli di d is tanziare Clare t ta Petacci che, insieme al fratello Marcello, alla c o m p a g n a di lui Zita Ripossa, e ai nipotini, ritrovava con patetico accanimento le f i la dell ' i t inerario seguito da Ben. Le era stato suggeri to di lasciare Como, dove si era precipitata, di metters i in salvo: n o n ascoltava ragioni , e q u a n d o la vide a Menaggio anche Mussolini , che n o n e ra un sen t imenta le , ne fu toccato:

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«Questa d o n n a , che ha già subito il carcere e che ha perso tutto pe r colpa mia, ha voluto seguirmi anche adesso...».

A Menaggio un fuggiasco di p r imo piano, Rodolfo Gra­ziani, si staccò dalla colonna di Mussolini e di Pavolini p e r r ien t ra re al suo Quar t ie r generale di Mandello Lario: mos­sa furba, o fortunata, che lo salvò. Per gli altri sopravvenne un imprevisto che parve provvidenziale, e fu fatale: o alme­no n o n cambiò quel che doveva avvenire , semmai lo acce­lerò. Nella notte dal 26 al 27 aveva imboccato la s t rada Re­gina, che cor re lungo la sponda occidentale del lago di Co­mo, un repar to della contraerea tedesca, al comando del te­n e n t e Fallmeyer. Si t ra t tava di u n a uni tà ancora o rd ina ta , con numeros i automezzi, decisa a raggiungere l'Alto Adige. Era un aiuto inspera to p e r i fascisti e il loro capo: a lmeno questi tedeschi sapevano dove volevano andare , e come ar­rivarci. E rano anche m e n o esposti dei fascisti agli attacchi dei partigiani, pe r una sorta di tacita intesa. Non sempre es­sa fu r i spet ta ta . Accadde che formazioni della Resistenza - magari quelle dell 'ultima ora - attaccassero repar t i in riti­ra ta che ch iedevano sol tanto d i evacuare t r anqu i l l amen te l'Italia causandovi inutili perd i te e p rovocandone le contro­misure, talvolta spietate. Propr io questo avvenne, ad esem­pio, a Pedescala, frazione di Valdastico in provincia di Vi­cenza, dove il 30 aprile 1945 i tedeschi di u n a colonna che se ne andava - ma erano numeros i in essa i russi e gli ucrai­ni in t ruppat i nella Wehrmacht - furono oggetto di u n a spa­ratoria part igiana. Per rappresaglia s te rminarono 63 poveri innocent i del paese . La medag l i a d ' o ro a l valor mil i tare , conferita recen temente pe r quell 'episodio a Pedescala, è sta­ta rifiutata da molti dei suoi abitanti , i quali g iudicano l'a­zione dei part igiani insensata e provocatoria. «Spararono e poi spar i rono» , così un manifesto polemico ha r iassunto questa pagina tragica, simile a molte altre.

Consul ta tos i b r e v e m e n t e con i suoi fidi, il Duce decise d u n q u e che convenisse pors i - ancora - sotto lo scudo te­desco. E r ipe t è a Clare t ta , che suppl icava d 'essere p r e s a

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con lui, di anda r sene , di scappare . S'avviò così u n a nuova più solida colonna a rmata , in testa l 'autoblindo di Pavolini, poi Birzer ( raggiunto dal maggiore Ot to Kisnatt, ch 'era suo super iore) e la scorta di SS, e d ie t ro in fila le au to di Mus­solini e dei gerarchi e i camion della Flak, la cont raerea te­desca. A un cer to p u n t o Mussolini, che n o n abbandonava mai d u e borse con incar tament i e valuta, si trasferì sull 'au-tob l indo d i Pavolini . S u p e r a t a u n a curva , poco p iù d ' u n chi lometro p r i m a dell 'abitato di Musso, l 'automezzo di te­sta fu bloccato da u n o s b a r r a m e n t o di t r onch i d ' a lbe ro e p ie t re collocato dai part igiani che e rano appostat i nei pres­si e che spa ra rono u n a raffica int imidatoria, senza uccidere fascisti o tedeschi , ma facendo secco l 'operaio di u n a cava vicina. Gli insorti appa r t enevano alla 5 2 a brigata garibaldi­na, ed e rano comandat i da Pier Bellini delle Stelle, un gio­vanot to toscano che s 'era trasferito sul lago p e r motivi fa­miliari, e che era provvisto d ' u n titolo nobiliare e d ' un no­me di battaglia, Pedro.

Era ormai piena matt ina - circa le 7,30 - e la radio aveva dato notizia della insur rez ione milanese cont ro i fascisti (o con t ro il nulla) . N o n i n d u g e r e m o sui laboriosi e diffidenti conciliaboli che gli ufficiali tedeschi in t rapresero con Pedro, m e n t r e tra i gerarchi maggiori e minor i dilagava il t imore, poi il panico, tanto che alcuni cercarono rifugio presso gen­te del posto, offrendo in ricompensa dena ro e gioielli. Per i fedelissimi n o n v 'era scampo, già e rano stati catturati Buffa­rini Guidi e Tarchi che s 'erano incaponit i a voler ragg iun­gere la frontiera svizzera, Pavolini con la sua autobl indo si dibatté come un animale in gabbia e insieme a lui la meda­glia d 'oro Barracu e altri; si r i t rovarono poi tutti sul lungo­lago di Dongo, pe r morirvi . L'unico che i tedeschi si preoc­cupassero ormai di p ro teggere era Mussolini, che fu indot­to da Birzer a indossare un p a s t r a n o da capora le e un el­met to della Wehrmacht : maschera ta che doveva consentir­gli di s u p e r a r e i n d e n n e l ' ispezione cui la co lonna sarebbe stata sottoposta, come s'era concorda to , a Dongo. Così ca-

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muffato il Duce si issò pesantemente sull 'autocarro e Claret­ta - ancora lì nonostante le proteste - restò a terra .

A Dongo u n o dei par t ig ian i che esaminavano l ' in te rno dei camion, Giuseppe Negri , incuriosito dal l 'a t teggiamento di un massiccio tedesco che se ne stava accasciato in un an­golo («ubriaco, vino» dicevano gli altri tedeschi) , volle ve­der lo meglio, e r iconobbe «el testùn», il testone. Ne avvertì i l vice-commissario politico della br igata , U r b a n o Lazzaro (Bill), che si fece consegnare da un Mussolini rassegnato il mit ra che teneva tra le gambe e la pistola, una Glisenti. Nel municipio di Dongo fu steso un inventario di quan to il Du­ce aveva con sé: parecchi document i - tra gli altri un dossier intestato a U m b e r t o di Savoia - e poi sterl ine, assegni, un paio d i guan t i , un fazzoletto, u n a mat i ta . Sop ravvenne , m e n t r e i tedeschi r ipa r t ivano l iberati da l l ' i ngombran t e compagn ia , Michele Moret t i (Pietro), fervente comunis ta , che della 5 2 a brigata era commissario politico: e fu stabilito di trasferire il pr igioniero pe r maggior sicurezza a Germasi-no, nella caserma della Guard ia di Finanza. A ta rda sera lo si prelevò di là pe r r ipor tar lo a Como, e fu concesso a Cla­ret ta di r iunirsi a lui. Ma d u r a n t e il tragit to la scorta par t i ­giana cambiò idea: correva voce, nei vari posti di blocco in cui via via il g r u p p o incappava - a Mussolini era stata fascia­ta la testa pe r evitare che venisse r iconosciuto - che gli Al­leati fossero già a C o m o : i lo ro messaggi ch iedevano insi­s tentemente «l'esatta situazione di Mussolini» come premes­sa alla sua «consegna».

Fu p e r t a n t o de l ibera to dai ca t tu ra to r i e carcer ier i di Mussolini - Bellini delle Stelle, Luigi Canali (Neri), Moretti , Giuseppina Tuissi (Gianna) - di far marcia indie t ro , e rico­vera re il pr ig ioniero , insieme alla Petacci, nella cascina dei contadini De Maria, che ai par t igiani avevano da to rifugio in passato: un fabbricato rust ico a mezza costa, in località Giulino di Mezzegra. In quel modèsto casolare, nello stesso let to, l ' ex-di t ta tore e l 'ex-favorita, t rascorsero p r ig ion ie r i l 'ultima notte della loro vita (ma anche la p r ima in cui fosse-

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ro stati insieme: a Claretta, Mussolini aveva sempre conces­so soltanto i ritagli del suo tempo) .

Ment re Mussolini pe reg r inava sotto sorveglianza da un paese all 'altro, da u n a pr igione provvisoria all'altra, la noti­zia della sua cat tura giungeva - era il t a rdo pomeriggio del 27 aprile - a Milano, nel comando del Corpo Volontari del­la Libertà. Vi era app roda ta indi re t tamente , attraverso il ca­po della Finanza, Malgeri, che stava facendo visita al nuovo prefe t to Riccardo L o m b a r d i . Ques t a p r o c e d u r a to r tuosa , insieme alla sosta del pr ig ioniero in u n a caserma di f inan­zieri, spiega pe rché Leo Valiani, r ievocando quei moment i , abbia de t to che «a sera ar r ivò la notizia che Mussolini e ra stato cat turato dalla Guard ia di Finanza». I capi della Resi­stenza, in part icolare comunisti , socialisti e azionisti, aveva­no un assillo: impedi re che il Duce cadesse nelle mani degli Alleati. Ha det to Valiani al suo intervistatore Massimo Pini (Sessantanni di avventure e battaglie): «Noi quat t ro del comita­to insurrez ionale ci consu l tammo, senza n e p p u r e r iunirci , pe r telefono. Pertini, Sereni , Longo e io p r e n d e m m o nella not te la decisione di fucilare Mussolini senza processo, data l 'u rgenza della cosa. Gli amer ican i infatti ch iedevano , p e r radio , che Mussolini fosse consegnato a loro. Longo chiese a Cadorna di da re il lasciapassare a d u e suoi ufficiali, Lam-p r e d i e Audisio, pe r ché si recassero a prelevar lo . C a d o r n a racconta lealmente nelle sue memor ie di avere subito capito che andavano pe r fucilarlo, ma di aver ugua lmente f i rmato i l foglio. Cadorna non era un cospiratore antifascista come noi , ma pensava che e ra p iù giusto che Mussolini morisse pe r m a n o di italiani che pe r mano di stranieri: perciò f i rmò il lasciapassare. Enrico Mattei (democristiano, N.d.A.) e Fer­mo Solari (azionista, N.d.A.) l ' approvarono. Alcuni giornali­sti sostengono che Cadorna poi si pentì , arr ivò da lui un uf­ficiale amer icano , Daddar io (al quale già si e ra consegnato Graziani, N.d.A.)... Quella not te Daddar io chiese invano la consegna di Mussolini. Per scongiurare l ' intromissione de­gli anglo-americani il CVL ment ì , nella not te sul 28, con un

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messaggio che annunc iava : "Spiacenti n o n poterv i conse­g n a r e Mussolini che processato t r ibunale popo la re è stato fucilato stesso posto dove p receden temen te fucilati da nazi­fascisti quindic i pa t r io t i " (piazzale Lore to , N.d.A.)». In realtà la sentenza era stata pronuncia ta , ma l 'esecuzione sol­tanto ordinata.

Con un p u g n o di tipi risoluti, Walter Audisio (Valerio) e Aldo L a m p r e d i (Guido) viaggiavano, all 'alba del 28 , verso Como. La scelta di Lampred i era stata ragionata, era il brac­cio des t ro d i Longo , un u o m o de l l ' appara to . Walter Audi­sio, alias colonnello Valerio, un ragioniere t rentase ienne di Alessandria, era anche lui un compagno di provatissima fe­de, ma di assai minore equilibrio. Un tipo, ha osservato Va-liani, «un po ' p repo ten te» , «un po ' matto»; i l che , secondo Secchia, n o n guastava. «Forse, se n o n fosse stato un po ' mat­to, non avrebbe por ta to a te rmine la missione, malgrado gli ostacoli che incont rò». Il «Compi to storico» di ucc idere il Duce gli toccò p e r caso; lo si deduce a lmeno da q u a n t o ha affermato F e r m o Solari, s t re t to co l labora tore d i L o n g o . «Quando telefonarono da Musso che i l Duce era prigionie­ro , Longo uscì pe r fare alcune telefonate e dare degli ordini e poi mi disse: " H o trovato solo Audisio, ho manda to su lui pe r ché ce lo por t i a Milano".» Q u a n t o ci fosse di sincero e quan to di ret icente in quel "ce lo por t i a Milano" è difficile dire . Probabi lmente Longo n o n precisò subito se lo voleva, Mussolini , vivo o m o r t o , ma lasciò in tu i re cosa preferisse. D ivenne c o m u n q u e esplicito d u r a n t e u n a te lefonata con Audisio che, fatta sosta a Como nel tragitto verso Dongo, si e ra imbat tu to in esponent i della Resistenza dalla mental i tà «formalistica» e «legalitaria», i quali gli «mettevano i bastoni t ra le ruote». Chiamò allora Milano pe r avere istruzioni da L o n g o , che seccamente r ispose: «O fate fuori lui, o sarete fatti fuori voi».

I l c o m p o r t a m e n t o del colonnel lo Valerio fu contrasse­gnato - u n a volta raggiunta Dongo - da u n a volontà fanati­ca, isterica e feroce di far presto, ant icipare i possibili salva-

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tor i . C o n d a n n a r e , fucilare, vend ica re . C o n Bellini del le Stelle, che ten tava di m u o v e r e obbiezioni e di o p p o r s i a quelle sommar ie e sanguinar ie p r o c e d u r e , Walter Audisio si compor tò , p iù che da super iore , da bravaccio int imidato-re . Volle l 'elenco dei gerarchi cat turat i , e con furia appose accanto a ciascun n o m e la crocet ta che significava m o r t e . Accertò con rapidi tà - grazie alla sua conoscenza dello spa­gnolo - che Marcello Petacci, il quale s'era spacciato pe r di­plomatico di Franco, era un bug ia rdo e lo scambiò pe r il fi­glio del Duce , Vi t tor io . A ogni b u o n con to , m o r t e a n c h e pe r lui. Mor te na tu ra lmen te pe r Mussolini, mor te pe r Cla­re t ta Petacci, e q u a n d o Bellini del le Stelle p ro tes tò : «Non ha nessuna colpa», Valerio r ibat té sp ie ta t amente : «E stata consigliera di Mussolini e ha ispirato la sua politica pe r tut­ti questi anni . È responsabi le q u a n t o lui». E poi aggiunse : «Non la c o n d a n n o io. E già stata c o n d a n n a t a » . Era u n a menzogna . Valiani l 'ha r ipetuto , r iecheggiando le analoghe dichiarazioni di Pertini, t ren to t t ' ann i d o p o i fatti. «Quanto alla Petacci, ha r ag ione Pert ini . Il CLNAI n o n la c o n d a n n ò mai e n o n c'era un motivo valido pe r fucilarla. N o n so per­ché sia stata uccisa».

Della fine di Mussolini e della Petacci, Walter Audisio die­de a l m e n o qua t t r o versioni , concordan t i nel l 'essenza, di­scordanti in alcuni particolari non trascurabili. L'ultima vol­ta, in un memoria le pubblicato pos tumo - era mor to 1' 11 ot­tobre '73 - nel 1975. Ha raccontato che, accompagna to da L a m p r e d i e da Morett i (quest 'ul t imo essendo del posto sa­peva come raggiungere Giulino di Mezzegra) arrivò alla ca­scina, e indusse Mussolini e la Petacci ad accompagnar lo di­c e n d o d 'essere v e n u t o p e r l iberarl i . Al l ' andata , aveva già adocchiato i l luogo adat to p e r l 'esecuzione: «Una curva, un cancello chiuso su un frutteto, la casa sul fondo palesemen­te deserta (si chiamava Villa Belmonte, N.d.A.)». Così si av­viarono, Mussolini in un soprabito color nocciola, la Petacci impacciata dai tacchi alti delle scarpe ne re scamosciate. Per­corsero il breve trat to fino alla 1100 ne ra con cui i messag-

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geri di mor te avevano fatto il viaggio, e furono portat i a de­stinazione. Non mette conto di citare gli scambi di frasi tra i protagonist i di questo epilogo, né la descrizione sprezzante che Valerio d i ede di Mussolini , delle sue u l t ime ba ldanze (credette davvero pe r un m o m e n t o d'essere avviato verso la libertà?), poi del suo t e r ro r e . Fatti scendere Mussolini e la Petacci dall 'auto, Audisio prese a leggere un foglio. «Per or­d ine del c o m a n d o genera le del C o r p o Volontar i della Li­be r t à sono incaricato di r e n d e r e giustizia al popo lo italia­no». Trascriviamo, a questo pun to , l 'ultima e, pe r quan to ri­g u a r d a il PCI, definitiva vers ione del colonnel lo Valerio. «Con i l mi t ra in m a n o scaricai c inque colpi su quel c o r p o t r emante . Il criminale di gue r r a si afflosciò sulle ginocchia, appoggia to al m u r o , con la testa reclinata sul pet to . La Pe­tacci, fuori di sé, stordita, si e ra mossa confusamente, fu col­pita anche lei e cadde di quar to a terra . E rano le 16,10 del 28 aprile 1945.»

Inut i lmente autodifensiva e grottesca la descrizione della fine di Claretta Petacci. Walter Audisio - se fu lui il «giustizie­re» - l'aveva condannata , voleva che morisse, ed ebbe soddi­sfazione. Q u a n t o alla pa r te r igua rdan te il Duce, è possibile che in sostanza sia autentica, benché molte perplessità siano emerse . Gianfranco Bianchi e Fe rnando Mezzetti, che all'e­pilogo fascista h a n n o dedicato un libro molto documenta to , por t ano testimonianze secondo le quali esecutore materiale sarebbe stato il Moretti . Altri ha indicato in Longo il giusti­ziere, altri ancora ha accennato alla intromissione di un in­glese, incaricato di r e c u p e r a r e i d o c u m e n t i che Mussolini aveva con sé e che infastidivano Churchill . A un Longo che avrebbe p rovvedu to pe r sona lmen te alla uccisione, Valiani non era molto disposto a credere : «Non ho motivo di esclu­derlo, pe rò mi pare improbabile. Se la mia memor ia non mi i nganna , Longo , il g io rno che si sarebbe dovu to t rovare a Dongo, era a colazione a casa mia in via Benedet to Marcel-Io». E poi: «Ho l ' impressione che fosse quel giorno, 28 apri­le, pe rò potre i sbagliare: potrei confondere le date. . . e p u ò

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darsi che L o n g o sia a n d a t o a Dongo . Non ci c redo mol to però, anche perché non vedo quali atti tudini di tiratore Lon­go avesse. Aveva guidato le brigate internazionali in Spagna, si era battuto con sagace coraggio, era spesso in p r ima linea, ma come ispettore generale, non come t iratore scelto: pe rò p u ò darsi che abbia voluto prenders i questo gusto». Quan to ad Audisio: «Che Mussolini l'abbia ucciso lui, questo è dub­bio: la versione che noi a p p r e n d e m m o subito dopo , da Lon­go, fu che era stato Lampred i ad eseguire la bisogna. Questa era la versione interna. Ma forse fu il comasco Michele Mo­retti». Il mistero resta d u n q u e tale: è un mistero importante pe r la ricostruzione cronistica degli avvenimenti , n o n pe r il loro profilo storico e politico. Il CLNAI, e il CVL, e nel CVL i co­munisti in p r imo luogo, poi i socialisti e gli azionisti, vollero, fortissimamente vollero che Mussolini fosse sottratto agli Al­leati e consegnato al mitra. Il resto è dettaglio.

Fosse stato o no l'uccisore di Mussolini e della Petacci, il co­lonnello Valerio to rnò a Dongo, subito d o p o l ' incursione a Giulino di Mezzegra, con l 'aria di chi alla giustizia somma­ria avesse p reso gusto, e volesse insistere. Nella sala d 'o ro del municipio i gerarchi bloccati con Mussolini e rano sem­p r e guardat i a vista dagli uomini di «Pedro»: un g r u p p o ete­rogeneo che c o m p r e n d e v a l ' indomabile Pavolini, ministr i , federali, lo s t rano c o m p a g n o di s trada Bombacci, la meda­glia d 'oro Barracu, quindici in tut to i fucilandi, pe r pareg­giare simbolicamente le vittime di piazzale Lore to . Fu rono ammassat i sulla piazza, t re minu t i e un p re t e pe r l 'assolu­zione a chi la voleva, poi la scarica. Walter Audisio s'era ac­corto poco pr ima che mancava quel falso spagnolo che ave­va c redu to fosse Vittorio Mussolini, e che, identificato pe r Marcel lo Petacci, e r a stato sepa ra to dagli al tr i . In f in dei conti e ra al p iù un profi t tatore, n o n u n o dei capi del fasci­smo, e infatti i mor i tur i non lo avevano n e m m e n o voluto in­sieme a loro. Restò isolato, e mor ì isolato. Ma Audisio n o n r inunc iò a lui. Il Petacci, robus to , g iovane, si divincolò e

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tentò la fuga, riuscì a tuffarsi nel lago e fu finito in acqua. In quel la ope raz ione di ras t re l l amento , p r i m a della s t rage, e dopo di essa, vi fu cer tamente passaggio, e poi dispersione e t rafugamento di denaro , bagagli con valori, gioielli, sterline d ' o ro e m a r e n g h i a migliaia. Del «tesoro di Dongo», che prese le più disparate destinazioni, di part i to o personali , si cercò successivamente di r icostruire la fine con un classico «processo fiume» all'italiana, poi insabbiato e finito in nulla.

Chiuso questo conto di sangue , Audisio n o n era ancora appagato . Voleva un supplemento spettacolare (proprio sua fu l'iniziativa della esposizione in piazzale Lore to) . But tò i cadaver i di D o n g o su un camion , a Giul ino di Mezzegra prelevò gli altri di Mussolini e della Petacci che e r ano stati sorvegliati da d u e partigiani, con quel mucchio nel cassone si diresse verso Milano dove en t rò in p iena notte , e depositò il carico sotto la tettoia del d is t r ibutore di piazzale Lore to . Altri qua t t r o corp i fu rono poi aggiunt i , e la mess inscena completata più tardi issando alcuni mort i a testa in giù, co­me nel negozio del beccaio. T u r p e scena da «revolución» centroamericana o da colpo di Stato i rakeno, che ha disono­rato chi la volle, chi la consentì , e la folla eccitata che inde­cen temen te si accanì cont ro i poveri resti, li insultò, li spu­tacchiò, li insudiciò in m o d o ancor peggiore. Infieriva esul­tante , il «popolo», su colui che aveva acclamato fino a n o n molti mesi pr ima. Cadorna par lò di «sconcio», Parri di «ma­celleria messicana». Secondo Valiani il colonnello america­no Char les Poletti , n e o n o m i n a t o gove rna to r e della L o m ­bardia , approvò invece, d o p o avervi assistito, la disgustosa esibizione, da Bocca so rp renden temen te definita «atto rivo­luzionario su cui si farà dell ' inutile moralismo».

Prima che quella para ta del l 'orrore , p u r t r o p p o resa nota al m o n d o da u n a serie agghiacciante di fotografie e filmati, avesse finalmente termine, u n a vittima di spicco al lungò l'e­lenco dei giustiziati: Achille Starace. Anche l 'ex-segretar io del Partito, p u r r ipudia to e in disgrazia, era, come Claretta, un cane che doveva finire là dove m u o r e il pad rone . Messo

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al b a n d o con d isprezzo già negli ult imi ann i del fascismo pre-25 luglio, addi ta to anzi come responsabile di ogni ga­glioffaggine mussol iniana, Starace n o n aveva r icoper to al­cuna carica nella Repubblica di Salò. Nella Milano della Mu­ti e di Villa Triste, conduceva una vita da sbandato: povero, diviso dalla moglie, mal tollerato dai figli, n o n piaceva né ai vecchi né ai nuov i fascisti. C o m e ai bei t empi e ra tut tavia maniaco delle flessioni, della ginnastica e, ante litteram, del jogging. Correva anche il 28 aprile, in una via del centro, in tuta. Riconosciuto, preso, maltrat tato, subì una condanna a mor te in un simulacro di processo, ed ebbe la fierezza di di­chiararsi fascista, pe r sempre . I part igiani l 'avevano «giudi­cato» e tenuto rinchiuso in un'ala del Politecnico: la mat t ina dopo , men t r e Mussolini e la Petacci e rano in mostra, gli fe­cero traversare la città su un autocarro scoperto, alla gogna. F ina lmente fu in piazzale Loreto , a fissare il suo idolo, ap­peso come un animale da macello. Starace fu animoso, il co­raggio non gli era mai mancato. I suoi persecutori si accani­vano a percuoter lo , a inveire, a beffeggiare. «Fate presto» li esortò. Cadde alzando la m a n o nel saluto fascista e gr idan­do «Viva il Duce».

In questi che furono i giorni di u n a mat tanza spietata e insieme volubile, la sorte dei fascisti maggior i o minor i di­pese, lo si è accennato in precedenza, da circostanze fortui­te. Rober to Farinacci, che s'era in un p r imo t e m p o p r o p o ­sto di r agg iunge re il r idot to valtellinese, e vi si e ra d i re t to insieme a una guardia del corpo e alla marchesa Caria Me­dici del Vascello, segretaria dei fasci femminili, cambiò poi i t inerar io , pe r r agg iunge re O r e n o dove viveva u n a sorella della marchesa, sposata a un Gallarati-Scotti. Così facendo, Farinacci di distaccò da u n a co lonna di fascisti c remones i che si e r a mossa ins ieme a lui. I n c a p p ò , senza difesa, nei par t ig iani e la mat t ina del 28 subì un «processo popolare» nel munic ip io di Vimercate . La sentenza fu di mor t e , ese­guita.

Il bolognese L e a n d r o Arpinati , squadrista e manganel la-

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tore in gioventù, ma nemico giurato di Starace e opposi tore in te rno di Mussolini - che aveva tenta to invano di recupe­rar lo pe r la Repubblica di Salò - fu p res t amente abbat tuto da partigiani penetra t i nella sua cascina emiliana. Buffarmi Guidi venne trascinato alla fucilazione, il 10 luglio, d o p o un giudizio un poco p iù r ego la re : aveva ingoia to un veleno, p e r evi tare l 'esecuzione, e fu collocato di peso sulla sedia dove la scarica lo finì. Cinque giorni p r ima era stato fucilato Pietro Koch. Giovanni Preziosi e la moglie si tolsero la vita, alla tedesca, bu t t andos i da u n a finestra. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, ca t tura t i da uomin i della br iga ta Pasubio di Giuseppe Marozin detto «Vero», furono destinati alla mor te per spicciativa sentenza del capo part igiano, e fucilati a Mi­lano in corso Sempione . Valenti, d r o g a t o e dec lamator io («era — ha scritto qualcuno - il tipo del baro da Costa Azzur­ra, aveva un poco del manipola tore di turf, un poco del bar­m a n di transatlantico, molto del gigolò parigino di classe»), recitò fino all 'ultimo il suo copione. «La commedia è finita» disse. Ma la Ferida si ribellava, «non voglio mor i re , pe rché devo mor i re anch'io?». Fu giustiziato anche il cieco di guer­ra Carlo Borsani.

E impossibile seguire i molti altri destini , tragici e non , che l 'ondata della liberazione travolse. Questo per iodo ebbe l 'ambizione d 'essere r ivoluzionar io ; ma del la r ivoluzione spartì solo in piccola par te i connotat i nobili ed epici, l 'ardo­re del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro, e in larga par te i connotati deteriori : la ferocia e la vendetta. L u n a e l 'altra r i spondevano ad altre ferocie e ad altre vendet te . Ma chi se ne fece in te rpre te , in en t rambi i casi, era intercambiabile, salvo poche onorevoli eccezioni: v'è una professionalità dell 'estremismo, e del san­gue, che ha pe r costante l'ansia di uccidere, e pe r accessorio casuale l 'ideologia cui applicarla.

Q u a n t i furono i giustiziati o gli assassinati? (Assassinati p e r c h é nel conto v a n n o messe anche vi t t ime d i vende t t e personali , cui fu sovrapposta una motivazione politica, e in-

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nocent i indicati da delazioni ignobili, o scambiati p e r al tre pe r sone . ) Il c o m p u t o è reso difficile dal p ro lunga r s i nel t empo di questi regolament i di conti; basta pensare al cosid­det to «triangolo della morte» in Emilia e alle «Volanti rosse» che vi impe rve r savano , o alla i r ruz ione nelle carcer i di Schio con lo sterminio dei detenut i politici che vi e rano rin­chiusi . Sceiba, come min is t ro d e l l ' I n t e r n o , pa r lò di 1.732 uccisi o scomparsi dal 25 aprile al 5 maggio 1945. Cifra non convincente, pe rché calcolata burocra t icamente , e r istretta a un pe r iodo t r o p p o breve , nel quale avvenne la maggior pa r te delle uccisioni ma n o n si ebbe la maggior pa r te degli accertamenti . Qualcuno ha but tato là il n u m e r o di 300 mila mort i , «a fantastic exaggeration», come ha rilevato un docu­men to dell 'Amministrazione alleata in Italia. Si è parlato, in inchieste dovute a nostalgici, di 50-70 mila uccisi. Probabil­men te t roppi . Ma poi lo stesso Bocca, che fa giustizia di que­sti bilanci a suo avviso inattendibili, e ingiuriosi pe r la Resi­stenza, ammet te che i «giustiziati» po te rono essere «3.000 in Milano e 12.000-15.000 in tutta l'Italia del nord». Gli Allea­ti, che ne stavano p r e n d e n d o possesso, cercavano di far ca­pire agli organismi resistenziali che il po tere vero non era il loro, ma quello di chi aveva vinto la guerra : ma non si ado­p e r a r o n o mol to - salvo i casi segnalat i e di rilievo - p e r s t roncare la caccia a l l 'uomo. Spesso n o n sapevano, e anche q u a n d o sapevano forse r i t ennero , c inicamente, che conve­nisse lasciar sfogare gli odi intestini, p u r c h é n o n disturbas­sero t roppo gli ultimi strascichi delle operazioni militari.

La gue r r a «calda» con la Germania era sostanzialmente fini­ta, pe r gli anglo-americani , m e n t r e venivano poste le p re ­messe della gue r ra «fredda» con l 'Unione Sovietica. La mat­tina del 29 aprile Hitler ricevette nel Bunker della Cancelle­ria la notizia della fucilazione di Mussolini. La sera iniziò la stesura del suo testamento politico e del suo testamento per­sonale. Il 30 apri le , m e n t r e la band ie ra con la falce e mar­tello veniva issata sul Reichstag, si uccise ins ieme a Eva

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B r a u n ; Gòbbels , sua mogl ie e i loro sei figli ne s egu i rono l 'esempio il giorno dopo , così come il generale Krebs e alcu­ni capi militari e notabili del nazismo. Per altre quarantot to ore , e sembra impossibile, Berl ino resistette. Si ba t t e rono i ragazzi a rma t i di Panzerfaust, i sessantenni coi fucili della p r ima gue r ra mondiale , i soldati delle unità corazzate che, a m a n o a m a n o che esaur ivano il c a r b u r a n t e , i n t e r r a v a n o i loro carri pe r t ramutar l i in fortini. Non s'è mai saputo chi sia c adu to p e r u l t imo in que l l ' e s t remo massacro che in­ghiottì, dal l 'una e dall 'altra par te , mezzo milione di vite. Si sa invece che l 'u l t ima croce di fer ro fu concessa, curiosa­mente , a un francese, il sottufficiale petainista Eugène Vau-lot, inquadra to in una divisione di SS. Nella notte tra IT e il 2 maggio il c o m a n d a n t e della piazza di Ber l ino, genera le Weidling, decise di o rd inare la resa.

Consegnatasi Berlino ai sovietici, sopravvisse a Flensburg sul Baltico il governo de l l ' ammiragl io Doenitz , che Hit ler aveva nomina to suo successore poche ore p r ima di togliersi la vita. In n o m e di Doenitz, Jod l e l 'ammiraglio von Friede-b u r g firmarono il 7 maggio a Reims la capitolazione della Germania agli anglo-americani. Il giorno successivo a Berli­no Keitel sottoscrisse la resa ai sovietici, che nel f ra t tempo avevano dilagato. In Cecoslovacchia l 'Armata Rossa ricevet­te t ra l 'altro la resa di 150 mila russi anticomunist i dell'Ar­mata formata dal genera le t ransfuga Vlasov. Quest i fu im­piccato a Mosca, con altri ufficiali. Tra i suoi uomini si con­t a rono migliaia di suicidi, e anche migliaia di «eliminazio­ni». Le t r u p p e di p r ima linea sovietiche e rano violente, pri­mitive, in più di un caso feroci. Razziavano, s tupravano, pic­chiavano, uccidevano con facilità. Lo facevano nei terr i tori del nemico, ma lo facevano imparzialmente nei terri tori de­gli amici «liberati», fossero essi polacchi o cecoslovacchi.

Sull 'esempio dei prote t tor i sovietici, anche i miliziani di Tito si affacciarono ai terr i tori e tnicamente «misti» della Ve­nezia Giulia, e a quelli in tegralmente e indiscutibilmente ita­liani, con il rancore di chi si rivale d'antichi torti - e torti ce

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n ' e r a n o stati, sia da p a r t e del fascismo, sia da p a r t e delle t r u p p e di occupazione - e con la tracotanza dei vincitori. Il loro cammino fu disseminato di foibe e d'infoibati: nelle foi­be, cavità naturali della zona carsica, finirono molti ustascia e fascisti, ma anche molti italiani che r ivendicavano sempli­cemente il diritto di cont inuare ad esserlo, e borghesi invisi e sospetti in quanto tali, e infine le solite vittime di cupidigie e r i tors ioni personal i . N o n vogl iamo d a r e un elenco delle foibe, e dei macabri r i t rovamenti che successivamente vi av­vennero (si parla di quelle r imaste in terri torio italiano). Ba­sterà d i re che dalla foiba di Basovizza gli anglo-amer icani estrassero tra il luglio e l'agosto del 1945 «450 metr i cubi di resti umani» (il dato fu r ipor ta to da Diego de Castro nel suo Il problema di Trieste). Gli istriani e i triestini e rano angosciati pe rché gli Alleati p rocedevano t roppo lenti verso nord , an­che se Alexander aveva dato l'incarico di lanciarsi sulla Ve­nezia Giulia al neozelandese generale Freyberg, che era uo­mo risoluto. Altrettanto risoluti, e mossi da bramosia milita­re e ideologica, e rano gli iugoslavi. Alcune migliaia di part i­giani di Tito, «stanchi e male in arnese», appoggiati da cin­que carr i a rmat i e da pochi r epa r t i regolar i , e n t r a r o n o al­l'alba del p r imo maggio a Trieste e pe r p r ima cosa disarma­rono i partigiani e gli esponent i italiani del CLN. L' importan­za che Tito attribuiva a Trieste è dimostrata dai tempi delle altre occupazioni: solo il 4 maggio Fiume e Pola, solo d o p o il 7 maggio Lubiana e Zagabria.

Quello stesso p r imo maggio i neozelandesi e rano a Ron­chi dei Legionari , e vi avevano stabilito un contatto con ele­ment i della IV armata iugoslava: dal comando di essa fu fat­to sapere che la presenza degli Alleati a Trieste e a Gorizia era indesiderabile. Freyberg aveva ordini precisi, e lo disse, o t tenendo di poter varcare l 'Isonzo il g iorno successivo e di insediarsi a Trieste, nel palazzo del Lloyd triestino in piazza dell 'Unità. I 2.600 tedeschi della guarnig ione avevano sag­giamente deciso di aspet tare Freyberg, pe r a r renders i , e lo fecero nelle sue mani . Ma i neozelandesi - e le t r u p p e an-

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glo-americane che li seguirono - accet tarono u n a ben stra­na si tuazione. N o n r icevet tero dal CLN i po te r i - come era accaduto nelle altre città italiane - e si ada t ta rono a r imane­re dietro u n a linea di demarcazione che lasciava loro il por­to e le vie di accesso al mare , abbandonando il resto - ossia tut to - agli iugoslavi. L'Italia intera ne fu costernata, e solo l'Unità, di tut ta la s tampa, esultò con un g rande titolo, «Trie­ste è libera». La vera Trieste era in lutto. Ti to voleva la Ve­nezia Giulia con Trieste e p e r aver le s 'era ass icurato l 'ap­poggio dell'URSS. N o n cer to p e r caso il 12 apr i le e ra stato annuncia to al m o n d o un pat to di alleanza vent icinquennale tra l 'Unione Sovietica e la Iugoslavia. Al giornale di Mosca Stella Rossa Ti to si e ra affrettato a dichiarare che «il deside­rio della popolazione dell 'Istria e di Trieste di essere accolte nella nuova Iugoslavia sarà esaudito» e che «l'Italia ci dovrà delle r iparazioni pe r i dann i arrecati».

Alle parole seguirono i fatti. Il generale Dusan Kveder fu nomina to governa tore di Trieste (e Franz Stoka commissa­rio politico), il tricolore italiano fu ammaina to dovunque , i cont i in banca fu rono bloccati e 170 milioni in b a n c o n o t e custoditi nella sede della Banca d'Italia trasferiti in Iugosla­via. Il 10 maggio l 'esercito iugoslavo assunse il controllo di tutte le imprese e o rd inò la requisizione dei beni dei crimi­nali di guer ra , il che diede luogo a spoliazioni e rap ine . Fu­rono fondati i sindacati unici, assoggettati i giornali, insom­ma poste spicciativamente le premesse di un reg ime da re­pubbl ica popo la r e . Per realizzarla si fece ampio r icorso al te r rore . Fucilazioni con o senza processo sommario , arresti , rapimenti , minacce, campi di concent ramento . Il 15 novem­bre 1945 Parr i , allora p re s iden te del Consiglio, pa r l e rà in una conferenza s tampa di ottomila deportat i .

La posizione del governo di Roma era l ineare. La Vene­zia Giulia doveva essere affidata agli anglo-americani , così come era avvenuto pe r il resto del terr i torio italiano, essen­done la sorte impregiudicata . Di essa, e di eventuali rettifi­che di confine, si sarebbe discusso q u a n d o i d u e governi ita-

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liano e iugoslavo «avranno l 'autorità che p u ò loro der ivare dalla liberazione di tut to il terri torio nazionale... e dalla vo­lontà dei s u p r e m i organismi elettivi dei d u e paesi». Roma protestava, con la flebile voce che le era concessa, e in tanto Ti to spadroneggiava con in te rnament i , e requisizioni; il 12 maggio fu ordinata l 'occupazione delle sedi della Banca d 'I­talia a Trieste e a Gorizia. La questione di Trieste metteva in imbarazzo i comunisti , e privava l'URSS - schierata senza in­certezze con Tito - dei frutti propagandist ici raccolti con il r iconoscimento di Badoglio. Piuttosto goffamente, Togliatti aveva liquidato le foibe come «giustizie di italiani (antifasci­sti) cont ro italiani (fascisti)». Gli appeti t i iugoslavi pe r Trie­ste - paralleli a quelli francesi sulla Valle d'Aosta, smenti t i con u n a nota di Parigi che tuttavia accennava a modifiche del confine, e favoriti dalle m e n e dei soliti «irredentisti» più o m e n o prezzolati - posero subito sul t e r r eno i nodi del trat­tato di pace. Gli Alleati negoziarono con gli iugoslavi fino al 9 giugno pe r poter avere ciò che loro spettava, ossia il con­trollo di Trieste, di Gorizia e delle comunicazioni pe r l'Au­stria.

L'accordo fu f irmato a Belgrado , e stabilì che le t r u p p e iugoslave - t r anne un cont ingente simbolico - dovessero ri­t irarsi al di là della l inea Morgan , così ch iamata dal n o m e del generale inglese prepos to alla trattativa: era la linea che racchiudeva la cosiddetta Zona A del futuro Terri torio libe­ro , giur idicamente parificata alla Zona B lasciata in mani iu­goslave. Si t ra t tò di u n a l inea che sacrificava Capodis t r ia , pe r non par la re dell 'Istria e di Fiume, anche se in quel p ro ­tocollo si precisava che i suoi t e rmin i r i s p o n d e v a n o a esi­genze militari, e n o n volevano anticipare la conclusione del trat tato di pace: e che, pe r quan to r iguardava le zone A e B, d ivenne sos tanzia lmente definitiva. Dopo 40 giorni , p e r i triestini finì un incubo e cominciò u n a lunga attesa.

Trieste era e restò pe r anni la «questione nazionale». La formazione di un nuovo governo che fosse ins ieme i l p r o ­dotto e l ' interprete del «vento del nord» era invece la «que-

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stione politica» del momen to , ed ebbe nelle preoccupazioni r omane e milanesi la prevalenza, come attestano i vari diari e ricordi. Non si trattava soltanto di un braccio di ferro tra Bonomi e il CLNAI: si trattava, secondo molti, di u n a svolta che avrebbe de termina to il futuro dell'Italia.

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CAPITOLO DODICESIMO

UN GALANTUOMO SMARRITO

A Liberazione avvenuta, gli Alleati m a n t e n n e r o in vita pe r qualche t e m p o la l inea gotica come «cordone sanitario» ed e l emen to di dis t inzione tra le d u e Italie: ossia t ra d u e so­cietà, d u e economie, e d u e ambienti politici che avevano vis­suto p e r molti mesi, e sper ienze diverse, in qua lche m o d o opposte . Anche al sud v'era stata u n a fioritura resistenziale, tanto rigogliosa quanto artificiale e pe r più d 'un aspetto co­mica. Essa n o n fu attestata soltanto dalle richieste a valanga di brevetti e certificati di benemerenza part igiana. A Caulo-nia, un grosso centro della Calabria - l ' intera regione pullu­lava di bande , s 'erano avuti scontri sanguinosi t ra carabinie­ri e ribelli p iù o m e n o politicizzati - fu proclamata alla fine di febbraio 1945 u n a sorta di repubbl ica popo la re , capeg­giata da un boss comunista di cui era stato arrestato il figlio. Per o t tenerne la liberazione il pad re , certo Cavallero, aveva occupato la città, sequestrato i carabinieri di servizio e la fa­miglia del p re tore , instaurato un Tribunale del popolo che, ha scritto Giovanni Artieri , «condanna alcuni degli ostaggi alla fustigazione, altri a t raspor tare pesanti pietre». Poi la ri­volta sbollì: e ra stata, se n o n favorita, consenti ta dalla p r e ­senza a Reggio Calabr ia di un prefe t to poli t ico, Anton io Priolo, che venne rimosso ma rifiutò di andarsene , definen­do anzi «fascisti» Bonomi e De Gasperi . Per indur lo a slog­giare lo si dovette nominare sottosegretario ai Trasporti : un caso, i l suo, che anticipò l 'altro più c lamoroso del prefet to Troilo a Milano.

Ma ques te jacqueries mer id iona l i , cui n o n m a n c a v a n o conno ta t i di de l inquenza organizzata t ipo ' n d r a n g h e t a o

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mafia o camor ra , n o n a l te ravano il q u a d r o nel complesso m o d e r a t o e r e s t a u r a t o r e del Sud, in con t rappos iz ione a quello rivoluzionario del Nord . La miscela delle d u e realtà rischiava di essere esplosiva. Propr io pe r graduar la , gli an­glo-americani stabilirono che i politici roman i n o n potesse­ro recarsi subito in missione nell 'Italia appena liberata, su­scitando con ciò ire e lamenti soprat tut to nella sinistra, i cui esponent i avevano u n a gran voglia di scambiarsi opinioni e di con ta re le loro forze, p e r a r r ivare al nuovo corso. Esso doveva poggiare su t re pilastri: la r iconferma dei poter i , e della legittimità democrat ica , del CLN centrale e del CLNAI, che si cons ideravano veri e unici deposi tar i del po te re po­polare ; la formazione di un governo nel quale i vari mini­steri, e in part icolare quello de l l ' In te rno , fossero affidati a uomin i che avessero s e m p r e comba t tu to il fascismo e che dessero prova «di saper degnamen te espr imere i bisogni di vita e di giustizia sociale e le profonde aspirazioni democra­tiche delle masse lavoratrici e part igiane che sono state all'a­vanguard ia della nostra lotta di Liberazione»; la prefigura­zione, in maniera irreversibile, di u n o Stato repubblicano, e perciò l 'emarginazione del Luogotenente .

Umber to di Savoia, che era nell ' ingrata situazione di sta­re teor icamente al di sopra delle par t i , ma di dover anche combat tere una battaglia disperata a difesa della monarchia , sapeva che il CLNAI n o n lo voleva né a Milano né altrove, al di sopra della linea gotica: ma sapeva egua lmen te che u n a sua inerzia in quei giorni sarebbe equivalsa alla r inuncia a far valere la sua presenza e la sua autori tà di Capo dello Sta­to nei feudi della Resistenza. Ai pr imi di maggio, con il be­neplacito alleato, era perciò a Milano. L' indomani, avutane licenza dai «padroni» anglo-americani, u n a delegazione po­litica del Nord sarebbe andata a Roma, pe r portarvi un sof­fio vigoroso del suo vento. Alla vigilia della par tenza Pertini, che della delegazione faceva par te , volle dare , alla sua ma­niera impulsiva e guerrigliera, un avvert imento al Luogote­nen te . Ha scritto Nenn i nel suo diario, r ievocando l 'arrivo

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dei «milanesi» a C iampino : «Sandro racconta l 'u l t ima sua prodezza. Ieri sera ha preso u n a squadra Matteotti, si è re­cato alla villa che ospita il Pr inc ipe di P iemonte in visita a Milano: ha fatto scaricare i mitra contro le finestre illumina­te, "a titolo dimostrativo", dice r idendo». Dell ' impresa Per­tini par lò poi, van tandosene , in un comizio, a Roma, e An-dreo t t i , cronis ta in at tesa di p iù i m p o r t a n t i incarichi , an­notò: «Pertini fa un discorso incendiario contro il Luogote­nen te r ivendicando a sé il meri to di aver fatto mitragliare la villa dove il Principe era sceso a Milano, e a m m o n e n d o che si g u a r d i bene dal t o r n a r e a Milano, a l t r iment i finirà in piazzale Loreto».

Il 5 maggio, d u n q u e , N o r d e Sud s ' incontrarono a t torno a un tavolo del Viminale, dov 'era la p res idenza del Consi­glio. La r iunione risultò, come altre che seguirono, interlo­cutoria . Fu p res to evidente che i liberali con risolutezza, i democristiani con il loro stile alla gommapiuma , met tevano freni alla corsa populista delle sinistre. La «sfinge De Gaspe-ri», come lo definiva Nenni , preferì dappr ima tenersi in di­sparte, e delegare il compito a Sceiba.

Sceiba, diversamente dal suo maestro, sapeva essere bru­tale. Una volta non esitò a rinfacciare a Togliatti gli eccessi e i tumul t i delle «masse» comuniste , e «l'illegalismo partigia­no al n o r d dove ci sarebbero ottocento fucilati solo a Reggio Emilia e più morti che in tutta la rivoluzione francese». Con fredda rabbia Togliatti (attingiamo queste citazioni dai diari di Nenni ) r ibat té che «se i democr is t iani n o n c r e d o n o alla democrazia dei comunisti , egli n o n crede alla loro». Cattani pe r i liberali fu fermissimo nel precisare che il tentativo di diffondere il CLN in tut ta la s t rut tura della società (si parlava di CLN rionali, aziendali, etc.) avrebbe posto le basi di un se­c o n d o Stato accanto allo Stato democra t ico i n t r o d u c e n d o «un autor i tar ismo collettivo, u n a forma nuova di totalitari­smo a sei». O, si sarebbe det to più tardi, di lottizzazione.

Fu, quello romano , un round d'assaggio, dal quale risultò con chiarezza che B o n o m i n o n aveva mol te probabi l i tà di

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vara re un suo terzo min is te ro : ma i l n o m e del successore n o n era ancora affiorato. Più di ogni altro r icorreva quello di Nenni . De Gasperi obbiettava tuttavia che il pat to d'azio­ne con i comunisti - e in prospettiva, si temeva, la formazio­ne di un par t i to unico - sconsigliavano u n a pres idenza so­cialista.

I «romani» res t i tu i rono la visita nella seconda me tà di maggio, e i negoziati r ipresero a Milano. Togliatti e Nenni , in pel legrinaggio alle loro roccheforti elettorali e ai g rand i centri operai , avevano una gran voglia di tener discorsi, ma gli Alleati imponevano restrizioni varianti da luogo a luogo, qualche volta severe. Al leader comunista e rano state p repa ­rate accoglienze trionfali, alle por te di Novara il capo parti­giano Moscatelli gli fece passare in rivista d u e «brigate» in perfetto assetto di gue r r a (questo men t r e venivano emana te «gride» che imponevano la consegna delle armi e che i mili­tant i del PCI n o n p r e s e r o in cons ideraz ione) . Ma Togliatti fu, pe r quel che lo r iguardava, scrupolosissimo nell 'at tener-si alle disposizioni. Non così Nenni , arrestato a Vercelli dal­la polizia mil i tare inglese pe r aver t enu to un comizio n o n autor izzato . Fu pos to in l ibertà d o p o che ebbe scritto u n a lettera in cui riconosceva il suo e r rore .

Tramonta ta la candida tura di Nenn i (che p ropr io in quei giorni aveva saputo della m o r t e della f igl ia Vittoria, in un lager nazista), t r amonta ta anche una candida tura di De Ga­speri, i sei partiti si accordarono sul nome di Ferruccio Par-ri. Il 17 g iugno il p r imo governo italiano post- l iberazione era fatto, con «Maurizio» alla presidenza e agli In terni , Nen­ni e Brosio alle d u e vicepresidenze, De Gasperi agli Esteri, Togliatti alla Giustizia, Marcello Soleri (un economista libe­rale di notevole valore) al Tesoro, Scoccimarro alle Finanze. Degli altri met te conto di citare Gronchi che ebbe il Lavoro e la Previdenza sociale, La Malfa (Trasporti), Lussu (Ripresa postbellica), Gullo (Istruzione pubblica).

Così Parri fu visto e giudicato da Nenni alla p r ima presa di contatto t ra i ministri: «Manca a Parri ogni eloquenza: si

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espr ime con difficoltà. Ha m e n o comunicat iva di Bonomi . Ha qualificato s t r ao rd ina r i a la sua avven tu ra di borghese qualsiasi designato dal caso a u n a funzione politica. Si è de­finito il par t igiano qua lunque , al di sopra di ogni partito».

Se mai un p r e s i d e n t e del Consiglio i tal iano mer i tò la qualifica di ga lantuomo, questi fu Parri. Era t imido nella vi­ta quotidiana, sapeva essere in t repido nei frangenti perico­losi. Aveva sofferto il carcere e il confino. Alla Edison, dove gli avevano dato un posto, era stato tenuto in un 'ombra p ro ­tettr ice negli ann i del Mussolini t r ionfante , e aveva svolto studi «sui diversi tipi di contator i a gas in uso nel mondo». Vice-comandante del Co rpo Volontari della Libertà, a r r e ­stato dai tedeschi e poi liberato, come s'è visto, in pegno di b u o n a volontà verso gli anglo-americani , e ra assente quan­do fu decisa l 'esecuzione di Mussolini, e in altri casi si distin­se pe r interventi moderator i . «Triste, modesto , onesto, per­sona lmen te mi te , cortesissimo, al ieno da violenza, mol to miope , paziente» - così lo ha descri t to assai b e n e Artieri -avrebbe cer tamente voluto essere un Capo del governo sag­gio ed equilibrato.

P u r t r o p p o r a p p r e s e n t a v a u n par t i to , quel lo d 'az ione , che nell 'antifascismo por tava un rovello e un accanimento intellettuale ed elitario contro i quali milioni di italiani si ri­bel larono presto (cosa fu l 'Uomo Qua lunque di Giannini se non una reazione a questo robespierr ismo da salotto?); r ap ­presentava inoltre un movimento , la Resistenza, che era sta­to intessuto anche di fatti memorabil i , ma che ora, usucapi­to dai parti t i di sinistra e rivendicato da un esercito di mili­tanti dei quali n o n s'era vista traccia nella lotta vera, stava d iventando la solita oceanica sceneggiata italiana: in defini­tiva e ra il simbolo del vento del n o r d visto come premessa della bufera r ivoluzionaria. Il suo n o m e , è stato osservato, veniva associato ingiustamente a piazzale Loreto e ai Tribu­nali del Popolo. Non v'era u o m o più lontano, pe r indole e stile, dagli eccessi. Era, semmai , rancoroso, un cattivo per ­d e n t e . Un vero politico, a l posto di Parr i , av rebbe sapu to

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rettificare la sua immagine , scrollarsi di dosso i condiziona­ment i indebiti, impor r e la sua autonomia. Parri, che era for­te nel subire la persecuzione e debole nell 'azione politica, fu travolto. Ora che quel ga lan tuomo è mor to , possiamo scri­vere u n a cosa che abbiamo sempre pensato . Q u a n d o i tede­schi p o r t a r o n o Parri in Svizzera pe r d imost ra re che tratta­vano in b u o n a fede, r e se ro un b u o n servizio a se stessi, e u n o pessimo a lui. Fosse finito allora, il candido, umile e fie­ro Maurizio, ne conse rve remmo un r icordo tu t to in positi­vo, fulgido e commoven te , senza le mol te o m b r e che , u n a volta frammischiato alla vita politica e strumentalizzato, sul­la sua biografia si addensa rono successivamente. Delusioni, frustrazioni e rancor i gli fecero commet te re sbagli che fini­rono pe r a p p a n n a r e u n a f igura morale altr imenti tra le più alte di cui l'Italia avrebbe po tu to vantarsi.

I p rob lemi che Parr i fronteggiava e r ano tali da impres­sionare, se n o n scoraggiare, anche u n o statista di g rande le­vatura. Sarebbero bastati i d u e dell 'economia e dei confini, da difendere contro i convergenti appeti t i iugoslavi, france­si, greci, perfino austriaci per r ichiedere tut to l ' impegno di un Capo di governo. Ma Parr i scelse la via peggiore . Anzi­ché concent rare la sua at tenzione sull'essenziale e scartare il res to , volle saper tu t to e vede re tu t to . Era sommerso dal m a r e delle pra t iche che spon t aneamen te a p p r o d a v a n o sul suo tavolo o che egli stesso richiamava dai più disparati uffi­ci e minis ter i , p e r or ien tars i . N o n si muoveva dall'ufficio, mangiava pane e salame a colazione, lavorava s t renuamen­te pe r capire sempre più, e f iniva pe r capire sempre meno . Poteva con ta re su d u e minis t r i d i p r i m ' o r d i n e , Soleri p e r l 'economia - ma morì d o p o poche set t imane e fu u n a perdi ­ta grave - e De Gasperi pe r la politica estera, ma e rano p ro ­pr io , soprat tut to il p r imo, i ministri che si opponevano agli indirizzi massimalisti perseguit i dall'ala ciellenistica del mi­nistero.

V'era , in economia, un prob lema immedia to di ricostru­zione e un problema mediato di riforme. L'Italia - evacuato

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dai tedeschi il set tentr ione senza che gli fossero state arreca­te d is t ruzioni ingent i - e ra ancora valida, p e r po tenz ia le produt t ivo , ma priva di scorte, povera di r ifornimenti , falci­diata nei mezzi di comunicazione. Il tessuto industriale - ci r i feriamo a u n a analisi di Franco Catalano - n o n e ra stato fo r temente d e p a u p e r a t o . Tu t to sommato l ' indust r ia e ra a tre quar t i della sua capacità ottimale, ma i mezzi di traspor­to ferroviar i e r a n o a un sesto, gli au toca r r i a m e n o della metà, la flotta mercanti le a un decimo, e gli approvvigiona­ment i di ca rbone pe r i l t r imest re giugno-luglio-agosto del 1945 venivano valutati a un decimo del fabbisogno. Analo­ghe carenze si avevano in altri r i fornimenti di mater ie pri­me, al imentari e non (lo zucchero e la carne r ispett ivamente al 10 e al 25 pe r cento de l l ' an teguerra) . V 'e ra anche , è ov­vio, un p rob lema di occupazione: n o n solo pe rché le indu­strie, costrette a funzionare al minimo, non davano lavoro a sufficienza, ma anche p e r c h é vi e r a n o stati immessi molt i giovani sot t rat t i ai ras t re l lament i tedeschi che , lasciate le campagne , o ra rifiutavano di to rnare alla terra . Le cifre del bilancio - grazie alla decisione anglo-americana di r ifonde­re all'Italia, in dollari, le spese pe r le t r u p p e di occupazione, e grazie alla oculata politica segui ta dal min is t ro delle Fi­nanze di Salò Pellegrini Giampiet ro - n o n e rano catastrofi­che: 350 miliardi di circolante, 1.000 di debito pubblico, 150 di deficit previsto. Dopo il disastro della g u e r r a p e r d u t a si poteva t emere peggio. I liberali, con Einaudi , e i democr i ­stiani vedevano la via del r i s anamen to in u n a «normalità» che non suscitasse allarmi. Le sinistre chiesero invece a gran voce, senza ot tener lo , il cambio della moneta ; la sola misu­ra, dicevano, che avrebbe po tu to smascherare profitti e ar­ricchimenti illeciti, e colpire chi se n 'era giovato. Ancora og­gi la polemica su ciò che avrebbe po tu to essere e n o n fu si trascina, nelle rievocazioni degli storici e degli economisti. E impossibile d i re cosa sarebbe avvenuto se la tesi di sinistra fosse prevalsa. E invece possibile dire, con certezza, che la li­nea Soleri , po i p rosegu i t a da Corb ino , p o r t ò l 'Italia, p u r

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con un carico di ingiustizie sociali e magar i di abusi, a u n a ricostruzione che lasciò s tupi to l i m o n d o , e al «miracolo eco­nomico». Q u a n d o , nelle decisioni economiche, cominciaro­no a imporsi - con la nazionalizzazione della energia elettri­ca e successivamente con u n a serie di altre misure - le forze che nel 1945 e r a n o state, sulla ques t ione del cambio della mone ta , sconfitte, l 'Italia si avviò verso un veloce declino e de te r io ramento della sua economia e della sua moneta .

Come t r o p p e volte era loro accaduto in passato, le sini­stre italiane - sopra t tu t to le sinistre n o n comuniste , in tem­perant i e incoerenti - enunciavano u n a serie di obbiettivi ri­voluzionari senza realizzarne u n o solo, ma provocando e in­t imidendo tutte le forze che ad essi potevano opporsi . Pro­positi da comitato di salute pubblica, annunc i di consigli di gest ione che avrebbero pr iva to d 'ogni po t e r e la p r o p r i e t à delle industr ie si intrecciavano a misure economiche sostan­zialmente or todosse . Gli Alleati vigilavano su ciò che stava accadendo; e vigilavano con tanto maggiore r igore quan to p iù e r ano stati scottati dalla g u e r r a civile greca del dicem­bre p recedente , allorché i part igiani comunist i avevano in­gaggia to comba t t imen t i aspr i n o n solo con t ro i rivali m o ­narchici, ma anche cont ro le t r u p p e inglesi che, parti t i i te­deschi, sbarcavano al Pireo. Nenn i , Pertini e anche Valiani avevano l'ossessione della Repubblica, la volevano a ogni co­sto, e p e r averla chiedevano che fosse eletta al più presto la Costi tuente. A questa battaglia subord inarono tut to il resto. Così o t tennero la repubblica ma consent i rono a De Gasperi di p r e p a r a r e il 18 aprile 1948. Umber to di Savoia ha det to e r ipe tu to al suo biografo Artieri che avrebbe voluto, se fosse r imasto Re, un governo socialista. Forse, nel giuoco di equi­libri e contrappesi psicologici dell 'elettorato, questo sarebbe stato possibile, con la garanzia monarchica. Q u a n d o essa fu eliminata, l'Italia m o d e r a t a si affidò con slancio alla Demo­crazia crist iana cons ide rando la l 'unica garanzia supers t i te contro il pericolo comunista.

Nell 'attesa della Costi tuente, il governo Parri varò un'as-

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semblea senza poter i deliberanti , la Consulta, di 448 mem­bri scelti - secondo criteri rappresentat ivi stabiliti dall'alto -nelle forze politiche e nelle organizzazioni di categoria. Nel­le sue 40 sedute - la pr ima il 25 set tembre 1945 - la Consul­ta, p r e s i edu ta da Car lo Sforza, d i ede sfogo ad altri t enor i par lamentar i dell 'Italia prefascista, gli Or lando , i Nitti, i Bo­nomi, e ai nuovi leaders. Vi ebbero un posto di rilievo partiti dei quali le elezioni d imos t ra rono pres to l ' inconsistenza: il Partito d'azione e la Democrazia del Lavoro, eserciti fatti so­lo di generali , come aveva subito rilevato Guglielmo Gianni­ni. Si d ibat té se la Consul ta dovesse votare , e quale valore avesse il suo voto. Ma fu un organismo dalla vita breve, inu­tile e innocua.

S t rano a dirsi , con il gove rno Par r i l 'Italia si r i t rovò in g u e r r a : u n a g u e r r a che l ' interessava assai poco , con t ro i l G i a p p o n e . La r ichiesta de l l ' in te rven to i ta l iano - che e r a scontato r imanesse platonico - e ra venuta dal Dipar t imento di stato amer icano : i l quale s 'era affrettato ad a g g i u n g e r e che n o n ci sarebbero stati forniti, p e r affrontare il nuovo ne­mico, né mezzi di t raspor to né altro (ma vi furono dei gio­vani che chiesero d ' a r ruo la r s i p e r comba t t e re in Es t r emo Oriente) . Q u a n d o De Gasperi pose la questione sul tappeto , il 3 luglio, N e n n i fu contrar io così come Togliatti: Parr i in­vece favorevole, Lussu anche . Il 14 luglio la fievole sfida d ' un paese, il cui governo aveva effettiva giurisdizione su 36 province soltanto, fu lanciata al r e m o t o agonizzante Giap­p o n e : mancava un mese giusto alla resa di Tokio, d o p o le atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

Ma questo, p u r essendo oggetto di accanita discussione, a Roma, nel Consiglio dei ministri, era poco più che folklo­re sul p i ano in ternazionale . Altre e r a n o le quest ioni vitali, sia pe r quan to r iguardava l 'o rd inamento mondiale , sia pe r quan to r iguardava l'Italia in par t icolare . Nei d u e mesi dal 25 apri le al 25 g iugno (del '45 , s ' intende) la Conferenza di San Francisco fissò i criteri in base ai quali avrebbe funzio­nato l 'Organizzazione delle Nazioni Unite. I rappresen tan t i

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di u n a c inquant ina di Stati misero a p u n t o - o piut tosto si fecero det tare dai «grandi» - i meccanismi di quell'ONU che ha eguagliato e forse supera to , pe r inefficienza e verbosità, la n o n r i m p i a n t a Società del le Nazioni . Da San Francisco l'Italia, che sperava d 'essere invitata, r imase esclusa n o n o ­stante le p ro tes t e di Par r i a R o m a e, in America , di d o n Sturzo, i l quale o p p o r t u n a m e n t e pa r lò di «diritto del p iù forte». Diritto che fu sancito nel regolamento del Consiglio di Sicurezza, dove i c inque membr i pe rmanen t i - Stati Uni­ti, URSS, G r a n Bre tagna , Francia, Cina - si ass icuravano il privilegio del veto, ossia la possibilità di bloccare ogni riso­luzione che li infastidisse. Con ciò I'ONU nasceva condiziona­ta e handicappata .

Q u a n t o poco valessero, nella pratica, le ostentate b u o n e intenzioni di r imet tere i problemi internazionali a un orga­nismo collettivo, lo si vide pres to a Potsdam, dove T r u m a n , Stalin e Church i l l r i f in i rono e conso l ida rono l 'assetto del m o n d o che era stato delineato a Yalta. Si trattava di met tere in can t ie re i t ra t ta t i di pace , il che c o m p o r t a v a lo sciogli­mento di alcuni nodi . Due in particolare: quello tedesco-po­lacco (ossia la scelta t ra la f ront iera della Neisse or ienta le , voluta da Churchill , e quella della Neisse occidentale, volu­ta da Stalin); e quello giul iano, con la sorte del l ' Is t r ia e di Trieste.

In vista di questa trattat iva, Stalin aveva accondisceso a che alcuni dei maggior i e sponen t i del gove rno polacco in esilio a L o n d r a tornassero in Polonia, assumendovi cariche pubbliche. Il capo degli esuli, Mikolaiczyk, era stato nomi­nato vice-primo ministro. Il gesto distensivo, e per dirlo con un l inguaggio venuto poi di moda , pluralistico, voleva solo bu t t a r fumo negli occhi. Churchi l l n o n si lasciò t r o p p o in­ganna re . Ma Potsdam consacrava, con evidenza maggiore di Yalta, i l b ipo la r i smo mond ia l e : v ' e r ano d u e sfere di in­fluenza da spart ire tra i veri vincitori, Stati Uniti e URSS. La Gran Bretagna aveva prestigio, ma non forza: e si trovò an­che con meno prestigio dopo che, il 26 luglio, i laburisti eb-

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b e r o vinto le elezioni inglesi (la conferenza dovet te essere sospesa pe r consentire a Clement Attlee di sostituire Chur­chill). Il vecchio Winnie era un mast ino con il quale Stalin doveva fare i conti (la durezza di Churchil l fu sperimentata , p ropr io a Potsdam, anche dall 'Italia: egli si oppose alla pro­posta di T r u m a n p e r l 'ammissione nelle Nazioni Uni te «di un paese che aveva inferno il colpo di pugnale alla Francia e dichiarato gue r r a alla Gran Bre tagna nel l 'ora del massimo pericolo»). Attlee era mediocre, sensato, tenace, ma fu cata­pu l t a to t ra gli altri d u e g r a n d i a l l ' improvviso, inspera ta ­men te , senza avere le necessarie informazioni e la necessa­ria p reparaz ione e senza po te r contare, come Truman , l'al­t ro neofita, sul peso di u n a immensa po tenza industr ia le e militare. Per di p iù i laburisti avevano impostato la campa­gna elettorale, in politica estera, sulla stretta collaborazione con l 'Unione Sovietica e, in generale , con i movimenti di si­nistra nel m o n d o . Furono costretti a essere più acquiescenti verso Stalin sul tema delle frontiere tedesche, e bloccarono l 'ammissione della Spagna franchista, pe r peccati di lesa de­mocrazia, in quelle Nazioni Unite dove orgogliosamente se­deva tra i m e m b r i p e r m a n e n t i , in n o m e della democrazia , la Russia di Stalin.

Po t sdam delegò a un consiglio dei minis t r i degli esteri dei «cinque» (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina) l'ela­boraz ione dei t ra t ta t i di pace , e indicò i cri teri dirett ivi di quel lo tedesco, che sarebbe stato dur i ss imo, con i l totale sman te l l amen to delle indus t r i e belliche, la sot toposizione del paese a t empo inde te rmina to a un regime di occupazio­ne che impedisse l ' istituzione d ' u n governo centra le , le li­ber tà democrat iche concesse solo a pat to che non intralcias­sero le esigenze dei vincitori . Nelle in tenzioni n o n il nazi­smo ma la German ia doveva essere fiaccata, e per sempre . Quan to all'Italia, si riconosceva che p r ima tra le potenze al­leate del la G e r m a n i a aveva ro t to i r a p p o r t i con essa, che aveva dato un contr ibuto alla sua sconfìtta, che si e ra uni ta agli Alleati con la dichiarazione di gue r r a al Giappone e che

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«sta facendo buon i progressi sulla via della restaurazione di un gove rno e di ist i tuzioni democra t iche» . I l comunica to non scese al concreto pe r quan to r iguardava i confini, affi­d a n d o n e lo s tudio a p p u n t o ai minis t r i degli Esteri . Pot­sdam, insomma, confermò la divisione del m o n d o e la deca­denza del l 'Europa.

L'Italia, con la t r aged ia dei suoi confini, e ra p re sa «tra d u e macine d i mul ino», come ebbe più t a rd i occasione d i osservare De Gasperi . La rivalità t ra anglo-americani e so­vietici la preservava da amputaz ioni ana loghe a quelle che avrebbe subito la Germania , ma impediva che fossero accet­tati, pe r fissare la linea divisoria con la Iugoslavia, criteri ge­nu inamen te etnici. Tito poteva contare sul possesso di mas­sima par te del terri torio contestato, e questo garantiva a lui e a Stalin u n a favorevole base di trattativa. La linea Morgan frut to di decisioni mili tari e sol tanto mili tari , consegnava agli iugoslavi città e popolazioni indiscutibi lmente italiane. Roma sarebbe stata ben lieta, ora , di accettare quella linea Wilson che a Versailles aveva suscitato nel T 9 le ire lagrimo-se di Vittorio Emanuele Or lando . Ma era chiaro che stavol­ta ci sarebbero stati chiesti ben più gravi sacrifici.

Per Trieste era univoco il p u n t o di vista sovietico-iugosla-vo: tut to alla Iugoslavia fin quasi a Udine . Tra gli occidenta­li si del ineavano invece differenze, e se il segretario di Stato amer i cano Byrnes era disposto a darc i sulla costa is t r iana D i g n a n o e Pola, inglesi e francesi e sc ludevano Pola (date pe r perse, ovviamente, Fiume e Zara). L'intera quest ione fu affrontata dai cinque ministri degli Esteri dei «grandi» nella conferenza di Londra , dal 10 set tembre al 2 ot tobre (1945): e lo scontro tra i d u e blocchi - non si capiva bene cosa stesse a farci il cinese - assunse nuova evidenza. La assunse, anzi­tutto, perché l'URSS avrebbe voluto che si parlasse, oltre che dell 'Italia, anche degli Stati ex nemici, Ungher ia , Bulgaria, Romania, che appar tenevano alla sua sfera d'influenza. Ma gli occidentali r i f iu tarono. La p remessa ai t rat tat i di pace, obbiet tarono, era la conversione dei vinti alla democrazia, e

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di democraz ia in quei paesi n o n c 'era traccia. Le mosse di Molotov, anche s o r p r e n d e n t i , s i susseguivano; a un cer to p u n t o egli r ivendicò a l l 'Un ione Sovietica i l D o d e c a n n e s o - che sembrava pacifico finisse alla Grecia - e la Libia. E co­sì en t r ava nel g iuoco anche la sor te del le colonie i ta l iane (per il resto delle frontiere v'era da fare i conti con l ' incapo­nirsi di De Gaulle, militare e pressato dai militari, ad avere Briga e Tenda, e l ' i r redentismo altoatesino).

I l d r a m m a dei giuliani suscitava in I tal ia u n a o n d a t a emotiva po ten te , e trovava concordi nella difesa dell'italia­nità di quelle genti tutti i parti t i ad eccezione del comunista. Togliatti aveva esortato i triestini, q u a n d ' e r a n o sotto il tallo­ne iugoslavo, a «non essere vittime di elementi provocator i interessati a seminare discordia t ra il popolo italiano e la Iu­goslavia democrat ica» (sottile la dis t inzione: da u n a p a r t e u n o Stato democrat ico, dall 'al tra «il popolo italiano» senza qualificazioni, e c o m u n q u e senza a lcuna pa ten te di d e m o ­crazia allo Stato in cui viveva). O r a insisteva che e r a n o in corso «campagne menzognere e di odio» contro un «regime di democrazia avanzata». (Si not i che nel Congresso comu­nista del genna io '46 la de legaz ione giul iana, gu ida ta da Mar ino Solieri, fu p e r l 'annessione di Trieste alla Iugosla­via.) Anche le mire sovietiche sulla Libia parevano a Togliat­ti legittime perché , in opposizione alle «scemenze imperiali» del fascismo «noi consideriamo che... quanto maggiore sarà i l n u m e r o degli Stati in teressat i al r e g o l a m e n t o di ques ta questione, tanto maggiori sa ranno pe r noi le garanzie di in­dipendenza». Arenata, la conferenza della Lancaster House sollecitò suggeriment i , pe r guadagna r t empo, dalle più va­rie part i . Esposero il loro pa r e r e sui confini italiani r appre ­sentant i del l 'Austral ia , del C a n a d a , della N u o v a Zelanda , della Polonia, della Russia Bianca, dell 'Ucraina.

Si ebbe a lmeno la decenza di interpel lare , t ra i tanti , an­che i d i re t t i interessati , Iugoslavia e Italia. De Gasper i ar­rivò a L o n d r a p e r d i re ai delegat i delle maggior i po tenze quali fossero le angosce e le spe r anze del suo paese e del

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suo g o v e r n o . Di que l viaggio ufficiale, e del t r a t t a m e n t o subito dal ministro degli Esteri italiano, sono r imaste aspre test imonianze. Gli si volle far in tendere , nel m o m e n t o stes­so in cui scendeva da un apparecchio militare nel l 'aeropor­to d i Finchley, che n o n e ra un ospite d i r i gua rdo . Dovette met ters i in coda, e subì le d o m a n d e di p rammat ica . Gli fu d o m a n d a t o quan to t empo volesse r imane re in Inghi l te r ra . «Il m e n o possibile» rispose asciutto. Gli r i co rda rono inoltre che n o n po teva ambi re , in t e r r i to r io b r i t ann ico , a un im­p iego r e m u n e r a t o . Mar ia R o m a n a De Gasper i ha scri t to che i l p a d r e e ra arr ivato a L o n d r a indossando un cappot to nuovo «che lo r i sparmiò dalle b r u m e londinesi ma n o n dal­la f redda accoglienza che gli e ra stata r iserbata alla Lanca-ster H o u s e dove n o n gli m a n c a r o n o né amarezze né umi­liazioni». Poiché lo iugoslavo Kardelj , che doveva preceder ­lo, e ra indisposto, fece ant icamera pe r un pomer iggio e pe r la ma t t i na s eguen t e . I c inque minis t r i gli concessero poi , p e r col loqui bi la tera l i , un q u a r t o d ' o r a c iascuno de l lo ro t e m p o prezioso. L'ex-nemico restava tale, e n o n glielo na­scosero.

De Gasperi si espresse con dignità, serio e sobrio. U n a fi­gura d'italiano atipico. Fu ascoltato, il 18 set tembre: e riferì poi al Consiglio dei ministri. Ecco il r iassunto che Nenni fe­ce della sua relazione: «Il minis t ro degli Esteri è stato am­messo a d i re le nos t re ragioni , o a e spo r r e le nos t re tesi, a u n a sola seduta , d u r a n t e la qua le ha pa r l a to m e n o d i mezz 'ora p e r indicare con quale spirito la nuova Italia de­mocratica affronta il giudizio dei cinque: cosciente delle re­sponsabilità del vecchio regime fascista, desiderosa di r ipa­r a r e nella misura del possibile i torti da questo fatti... Solo in brevi colloqui personal i coi vari ministri degli Esteri, De Gasperi ha po tu to accennare ai problemi concreti. Egli tor­na mode ra t amen te ottimista e convinto che niente d ' i r repa­rabile è stato deciso. Sta pe rò di fatto che la Venezia Giulia a n d r à in massima par te agli iugoslavi». I ministri decisero, alla Lancaster House , di non decidere, e de legarono ai loro

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«sostituti» l ' approfondimento dei temi su cui s 'erano scon­trati. Se ne sarebbe ridiscusso dopo qualche mese.

Sulla quest ione giuliana, Ferruccio Parr i e ra stato total­men te solidale con il suo ministro degli Esteri, ed aveva di­feso le posizioni i taliane: in questo differenziandosi net ta­mente dai comunisti . Ma il p r imo governo del dopo-Libera-zione era egua lmente dilaniato dalle polemiche, e la perso­na del suo pres idente ogni g iorno più contestata. Il diffuso ma lumore dei modera t i fu t radot to in vera e p ropr ia offen­siva politica dai liberali che r improve ravano a Parr i le sue r ipe tu te professioni di fede repubbl icana - il che rompeva la t r egua istituzionale cui i part i t i si e r a n o impegna t i - e a Nenn i , Alto commissario pe r l 'epurazione, ta lune faziosità. In real tà i liberali e r a n o impens ier i t i dalla c o n c o r r e n z a e dal successo del l 'Uomo Qua lunque , e volevano recupera re , come si suol dire, a destra. Nenn i era a sua volta vessato da u n a acr imoniosa c a m p a g n a che r iesumava i suoi trascorsi come fondatore del fascio di Bologna: si chiedeva addiri t tu­ra la sua incriminazione pe r «atti rilevanti» in favore del fa­scismo. L'accusa era abbastanza futile, ma lasciava il segno. «Per d i fendermi - osservava N e n n i - dovrei d i re che quel tale fascio di Bologna rispose a u n a esigenza imposta dalla demagogia neutralista. Ma ciò suonerebbe critica alla politi­ca socialista d'allora.»

I liberali l a m e n t a r o n o , in u n a le t tera del 17 n o v e m b r e agli altri partiti della coalizione, «la frattura tra il paese così de t to legale e il paese così de t to reale»: ed era , il loro , un a p p u n t o sacrosanto. Lo stesso Croce si fece au torevole in­terpre te del malcontento modera to . Ma la tesi che egli sotto sotto p ropugnava - il r i torno ai nomi dell 'Italia prefascista, Bonomi , De Nicola, Nitti , O r l a n d o - n o n e ra p iù a t tua le . Era anche la tesi di parecchi monarchic i , al larmati dal cla­m o r e delle sinistre p e r la Cos t i tuente , e dalla p resenza di un r epubb l i cano di ferro come Par r i a C a p o del gove rno nel l ' imminenza della prova elettorale. Se la questione istitu­zionale fosse stata decisa dalla futura Costi tuente, la monar -

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chia n o n avrebbe avuto scampo. Tra i part i t i dell 'esarchia, solo il liberale era in larga prevalenza monarchico . Dall'al­t ra pa r t e della barr icata si ponevano compat t i i socialisti, i comunisti e gli azionisti. Prevalentemente repubblicana, tra gli iscritti n o n t ra gli elet tori , la Democraz ia cr is t iana (un sondaggio aveva accertato, a p p u n t o t ra i militanti, il sessan­ta pe r cento pe r la repubblica, il 17 pe r cento per la monar ­chia, il resto incerto o agnostico). Ondeggian t i anche i de­molabur is t i , ma n o n con tavano . Infatti l e p r i m e elezioni amministrative stabilirono u n a concreta e attendibile gerar­chia dei par t i t i , spazzando via azionisti e demolabur i s t i , d a n d o ai democristiani poco meno del 35 pe r cento dei voti (e i l 42 p e r cento alle sinistre). Fu confermato che da u n a assemblea politica e partitica la Corona sarebbe stata boccia­ta di sicuro. Lasciava qualche maggiore possibilità alla mo­narchia la formula che, a lungo dibat tuta, fu infine a p p r o ­vata, e che por tò alle elezioni del 2 giugno '46: elezioni con il sistema proporzionale pe r la Costituente, che avrebbe ela­bora to la Costi tuzione; abbinato a esse un r e f e r e n d u m che ponesse ai cittadini il d i lemma «monarchia o repubblica?».

Ma pe r arr ivare a questo - abbiamo infatti anticipato al­cuni avvenimenti - era o p p o r t u n o rimpiazzare Parr i con un «arbitro» meno parziale: e, lo si è accennato, i liberali pensa­vano a qualcuno tra i revenants disponibili nell 'archivio poli­tico italiano. Il 22 novembre i ministri liberali annunc ia ro ­no le loro dimissioni, il 24 Parr i d iede le sue. Lo fece male, con un gesto stizzoso, convocando il governo nella Sala Ros­sa del Viminale, present i giornalisti e operator i fotografici e cinematografici. Parr i spiegò d'essere vittima d ' u n a azione prodi tor ia (pronunciò anche le parole «colpo di Stato»). Un «discorso violento», secondo la definizione di Nenn i , «ma det to così male, e così male raffazzonato che l'effetto è stato scarso. Peccato che egli (Parri, N.d.A.) manchi di qualità po­litiche e di comunica t iva u m a n a . E v e r a m e n t e u n a ghiac­ciaia». Il succo delle dichiarazioni di Parr i fu questo: avreb­be presenta to le dimissioni al CLN e non al Luogotenente .

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Aveva fatto i conti senza De Gasperi che gli rispose bene - come sapeva nelle repliche, n o n nelle lunghe esposizioni -pe r r ibadire che non v'era stato alcun colpo di Stato, e che il governo cadeva in quan to gli mancava la fiducia di u n a del­le sue component i . De Gasperi «parlava agi tando u n a sotti­le matita» e Parri , ascoltandolo a testa bassa, p rendeva nota. Q u a n d o l 'al tro ebbe finito, si alzò p e r scusarsi, e p e r d i re che la parola aveva tradito il pensiero. Quindi andò al Qui­r inale pe r rassegnare formalmente le dimissioni. Umber to di Savoia gli conferì, come voleva la consue tud ine , il cava­lierato di Gran Croce del l 'Ordine mauriziano, cui aggiunse i l b reve t to di medagl ia d ' a rgen to p e r i l valore d imos t ra to d u r a n t e la Resistenza. Parri rifiutò cor tesemente i d u e rico­noscimenti , d icendo in part icolare, pe r quan to r iguardava la medag l ia d ' a rgen to , che sarebbe stato « impropr io» p e r lui accettarla men t re c 'erano tanti mort i sconosciuti.

Della crisi vale la pena di r icordare alcuni moment i . An­zi tut to i l r ap ido cade re della c a n d i d a t u r a O r l a n d o , che a Umber to di Savoia stava part icolarmente a cuore, tanto che un suo messaggero era volato in Sicilia pe r s t rappare l'accet­tazione al vegl iardo. Ma O l i a n d o ten tennava , e ancor più t e n t e n n ò q u a n d o , t o rna to a Roma, vide q u a n t o le sinistre gli fossero ostili, considerando la sua presidenza u n o «slitta­m e n t o a destra». Temeva, spiegò, «di bruciarsi», c o m p r o ­me t t endo il suo avvenire politico. Svanì egua lmen te l 'altro proget to - dei liberali e del Luogotenente - di varare un go­ve rno che c o m u n q u e includesse i l t r inomio Or lando-Ni t -ti-Bonomi. Accantonato anche Sforza, emerse la candidatu­ra di De Gasperi, e il 3 dicembre pareva che i giuochi fosse­ro fatti. Ma poi Cattani riassunse in un decalogo i proposit i dei liberali - che dovevano en t ra re nel governo a sei - pe r la gestione futura, e Togliatti si ribellò sos tenendo che i dieci pun t i r iecheggiavano i l p r o g r a m m a del l 'Uomo Qua lunque . Tra il 5 e il 6 d icembre , fu messo in cant iere un governo a cinque che avrebbe escluso i liberali e fatto la felicità delle si­nistre. Ne derivò g r a n d e al larme al Quir inale , in Vaticano,

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negli ambienti economici, forse anche nell 'amministrazione alleata, e De Gasper i fu subissato di telefonate e messaggi ammoni tor i o supplichevoli.

Ma si era compromesso - con le sinistre e anche con al­cuni dei suoi, come Piccioni, Spataro e Sceiba - pe r le tratta­tive a c inque , e veniva incalzato su ques t ' a l t ro f ronte . Lo soccorse - sarebbe accaduto altre volte in futuro - un prov­videnziale svenimento . Nenn i ha raccontato che d o p o u n a conversazione telefonica con Falcone Lucifero, ministro del­la Real Casa, De Gasper i si e ra p re sa la testa t ra le m a n i m o r m o r a n d o : «Cominciano i guai!». Poi aveva r ipreso le di­scussioni nell'ufficio del suo capo di gabinetto pe r decidere della v icepres idenza e del Tesoro. «Qui - t rascriviamo dal diario di N e n n i - è stato colto da un breve deliquio. Erano ormai le d u e (di notte , N.d.A.) e s'è convenuto di sospende­re la r iunione perché potesse ritirarsi a casa e riaversi. Inve­ce... si è recato al Qui r ina le dove il Luogo tenen te lo ha ri­ch iamato a l l ' impegno di fare il gove rno a sei. L ' indomani De Gasper i e ra a letto. Fo rma lmen te si considerava impe­gnato dal voto della notte p recedente ma l'animus n o n c'era più. . . Così m e n t r e noi d i s t r ibu ivamo in casa De Gasper i i portafogli pe r il governo a cinque, in verità già ci si avviava al governo a sei, con u n a lettera di De Gasperi ai liberali che dava assicurazione sul p rogramma.»

Il 10 d icembre il p r imo governo De Gasperi g iurò nelle man i di U m b e r t o di Savoia. I l leader democr i s t i ano t e n n e pe r sé anche gli Esteri, Nenn i ebbe la vicepresidenza e il Mi­nis tero p e r la Cos t i tuente , Togliatti e Scoccimarro furono confermati alla Giustizia e alle Finanze, Corbino ebbe il Te­soro, Romita gli In terni , Manlio Brosio la Guer ra , La Malfa la Ricostruzione, Sceiba le Poste e Telecomunicazioni , Ric­ca rdo L o m b a r d i i Traspor t i , Mole la Pubblica I s t ruz ione , Gronchi l ' Industr ia e commercio, congeniali alla sua perso­nalità, Cattani i Lavori Pubblici. L' impronta ciellenistica re­stava s o l e n n e m e n t e confermata , l 'esigenza di magg io re competenza affacciata dai liberali disattesa.

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Poteva sembrare che n o n fosse cambiato molto, nel pas­saggio da Parri a De Gasperi: ed era invece avvenuto un giro di boa in qualche m o d o più decisivo di quello, imminen te , t r a Monarch ia e Repubblica. L'Italia si lasciava alle spalle - senza avvedersene - n o n solo le recenti smanie resistenzia­li (o a lmeno i loro contenut i rivoluzionari), ma anche la tra­dizione risorgimentale. Si affermava, al vertice del paese, un politico fuori dagli schemi. Non un prefascista, n o n un tipico esponente dell'antifascismo combattivo ed esule, non infine un esponente delle generazioni nuove, cariche di humus fa­scista e di intransigenza antifascista: ma un cattolico t rent ino «prestato all'Italia» che affondava le sue radici in tu t t 'a l t ro contesto storico-politico e in un 'al t ra cultura. A sessantadue anni, De Gasperi era pe r l'Italia un uomo nuovo.

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CAPITOLO TREDICESIMO

IL T R E N T I N O PRESTATO ALE ITALIA

Alla caduta del fascismo, Alcide De Gasperi e ra u n o scono­sciuto pe r la quasi totalità degli italiani. Pur avendo preso il posto di d o n Sturzo esule, come capo del Partito popolare , nei p r imi ann i del r eg ime , n o n aveva avuto i l t e m p o né i l modo , in quell 'atmosfera politica ormai asfittica e condizio­nata , di acquistare popolar i tà . Pr ima del fascismo era stato la personali tà emergen te del cattolicesimo t rent ino e italia­no , d o p o l 'affermazione della d i t t a tu ra d ivenne un perse­guitato e infine un oscuro, modesto burocra te vaticano. Un cur ioso a p p u n t o autografo r iassumeva così, f ino agli ann i Trenta , la sua parabola. 1906. Diret tore del quot idiano // Trentino.

1908. Vicepresidente e m e m b r o di direzione della Banca industriale di Trento .

1909. Consigliere municipale a Trento . 1911. Depu ta to alla provincia e al pa r l amen to austr iaco

di Vienna. 1918. Membro del consiglio amministrat ivo della società

editoriale e tipografica Tr iden tum con 1 milione di capitale che gestiva u n a delle maggior i t ipografìe cattoliche dell 'epoca.

1921. D e p u t a t o a l p a r l a m e n t o i tal iano. P res iden te del g r u p p o popolare .

1921. Segretario della società Grandi Alberghi. 1924. Segretario generale del PPL

Infine l 'ultima amara annotazione. 1929. Avventizio nella Biblioteca Vaticana a 1.000 lire e

poi a 1.500 lire il mese.

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Il ragazzo De Gasperi - di famiglia modesta, il p a d r e era capo della gendarmer ia a Pieve Tesino - aveva studiato con sacrifìci, p r o t e t t o e a iu ta to da un p r e t e in te l l igente , d o n Gentili , e dal vescovo di T ren to mons ignor Endrici . Aveva doti di polemista, e le d imost rò alla direzione del quotidia­no cattolico t ren t ino . Come molti cattolici impegna t i delle t e r re italiane incorpora te ancora ne l l ' Impero aus t ro-unga­rico, era più autonomista che irredentista. L'esperienza par ­lamentare a Vienna gli aveva insegnato che u n o Stato mul­tinazionale poteva essere tollerante e rispettoso verso i dirit­ti delle minoranze . L'intervento italiano, che n o n creò alcun problema di coscienza a Cesare Battisti e a chi, come lui, vo­leva completata a Tren to e a Trieste l 'epopea r isorgimenta­le, fu pe r De Gasperi un d r a m m a . Si sentiva p ro fondamen­te italiano, e nello stesso t empo si sentiva cittadino di un im­p e r o , e di u n a società, nei quali gli e ra stato da to m o d o di affermare le sue doti . U m b e r t o di Savoia, che lo st imò, ha così descr i t to i l c o m p o r t a m e n t o di De Gasper i d u r a n t e la p r i m a g u e r r a mond ia l e : «Alla d ichiaraz ione di g u e r r a De Gasperi è neut ra le ; d u r a n t e e d o p o la crisi militare dell 'ot-t o b r e - n o v e m b r e 1917, q u a n d o sembra che l 'Italia sia sul­l 'orlo della sconfitta, si trova a Vienna: d o p o la riscossa del Piave e il trionfo di Vittorio Veneto, m e n t r e i soldati italiani, già a Innsbruck, sono pron t i a marciare su Vienna, De Ga­speri passa il confine e arriva addir i t tura a Roma. Qui par la alla folla dal balcone di Palazzo Braschi... Il Re, mio p a d r e , si recò a Tren to con il genera le Diaz e lo Stato maggiore e venne r icevuto da u n a delegazione d i i r redent is t i t r en t in i della quale non faceva par te De Gasperi».

I l t emperamen to di De Gasperi, che p u r era a suo m o d o forte, fu contrassegnato dal rifiuto delle posizioni intransi­genti e dalla vocazione pe r la mediazione: perciò la sua ita­lianità, che era, come tutti i suoi sentimenti , p rofonda e sin­cera, fu tempera ta dal l 'ammirazione pe r l 'architettura poli­tica de l l ' Impe ro aus t ro-ungar ico , e il suo cattolicesimo, al­t re t tanto profondo, fu t empera to dalla r ipulsa dell ' integra-

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lismo e della sopraffazione clericale. De Gasperi e ra un de­mocr i s t iano che c redeva in Dio. E, c r e d e n d o in Dio, n o n aveva bisogno di fare il clericale bigotto. Alla Chiesa fu sem­p r e p e r s o n a l m e n t e ligio. Sot tol ineava con orgogl io la sua qualifica di cristiano e di cattolico. P u r senza ostentazione, era prat icante e osservante. Ma, salvo alcuni come il vescovo Endrici di Trento e pochi altri, i pret i avvertivano in lui un g ran puzzo di laicismo, e non lo amavano. Spesso ricambia­ti. Venuto dalla sacrestia, De Gasperi ne conosceva a fondo i pregi e i difetti.

Per un momento , al sorgere del fascismo, anch'egli pensò probabi lmente che potesse essere addomesticato (senza tut­tavia collaborare, come Gronchi) . Le illusioni caddero p re ­sto, e da allora la sua opposizione fu net ta , nell 'Aventino e dopo. Non una opposizione cospirativa, ma u n a ripulsa mo­rale, e infine il r i torno , d o p o l 'esperienza politica che sem­brava p r o m e t t e r e tan to e aveva m a n t e n u t o così poco, alle protettrici sacrestie. Tra l 'una e le altre vi fu un processo, e la p r ig ione . La no t te del l ' I 1 marzo 1927 Alcide De Gasper i , che con la moglie viaggiava in t reno verso Trieste, dove pen­sava di vivere a lmeno pe r qualche t empo (gli squadristi e la polizia fascista gli stavano r e n d e n d o la vita difficile a Roma, con vessazioni e minacce), fu arrestato alla stazione di Firen­ze. Aveva dei document i contraffatti e un passaporto regola­re , benché scaduto. Lo accusarono d 'aver voluto espatr iare c landest inamente e di falso in atto pubblico. La sentenza fu di quat t ro anni di reclusione, ridotti a d u e e mezzo in appel­lo. Tornò in libertà nel luglio del '28, scontata metà della pe­na, e accolta la sua d o m a n d a di grazia. Dopo quat t ro mesi a Regina Coeli e ra stato trasferito nella clinica Ciancarelli, in via di Villa Patrizi, fino alla scarcerazione.

La condanna gli era p iombata addosso come u n a mazza­ta, mater ia le e mora le . I n t a n t o p e r c h é n o n se l 'aspet tava. N o n era , pe r t e m p e r a m e n t o , un ribelle, rifulgeva più nel­l'accettazione - cristiana e u m a n a - dei colpi della sorte che nei gesti di rivolta. Non aveva accettato il fascismo, ma n o n

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l 'avrebbe avversato mai con a t tenta t i o t r a m e clandest ine . «Il Capaneo dantesco - scrisse alla moglie - si lascia brucia­re sdegnoso e fiero dalle fiamme: ma egli aveva voluto pu­gna re cont ro Giove: io invece rimasi folgorato p r o p r i o nel m o m e n t o in cui, abbandona ta ogni milizia, mi rannicchiavo nella mia famigliola.» V 'e ra nei sentimenti di De Gasperi in­dignazione contro la di t ta tura che perseguitava gli inermi, e r imorso pe r i disagi economici e le umiliazioni cui moglie e f ig l ie venivano, p e r colpa sua, sot toposte. De Gasper i n o n aveva u n a professione di r ip iego, costret to com'era , ol tre­tutto, a vivere a Roma. A Tren to avrebbe po tu to essere p ro ­fessore di tedesco. A Roma dovette appoggiarsi alla Chiesa, e nel m o m e n t o peggiore : p r o p r i o q u a n d o Mussolini stava d i v e n t a n d o «l 'uomo della Provvidenza» e con il ca rd ina le Maglione metteva a p u n t o gli articoli controversi della Con­ciliazione. U n a mano il Vaticano gliela diede, ma senza slan­cio: «collaboratore sop rannumera r io addet to al catalogo de­gli stampati» nella Biblioteca Vaticana. Nel '33 il cardinale Tisserant gli rifiutò un a u m e n t o dello st ipendio pe rché De Gasperi «è pagato sul ricavato delle vendite, capitolo incer­to nel nos t ro bilancio e soggetto in questo m o m e n t o a crisi di d iminuzione piut tosto che ad aumenti». Pio XI n o n lo ri­cevette mai. Q u a n d o lasciò la Biblioteca, De Gasperi aveva 62 anni , guadagnava 2.000 lire, ed era segretario. Di quella inerzia studiosa, negli anni che pe r un politico rappresenta­no la p iena e rigogliosa matur i tà , ebbe s e m p r e un r icordo cocente. Questo spiega i suoi scatti cont ro i fascisti che, su­p e r a t e le maglie de l l ' epu raz ione , t o r n a v a n o ad agitarsi : «Non osino chiedere più della libertà di vivere e di guada­gna re che a noi non fu concessa».

Dalla p e n o m b r a l'Italia della gue r r a p e r d u t a vide emer­gere questo personaggio inconsueto, e che p ropr io pe r que­sto forse la rassicurò assai p iù dei santoni prefascisti o dei ton i t ruan t i t r ibun i alla Nenn i . De Gasper i e r a anomalo : e questa fu la ragione p r ima della sua sostanziale soli tudine, nel par t i to , nella classe politica, nel paese. U n a zona d 'aria

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fredda sembrava circondarlo p e r e n n e m e n t e . Era un u o m o in grigio, dalla grigia e asciutta o ra tor ia senza pennacch i , dagli occhi grigi così poco cesarei, dal volto di pietra, grigia anch'essa. Era calmo, paziente, refrattario alla retorica e al­la ostentazione. Non era un u o m o d'ideologia, era un u o m o d'ideali, che sono cosa assai diversa. Era un borghese r ima­sto irr iducibilmente tale, anche nelle ristrettezze d 'un bilan­cio familiare quasi di fame, perché fedele a de terminat i va­lori di decoro e a de te rmina t i pr incìpi di moral i tà . Era un conservatore, se con questo te rmine s ' intende chi n o n crede alle riforme messianiche, e, avendo visto crollare mond i cui e ra affezionato, se li è anche visti sosti tuire da altri m o n d i peggiori . Ma conosceva le ansie, le aspirazioni e le sofferen­ze delle «masse» benché la loro immagine fosse p e r lui, an­che a Roma, anche in anni di governo d 'un paese caotico e improvvisatore, quella dei contadini e degli operai trentini , n o n quella delle jacqueries meridionali o dei picchettaggi vio­lenti nelle varie Stalingrado d'Italia.

«Era un u o m o dota to di senso dello Stato» ha det to Va-liani di De Gasperi . Po t remmo aggiungere , con u n a battuta che non vuol essere spregiativa, che lo fu ind ipenden temen­te dallo Stato in cui agiva. Lo fu a Vienna, e lo fu a Roma. Ebbe fortemente quel senso dello Stato che mancò ai cattoli­ci subito d o p o l 'Uni tà , che m a n c ò a molti t r a loro anche cent 'anni dopo . Alla luce della forte consapevolezza che De Gasperi aveva dell ' interesse nazionale deve essere valutato anche il suo at teggiamento verso la Monarchia. «De Gasperi - ha affermato Valiani - non era repubblicano, era di tradi­zioni monarchiche. . . Accettò tuttavia la Repubblica.. . quan­do capì che solo in tal m o d o si assicurava la democrat ic i tà dello Stato italiano. U n a monarch ia contestata da metà del Paese n o n poteva essere democratica. Un t empo si e ra det­to: la repubblica ci dividerebbe, la monarchia ci unisce: così Crispi nel 1861 e ann i successivi. Nel 1945-46 De Gasper i capì che la repubbl ica ci avrebbe un i to , la m o n a r c h i a ci avrebbe diviso.»

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Non in contrasto con questa, e piuttosto interessante, l'o­pinione che Umber to di Savoia espresse, al r iguardo , ad Ar­tieri: «(De Gasperi) partecipava, senza saperlo, del d r a m m a della monarchia austro-ungarica.. . Forse considerò la cadu­ta della monarchia di Vienna come u n a colpa della Casa Sa­voia. Con la fine della seconda gue r r a mondia le dovette ap­parirgli chiaro che fosse giunta l 'ora del cont rappasso , che la monarch ia italiana fosse sul p u n t o di subire la sorte del­l'altra. E molto probabile. Nel suo intimo inoltre n o n dove­va t rovare facile schierarsi a favore dello Stato monarchico costituzionale visto che l 'altro Stato, quello di Vienna, mo­dello di ordine, decoro, potenza era stato demolito. In que­sto senso si p u ò r i tenere che De Gasperi non pensasse tanto da repubblicano convinto quanto da monarchico deluso».

Sembra accertato che il giorno del r e fe rendum abbia vo­tato repubblica. Ma in pubblico fu sempre cauto, ben sapen­do quan ta pa r te del suo potenziale elet torato fosse monar ­chica, e b e n s a p e n d o delle p r o p e n s i o n i m o n a r c h i c h e esi­stenti in Vaticano e caldeggiate da u n a par te consistente del­l'alto clero. In un comizio disse un giorno, pa r lando più da moralista che da politico: «Volete voi ins taurare la repubbli­ca? Vi sentite capaci cioè di assumere su di voi, popolo ita­liano, tutte le responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta quel la magg io re pa r t ec ipaz ione che esige tale r eg ime , i l quale fa d ipende re tutto, anche il Capo dello Stato, dalla vo­stra persona le decisione espressa con la scheda elettorale? Se r i spondete sì vuol dire che p r e n d e t e impegno solenne e definitivo, pe r voi e pe r i vostri figli, di essere preoccupat i della cosa pubblica più di quan to non foste sin qui...».

La s t ru t tura del governo era decisamente repubblicana, con il posto chiave degli In te rn i a Romita, un ingegnere so­cialista di piccola statura e di modi vivaci. Ma il p r imo presi­d e n t e del Consiglio i tal iano pol i t icamente «cattolico» n o n pose ostacoli alla repubblica soprat tut to perché gli premeva di frenare la spinta populista delle sinistre nel funzionamen­to quotidiano delle s t rut ture statali. Agli slogans di Nenni («la

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Cost i tuente o il caos», «politique d 'abord», «dal governo al potere») oppose la sua tenacia modera t r ice e res tauratr ice . Gli ambienti economici percepi rono subito il cambiamento, e la Borsa reagì alla novità con un p rogresso vigoroso. Lo percepi rono anche gli Alleati che decisero di restituire al go­verno italiano le province del no rd tut tora soggette alla loro giurisdizione. Mancò a De Gasper i , d icono i suoi critici, la volontà o la capacità di cambiare , prof i t tando delle contin­genze eccezionali, alcune cose che, specialmente nella buro ­crazia e nei meccanismi amministrativi, avrebbero po tu to e magar i dovuto essere cambiate. Ebbe un limite: fu un gran­de «normalizzatore», non un innovatore.

Abbiamo già accennato al processo at t raverso il quale l 'Ita­lia si avvicinava al 2 giugno (1946), pe r le elezioni della Co­stituente e il r e f e rendum istituzionale. Ai pr imi di marzo le elezioni amministrat ive che interessarono 15 milioni e mez­zo di elettori d imost ra rono che la DC aveva all'incirca la stes­sa forza delle sinistre coalizzate. Il Part i to l iberale fu r idi­mensionato , il Partito d'azione quasi annul lato. II Luogote­nente avrebbe voluto un rinvio delle «politiche» a d d u c e n d o i l mot ivo , n o n in fonda to , che molt i p r ig ion ie r i d i g u e r r a e r a n o ancora fuori dai confini, e avevano p u r d i r i t to di e sp r imere la loro volontà. Il 18 marzo , pressato , Umber to di Savoia firmò i decreti pe r le elezioni del 2 giugno accom­pagnandol i con u n a lettera in cui garantiva che avrebbe ac­cettato il responso delle u r n e , quale che fosse. Sciolse anche dal g i u r a m e n t o di fedeltà alla C o r o n a tut t i coloro che ne e rano vincolati. La formula del r e fe rendum, che pe r la Mo­narchia e ra la più favorevole - un sondaggio Doxa la dava addir i t tura favorita - aveva avuto il sostegno di De Gasperi , pe r u n a ragione evidente: essa sollevava la Democrazia cri­st iana dall 'obbligo di p ronunc ia r s i , come par t i to , sul p r o ­b lema ist i tuzionale, e di agire di conseguenza nell 'Assem­blea cost i tuente. Demanda ta la decisione al popolo , si trat­tava soltanto di seguirne la volontà. Infatti il congresso del-

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la DC voleva u n o Stato n o n clericale ma «di ispirazione cri­stiana» perché «il cristianesimo è il lievito della civiltà politi­ca» e la vita del cristiano «è il sostegno della società».

A p p a r e n t e m e n t e monoli t ico e sos tanzia lmente incer to , fu il congresso del PCI che delineava d u e politiche contrad­dittorie: da una par te le «larghe alleanze democratiche» che p r e s u p p o n e v a n o intese con tut te le forze popolar i , e d u n ­que anche con i democrist iani; dall 'altra l'avvio della fusio­ne con i socialisti, che avrebbe p o t u t o avere le sue p r i m e realizzazioni in un pat to federativo tra i d u e partiti . L'unità a sinistra non poteva sfociare che in u n a situazione di bloc­co contro blocco.

Propr io questo n o d o dei r appor t i con i comunist i trava­gliò i l congresso socialista nel qua le s ' incont ravano, come sempre nella storia del part i to, l 'anima massimalista e l'ani­ma riformista, costrette a convivere, ma incapaci di collabo­r a r e . Tra Saragat e Basso cor reva un abisso ideologico e u m a n o . Ne uscì i l solito compromesso , con Nenn i relegato alla presidenza - restituì poi il favore a Saragat emarginan­dolo alla p r e s idenza del la Cos t i tuen te - con Ivan Mat teo L o m b a r d o segretario e mediatore , con le varie corrent i r ap ­presen ta te in direzione. La tendenza fusionista era stata in pratica sconfitta, tanto che Togliatti par lò di u n a «azione or­ganizzata e predisposta pe r spezzare l 'unità tanto del Parti­to socialista quan to della classe operaia e dei lavoratori ita­liani».

Vi fu maret ta anche nel congresso liberale, sia pe r le po­lemiche tra fautori e avversari della Repubblica - questi ul­timi, in minoranza, contavano su nomi di spicco come Bro-sio e Carandin i - sia pe r la dissidenza di alcuni elementi del­la sinistra che se ne anda rono , tra gli altri Franco Antonicel-li. I monarchici prevalsero anche sugli agnostici alla Bene­det to Croce, tuttavia confermato nella presidenza: e firma­tar io t ra l 'al tro, sul p i ano e le t tora le , del manifesto di u n a Unione democratica nazionale che includeva Nitti, Bonomi, Or lando .

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Impegna to in questa convulsa fase politica e assillato dai p rob lemi economici , tra gli altri la minaccia della carestia - a fine apri le s'era presenta ta la necessità di r i d u r r e a 150 g r a m m i la raz ione di p a n e - De Gasper i pa r t ì il 2 maggio pe r Parigi, dove si sarebbe svolta una seconda tornata delle r iunioni dei ministri degli Esteri, sui trattati di pace.

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E P I L O G O

De Gasper i t o r n ò da Parigi alle 15 del l '8 maggio . N e n n i , che a n d ò a p rende r lo a Centocelle, dice di avergli accenna­to al p r o b l e m a del l 'abdicazione di Vittorio Emanue l e , che a lcune voci d i palazzo davano p e r imminen t e . Ma sembra che De Gasperi non se ne mostrasse molto interessato.

L ' indomani mat t ina pe rò , 9 maggio , egli a n d ò in Quir i ­nale , dove ebbe con U m b e r t o un incon t ro che poi d i ede esca a qualche polemica. Ad abdicazione avvenuta , infatti, d u r a n t e un Consiglio dei ministri, alcuni di costoro lo accu­sarono di avergli taciuto la notizia della r inuncia di Vittorio Emanuele , di cui il Luogotenente doveva averlo informato. Secondo le sinistre, questo gesto rompeva il «Patto istituzio­nale», ossia l ' impegno assunto paral le lamente dalla Corona e dal governo di r ispettare lo status quo, e quindi De Gasperi avrebbe dovu to comunica r lo in t e m p o ai suoi ministr i . In rea l tà esse t e m e v a n o che l 'avvento sul t r o n o d i U m b e r t o riaccreditasse, alla vigilia del re fe rendum, la monarchia . De Gasperi rispose che i l Luogo tenen te n o n gliene aveva dato notizia. Ma q u a n d o si t r a t tò di m e t t e r e la d ichiaraz ione a verbale, vi fece agg iungere la parola «ufficialmente». Il che ci fa r i tenere che, confidenzialmente, era stato informato.

Lo stesso giorno, subito d o p o l ' incontro con De Gasperi , Umber to prese l 'aereo p e r Napoli. E qui conviene lasciar la paro la a Puntoni , sulla cui notarile scrupolosità n o n si pos­sono avanzare dubbi :

«9 maggio 1946. Senza preavviso, alle 12,45 a r r iva il Pr inc ipe d i P iemonte accompagna to dal duca Acqua rone , dal generale Cassiani e dal capitano Avalle. Chiede subito di

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par lare con Sua Maestà. Gli dice che è o p p o r t u n o che l'ab­dicazione e la par tenza avvengano in giornata. Gli comuni­ca inol t re che il viaggio sarà c o m p i u t o con il Duca degli Abruzzi, il quale sarà scortato dal caccia Granatiere. Ri tengo che si siano accelerati i tempi pe r far trovare il Consiglio dei ministri di fronte al fatto compiuto . De Gasperi che, appena tornato da Parigi, ha avuto un colloquio con i l Luogotenen­te, dov'essere al cor ren te della cosa. Anche Stone, che r ap ­presenta gli Alleati, è d'accordo.. .

«Vedo il Sovrano soltanto alle 15, q u a n d o scende p e r re­digere l 'atto di abdicazione. L'atto, anzi, è già stato reda t to dal Re su carta semplice, ed è il duca Acquarone che lo por­ta nel salone al p i an te r r eno della villa, dove si t rovano in at­tesa il Sovrano, il notaio Angrisani, il sottoscritto e il tenente colonnello De Buzzaccarini. Angrisani g u a r d a il foglio e fa no t a r e che è necessar io che sia t rascr i t to su car ta bollata. Sua Maestà risale al p iano super iore insieme con Acquaro­ne . Dopo pochi minut i il Re scende solo, con l 'atto di abdi­cazione in m a n o . Saluta il nota io . Sembra calmo e se reno , ma è facile capire che fa ogni sforzo pe r domina re l 'emozio­ne. Io capisco che la sua voce non ha il solito tono. Si rivolge a me . Dice: "Hai visto? E successo p iù pres to di quello che credevamo". Il notaio si accinge a postillare l 'atto. Il Sovra­no gua rda e dice: "Ho usato la stessa formula usata da Car­lo Alberto nel 1849".

«Angrisani dice: "Maestà, le faccio osservare che sull'atto ha messo la data 6 Maggio, anziché 9". II Re fa la correzio­ne. Come mai tale sbaglio? Ritengo che Sua Maestà abbia ri­copiato all 'ultimo m o m e n t o una minuta che aveva p repara ­to fin dal 6 maggio, data la sua intenzione di compilare l'at­to di abdicazione in maniera identica a quella del suo avo...

«Alle 18 a p p a r e nelle acque di Posillipo il cacciatorpedi­n ie re Granatiere. Alle 19 a p p a r e il Duca degli Abruzzi. D u e motoscafi a t t endono le Loro Maestà e il seguito, attraccati al piccolo molo di Villa Maria Pia. Soltanto verso le 19, quan­do il Sovrano viene sulla terrazza insieme con l 'ammiraglio

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De C o u r t e n p e r osservare le navi che s 'avvicinano, posso parlargl i . Il suo viso e impenet rab i le . N o n profferisce u n a parola che denot i debolezza e r impianto . N o n mi ringrazia e n o n dice n e p p u r e che si rammar ica di staccarsi da me . È il suo carattere.. .

«Re Umber to è fermo sulla riva e osserva l ' imbarco degli Augusti Genitori . Alle 19,40 l ' incrociatore leva l 'ancora e si muove lentamente . Inizia il viaggio che por ta il Re verso l'e­silio. Non si sente u n a voce. Si sente soltanto il silenzio».

Non sappiamo cosa pensasse e provasse Umber to in quel momen to . Se nell 'addio c'era stato fra i d u e qualche abban­d o n o alla commozione, questo era avvenuto nell ' incontro di qualche ora pr ima, che si e ra svolto senza testimoni. Ma ne dubi t iamo. Gli abbandon i n o n e r ano contemplat i nel gala­teo dei Savoia, di cui p a d r e e figlio - l ' uno forse p e r cini­smo, l'altro pe r disciplina - furono sempre scrupolosi osser­vanti.

Ma da quanto , nel rifugio di Cascais, Umber to confidò a u n o degli au to r i d i ques to l ibro, egli c o m p r e s e beniss imo che su quella nave si allontanava pe r sempre n o n un Re, ma la Monarchia . Quel lo ch'egli si accingeva a vivere n o n era che un poscritto. Doveva d u r a r e in tutto 23 giorni.

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Indro Montanelli - Mario Cervi

L'ITALIA DELLA REPUBBLICA (2 giugno 1946-18 aprile 1948)

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AVVERTENZA

Questo volume, che va dal referendum istituzionale del giugno '46 alle elezioni del 18 aprile '48, avremmo anche potuto intitolarlo «LItalia delle scelte» perché fu in questo triennio che il nostro Paese fece quelle fondamentali: instaurò la Repubblica al posto della Mo­narchia, e si schierò nel campo delle Democrazie occidentali.

Si dirà che questa seconda scelta non la facemmo noi; l'avevano già fatta, per noi, gli accordi di Yalta, dove gli anglo-americani e i russi si erano spartiti l'Europa, e più ancora l'avevano fatta gli eserciti che la occupavano. Ma questo è vero solo per quanto ri­guarda i Paesi dell'Est, piantonati dall'Armata Rossa, che non con­sentì loro di esprimere la propria volontà. Eltalia, come tutte le al­tre nazioni liberate dagli anglo-americani, avrebbe potuto decidere il proprio destino contro i loro interessi. Le truppe che ci occupava­no non sarebbero mai intervenute per impedircelo: su questo punto i governi di Washington e di Londra furono sempre espliciti: pronti a dare manforte alla nostra democrazia se fosse stata aggredita con mezzi illegali e violenti, ma anche ad abbandonarla alla sua sorte, se con mezzi democratici, cioè con libere elezioni, avesse deciso dì se­guirne un'altra.

Lora della verità scoccò il 18 aprile del '48. Ma a determinare il risultato di quelle elezioni fu proprio il biennio che le precedette, e che costituisce la materia di questo libro. Non sono più molti, temo, gl'italiani che abbiano un ricordo nitido di quel periodo convulso, fatto insieme di grandi speranze e di grandi paure: l'impeto con cui tutti si gettarono a ricostruire ciò che le bombe avevano distrutto, ma anche il disordine con cui lo fecero, ognuno intento soltanto al­le cose proprie e al proprio tornaconto, senza un minimo di pro­grammazione, senza alcun riguardo all'interesse generale; la rapi-

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dita e la spregiudicatezza con cui furono aggirati tutti gl'impacci e restrizioni imposte dall'amministrazione militare alleata; il fiorire della borsa nera che. creò una categoria di nuovi ricchi dediti ai lus­si più sfrenati in un panorama di macerie; l'epopea della bicicletta, unico mezzo di locomozione sicuro e sottratto alle strettoie dei tesse­ramenti di combustibile; la corsa ai brevetti di partigiano e le sma­nie dell'«epurazione» nutrite da un'alluvione di lettere anonime di denuncia contro qualche fascista (ognuno aveva il suo, di cui occu­pare il posto o la casa); le strade rigurgitanti di gente indaffarata a rimettere in piedi i propri affari, studi e negozi; le piazze ingombra­te dai capannelli degli agit-prop, quasi tutti comunisti, concionanti sui destini della democrazia; la frenesia dei comizi che provocavano mobilitazioni di masse molto simili alle «oceaniche adunate» del «bieco ventennio» o, come usualmente lo si chiamava. E una gran voglia di vivere mescolata a un'altrettanto grande ansietà.

Di coloro che avevano votato Repubblica, la stragrande mag­gioranza lo aveva fatto per punire un Re che aveva accettato il fa­scismo, subito la guerra, e poi era fuggito abbandonando il Paese e l'esercito al loro destino. Pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l'Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai opera­to a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una co­scienza nazionale. Ma, scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizio­ne. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per ventanni l'a­veva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato so­prattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo.

Ci fu chi, prevedendo lo sfacelo, cercò scampo nei Paesi che sì riaprivano alla nostra emigrazione: America Latina, Canada, Au­stralia. Era un'emigrazione assai diversa da quella col passaporto rosso delle epoche prefasciste, di badilanti e zappaterra. C'era gente in cerca di un clima adatto alla sua intraprendenza, e anche tecni­ci e dirìgenti che, epurati o temendo di esserlo, preferirono mettere altrove a profitto la propria esperienza, e la fecero brillare.

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Ma un fenomeno ancora più sconvolgente fu quello dell'emigra­zione interna, che subito prese l'aire dal Sud verso il Nord e assun­se dimensioni alluvionali. Le strutture patriarcali del contadiname meridionale non avevano retto al rimescolìo della guerra, al conta­gio degli eserciti d'occupazione, alle seduzioni della borsa nera e della prostituzione. A trattenere i contadini nelle campagne non valsero le promesse di una riforma agraria che, quando venne, era già in ritardo dì alcuni decenni. Essi l'anticiparono con occupazio­ni arbitrarie dì terre, da cui però si accorsero subito che non avreb­bero ricavato alcunché. E allora si misero in movimento prima ver­so le città più vicine, poi verso il Nord, dove li risucchiava il vigo­roso decollo industriale. Questo fenomeno doveva farsi ancora più imponente negli anni Cinquanta, ma era già in sviluppo quando ancora, per compiere il tragitto da Napoli o da Bari a Milano, i treni, rigurgitanti dì viaggiatori, impiegavano trentasei ore, e non sevipre arrivavano a destinazione.

La frenesia di vita che animava l'Italia somigliava a quella che, a quanto sì dice, s'impadronì dei passeggeri del Titanio dopo l'urto con l'iceberg. Dovunque e in tutti c'era un senso di provvisorio. Il frenetico attivismo dei comunisti, i loro toni trionfalistici, la pressio­ne a cui tenevano sottoposta la pubblica opinione incalzandola un po' con le minacce, un po' con le lusinghe, davano l'impressione ch'essi avessero ormai partita vinta. E in certe regioni infatti l'ave­vano, come l'Emilia, dove il «triangolo della morte» coi feroci am­mazzamenti perpetrati dai comunisti subito dopo la Liberazione, in­vece di provocare una reazione dì rivolta, aveva sortito - e forse continua a sortire - gli effetti dell'intimidazione. Nenni parlava, compiacendosene, di un «vento del Nord», e con ragione, perché tutto il Nord sembrava ormai in balìa dell'ondata rossa.

Ma non il Sud. E fu questa differenza di clima, ideologico e pas­sionale, molto più che la difficoltà dei mezzi di comunicazione, e il diverso trattamento amministrativo cui dapprincìpio gli Alleati sot­toposero i due tronconi della penisola, ad approfondire il solco fra di essi. Fu proprio in opposizione al vento del Nord che nacque il «qualunquismo», fenomeno essenzialmente meridionale e - in quel momento - salutare, come sedativo dì certe frenesie. Ma le frenesie

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sembravano avere il sopravvento e trascinare il Paese verso avven­ture, di cui era facile prevedere lo sbocco: Nostradamus nel cui ine­saurìbile magazzino c'è, per chi ci crede, qualcosa da pescare per ogni emergenza, aveva profetato che un giorno ì cosacchi avrebbero dissetato ì loro cavalli alle fontane di Piazza S. Pietro.

Qualcuno dice che l'Italia non era mai stata grande come in quel momento per lo slancio con cui affrontò la ricostruzione, per la fiducia che mostrò nel proprio destino e per la elasticità con cui si adattò alle nuove esigenze. Qualche altro dice che l'Italia non era mai stata così abbietta per la facilità con cui la gente cambiò ban­diera, per la disinvoltura con cui ripudiò il proprio passato e per la spensieratezza con cui sacrificò ogni scrupolo di solidarietà e di ci­vismo al proprio interesse personale.

Forse hanno ragione gli uni e gli altri. Ma è certo che l'atavico istinto dì conservazione fece presto ad avere la meglio. Più i partiti della sinistra si agitavano, in gara tra loro a chi reclamava le rifor­me più audaci, più l'italiano della strada, pur fingendo in piazza di partecipare ai grandi slanci progressisti, si arroccava in casa a difesa dei valori tradizionali e più ancora dei suoi interessi privati.

Gli storici, anche quelli anticomunisti, sono concordi nel dire che Togliatti esercitò un'azione sedativa sulle masse rosse un po' per scrupolo legalitario e allergìa alla violenza, un po' in ossequio agli ordini di Stalin, che non voleva allarmare gli ex-alleati destabiliz­zando un Paese che, secondo le pattuizioni dì Yalta, apparteneva alla loro zona d'influenza, nel momento in cui riduceva a colonie quelli dell'Est.

Può darsi che sia così. Togliatti non era un rivoluzionario. Da vero uomo di «apparato» cresciuto alla scuola sovietica, disprezzava le inasse; forse temeva, scatenandole, di restarne prigioniero; e forse ancora di più paventava che l'instaurazione a Roma di un regime comunista facesse dì lui uno di quei «proconsoli» che il padrone del Cremlino sottoponeva a regolari «purghe» per sottrarre ì loro suc­cessori a tentazioni d'indipendenza.

Ma può darsi anche ch'egli allentasse la tensione delle piazze per­ché queste gli davano la certezza di poter raggiungere il potere senza il bisogno di ricorrere a mezzi illegali. La sicumera con cui, quando

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fu sbarcato dal governo, andava ripetendo nei comizi di aver ordi­nato al calzolaio un paio di scarpe chiodate per poter prendere me­glio a pedate De Gasperi, era probabilmente sincera. E a rafforzarla c'era forse anche la convinzione che un potere raggiunto per via de­mocratica grazie a un consenso liberamente espresso di popolo gli avrebbe dato maggior forza anche nei confronti di Mosca.

Sono soltanto supposizioni: nessuno ha mai penetrato ì veri pen­sieri e sentimenti di Togliatti. Ma il fatto che gli se ne possano attri­buire di questo tenore basta a dimostrare quanto, in questo decisivo triennio, l'Italia apparente fosse talmente diversa da quella reale da trarre in inganno anche un politico perspicace e consumato come Togliatti. Lo slancio dì entusiasmo e di fiducia che aveva animato il Paese al momento della Liberazione si stava esaurendo. Solo i mili­tanti socialcomunisti seguitavano ad animare il dibattito ideologico. La grande opinione pubblica già si mostrava stanca dei partiti e non seguiva che straccamente i lavori della Costituente, intenta a confezionare la Magna Char ta della democrazia italiana e delle sue libertà. Non riconosceva in essi la propria espressione, e già co­minciava a chiedersi se non avesse avuto ragione Mussolini a te­nerli in quarantena per vent'anni.

Fu in quest'atmosfera che incubò la disfatta elettorale socialco-munista del '48, terminale del dopoguerra vero e proprio.

I. M.

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CAPITOLO PRIMO

IL RE DI MAGGIO

L'abdicazione di Vittorio Emanue le I I I (9 maggio 1946), e la sua immedia ta par tenza pe r l'esilio egiziano furono defi­niti da Palmiro Togliatt i «l 'ultima fellonia di u n a casa re ­gnante di fedifraghi che dimostra ad ogni passo di mancare a quella b u o n a fede costituzionale che è essenziale p e r chi deve r egna re n o n con una legge assoluta, ma con u n a costi­tuzione che r i sponda alla volontà sovrana del popolo».

L'enfasi di ques to l inguaggio , così poco nello stile della «svolta di Salerno», dimostra che il congedo del vecchio Re, p u r atteso e scontato, e la successione al t rono di U m b e r t o I I , sort i rono nel m o n d o politico italiano l'effetto di un elet­t rochoc . Togliatti («una volta t an to in t rans igente» a n n o t ò Nenni ) sos tenne che la Monarch ia aveva violato la t r egua istituzionale, concordata q u a n d o era stata creata la Luogo­tenenza, e che pe r legittima ri torsione De Gasperi , nella sua qualità di Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto assume­re le funzioni di Capo provvisorio dello Stato.

Si è discusso pa recch io sulle rag ioni di ques t ' a t teggia­m e n t o del capo comunista: qua lcuno - ad esempio il mini­stro liberale Leone Cattani - l 'attribuì a p u r o calcolo, ossia al suo desider io di rifarsi, d o p o tanti cedimenti , u n a vergi­nità repubbl icana . Altri vide in esso, invece, u n a reazione emotiva se n o n p ropr io uno scatto nervoso pe r l 'improvviso r imesco lamen to delle car te . Ce r to è che Togliatti si t rovò isolato, e nel Consiglio dei ministri che si r iunì il 10 maggio accettò, sia p u r e r i n n o v a n d o le sue accuse alla Corona , la tattica minimizzatrice di De Gasper i e, tu t to sommato , an­che dei socialisti. Fu deciso di considerare l 'accaduto «un at-

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to in terno di Casa Savoia». Uno schema di decreto approva­to a t a m b u r ba t t en t e stabilì che i d o c u m e n t i dello Stato avrebbero avuto d 'al lora in poi l ' intestazione «In n o m e di U m b e r t o I I , Re d'Italia», ma senza la formula tradizionale «per grazia di Dio e volontà della Nazione».

Ma l'«atto interno» risultò tut t 'a l t ro che tale. Uentourage di Umber to (abbiamo in proposi to la test imonianza di u n o dei suoi aiutanti di campo, l 'ammiraglio Franco Garofalo) lo considerava il «qualcosa di nuovo che scuotesse l 'opinione pubbl ica e r idestasse negli i taliani que i p r inc ìp i e quel le energ ie che l 'equivoco della Luogo tenenza aveva fatto di­ment icare e sopire, nella convinzione che la monarch ia già non esistesse più».

All ' invest i tura d i U m b e r t o , De Gasper i n o n in t endeva oppors i . Sappiamo che era stato informato in anticipo, an­che se a titolo pr iva to , della abdicazione di Vit tor io Ema­nuele . Sappiamo egua lmen te che , di fronte a questa even­tualità, si era consultato con l 'ammiraglio Ellery Stone, ame­ricano, e capo della Commissione alleata p e r l'Italia. Stone, in una lettera che De Gasperi aveva già in mano l'8 maggio, precisò che pe r gli Alleati la novità n o n aveva rilievo: «I Ca­pi di Stato Maggiore sono del p a r e r e che l 'abdicazione del Re non compor ta nessuna azione o commento da par te del­la Commissione alleata, in quan to non tocca pe r nulla i po­teri costituzionali del pr incipe Umberto».

Gli anglo-americani e r ano risoluti a os tentare , pe r il di­l e m m a ist i tuzionale, u n a posizione d i r igorosa neut ra l i tà . Stone aveva, p e r s o n a l m e n t e , s impat ie mona rch i che . Uffi­ciale già anziano della Riserva navale degli Stati Uniti , e ra stato m a n d a t o ad Algeri , q u a n d o la Commiss ione di con­trollo pe r l 'Italia vi si e ra insediata, come tecnico delle co­municazioni postali e telegrafiche. L'Artieri riferisce che a procacciargli quell ' incarico era stato t ra l 'altro il fatto di es­sere stato insignito della C o m m e n d a della Corona d'Italia. Per i meccanismi delle promozioni e delle sostituzioni, Stone s'era trovato ad essere il vice dell'inglese Mason MacFarlane,

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protagonista dei pr imi contatti t ra gli Alleati e il governo di Brindisi. Rimosso MacFarlane, b ru t to carat tere - e ostile ai Savoia, tanto che s'era scontrato in proposito con Churchill -Stone ne aveva preso il posto, sia p u r e a titolo provvisorio (tra inglesi e amer icani vigeva la regola del l 'a l ternanza, se avessero manda to via anche lui l'incarico sarebbe stato asse­gnato ad Ha ro ld Macmillan, i l futuro Pr imo minis t ro con­servatore britannico).

A Roma Stone s'era lasciato ammal ia re dal bel m o n d o e dal l 'ar is tocrazia (vi t rovò perf ino moglie) e aveva s t re t to amicizia con i l genera le Infante , a iu tan te di U m b e r t o . Ma nelle capitali alleate l 'atmosfera era cambiata: sopra t tu t to a L o n d r a , dove i laburist i , vinte le elezioni, e r a n o anda t i al governo, e si mostravano molto più freddi di Churchil l ver­so la Monarchia. Inol t re i risultati delle elezioni amministra­tive di marzo, e la condot ta di De Gasperi , r endevano assai m e n o inquie tan te , p e r L o n d r a e pe r Washington, l 'ipotesi di u n a vittoria della Repubblica. Tuttavia l ' indifferenza dei vincitori pe r l'ascesa al t rono di Umber to II fu un e lemento rass icurante p e r i monarch ic i . Se gli anglo-amer ican i , su­pervisori della legalità democratica, n o n obbiettavano, per­devano forza le proteste e le indignazioni dei partiti .

Ciò che alla fine indusse i leaders politici - compreso, do­po u n a pausa di riflessione, l'infuriato Togliatti - alla rasse­gnazione fu la conferma della data del 2 giugno pe r il refe­r e n d u m . I monarchici avevano chiesto r ipe tu tamente che la dupl ice p rova - r e f e r e n d u m isti tuzionale ed elezione del­l'Assemblea cost i tuente - fosse rinviata a epoca più oppor ­tuna. Sottolineavano, n o n senza fondamento , che avrebbe­ro fo rza tamente d iser ta to le u r n e cent inaia d i migliaia d i prigionieri tu t tora in attesa del r impatr io , nonché i cittadini della Venezia Giulia e dell'Alto Adige. Meglio aspettare. Ma la richiesta di rinvio aveva, al di là di queste spiegazioni pa­triott iche, u n a molla s t rumenta le . Gli ambient i della Corte sentivano che, via via che si placava il vento del Nord , si svi­luppava nel Paese u n a r imonta monarchica . Ma ventiquat-

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t ro g iorn i e r a n o pochi p e r c h é U m b e r t o , f inalmente Re a tutt i gli effetti, l iberato da l l ' i ngombran te presenza del pa­d r e , riuscisse a r icos t ru i re la sua i m m a g i n e e a r i n n o v a r e quella della Monarchia.

Il suo compito era quasi proibitivo. L'uomo che nei mesi della Luogo tenenza s'era dis t into p e r la scrupolosa osser­vanza degli obblighi costituzionali e pe r la signorilità sorri­den te e autorevole del tratto, doveva, come Re, essere al di sopra delle part i , e nello stesso t empo fare p r o p a g a n d a elet­torale. Non esisteva un vero parti to monarchico, i consiglie­ri di U m b e r t o avevano scartato questa soluzione. Difficile dire, oggi, se avessero visto giusto.

Era questo che aveva arroventa to le proteste contro l'ab­dicazione di Vit torio E m a n u e l e . Poiché la Cor t e voleva il r invio delle elezioni, e i part i t i i n t endevano t ene r ferma la data del 2 giugno, fu evidente ai leaders politici repubblicani che u n a crisi o r ig ina ta dal l ' abdicazione po teva d iven ta re p r o p r i o il diversivo che U m b e r t o cercava. Dal conflitto t ra Re e governo - se al conflitto aper to si fosse giunti - sarebbe derivato un intrico di problemi costituzionali e politici. Um­be r to aveva la facoltà di l icenziare il governo , sia p u r e sol­tanto pe r guadagna re t empo. E in tal caso gli Alleati sareb­b e r o diventat i p r o b a b i l m e n t e arbi t r i dello scon t ro . Ma in una atmosfera incandescente di accuse e controaccuse, refe­r e n d u m ed elezioni per la Costi tuente sarebbero stati irrea­lizzabili, o c o m u n q u e viziati. In ques ta occasione N e n n i p o r t ò acqua al m u l i n o di De Gasper i , cui p r e m e v a di to­gliersi la spina del re fe rendum, senza t roppe ambasce pe r il suo esito. De Gasperi e ra consapevole della forza sua e del suo part i to, su cui Nenn i invece p rendeva abbaglio. Il capo socialista annotava il 14 maggio nel suo diario: «Da Verona sono r i en t ra to in ae reo (dopo u n a serie di comizi) con De Gasperi , il quale aveva par la to d o p o di me a Verona, nella elegante Piazza Dante, davanti a poche centinaia di persone sbandate r ap idamen te pe r la pioggia. È impress ionato pe r il successo dei nostri comizi e inquieto circa l'avvenire».

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Liberato dall ' incubo di un rinvio del r e f e rendum, il gover­no r imase tuttavia con quello del l 'ordine pubblico. L'assillo di evitare l ' incidente grave, e forse fatale, poneva in sottor­dine ogni altra considerazione. E questo fece sì che venisse­ro approvate con noncuranza , e con negligenza, misure del­le quali i l Paese subisce tu t to ra le conseguenze . Venne ad esempio varato in fretta un proget to - m a n d a t o ai ministri della Consulta siciliana - che concedeva alla Sicilia u n a au­tonomia inconcepibilmente ampia , ritagliata sulle esigenze, le ambizioni, gli appeti t i di una classe politica locale avida, spensierata e prodiga, n o n certo sull 'interesse del Paese.

L'ordine pubblico, considerato la vera misura della effi­cienza governativa, e ra affidato a d u e uomini , en t r ambi di sinistra, e n t r a m b i repubbl ican i dichiarat i : Togliatti , mini ­stro di Grazia e Giustizia, e Giuseppe Romita, socialista, mi­nistro de l l ' In te rno . Togliatti n o n dimenticava mai l ' ideolo­gia, e gli obbiettivi politici comunisti . La cautela di cui diede prova, come Guardasigilli , e ra in sintonia con la sua tattica morbida, compromissoria, tesa a u n a conquista indolore del po te re (sia p u r e , inizialmente, a mezzadria) . Ma era anche in sintonia con la sua personale r ipugnanza pe r gli eccessi e p e r gli sfoghi r ivoluzionari incompost i . Professorale, intel­le t tualmente e carat ter ia lmente altero, n o n aveva certo im­para to , nei molti anni di soggiorno moscovita, ad apprezza­re le esplosioni e le convulsioni bar r icad ie re . Ai magistrat i inviò u n a circolare in cui rilevava che in mol te province si e r ano verificate «manifestazioni di protes ta da pa r te di di­soccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a d a n n o di uffici pubblici nonché di violenze con t ro i funzionari . Per tan to questo minis tero. . . si rivolge alle Signorie L o r o invi tandole a voler impa r t i r e ai d ipen­denti uffici le o p p o r t u n e direttive affinché contro le persone d e n u n c i a t e si p roceda con la mass ima sol leci tudine e con es t remo r igore . Le is t rut tor ie e i relativi giudizi d o v r a n n o essere espletat i con assoluta u rgenza o n d e ass icurare u n a p r o n t a ed e sempla re repress ione». E g u a l m e n t e d u r o e ra

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stato i l suo in tervento cont ro Riccardo Lombard i , prefet to politico socialista e resistenziale di Milano, che aveva desti­tuito i l d i re t tore del carcere di San Vittore d o p o u n a delle r i co r ren t i rivolte d i de t enu t i , r imp iazzando lo con un ex­part igiano comunista: «Apprendo arbitraria destituzione di­re t tore carcere e sua sostituzione con funzionario n o n com­p e t e n t e . Invi tola i m m e d i a t a m e n t e a revocare p rovve­d imento» . D o t t r i n a r i a m e n t e r ivoluzionar io , ma istinti­vamente repressore, consapevole dei limiti che la «protezio­ne» alleata poneva alle velleità insur rez iona l i , Togliatti blandì la magistratura, utilizzò i funzionari fascisti, accettò il sostanziale fallimento della epurazione. Le «volanti» rosse, i comunisti alla Secchia con i loro arsenali nascosti e i loro mi­t ra che talvolta si facevano sent i re - come nelle carceri di Schio dove era stata fatta s t rage, nel g iugno del '45 , degli accusati di fascismo che vi e rano rinchiusi - e rano una riser­va. Ma per il momen to la parola d 'ord ine era la legalità. To­gliatti aveva riconosciuto la necessita di un 'amnis t ia che sa­nasse a lmeno in pa r te i t roppi conti - politici e giudiziari -in sospeso: ma volle che, decisa a fine maggio, fosse p romul ­gata d o p o il r e fe rendum pe rché il Re n o n se ne potesse at­tr ibuire il meri to.

Romita e ra un i n g e g n e r e sulla sessantina. Tor tonese d i nascita, si era formato, come militante socialista, a Torino. Il pad re , capomast ro , e ra stato fervente monarchico e galop­p i n o ele t torale di d e p u t a t i conserva tor i . Molto piccolo di statura, con una faccia b ru t t a e simpatica da gnomo , Romita aveva modi bonar iamente bruschi. I giornalisti che lo inter­rogavano sapevano che, se la d o m a n d a era a p p e n a imperti­nente , avrebbero avuto pe r risposta un ceffone semipaterno o un pugno . Q u a n d o s'era trat tato di nomina re , nel p r imo Gabinetto De Gasperi , il ministro del l ' In terno, l'allora Luo­gotenente avrebbe visto volentieri la designazione d 'un vec­chio «saggio»: O r l a n d o , Nitti , Bonomi . In vista d ' u n a con­sultazione da cui d ipendeva il destino della Monarchia, u n o di questi revenants (fantasmi, come li aveva sprezzantemente

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definiti Vit tor io E m a n u e l e I I I ) sarebbe stato garanz ia di correttezza e obbiettività. I dosaggi politici volevano invece che la po l t rona fosse assegnata a un socialista: ne era dub ­bio solo il nome . Anche qui la Cor te aveva un suo preferito, Angelo Corsi, che era , in casa socialista, u n o degli uomin i meglio disposti verso Umber to . In subordine Gaetano Bar­bareschi, un mite sindacalista. Venne invece designato Ro­mita, che n o n era certo un massimalista, ma aveva grinta: e sbandierava ai qua t t ro venti la sua inconcussa fede r e p u b ­blicana.

Nell 'I talia disastrata di quel p r i m o d o p o g u e r r a , con gli strascichi della mat tanza di fascisti al Nord , con i fenomeni di bandi t ismo un po ' dovunque - in Sicilia, ma anche a Mi­lano o sul passo del Bracco in Liguria, dove i rapinator i era­no in sistematico agguato - la po l t rona di ministro del l ' In­te rno era forse la più scomoda del governo. Nel Sud divam­pavano frequenti jacqueries sanguinose - p ropr io quelle che avevano provocato la citata circolare di Togliatti - nelle qua­li i moventi veri della fame e della disoccupazione si intrec­ciavano all 'azione di sobillatori. L'Arma dei carabinieri ave­va m a n t e n u t o , nonos tan te tut to , u n a apprezzabile discipli­na e u n a discreta efficienza. Alto era inoltre il suo prestigio, e in ta t to il r i spe t to del la popo laz ione nei suoi confront i . Non era lo stesso pe r la polizia, che dovette subire il recluta­m e n t o di ufficiali e agen t i ausil iari - quindic imi la - t ra t t i dalle f i le part igiane. Era u n a misura benintenzionata, alme­no pe r la maggioranza dei componen t i i l governo: mirava ad i n q u a d r a r e nel servizio pubbl ico e l emen t i avviati allo sbando e alle violenze. Accadde tuttavia che - in part icolar m o d o a Milano, dove al posto di Lombard i si e ra installato un altro «politico», Et tore Troilo, avvocato e capo part igia­no abruzzese - i nuovi poliziotti si rivelassero bravacci ma­neschi , e anche disonesti . Dopo un ' inchies ta si p rocede t t e all 'arresto di un vicequestore ausiliario, e altri elementi ven­ne ro allontanati o puni t i . La polizia era insomma un orga­n i smo a m b i g u o , t r o p p o vecchio e t r o p p o n u o v o ins ieme,

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politico pe r residui fascisti e politico pe r inquinament i rivo­luzionari ed eversivi di sinistra.

Romi ta - lo r i co rd i amo a suo mer i to - ebbe u n a p a r t e decisiva nel ripristino dei prefetti di carriera, dopo le tante n o m i n e azza rda tamente poli t iche (Milano r imase un 'ecce­zione). Il Consiglio dei ministri s'era occupato del problema in due riprese, il 31 gennaio e il 15 febbraio 1946, e De Ga­speri aveva vigorosamente sostenuto la tesi che le prefet ture dovessero tornare nelle mani di funzionari di carriera, libe­ri da influenze ideologiche e politiche. «I prefetti di carr iera sono dei polit icanti e dei reazionar i , h a n n o ancora le liste degli antifascisti e non quelle dei fascisti» gli aveva replicato il comunista Scoccimarro. Ma con De Gasperi e con i libera­li si e ra schierato Romita, r e n d e n d o possibile la «restaura­zione».

Restava, con tut to questo, il fatto inoppugnabi le che il re­fe rendum sarebbe stato p repa ra to e sorvegliato da un mini­stro accesamente r epubb l i cano : e i monarch ic i di al lora - così come la successiva pubblicistica monarch ica , Fino al recente volume di Artieri su Umber to II - n o n manca rono di lamentare la situazione di svantaggio in cui la loro batta­glia veniva combattuta. Dal p u n t o di vista politico la lagnan­za è ineccepibile. Non solo la nomina di Romita, ma l ' intera impos taz ione governa t iva privilegiava la Repubbl ica , e la dava p e r inelut tabi le (il mo t to di N e n n i n o n e ra forse «la Repubbl ica o il caos»?). A dissent i re , nel governo , c 'era la sola voce dei liberali, che e ra flebile e n e m m e n o concorde . Uno degli esponent i maggiori del PLI, Manlio Brosio, mini­stro della Guer ra , aveva opta to pe r la Repubblica, ed ebbe lo scrupolo di i n f o r m a r n e p e r s o n a l m e n t e U m b e r t o I I , i l qua le , con molta e leganza, gli r ispose che n o n ques to im­portava, ma la sua capacità di ministro.

Tutt 'al tro discorso va invece fatto pe r l 'apparato ammini­strativo e per la magistratura: come si vide q u a n d o sembrò che le sorti del r e fe rendum dipendessero da u n a pronunc ia della Cassazione. I d u e più stretti collaboratori di Romita, il

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C o m a n d a n t e dei carabinieri generale Brunetto Brunett i , e il Capo della polizia Ferrari , e rano entrambi monarchici fer­venti . E - spec ia lmente il p r i m o - non si curavano di na­sconderlo. «Da quel r igido militare che era - ha scritto Ro­mita riferendosi al generale Brunet t i - mantenne costante­m e n t e nei miei confronti un atteggiamento impronta to al massimo r ispet to, ma p u r e restava monarchico a tal p u n t o che se parlava del suo Re gli venivano ì lucciconi agli occhi.»

Nelle sett imane che precedet tero il referendum, Romita non si mosse prat icamente mai dal Viminale, e la sera cena­va ins ieme a Brune t t i , a Fer rar i , al vi c e-capo della polizia De Cesare . C o n loro e ra abitualmente anche la moglie di Romita, che gli portava la biancheria pulita. Il Viminale era u n a fortezza. «Chiusi gli ingressi principali, vi si accedeva dalla p a r t e pos te r io re presso la caserma della "Celere". E jeeps, au tob l indo , squad ron i a cavallo sostavano in pe rma­nenza all ' interno, fra cavalli di Frisia... jvjon m e n o efficiente era la difesa del Qui r ina le , che avevo fatto organizzare da un colonnello, ovviamente dei carabinieri, Permetti.»

N o n a p p e n a d ivenu to Re, Umberto rivolse al Paese un p roc lama che , p u r paca to nel tono e nobile nei proposi t i , contr ibuì ad a l la rmare i repubblicani. H Re promise di ri­spet tare «le libere determinazioni dell'imminente suffragio» ma si riferì anche a u n a «rinnovata monarchia costituziona­le», e formulò l'auspicio che tutti si stringessero «intorno al­la bandie ra , sotto la quale si è unificata la patria e qua t t ro generazioni di italiani h a n n o saputo laboriosamente vivere ed e ro i camen te mor i re» . «Davanti a Dio - concludeva il messaggio - g iu ro alla Naz ione di osservare lea lmente le leggi fondamental i dello Stato, che l a volontà popolare do­vrà r innovare e perfezionare.» Gli entusiasmi monarchici ri­p rese ro lena n o n solo nel Sud, ma anche nella apatica Ro­ma: e lo stesso 10 maggio - Umberto aveva iniziato la gior­nata assistendo con la famiglia alla Messa nella cappella del­l 'Annunziata , a t t igua ai suoi appartamenti nel Quir inale -fu organizzata u n a manifestazione di fedeli della Corona. La

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folla monarchica , con musiche e band ie re , si r iunì davant i al Quir inale e applaudì a lungo Umber to , Maria José, i figli. Romita aveva o rd ina to che n o n vi dovessero essere cortei, ma u n a pa r t e dei d imos t ran t i si inol t rò verso i l Viminale . Dal Ministero mossero repar t i di polizia sujeeps e a cavallo che agirono rudemen te , perfino «con le mitragliere pesanti pun ta te» p e r d i s p e r d e r e quel la che Romita , qui esplicita­m e n t e fazioso, bollò come «ignobile gazzarra». Si lamenta­rono molti contusi e qualche ferito. Nenni ha r icordato che i monarch ic i volevano a ogn i costo che al Viminale fosse esposta la band ie ra , ev iden temen te con lo scudo sabaudo . «Quando sono arrivato al Viminale, Romita si dibatteva fra le esitazioni del Capo della polizia Ferrari e De Gasperi che, al telefono, gli chiedeva di esporre la bandiera . Mi sono re­c i samente oppos to d i cendo che, se si vuole il r icorso alla piazza, rion ci sarà da r idere , ma da piangere.» Per ritorsio­ne , il giorno successivo a Roma fu sospeso il lavoro nelle fab­briche e negli uffici e, d o p o un appello dei maggiori partiti - t r anne il liberale - e della Camera del Lavoro, i sostenito­ri della Repubblica g remi rono Piazza del Popolo. Parlò t ra gli altri Saragat, e diversi cortei d i lagarono p e r la capitale. Altre masse, in altre città, sopra t tu t to set tentrionali , reagi­rono con comizi al «colpo di mano» del Re di maggio.

Con poca convinzione (aveva confidato a Luigi Barzini jr. che «la Repubblica si può reggere col c inquan tuno pe r cen­to dei voti, la Monarch ia nò»), ma con il senso del dove re che s e m p r e l'aveva carat ter izzato, U m b e r t o fu, nelle setti­m a n e che seguirono, il p ropagandis ta di se stesso. Lo solle­citavano ad un attivismo intenso, quasi frenetico, i più bat­taglieri tra i suoi intimi: Enzo Selvaggi, segretario generale del Partito democrat ico italiano, E d g a r d o Sogno, valoroso comandan te part igiano, il senatore Bergamini, il p r imo aiu­tante di campo generale Infante, con qualche esitazione an­che il minis t ro della Real Casa, Falcone Lucifero. Nel loro fervore, questi consiglieri ebbero intuizioni felici, ma indus­sero anche Umber to a più di una goffaggine. Come q u a n d o

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gli fecero firmare un messaggio ai milanesi in cui, pe r giu­stificare l'assenza sua, e di ogni pr incipe della Casa Savoia, dalla g u e r r a part igiana, diceva: «Ho seguito sempre la vo­stra lotta col r impianto di n o n po te r essere fra voi, pe rché impedi to dalle cure del mio ufficio e dalle direttive politiche che il Comando sup remo alleato dettava».

I «grandi vecchi» monarchici , Vittorio Emanue le Orlan­do e Benedet to Croce, n o n facevano mistero delle loro con­vinzioni ma riluttavano ad impegnars i t roppo scopertamen­te: Or lando , forse perché nonostante gli ot tantacinque anni suonati sperava nella Presidenza della neona ta Repubblica, Croce pe r ché in lui era ben net ta la dist inzione tra la Mo­narchia come istituto - che giudicava degno di sopravvivere e ancora utile nella situazione italiana - e i d u e uomini che fino al 9 maggio e dopo il 9 maggio l 'avevano impersonata e l ' impersonavano.

U m b e r t o fu a Genova, a Milano, a Tor ino, a Venezia, a Napoli , in Sicilia, in Calabria, in Sardegna . Ebbe molti ap­plausi e segni di affetto a volte delirante nel Sud, accoglien­ze f redde con sporadici fischi e gr ida ostili al N o r d . Il suo p e r e g r i n a r e nelle met ropol i del «triangolo industriale» fu c o m u n q u e meno tempes toso di q u a n t o s i potesse t emere , nel l ' infur iare delle accuse che le sinistre m u o v e v a n o alla Monarchia. Non avvennero incidenti di rilievo. La città più ostica fu Genova, dove il prefetto tentò di i n d u r r e Umber to ad andarsene subito. «Non ne volle sapere - scrive Romita -così che dall 'automobile potè vedere in faccia gli uomini e le d o n n e che, per le s t rade, gli u r lavano cont ro insulti.» Pro­pr io da Genova, a conclusione di questo «patetico ma poco dignitoso trasferirsi da un palazzo reale all 'altro, da un san­tuar io all 'altro, da u n a tomba all'altra» (citiamo da La fine della monarchia di Domenico Bartoli), il Re lanciò, a campa­gna elettorale chiusa, cosicché i part i t i non furono in grado di replicare, un proclama a sorpresa.

Osservò, in esso, che gli italiani e rano «costretti ad assu­mere , pe r sé e pe r i p rop r i figli, u n a scelta così grave». Co-

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stretti, quasi per imposizione straniera o politica. Annunciò poi che se l'esito di questo p r imo re fe rendum fosse stato fa­vorevole alla Monarchia, egli ne avrebbe comunque indet to un altro, alla fine dei lavori della Costi tuente. Era u n a mos­sa abile, che agli incerti prospet tava la scappatoia d ' un giu­dizio d 'appello. La concessione di decine di migliaia di Cro­ci di cavaliere o d'altre onorificenze integrò lo sforzo eletto­rale del Re, cui la r eg ina Maria Jo sé col laborò di malavo­glia, e a v a r a m e n t e . Era a p p a r s a al ba lcone del Qui r ina le , con il mari to, il pr incipe ereditario, le principesse, pe r offri­re ai monarchici festanti l ' immagine d ' una famiglia uni ta e serena. Ma poi limitò la sua azione propagandist ica alle con­suete iniziative benefiche tramite la Croce Rossa e a qualche viaggio. Un giorno che, a una cerimonia della Croce Rossa, e ra stata p resa a male pa ro le da d o n n e r epubb l i cane , te­lefonò a Umber to Zanotti Bianco, p romoto re dell'iniziativa: «Io non ce la faccio, e tut to sommato non c'entro». Era pes­simista. «Che figura se avremo soltanto il dieci o il quindici pe r cento» fu udita m o r m o r a r e .

Duran te la vigilia infuocata del 2 giugno, e subito dopo , corsero le immancabi l i voci di complot t i monarch ic i e di maneggi della sinistra, per impedi re o inquinare il voto. Ro­mita ha asseri to che s i p r o g e t t ò di r ap i r lo , che d u e bat ta­glioni di carabinieri e rano pront i ad un putsch, che al Vimi­nale «si notò un certo movimento non autorizzato di carabi­nieri in borghese che, a piccoli g rupp i , si d i sponevano nei co r r ido i in te rn i , fra la d i rez ione di pubbl ica sicurezza e il mio gabinetto». Era accaduto che agenti di polizia di sinistra arres tassero, d o p o un comizio monarchico , dei carabinieri in borghese che vi avevano par tec ipa to , e che ufficiali del­l 'Arma si precipitassero in Ques tura , a rmi in pugno , pe r li­berare i prigionieri . L'Artieri sostiene a sua volta che «la stes­sa topograf ia del Viminale v e n n e modificata, m e d i a n t e ch iu su re di cor r idoi , a p e r t u r e di altri , uso di pa raven t i e sbar rament i aleatori di legno e di plastica: tut to pe r r ende ­re accessibili ai soli fiduciari del ministro certi uffici e isolare

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il gabinetto dello stesso Romita». Questo pe rò sa più di illa­zione che di prova. Sicuro è invece che, se in talune località meridionali la p r o p a g a n d a di sinistra fu osteggiata, pesante fu l ' intimidazione esercitata, in larghe aree del Settentr ione, contro gli attacchini e i manifesti monarchici (ne furono dif­fusi centomila con la scritta su fondo azzurro «Monarchia»). Q u a t t r o quot id ian i , tut t i r o m a n i , e r a n o d i c h i a r a t a m e n t e monarchic i , Italia Nuova d i re t to da Enzo Selvaggi, Risorgi­mento liberale diret to da Mario Pannunzio , II Secolo XX diret­to da Manlio Lupinacci , Il Giornale della Sera. Tendenzia l ­m e n t e favorevole alla C o r o n a fu anche , d o p o un effimero decollo socialisteggiante (per la presenza t ra i fondator i di Leonida Rèpaci) II Tempo di Renato Angiolillo. Il Corriere del­la Sera di Mi lano, l ' o rgano di g r a n l u n g a p iù inf luente , si batté a oltranza in favore della Repubblica, sotto la direzio­ne di Mario Borsa. Per la Repubblica fu anche La Stampa di Torino. Si det te il caso di tipografi che r if iutarono di stam­p a r e pubblicazioni o volantini che fossero a sostegno della Monarchia. La pubblicistica ostile a Umber to abbondò nella r ip roduz ione di fotografie sue (gli archivi ne ridondavano) con il braccio levato nel saluto romano , o accanto a Mussoli­ni e a Hit ler in cer imonie ufficiali. Ci si poteva aspet tare di peggio , d o p o la p r i m a impe tuosa raffica del ven to del Nord : e bisogna ammet te re , nella prospettiva storica, che la Monarchia , accanto alla quale il fascismo si e ra imposto ed aveva governa to , e ra esposta a questi incert i . Ma il duel lo n o n fu ad armi pari .

La Chiesa si dichiarò, nello scontro, neut ra le . Nella for­ma lo fu. Nella sostanza assai meno . Degli otto milioni di vo­ti democr is t ian i , sei a n d a r o n o alla Monarch ia , b e n c h é il part i to avesse scelto la Repubblica; e questa ripartizione non fu frutto del caso. Molti appar tenen t i al basso clero e la stra­g r a n d e maggioranza dei vertici ecclesiastici prefer ivano la scelta monarchica pe rché era quella che presentava minor i incognite.

Pio X I I era un conservatore, ma senza le a p e r t u r e e l'e-

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lasticità di De Gasperi , che lo era anche lui, ma in m o d o di­verso. Si disse che Umber to gli piaceva perché era un buon cattolico, assai lontano in questo dall 'agnosticismo pa te rno . La spiegazione ci pa re riduttiva. Contava ben altro, in quei frangenti , che l 'osservanza delle prat iche religiose da pa r te del Re. Più probabi lmente , Pio XII n o n si fidava della poli­tica e delle prospet t ive di De Gasperi . N o n se ne fidò mai . Artieri , confidente di Umber to , sostiene che la «leggenda» di un Papa favorevole alla Monarchia e di un pro-segretario di Stato (Giovanni Battista Montini) con t ra r io ad essa è infondata. «Montini all'inizio non parve del tut to contrario, ma alla fine, q u a n d o la causa della Monarchia venne palese­m e n t e a b b a n d o n a t a dagli Alleati ang lo-amer ican i , n o n potè.. . n o n tenere conto della realtà.» La testimonianza è di p r ima mano . Tuttavia insistiamo nel r i tenere che la «leggen­da» fosse sostanzialmente vera.

Così v e n n e il 2 g iugno , e gli i taliani scelsero. Anche il Re votò già rassegnato alla sconfitta. La matt ina stessa incaricò infatti il genera le Infante di concorda re con De Gasperi le modalità della par tenza pe r l'esilio. Gli p remeva inoltre sa­pe re se - s tando ai precedent i - fosse o p p o r t u n o o no che si recasse a votare: u n o dei più vecchi maggiordomi della Ca­sa Reale r a m m e n t ò d 'avere accompagnato al seggio eletto­rale - a lmeno un quar to di secolo p r ima - Vittorio Emanue ­le I I I , e il figlio si regolò allo stesso m o d o . Raggiunse , ac­compagnato da Infante, la sezione di via Lovanio, non lon­tana da Villa Savoia. Fu accolto con simpatia. Non lo lascia­rono in coda, in segno di rispetto, e si assicura che abbia de­posto, sia pe r il r e f e r e n d u m sia pe r la Cost i tuente , scheda bianca. Poiché la gen te lo app laud iva , i l p r e s iden t e di un seggio vicino si avvicinò ad ammoni re che e rano proibite le manifestazioni politiche. Verso sera, nella sezione di Largo Brazza votò Mar ia José , che e r a scortata da Manlio Lupi -nacci. Si vuole che, infilata una scheda bianca pe r il referen­d u m , pe r la Costi tuente avesse invece scelto il socialismo, e

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dato la preferenza a Saragat. Ma dai document i della Presi­denza De Gasperi, raccolti dal suo capo di Gabinetto Barto-lotta, e citati da Antonio Gambino, risulterebbe che Umber­to, q u a n d o il Pres idente del Consiglio gli fece cenno delle voci sul voto di Maria José, telefonò alla moglie pe r sapere cosa ci fosse di vero. Maria José rispose che «le notizie pub­blicate dai giornali sono inesatte». Tuttavia (è Nenn i che lo annota il 4 giugno) «il bel Peppino (Saragat) che n o n sta nel­la pelle ha racconta to a Togliatti e a me di aver sapu to da Lupinacci che la Regina ha votato pe r i socialisti, d a n d o la preferenza a lui».

A Nenni che gli chiedeva, il p r imo giugno, pe r chi avreb­be votato, De Gasperi aveva risposto: «Il voto è segreto. Ma sono p ron to a scommettere con te che il mio Trent ino nero darà più voti alla Repubblica della tua rossa Romagna» (l'az­zeccò). La figlia Maria Romana attestò poi che sia il p a d r e , sia lei, avevano votato Repubblica.

Il paese si man tenne , nella prova, calmo, la partecipazio­ne alle u r n e fu alta, l'89 pe r cento.

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CAPITOLO SECONDO

IL 2 G I U G N O

Nella not te fra il 3 e il 4 giugno, q u a n d o i dati elettorali che affluivano al Viminale p r e n d e v a n o già consistenza, Romita temette che la Repubblica fosse stata sconfitta. «Intorno alle vent iquat tro sembrava che ogni speranza fosse pe rdu ta . Mi chiusi nello s tudio pe r scorrere e r i scor rere quei dati . No, n o n era possibile! Tornai a leggerli, p r e n d e n d o appunt i , fa­cendo calcoli. No, n o n era possibile! E p p u r e le cifre e r ano lì, col loro l inguaggio inequivocabile!»

I l ministro de l l ' In terno esagera a lquanto, pe r r e n d e r e la conci tazione d r a m m a t i c a del m o m e n t o , con i p u n t i escla­mativi. Ma era un ingegnere , non u n o scrittore: e di n u m e ­ri se n ' intendeva. «Il guaio - citiamo ancora Romita - fu che anziché dal Nord i p r imi dati a r r ivarono dal Sud. Una vera beffa della sorte. A conoscenza di quanto accadeva, in quel­le p r ime ore , fummo soltanto De Gasperi , Nenn i e io.»

Il ministro s'illudeva, pe r quan to concerneva la segretez­za. De Gasperi stesso, at tento a n o n compromet t e re le chan-ces sue e del suo part i to in caso di successo monarchico, ave­va informato Falcone Lucifero della t endenza iniziale. «Si­gnor ministro - gli scrisse il 4 g iugno - le invio i dati perve­nut i al Ministero de l l ' In te rno fino alle 8 di s tamane. Come vedrà si tratta di risultati assai parziali che n o n pe rme t tono nessuna conclusione. I l minis t ro Romita cons idera ancora possibile la vi t toria repubbl icana . Io p e r s o n a l m e n t e n o n credo che si possa - rebus sic stantibus - g iungere a tale con­clusione. Cordia lmente . De Gasperi . P.S. Le cifre sono anco­ra confidenzial i . Le sarò g ra to se Ella mi m a n d a s s e Sue eventuali informazioni accertate.»

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Rincuora to anche da ques ta au torevo le ant ic ipazione , U m b e r t o vide r isorgere la possibilità, insperata , di u n a vit­toria. «Ho l ' impressione - disse a Falcone Lucifero nel po­meriggio di quello stesso giorno - che si stia a t tuando l'ipo­tesi previs ta nel messaggio agli italiani rivolto da Genova. Offrirò d u n q u e , a b reve scadenza, un secondo referen­dum.»

Anche i giornalist i avevano avu to sen to re della iniziale prevalenza monarchica, ma, cedendo alla dietrologia nazio­nale, rifiutarono la spiegazione più semplice e ne elaboraro­no u n a sofisticata. Il socialista Romita aveva di proposi to la­sciato t rape la re , suppose ro , notizie favorevoli alla Monar ­chia, p e r po i t i rar fuori dal cassetto un mil ione di voti r e ­pubbl ican i che vi aveva accan tona to , e goders i il colpo di scena. Secondo la versione di Romita , che nella sostanza è stata confermata da testimonianze autorevoli e insospettabi­li, l 'altalena dei risultati dipese unicamente dal modo in cui pe rvenne ro al centro. Non appena divenne massiccio i l pe­so del Set tentr ione, la Repubblica passò in vantaggio, tanto che il c o m p u t o finale le d i ede 12.182.000 voti con t ro i 10.362.000 della Monarchia . Un mil ione e mezzo, ma lo si seppe dopo , le schede bianche o nulle (che nella successiva contestazione tra il Re e il governo acquis teranno impor tan­za decisiva). «Il milione di voti e ra arrivato - commentò Ro­mita nelle sue memor ie - ma n o n era uscito dal mio casset­to, sibbene da centinaia, da migliaia di urne.»

II r e f e rendum aveva tuttavia dimostra to , caso mai ce ne fosse bisogno, che esistevano d u e Italie, e che il per iodo do­po l'8 set tembre 1943 - con il Regno del Sud e la Repubbli­ca di Salò - aveva accentuato le loro dissimiglianze. In tutte le province a n o r d di Roma, t r a n n e d u e , aveva prevalso la Repubblica, in tutte quelle a sud di Roma, t r anne due , ave­va prevalso la Monarchia. Le eccezioni furono Cuneo e Pa­dova a nord , Latina e Trapani a sud. All'85 pe r cento che la Repubblica ebbe a Trento , al 77 pe r cento che ebbe in Emi­lia-Romagna, si cont rapposero il 77 pe r cento che la Monar-

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chia ebbe in p rov ince come Napol i e Messina (ma la sua p u n t a massima fu a Lecce, 85 pe r cento).

La pubblicistica monarchica cont inua ad a l imentare , d o p o un quaran tenn io , i dubbi sulla correttezza del conteggio. Il r ecupero repubblicano fu preceduto - osserva l'Artieri - da un lungo silenzio, e da minacce di sciopero genera le se la Monarchia avesse prevalso (l ' intenzione c'era negli ambien­ti di sinistra; Romita stesso ha raccontato d 'avere ricevuto, alcuni giorni p r ima, un g r u p p o di operai che l 'avevano av­vert i to: «Se vincerà la Monarchia i nd i r emo lo sciopero ge­nerale»). Era logico, con questi precedent i , che la successiva valanga repubbl icana suscitasse qualche sospetto. Q u a n d o , la not te sul 5, un cor r i spondente s traniero telefonò a Infan­te pe r comunicargli che ormai la Repubblica era in testa con d u e milioni di voti in più, il generale ribatté: «E un assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte». Ma al di là di questa sensazione di sconcerto e di qualche minore episodio locale, la tesi monarch ica della manipo laz ione delle schede o dei n u m e r i n o n ha validi sostegni. Gli ambient i di Cor te accet­t a r o n o in iz ia lmente i l r e sponso delle u r n e con amarezza , ma senza obbiezioni alla sua genuini tà . Falcone Lucifero lo comunicò a U m b e r t o (not te sul c inque g iugno) , e così ha descritto la scena: «Eravamo tutti e d u e commossi pe r quan­to n o n volessimo da r lo a vede re . Le sconfitte r ivelano gli animi meglio delle vittorie».

La matt ina del 5 la vittoria repubbl icana era data già pe r certa, anche se con qualche res idua cautela. Il singolare ti­tolo dell ' Unità rivelava u n ' o m b r a di perplessità: «Il compa­g n o N e n n i ha in fo rmato i l c o m p a g n o Togliatti che la Re­pubblica ha vinto». Se era u n a frottola, tanto peggio pe r i l compagno Nenni . All'alba (sempre del 5 giugno) Enzo Sel­vaggi, cui e rano pe rvenu te , nella redazione dell'Italia Nuo­va, in formazioni sugli a n n u n c i , da p a r t e della s t ampa re ­pubbl icana , della o rma i consolidata magg io ranza an t imo­narchica, telefonò a Romita. Quelle anticipazioni, protestò,

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violavano l ' impegno secondo il quale dovevano essere rese note solo cifre ufficiali. Romita promise una precisazione. Il suo capo di Gabinetto Vicari dichiarò che, pe r quanto gli ri­sultava, «la notizia della maggioranza repubbl icana n o n ha fondamento», e un comunicato di Romita definì «non atten­dibili» i gridi di trionfo giornalistici. Sulla base di queste ret­tifiche l'Italia Nuova li bollò come menzogner i . In realtà era­no un po ' azzardati, non falsi.

Alle 10,30 De Gasperi , che aveva chiesto l ' appun tamento alcune ore pr ima, fu in t rodot to al Quir inale nello studio di Umber to : lo accompagnavano Bartolotta e Giulio Andreot-ti. (Nel suo Visti da vicino Andreot t i r icorda un De Gasper i «sempre t ranquil lo, fin dal p r i m o colloquio», anche se, «si­curo della lealtà e del b u o n senso del Re, n o n Io era altret­tanto pe r quel che r iguardava i suoi consiglieri».) Professan­dosi «do lorosamente sorpreso», De Gasper i in formò il Re della «considerevole maggioranza p e r la Repubblica», leg­gendo le cifre che Romita gli aveva fornito. Tra breve disse, il governo avrebbe fatto una dichiarazione ufficiale: la p ro ­clamazione spettava c o m u n q u e alla Corte di Cassazione. I l Pres idente del Consiglio illustrò anche la p r o c e d u r a che a suo avviso doveva essere seguita pe r il t rapasso dei poter i . Avutosi il responso dalla Corte , De Gasperi , il p r imo presi­den te Giuseppe Pagano e il p rocura to re generale Pilotti ne avrebbero so lennemente riferito al Re (o ex-Re) al Quir ina­le. De Gasper i avrebbe qu ind i scortato U m b e r t o alla pa r ­tenza. U m b e r t o espresse i l des ider io di r ivolgere un mes­saggio d 'addio al Paese, e De Gasperi acconsentì. A sua vol­ta aveva in an imo di p ronunc ia re d u e brevi discorsi, l 'uno a suggello della cerimonia con cui la Cassazione doveva aval­lare l'esito del re fe rendum, l'altro pe r espr imere a Umber to in pa r t enza p e r l'esilio i l r iconosc imento , da pa r t e del go­verno, della sua correttezza costituzionale e democratica.

Questo proget to protocollare pareva non solo realizzabi­le, ma certo, a contrassegno di una unan ime volontà disten­siva. Alla Corte p remeva soprat tut to di r i d u r r e al minimo la

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d u r a t a della «situazione penosa» in cui e ra il Re. Nel t a rdo pomer igg io , al Viminale , i r a p p r e s e n t a n t i dei par t i t i che avevano presen ta to liste nazionali e u n a folla di giornalisti ascol tarono Romita - d o p o un perfet to uppercut a George Brian dell'Associated Press, perché gli stava t roppo addosso -che dava l e t tu ra dei r isultat i . Q u a n d o i par t i t i di sinistra p r o p o s e r o che il 2 g iugno fosse dichiarato festa nazionale , perfino Selvaggi si associò.

La famiglia reale si affrettò a fare le valige. Umber to vol­le che Mar ia José e i figli par t i ssero i m m e d i a t a m e n t e p e r Napoli, e si imbarcassero sull ' incrociatore Duca degli Abruzzi che e ra stato messo a loro disposizione. Maria José oppose qualche resistenza, q u a n d o già era a Napoli, e Umber to in­caricò Infante di precipitarvisi pe r costringerla «anche con la forza» (Artieri) a lasciare l'Italia. I principi di Casa Savoia e b b e r o ana logo o r d i n e dal Re, che la sera del 6 g iugno , m e n t r e il Duca degli Abruzzi già navigava verso il Portogallo, cenò al Qui r ina le con i suoi più stretti collaboratori (la co­siddetta Corte nobile), avendo accanto a sé il Conte di Tori­no e il duca Aimone d'Aosta. Il Conte di Torino p regò Um­b e r t o di d i spensa r lo dal la p a r t e n z a («sono vecchio, quasi cieco, che fastidio posso da re a questa benede t ta Repubbli­ca? N o n si po t rebbe fare un'eccezione pe r me?»), ma la pa­rola del Re, e la legge, n o n po tevano essere t rasgredi te . Il passaggio si prospet tava tranquillo, e in qualche m o d o con­sensuale, tanto che i politici già conget turavano sulla lottiz­zazione delle pol t rone più impor tant i , e Nenni , che avrebbe visto volentieri De Gasperi «nella nicchia della Pres idenza della Repubblica», capì che da quest 'orecchio il leader demo­cristiano n o n ci sentiva. De Gasperi «insiste sulla candidatu­ra Bonomi alla Presidenza della Repubblica e sulla sua alla Pres idenza del Governo , lasciando a noi socialisti la Presi­denza della Costituente».

La bomba che m a n d ò in pezzi l 'intesa deflagrò la matti­na del 7 giugno. Giovanni Cassandre , che era segretario del PLI, informò Cattani, anche lui liberale, monarchico, e mini-

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stro dei Lavori pubblici, che un g r u p p o di docenti di diritto dell 'Ateneo padovano aveva presenta to alla magis t ra tura un ricorso contro i risultati del r e fe rendum: o piuttosto contro l ' in terpre taz ione che ad essi e ra stata data. Non sapp iamo chi in realtà avesse innescato la miccia, e se Cassandro e Cat-tani fossero stati davvero sorpresi dalla novità: che - p u r li­quidata da Nenni come una «questione da mozzaorecchi» -e ra seria. I professori osservavano che il dec re to luogote­nenziale del 16 marzo p receden te con il quale era stato in­det to il r e fe rendum si riferiva a «maggioranza degli elettori votanti», n o n dei voti validi. E la cifra degli elettori votanti mancava tra quelle rese note da Romita, che s'era limitato a indicare i voti p e r la Repubblica e i voti pe r la Monarchia . Occorreva u n a maggioranza qualificata, da calcolare tenen­do conto anche delle schede bianche e nulle: occorreva cioè, come si dice in gergo elet torale , un quorum. Un successivo decre to (23 aprile) aveva u n a dizione assai diversa, pe rché disponeva che nelle singole circoscrizioni si procedesse «alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribui­t i alla Monarchia», i g n o r a n d o un n u m e r o base (totale dei votanti) su cui ci si dovesse regolare . Ed è probabile che la formulazione del p r i m o decre to fosse der ivata soltanto da quella scarsa diligenza legislativa che r e n d e l'Italia il te r re­no di col tura ideale dei cavilli. I successivi accer tamenti di­mos t ra rono tra l 'altro false le voci secondo le quali le schede bianche o nulle e rano state assai più numerose nel referen­d u m che nel le elezioni p e r la Cos t i tuen te ( furono invece quasi mezzo mil ione in m e n o , un mil ione e mezzo con t ro 1.930.000, e ques to si spiega con la magg io r complessi tà della votazione pe r la Costituente). Restava il fatto che il cal­colo ufficiale del Ministero de l l ' In terno dava alla Repubbli­ca il 54,26 pe r cento dei voti, e alla Monarchia il 45,74, men­tre il calcolo dei docenti padovani , che Selvaggi e poi anche Cassandro e Cat tani ado t t a rono , r iduceva la maggioranza repubbl icana al 51,01 pe r cento . Così esigua che u n o spo­s tamento causato dalla scoperta di e r ro r i e illegalità - a que-

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sto i r i co r ren t i i n t e n d e v a n o a r r iva re - po teva vanificarla comple tamente .

Ancora il 7 g iugno, nonostante quel che bolliva in pen to ­la, U m b e r t o si a t t enne al p r o g r a m m a del congedo , e a n d ò dal Papa. Il cer imoniale - n o n visita di un Capo di Stato a un al t ro Capo di Stato, ma visita «privata» di un Capo di Stato - e ra stato e labora to con sottigliezza. Il Re e r a in un i fo rme di marescial lo, ma senza decorazioni . L 'udienza d u r ò mezz 'ora , i l commia to fu f reddo, Pio X I I p r o n u n c i ò frasi di c ircostanza («È nel segno del r i spe t to della legge u m a n a e divina che Vostra Maestà t roverà in questi giorni amariss imi la giusta s t rada secondo le t radizioni della sua casa»). Ma l'8 g i u g n o l 'iniziativa dei docent i p a d o v a n i di­venne crisi politica p e r c h é Selvaggi se ne a p p r o p r i ò , met­tendo in causa il r e fe rendum nella sua globalità, e opponen­dosi alle conseguenze che se ne dovevano t r a r r e . In d u e successive lettere a De Gasperi , il segretario del Partito de­mocratico nazionale riassunse le argomentazioni dei giuristi padovani sul quorum, insinuò che il governo volesse risolve­re la quest ione con un colpo di Stato strisciante, e p ropose infine di subordinare «la formazione di un eventuale gover­no provvisorio repubblicano ad un impegno , so lennemente p reso da tut t i i par t i t i e ga ran t i to i n t e rnaz iona lmen te , di so t toporre a nuovo e regolare r e fe rendum il p roblema isti­tuzionale». Il governo sperava che la Cassazione desse il suo r e sponso i l 9 g i u g n o , così che ne risultasse abbrevia to un pericoloso t e m p o di incertezza. Ma il p res iden te Giuseppe Pagano decise pe r il pomeriggio del 10 giugno, alle 18. Co­me sede della cer imonia fu prescel ta la Sala della Lupa , a Monteci torio, chiamata a quel m o d o pe r u n a lupa r o m a n a di bronzo che vi era collocata.

Si diffuse in ant ic ipo l ' informazione che la Cassazione n o n si sarebbe sbilanciata, tanto che l 'ammiraglio Stone e i rappresen tan t i del corpo diplomatico non si fecero vedere , e L'Osservatore Romano, s tampato m e n t r e la cerimonia era in corso scrisse che si era avuta la proclamazione «dei soli voti

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attribuiti alla Monarchia e alla Repubblica con riserve di ret­tifiche che ver rebbero rese note at traverso la Gazzetta uffi­ciale». Ne l l ' imminenza della p r o n u n c i a della Cassazione i ministri furono convocati in gran fretta perché, spiegò loro De Gasperi , «il Re chiedeva il rinvio della proclamazione.. . a d o m a n i mat t ina , e ciò p e r c h é egli n o n poteva pa r t i r e alle sette di sera pe r un viaggio in aereo di a lmeno cinque ore. Abbiamo offerto di anticipare la cer imonia e si è poi deciso di lasciare le cose come stavano». Pur nel colmo dell'offensi­va monarchica , U m b e r t o sembrava sempre risoluto ad an­darsene senza p o r r e problemi. Ma i p iù battaglieri tra i suoi in t imi lo s tavano l e n t a m e n t e conv incendo a res is tere . La Cassazione - e della Cassazione i d u e massimi esponent i , il p r i m o p res iden te Giuseppe Pagano e i l p r o c u r a t o r e gene­rale Pilotti - assumeva, imprevedibi lmente , un ruolo di pri­mo p iano nella ver tenza istituzionale. La faccenda del quo­rum dava al loro intervento un contenuto n o n più formale, e celebrativo, ma sostanziale.

Pagano e Pilotti e r ano magistrat i scrupolosi , di vecchia scuola, ma s i cu ramen te mal disposti verso la Repubbl ica . Pagano, pa lermi tano , prossimo alla pens ione , appar t eneva a u n a dinastia di uomini di toga. Il p a d r e Giambattista, se­n a t o r e del Regno , era stato n o m i n a t o conte da Vit tor io Emanuele I I I nel 1910, q u a n d o il nuovo palazzo di giustizia d i R o m a e ra stato consegna to a l l 'o rd ine giudiziar io. Con­serva tore , Pagano e ra stato tut tavia t ra i pochi magis t ra t i che avevano rifiutato l 'iscrizione al Parti to fascista. Egual­men te conservatore - e con maggiore animosità an t i repub­blicano - e ra Massimo Pilotti, ancora in carica al l ' inaugura­zione del l ' anno giudiziario del 1947, q u a n d o ad Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, egli non rivolse n e p ­p u r e una parola di saluto o di omaggio, suscitando scanda­lo e r iprovazione.

Alle 18, dunque , magistrati, governo, giornalisti e rano nel­la Sala della Lupa . Venti i giudici della Cassazione (oltre al p r imo presidente e al procuratore generale, sei presidenti di

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sezione, e dodici consiglieri). Scelti e di alto rango gli invitati, tra i quali gli ex-Presidenti del Consiglio Orlando, Bonomi e Parri. A un tavolo avevano preso posto, davanti a d u e addi­zionatrici con manovella del tipo usato un tempo nelle botte­ghe, due «computisti» dei quali ci sono stati t ramandat i i no­mi: il ragionier Ciccarelli (che avrebbe sommato i voti per la Repubblica nelle 31 circoscrizioni, man mano che il presiden­te Pagano ne desse lettura), e il ragionier Fracassi, che avreb­be proceduto alla stessa operazione per la Monarchia.

Nella solenni tà d i quella cornice , solo un p o ' c o m p r o ­messa dalle macchine contabili, cessato lo sventolìo di gior­nali con cui i presenti tentavano di difendersi dalla scirocco-sa calura pomer id i ana , Pagano prese a leggere con voce a m a l a p e n a udibi le i verbali . T i r a t e le s o m m e , i comput i s t i pose ro d u e foglietti di carta davant i al Pres idente che an­nunciò i totali, ma - citiamo dall 'Artieri - commise u n a svi­sta e attribuì alla Repubblica dodicimila voti, corrett i subito in dodici milioni. A conclusione Pagano disse: «La Corte , a n o r m a dell'articolo 19 del decreto luogotenenziale 23 aprile 1946 n u m e r o 1.219, emet te rà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni , p ro tes te , rec lami p resen ta t i agli uffici delle singole sezioni, a quelle centrali e circoscri­zionali e alla Corte stessa concernent i le operazioni relative al r e fe rendum: in tegrerà il risultato con i dati delle sezioni ancora mancant i (erano pochissime 118, e in ogni caso inin­fluenti , N.d.A.) e i nd i che rà il n u m e r o complessivo degli elettori votanti, dei voti nulli e dei voti attribuiti». Nessuna p roc lamaz ione (qualcuno che teneva d 'occhio De Gasper i affermò d'averlo visto con t ra r re il viso in un moto di disap­punto) ; Pilotti, che avrebbe dovuto alzarsi e dire: «Proclamo che il popolo italiano nel r e fe rendum del 2 g iugno sulla for­ma istituzionale dello Stato ha scelto la Repubblica», n o n si mosse. L'Italia non era più Monarchia e non era ancora Re­pubblica, tanto che n o n si potè , r i s p o n d e n d o all'invocazio­ne di una piccola folla, espor re a Montecitorio la bandiera , perché non si sapeva quale fosse.

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Naufragata la sua in tenz ione di a n d a r e subito al Quir i ­nale con Pagano e Pilotti, e ch iudere il capitolo istituzionale, De Gasperi vi si avviò ugua lmente in compagnia del liberale Arpesani , monarch ico . U m b e r t o sapeva già cosa e ra avve­nuto , e assunse una posizione rigida. «La Cor te ha rinviato a un secondo t empo la proclamazione dei risultati definiti­vi... La proclamazione di un governo provvisorio repubbli­cano è un'illegalità. Preferirei, se un trapasso dovesse esser­ci, nominar la io stesso reggente civile. Non è possibile ade­r i re alla sua richiesta di un trapasso di poter i e la mia conse­guen t e par tenza : in simili condizioni essa assomiglierebbe ad u n a fuga.» La tesi Selvaggi era o rma i la tesi del Re, di­sposto a delegare poteri che r imanevano formalmente suoi.

Dal Quir inale - e rano le otto di sera - De Gasperi si p re ­cipitò al Viminale pe r consultarsi con gli altri ministri. Nella sua ansia di evitare conflitti - a Napoli si avvertivano i p ro ­d romi di un 'esplosione della «piazza» monarchica - sconsi­gliò che la Repubblica fosse data pe r formalmente acquisita. Un t rapasso di po te r i «provvisorio» e r a forse la migl iore s t rada . Molte fu rono le obbiezioni : tu t te «repubbl icane», con la sola eccezione di Cattani. Fu disposto che De Gasperi tornasse i m m e d i a t a m e n t e a l Quir ina le . Lo fece, d o p o u n a telefonata di preavviso, accompagna to n o n più da Arpesa­ni, ma dal min i s t ro Mario Bracci, azionista, e a r d e n t e re ­pubbl icano . Era i l s in tomo d ' u n a diversa disposizione del Pres idente . De Gasper i e Bracci discussero con d u e consi­glieri del Re, Falcone Lucifero e Carlo Scialoja, il testo d 'u­na dichiarazione soddisfacente pe r tutti . I l governo era di­sposto ad accettarne una in base alla quale, poiché i dati co­municat i dalla Cassazione e rano «suscettibili di modificazio­ni e di integrazioni», il Re consentiva che «fino alla procla­maz ione dei r isultati definitivi i l P res iden te del Consiglio eserciti i poter i di Capo dello Stato, a par t i re dalle ore zero dell ' I 1 giugno 1946, ai sensi dell'articolo 2 del decreto luo­gotenenziale del 16 marzo 1946».

A p r ima vista questo consenso reale n o n era molto diver-

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so dalla delega già proposta da Umber to . La differenza, ha osservato Antonio Gambino nella sua Storia del dopoguerra, era invece sostanziale. «Nel testo studiato da Bracci e De Ga­sper i , n o n o s t a n t e s i par l i d i un consenso da p a r t e di U m ­be r to I I , i po te r i che v e n g o n o assunti dal P res iden te del Consiglio n o n de r ivano dal Sovrano ma dal decre to legge del marzo precedente.»

Alle 10 di sera la nuova formula fu sottoposta al Re, che e ra febbricitante, e ricevette De Gasperi e Bracci, con t ro il suo solito, con gelida correttezza, e senza amabilità alcuna. Fu un incontro breve, che non smosse il Re.

Tra Quir inale e Viminale il solco si approfondiva, in De Gasperi cresceva u n a fredda collera trentina, e Falcone Lu­cifero si lasciava t rasc inare , secondo la tes t imonianza di Bracci, da una collera calda, calabrese. Raccontò il ministro azionista che Lucifero, affrontato De Gasperi che n o n si ri­solveva a lasciare la reggia senza disinnescare la mina istitu­zionale, «era iroso, a d d i r i t t u r a violento. . . Ci disse che e ra un a s su rdo pa r l a r e d i t ras fe r imento d i po te r i p r i m a della decis ione dei ricorsi e che e r a n o state i n d e g n e le nos t re pressioni sulla Cassazione, e sbatteva gli occhiali sul pet to di De Gasper i che se ne stava tu t to assor to e che sembrava s t r ao rd ina r i amen te più alto di questo inquie to signore». I particolari di questa scena sono stati, secondo Lucifero, «in­ventati di sana pianta» dal Bracci in un articolo del 1946 sul­la rivista II Ponte. Lucifero ha r icordato, smen tendo Bracci, che questi e ra divenuto ministro solo nel febbraio preceden­te, in sostituzione di Ugo La Malfa e che, a pa re re dello stes­so De Gasper i , e r a «il p iù fazioso del suoi minis t r i , p iù di Nenn i e Togliatti».

La divergenza tra Bracci e Lucifero r iguarda c o m u n q u e circostanze accessorie. Resta fermo che, du ran t e il d r a m m a ­tico colloquio, De Gasperi p ronunc iò una frase grave: «E sta bene : doma t t i na o ve r rà lei a t rovare me a Regina Coeli o ver rò io a t rovare lei». Fu u n o scatto. Dopo il quale l 'instan­cabile med ia to re chiese di r ivedere il Re, che fu d u r o : «Io

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scompaio , vi affido l 'Esercito e la Mar ina , mi as tengo da qualsiasi gesto che possa scatenare la gue r r a civile. Non po­tete ch iedermi di più.. . Lei senta il Consiglio dei ministri e d o m a t t i n a ci si r ivedrà . Raccomand i al Consiglio di avere pazienza. N o n casca il m o n d o se passa qualche giorno». Il generale Infante, in una intervista alla France Presse, aveva a sua volta dichiarato che «senza voler abusare del t e rmine frode» e r a n o stati c o m u n q u e commessi e r ro r i . «La ripeti­zione del r e f e r e n d u m diventa in ques te condizioni consi­gliabile.» Brosio, ministro della Guer ra , e ra del pa r e r e che t ra i consiglieri di U m b e r t o si fossero format i d u e par t i t i , l 'uno modera to «al quale a quan to mi consta appar teneva il Re», e un «gruppo di giovani turchi, composto in prevalen­za di ufficiali estremisti , deciso ad approf i t ta re della situa­zione g iu r id i camen te incer ta p e r un colpo d i forza. C h e questo secondo g r u p p o avesse degli addentel la t i anche al­l ' in te rno dello Stato Maggiore n o n posso affermarlo . Ma quello che posso dire, perché è una mia esperienza diretta, è che in quei giorni , q u a n d o la mat t ina mi recavo al mini­stero, p iombavo immedia tamente in u n o stato di isolamen­to assoluto: in torno a me si creava il vuoto».

Il Consiglio dei ministri sedeva, in pratica, in in ter rot ta­m e n t e . Dal l 'una d i no t t e in avant i ascoltò u n a e n n e s i m a «informativa» di De Gasper i , e un ' a l t r a ne ebbe a mezzo­giorno dell ' I 1 giugno, d o p o che il Presidente del Consiglio aveva incontra to l 'ammiraglio Stone e l 'ambasciatore ingle­se, sir Noel Charles. Per en t rambi la p ronunc ia della Cassa­zione n o n era sufficientemente chiara. Questo Stone l'aveva det to anche a Umber to , che se n 'era sentito rafforzato nella volontà di n o n cedere. L'uno dopo l'altro venivano appron­tati document i che r ipetevano le stesse r isapute cose in for­me un po ' diverse: ad esempio si abbinava la delega del Re al Presidente del Consiglio ad un riferimento al decreto del 16 marzo, così che il trapasso dei poteri fosse insieme ope le-

gis e pe r volontà di Umber to .

Poiché il Quir inale scartava via via le opzioni governati-

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ve, Or l ando ne architettò u n a che pe r la sua semplicità ven­ne battezzata «l'uovo di Colombo». Non facciamo nulla, sug­geriva (in fondo con sensatezza) il vegliardo statista, lascia­mo t rascorrere nell ' inazione i pochi giorni che mancano al r e sponso definitivo della Cassazione (la n u o v a sedu ta e r a stata fissata p e r il 18 g iugno) , e poi a g i r e m o in base a un verdet to inoppugnabi le . Ma l 'uovo di Colombo arrivava sul­la tavola delle trattative q u a n d o gli animi e r ano t r o p p o ac­cesi. Pressato da Togliatti, da Nenni , dagli azionisti, De Ga­speri obbiettò al Re (che accettava la soluzione Or lando) che il governo riteneva d 'aver già ricevuto, pe r effetto dei risul­tati, i poteri . Umber to prospet tò allora la possibilità di com­por tars i a u t o n o m a m e n t e , n o m i n a n d o un luogotenen te : se De Gasper i n o n voleva, quel la carica poteva essere di Or ­lando o di T h a o n di Revel.

Ques to avveniva nel p r i m o pomer igg io dell ' 11 g iugno . Per le 16 fu stabilito un nuovo a p p u n t a m e n t o al Quir inale , ma il Re - segno di s t raordinaria tensione, in un u o m o così compi to - r icevette De Gasper i , che spazient i to aveva p iù volte minacciato di andarsene , con quasi un 'o ra e mezza di r i tardo. Gli disse che s'era consultato con Or lando , ma che aveva bisogno di sentire altri giuristi. Chiedeva insomma di po te r riflettere ancora . De Gasperi si fece a quel p u n t o so­lenne: «Senta, le par lo come in Sacramento . A me n o n im­por ta nulla, posso spar i re d o m a n i stesso dalla scena politi­ca. Ho d u e sole cose a cuore , che ho sempre difeso: l 'unità morale e l 'unità terri toriale dell'Italia. Sono en t r ambe in pe­ricolo. Non faccia un passo falso. Danneggerebbe oltre tut to la dinastia che sinora si è compor ta ta in m o d o tale da pote­re in un eventuale domani aspirare a r i tornare . Non rovini la sua reputazione».

Fermo nel rivolgersi al Re, De Gasperi cercava di calma­re i più esagitati q u a n d o si ritrovava, al Viminale, tra i mini­stri. Alle nove di sera telefonò al Quirinale, ma Umber to era introvabile e i suoi aiutanti r isposero che, stanco, aveva p re ­so un bagno ed era uscito p e r cena. Senza lasciarsi vincere

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dall ' irritazione, De Gasperi par tecipò a u n a r iunione serale del governo , e r imbeccò Sceiba secondo il quale «Umber to I I da ieri n o n è che un pr iva to c i t tad ino. N o n è p e r t a n t o tollerabile che i l n u o v o C a p o del lo Stato (De Gasper i , N.d.A.) si rechi da lui». «Questo è vero in teoria - obbiet tò De Gasperi - ma polit icamente sarebbe un e r ro re : questa è opinione n o n soltanto mia. Non mi pa re giunto i l m o m e n t o d i fare un passo ( l ' annunc io del passaggio dei po te r i , N.d.A.) che p u ò de te rminare la gue r ra civile.» E il Consiglio dei ministri soprassedette.

L ' indomani , 12 g iugno , la s i tuazione prec ip i tò , p e r ciò che accadeva a Roma e pe r ciò che accadeva lontano da Ro­ma. Napoli , a lmeno la Napoli monarch ica dei bassi, e ra in rivolta. Già si e r ano lamentat i d u e mort i in incidenti politici p r ima del 10 giugno; il 12 i mort i furono 11, e si rischiò u n a carneficina. Sui m u r i della città e rano apparse scritte «Viva Masaniello! Abbasso la Repubblica!», e un «Movimento di li­berazione del Mezzogiorno» aveva fatto affiggere un mani­festo farneticante: «Ci p ropon iamo , seppure col cuore stra­ziato di fronte agli eventi che infrangono l 'Unità d'Italia, di r ida re alle nos t re regioni del Mezzogiorno quella l ibertà e que l l ' ind ipendenza politica ed economica che già le resero t ranqui l le e p rospe re» . L'appello separat is ta e ra o p e r a di pochi esaltati. Ma un sent imento di frustrazione, u n a g ran voglia di ammuina serpeggiavano in città, e i giovani agenti di un battaglione allievi di PS mandat i da Roma, e visti come braccio a r m a t o del N o r d p revar i ca to re , ven ivano coper t i d ' insul t i , q u a n d o n o n attaccati . N o n fu mai accer ta to che qualcuno avesse di proposi to provocato i disordini. Non oc­cor revano istigazioni, in quell 'atmosfera sovreccitata. All'u­na del pomer igg io , il 12 g iugno , fu presa d'assalto la sede della Federazione comunista (s'era insediata, in via Medina, negli uffici della Federazione fascista). La rabbia della folla era d ivampata pe rché ad u n a f ines t ra era esposto, insieme alla bandie ra rossa (o sovietica, come si disse?) anche un tri­colore con l ' immagine d ' una d o n n a turr i ta , anziché lo scu-

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do di Savoia, sul re t tangolo bianco. In un tumul to p rop r io alla Masaniello furono rovesciate vet ture t ranviarie , ere t te barr ica te agli sbocchi di Piazza Municipio, e parecchi scal­mana t i , d o p o aver p re teso invano che le b a n d i e r e fossero ammaina te , p resero a scalare la facciata della sede comuni­sta, i cui occupanti sbarravano por te e finestre. In te rvenne­ro carabinier i e polizia, anche con au tob l indo , vi fu rono scontri e scaramucce che si p r o l u n g a r o n o pe r ore , m e n t r e veniva but ta ta benzina su improvvisate cataste, date poi alle f iamme. Si spa rò , con pistole, fucili, mi t ra , fu rono anche lanciate b o m b e a m a n o . Tristissimo il bilancio: d u e carabi­nieri e nove giovani o add i r i t tu ra ragazzi (tra essi u n a stu­dentessa ven tenne di Milano) uccisi, u n a settantina di feriti alcuni dei quali gravi. Giorgio Amendola , sottosegretario al­la presidenza, presente casualmente a Napoli, e ra nella Fe­derazione comunista; fu «fermato» nel t rambusto , dalla Mi-litary Police alleata e subito rilasciato. I monarchici si e rano scatenati, ma qualcuno, t ra le forze del l 'ordine, aveva perso la testa. Ricordò Romita: «Fra i p rovved iment i che adot ta i ve ne fu u n o veramente drastico: in una sola notte feci sosti­tuire tut te le forze del l 'ordine present i a Napoli. In tal mo­do por ta i sul pos to e lement i nuovi , es t ranei a l l ' ambiente , p iù liberi di agire con quell ' imparzialità che il delicato mo­men to imponeva».

M e n t r e Napol i s i dava alle ba r r i ca te , Falcone Lucifero consegnava a De Gasperi - ore 13 del 12 g iugno - u n a gran­de busta bianca con u n a breve lettera del Re: così breve, sec­ca e perentor ia che Bracci la definì «regio viglietto». «Signor Presidente - scriveva Umber to - r i tengo o p p o r t u n o confer­marle ancora u n a volta la mia decisa volontà di r ispettare il responso del popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale r isul terà dagli accer tament i e dal giudizio definitivo della S u p r e m a Cor te di Cassazione, ch iamata p e r legge a consacrarlo.» Il Re assicurava quindi il suo massimo contri­buto alla «pacificazione degli spiriti» e alla «collaborazione». Ma d u e p u n t i r i m a n e v a n o fermi: l a magg io ranza andava

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calcolata sui votanti , n o n sui voti validi, e tu t to restava im­pregiudicato fino al responso definitivo della Cassazione.

Turbato da una presa di posizione che lasciava ben poco margine , ormai , ai compromessi , De Gasperi attese fino alle nove di sera, t enendo in tasca la lettera, per indire un enne­simo Consiglio dei ministri. A conclusione di esso fu stilato un d o c u m e n t o nel quale ogni paro la era pesata. «Il Consi­glio dei ministri riafferma che la proclamazione dei risultati del referendum. . . ha por ta to automat icamente all ' instaura­zione di un regime transitorio d u r a n t e il quale.. . l'esercizio delle funzioni del Capo dello Stato spetta ope legis al Presi­den te del Consiglio in carica.» La ro t tura n o n voleva essere totale. Regime t ransi tor io , n o n repubbl icano , ed esercizio delle «funzioni», n o n dei po te r i di Capo dello Stato. A un giornalista s traniero che voleva veder chiaro in questa selva oscura giuridico-costituzionale, De Gasperi spiegò ch'egli si considerava ormai , «praticamente», i l Capo dello Stato, ed esemplificò: «Se vi fosse necessità di emanare u n a legge ur­gente, n o n potrei che firmarla io». De Gasperi sperava p ro ­babi lmente , con quella dizione calibrata, di t ene r b u o n o il Re. Ma sperava t r o p p o , e p re t endeva t r o p p o da Umber to . Rifiutatagli la delega, rifiutato l 'uovo di Colombo, trasmesse al Presidente del Consiglio le funzioni di Capo dello Stato, l 'esito del r e f e r e n d u m era da to p e r acquisi to prima della p r o n u n c i a definitiva della Cassazione. N o n la Cassazione aveva deciso, ma il governo.

De Gasperi , avuto la mat t ina il «regio viglietto», aveva insi­stito con Falcone Lucifero che il Re lasciasse il Qu i r ina le , t ras ferendos i m a g a r i a Cas te lporz iano . Quel la sera fatale Umber to uscì in effetti dalla reggia, e vi r ient rò soltanto l'in­domani . Con il generale Graziani raggiunse Villa Feltrinelli, che appa r t eneva alla moglie di Luigi Barzini^V. Ins ieme ai pad ron i di casa, era a cena il senatore Bergamini . Giannali-sa Barzini Feltrinelli si e ra f rat turata u n a gamba, il g iorno p r e c e d e n t e , in un inc iden te automobil is t ico, e accolse gli

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ospiti sdraiata a letto. Nella ta rda serata Barzini lasciò gli al­tri pe r un impegno di lavoro, al Tempo. Là apprese della co­municaz ione governat iva che sanciva la decadenza della Monarch ia e telefonò alla moglie che informò immedia ta ­men te il Re. Quest i , congedatosi dalla Barzini, trascorse la not te - l 'ultima in te r ra italiana - nella casa di un altro co­noscen te , l ' ingegner C o r r a d o Lignana , in via Verona 3 . Molti pe rsonaggi insigni della politica italiana d i se r t a rono del resto il loro domicilio e il loro letto, in u n a notte percor­sa da sussurri di golpe. Togliatti chiese asilo all 'ambasciato­re sovietico, Scoccimarro a un amico monarch ico . Da casa Lignana, Umber to si t enne in contat to con Falcone Lucife­ro, rimasto al Quir inale: e d u e volte lo ricevette in via Vero­na, la matt ina del 13 giugno.

Nella not te i consiglieri del Re avevano formulato alcu­ne ipotesi di c o m p o r t a m e n t o , che gli so t toposero . La pr i ­ma era quel la del lo scon t ro a p e r t o . U m b e r t o avrebbe di­chiarato decadu to i l governo pe r n o m i n a r n e un altro p re ­s ieduto da un alto funzionario, da un personaggio politico, o da Falcone Lucifero. «Il n u o v o gove rno deve i m p a d r o ­nirsi delle leve di comando , assicurare l 'ordine pubblico, e p rocede re ad un'inchiesta sulla condot ta delle votazioni. Se il r e f e r endum risultasse n o n valido, dovrebbe essere rifatto in un secondo t e m p o , q u a n d o le condiz ioni del Paese lo consentissero. Se il governo at tuale facesse resistenza, i mi­nistri ve r r ebbe ro arrestati .» Era la possibilità, anzi la p r o ­babilità della g u e r r a civile. Nella capitale questa r iedizione del 25 luglio avrebbe avuto quasi ce r tamente successo. U n o dei capi della PS aveva confidato a Manlio Lupinacc i : «In d u e ore potre i a r res ta re tutti i ministri . Posso garan t i re in m o d o sicuro lo svolg imento del la o p e r a z i o n e di polizia a Roma. Ma dopo?».

Seconda ipotesi era che il Re, ignorando il «colpo di Sta­to» con cui il gove rno l 'aveva e sau to ra to , si l imitasse ad a spe t t a re la r i u n i o n e della Cassazione, il 18 g iugno , at te­nendosi alla formula di Or lando . Il disagio e i problemi pe r

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lui sarebbero stati seri: ma pe r il governo sarebbero stati an­cora più gravi.

Terza ipotesi (in qua lche m o d o u n a subo rd ina t a della p receden te ) e ra che U m b e r t o aspettasse, ma n o n passiva­mente : e con un proclama al Paese denunciasse «l'arbitrio e l 'usurpazione del governo» (Artieri).

Q u a r t a ipotesi (poi avveratasi) . Pa r tenza del Re, senza abdicazione e senza passaggio di poter i , proclama al Paese, come nella terza ipotesi, e rifiuto di cons iderare legittima­mente e genu inamente risolta la questione istituzionale.

La decis ione di U m b e r t o , p resa in casa L ignana , fu la m e n o t r aumat i ca che i l v i luppo degli avven iment i o rma i consent isse: e ader iva al t e m p e r a m e n t o di ques to Savoia. Compreso della sua dignità, dotato di un forte senso del do­vere, corret to e cortese, il Re era alieno da gesti di forza che potessero compor ta re lo spargimento di altro sangue tra ita­liani. S e m p r e , nel la sua vita, i l p r inc ip io de l l ' obbed ienza aveva fatto p remio sugli slanci personali . Lo si era visto du­ran te la fuga di Pescara, e nel t o rmen ta to pe r iodo del Re­gno del Sud che aveva p r e c e d u t o la Luogo tenenza . Forse taluni suoi irr igidimenti d u r a n t e l 'estenuante negoziato con De Gasperi der ivarono più dalle pressioni dell'entourage che dalla sua volontà . Q u a n d o tut tavia s i a r r ivò al p u n t o che r e n d e v a impossibile u n a soluzione concorda ta , U m b e r t o adot tò la più distensiva.

Solo a metà della g iornata r icomparve al Quir inale , pe r una breve estrema sosta. Passeggiando nei giardini elaborò con Falcone Lucifero il contenuto d 'un proclama agli italia­ni che, abbozzato soltanto nelle g rand i linee, fu completato dallo stesso Lucifero, dal senatore Bergamini e da altri. In un abito grigio a lquanto stazzonato, un cappello a cencio, la ba rba lunga , U m b e r t o salutò i l pe r sona le del Qui r ina le , quindi passò in rivista - e rano ormai le 15 - i corazzieri e la cosiddetta «piccola guardia d 'onore» dei granatieri : il corpo cui egli stesso appar teneva . I corazzieri e r ano in uni forme blu al comando del colonnello duca Giovanni Riario Sforza,

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che consegnò al Re un piat to d 'a rgento con incise le firme di tutti.

C inque automobi l i - t ra cui quel la di U m b e r t o con la d rappe l l a di Casa Savoia e la band ie ra azzurra con i g rad i di maresciallo ai lati del cofano - si avviarono verso Ciampi-no, dov 'era in attesa un quadr imo to re Savoia Marchett i 95 lì trasferito pochi moment i p r ima da Centocelle, ovviamen­te con autor izzazione degli Alleati cui spettava il control lo degli aeroport i . Le modalità della par tenza e rano state sta­bilite dal minis t ro de l l 'Aeronaut ica Mario Cevolot to - cui l 'uso de l l ' ae reo e ra stato chiesto alle 14 - e dal genera le Adolfo Infante. Cevolotto, demolaburis ta , e ra schiet tamen­te repubblicano: ma lo univano a Infante vincoli di pa ren te ­la e una lunga amicizia. Cevolotto e il ministro della Marina ammiraglio Raffaele De Cour ten e rano sulla pista, pe r con­trollare che tut to procedesse senza intoppi . Il Re non volle s t r ingere loro la m a n o . L'aereo avrebbe fatto t a p p a a Ma­drid, e s'era pensato di imbarcarvi anche il nuovo ambascia­tore d'Italia in Spagna, duca Gallarati Scotti. Ma i consiglie­ri della C o r o n a r i f iu ta rono, pe r la p r eoccupaz ione che il viaggio ins ieme a un d ip lomat ico con le credenzia l i della Repubbl ica ne implicasse il r iconosc imento : i bagagli del­l 'ambasciatore furono scaricati.

Alcune dec ine d i fedeli e r a n o a t t o r n o a l l ' apparecchio q u a n d o il Re si affacciò al portello salutando, con un sorriso impeccabi le , un po ' forzato. Dalla t o r r e del Qu i r ina l e un gradua to aveva sorvegliato con il binocolo la zona dell 'aero­p o r t o , p e r togl iere la b a n d i e r a con lo scudo sabaudo nel m o m e n t o in cui il quad r imo to re si levasse in volo. Nell ' im­minenza del l 'addio all 'Italia U m b e r t o aveva fatto, a chi gli e ra stato vicino in quei frangenti , dis t r ibuzione di decora­zioni e titoli nobiliari. Questi aristocratici dell 'ultima ora fu­rono comunemen te chiamati «conti di Ciampino».

Verso le cinque del pomeriggio (13 giugno 1946) Guido Go-nella si affacciò allo s tudio di De Gasper i e lo vide, lui che

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n o n fumava mai, quasi sdraiato nella po l t rona diet ro il suo tavolo di lavoro, con una sigaretta in bocca. Gonella ignora­va che Umber to di Savoia aveva lasciato l 'Italia un 'o ra pr i ­ma, e il Presidente del Consiglio gli d iede la notizia, aggiun­gendo: «Per me è u n a g rande liberazione perché avevo una pau ra e n o r m e che, o pe r la resistenza dei monarchici o pe r la fretta dei repubblicani, si sviluppasse un attrito che pote­va assumere le caratteristiche di u n a gue r r a civile». De Ga­speri most rò a Gonella quat t ro o cinque fogli sui quali, con la sua larga scrittura, «aveva but ta to giù l'abbozzo di un di­scorso di saluto che , se l 'ex-Re Io avesse avvisato, avrebbe voluto rivolgergli a C iampino . . . De Gasper i sapeva che la maggioranza repubbl icana era stata esigua e che u n a fase di distensione era assolutamente indispensabile. Nonos tante i suoi scontri con Lucifero, e ra qu ind i p r o n t o a m a n t e n e r e fermo il suo p r o g r a m m a di un gesto finale di conciliazione nazionale . La pa r t enza rapidiss ima e quasi segreta del Re glielo aveva impedito». Tra le altre cose, De Gasperi voleva dire che i l verdet to popolare andava rispettato, ma che pro­prio in quel m o m e n t o si doveva r e n d e r e omaggio ai merit i che la Monarchia aveva avuto nella storia d'Italia.

Le ansie pe r il Capo del governo e dello Stato non e rano pe rò finite. Il pomeriggio e la sera gliene d iedero altre. La p r i m a fu la pubblicazione, su // Giornale della Sera, mona r ­chico, d ' u n a informazione secondo la quale e r a n o stati gli Alleati a volere la pa r t enza del Re. S tone e l 'ambasciatore inglese Charles smen t i rono immed ia t amen te . La seconda, di maggior rilievo, fu il p r eannunc io d 'un proclama d 'addio di Umber to , trasmesso all'Ansa «dopo at tenta revisione e di­scussione con i consiglieri in casa Bergamini , q u a n d o il Re era già in volo sul Mediterraneo» (l 'ammissione è dell'Artie­ri). Si p u ò sospet tare che alcuni passaggi pa r t i co la rmen te polemici del messaggio fossero effet t ivamente dovut i alla p e n n a dei consiglieri, non a quella di Umber to .

«Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parzia­li fatta dalla Corte suprema - recava il messaggio - di fronte

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alla sua riserva di p ronunc ia re en t ro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il n u m e r o dei votanti e dei vo­ti null i , di fronte alla ques t ione sollevata e n o n risolta sul m o d o di calcolare la maggioranza, io ancor ieri ho r ipetuto ch 'era mio dovere di Re a t tendere che la Corte di Cassazio­ne facesse conoscere se la forma istituzionale repubbl icana avesse raggiunto la maggioranza voluta... Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, i l Governo ha compiuto un ge­sto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitra­rio poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.» Umber to , che spiegava di voler compie re questo sacrificio (la partenza) «nel supremo interesse della patria», ma di do­ver e g u a l m e n t e elevare la sua pro tes ta cont ro il sopruso subito, scioglieva tuttavia dal g iuramento alla Corona, nella par te finale del proclama, gli appar tenent i alle Forze Arma­te, e rivolgeva un saluto ai caduti e ai combattenti.

Solo d o p o le nove di sera De Gasper i seppe del procla­ma, e d iede o r d i n e alla r ad io di c o m u n i c a r n e l 'esistenza, senza r i fer i rne il testo. Ma alle 23 77 Giornale della Sera lo s t ampò in u n a sua ediz ione s t raord inar ia , vanif icando la cautela governat iva. Chiusosi nel suo s tudio, il Pres idente del Consiglio p r e p a r ò spedi tamente , insieme a Gonella, una precisazione-risposta, molto aspra. Il proclama era definito «documento penoso , impostato su basi false e su a rgomen­tazioni artificiose». «I d u e ul t imi per iod i del p roc lama - proseguiva la nota ufficiosa - quello che scioglie dal giura­men to e quello che rivolge un saluto ai caduti ed ai vivi, so­no d u e per iodi superstit i del proclama che Umber to aveva in p r ecedenza p r e p a r a t o pe r un pacifico commiato . Ame­r e m m o c rede re che q u a n t o di fazioso e di mendace vi si è agg iun to in questa definitiva sciagurata edizione, sia p r o ­dot to dal clima passionale e avvelenato degli ultimi giorni. La responsabilità tuttavia è gravissima e un per iodo che non fu senza dignità si conclude con u n a pagina indegna. Il Go-

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verno e il b u o n senso degli italiani p rovvederanno a r ipara­re a questo gesto disgregatore , r insa ldando la loro concor­dia pe r l 'avvenire democratico della Patria.»

La controversia, istituzionale e giuridica, è sbiadita con il t r a sco r r e r e dei decenn i . Ce r to t r ionfal ismo r epubb l i cano diment ica la ristrettezza s o r p r e n d e n t e del margine con cui - al di là di quell 'e lemento tecnico che era il quorum - la Re­pubblica si affermò. I voti che la Monarchia ebbe n o n erano tut t i p r o p r i a m e n t e monarch ic i . E rano , in par t ico la re al N o r d , voti di m o d e r a t i i quali r i t enevano che d o p o tanti sconvolgimenti la Monarchia rappresentasse tu t tora un'an­cora solida, un simbolo di continuità e di stabilità: e che, nel-l 'infuriare di polemiche ideologiche e parti t iche, di minacce e appetit i stranieri, la Monarchia potesse salvaguardare me­glio, e p iù imparz ia lmente , gli interessi del Paese. Per con­tro la tesi del proclama di Umber to - a ch iunque dovuta -, forse formalmente ineccepibile, secondo la quale U m b e r t o abbandonava la scena italiana nella pienezza dei suoi poteri , n o n «debellato» come lo e r a n o stati ad esempio i Borbon i del Regno delle d u e Sicilie o la Casa Reale di Francia, non r idot to a persona privata, ignora la realtà storica e politica. La Casa Savoia e ra stata debel la ta d u e volte, dagli ang lo­americani e dai tedeschi. Il resto fu solo un codicillo c rude­le - sopra t tu t to pe r l ' incolpevole Re di maggio - di quella immensa, doppia tragedia d 'una Dinastia e d 'una Nazione. Si p u ò suppo r r e che Umber to e i suoi consiglieri mirassero a t enere schiusa l 'eventualità di u n a rivincita monarchica a breve scadenza. Barzinij>: ha attribuito all 'ex-Re, n o n appe­na fu a Lisbona, questa frase: «Le m o n a r c h i e sono come i sogni. O si r icordano subito o non si r icordano più».

La querelle giuridica n o n era stata tuttavia t roncata dalla par tenza di Umber to . L'alimentavano l ' imminenza del defi­nitivo responso della Cassazione e le mormoraz ion i - fon­date - secondo le quali lo stesso p rocura to re generale Pilot­ti si sarebbe schierato, nella valutazione del ricorso Selvag­gi, pe r la tesi monarchica. Vi fu un proliferare di parer i au-

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torevoli p rò o contro il r iferimento ai «votanti», e non ai vo­ti validi, pe r stabilire la maggioranza. I grossi calibri del di­ritto spara rono le loro borda te , Carnelutt i , Manzini, Or lan­do, Scialoja (tra gli altri) pe r i votanti, Calamandrei , Temolo, Crisafulli, Vassalli, Mortat i pe r i voti validi. Da no ta re che Achille Battaglia, repubbl icano convinto, fu tuttavia, come tecnico, del p a r e r e che se fosse manca ta u n a maggioranza sicura rispetto ai votanti, il match sarebbe stato nullo, e si sa­rebbe imposta la r ipetizione del r e fe rendum. Il 18 g iugno, convocata ancora - con assai minore solennità - la Corte di Cassazione, Pilotti illustrò la sua requisitoria che concludeva pe r l 'accoglimento del ricorso Selvaggi, quindi si votò: dodi­ci giudici furono pe r il r igetto del ricorso, sette pe r il suo ac­coglimento. Tra questi ultimi il p r imo pres idente Pagano.

L'atteggiamento di Pagano e di Pilotti p u ò ingenerare , e in molti ha ingenerato , il sospetto che il dissenso tecnico na­scondesse qualcosa di più grave: ossia la consapevolezza che il r e fe rendum non era stato genuino, e i suoi conteggi vizia­ti. Pagano , sopravvissuto molt i ann i al p e n s i o n a m e n t o , chiarì invece i te rmini del p roblema, nel 1960, ad un gior­nalista amico, Oreste Mosca. E fu chiaro che il p roblema era e restava di i n t e rp re t az ione . La legge, r ipe tè Pagano , era stata fatta male, ed egli l'aveva segnalato tempest ivamente a Togliatti , Guardasigi l l i , che s 'era schermi to r i l evando che non era farina del suo sacco, e che era stata r iveduta da Or­lando. I l quale era una disgrazia, q u a n d o metteva m a n o in testi di rilevanza storica: lo si era visto con la famosa aggiun­ta «la g u e r r a continua» al messaggio badogl iano del 25 lu­glio 1943, lo si r ivide p e r la legge sul r e f e r e n d u m . N o n vi furono brogli, precisò Pagano. E quan to al ricorso Selvaggi disse: «Tra i sette voti favorevoli al ricorso ci fu il mio. Ma il suo accoglimento non avrebbe mai po tu to spostare la mag­gioranza a favore della monarchia , poteva soltanto diminui­re sensibilmente la differenza tra il n u m e r o dei voti a favore della monarchia e quello dei voti a favore della repubblica».

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C A P I T O L O T E R Z O

I PRIMI PASSI

L'importanza e la passionalità del r e fe rendum avevano mes­so in o m b r a la c o n t e m p o r a n e a elezione della Cost i tuente , specchio assai più sfaccettato degli or ientament i politici ita­liani. La Democrazia cristiana ot tenne 8.080.000 voti, il 35,2 p e r cen to del totale, con t ro i 4 .758.000 voti de i socialisti (20,7 pe r cento) e i 4.360.000 voti (19 pe r cento) dei comu­nisti.

Solo di poco d u n q u e i d u e par t i t i di sinistra, uni t i dal pa t to di uni tà d 'azione, r isul tavano insieme più forti della D C , che confermava i l suo dir i t to ad assumere la gu ida del governo. Era pe r di più arbitrario sommare i voti della sini­stra, come se si t rat tasse d ' u n blocco o m o g e n e o : lo e ra in particolare perché il Partito socialista, uscito bene dalla sen­tenza e le t tora le e ra mina to dalle faide in tes t ine . Sotto un unico simbolo convivevano - come era del resto nella tradi­zione - d u e anime socialiste, quella massimalista - e quindi filocomunista o, come si diceva allora, fusionista - che aveva il suo u o m o rappresenta t ivo in Nenni , e quella riformista, autonomista , che aveva trovato un leader in Saragat.

Gli autonomist i s 'erano sentiti incoraggiati da un succes­so che - contrapposto al mediocre risultato comunista - sug­geriva che P S I U P e P C I andassero ciascuno pe r la sua strada, raccogl iendo suffragi in set tori sociali diversi . C o n le sue maggioranze nelle metropol i industrial i (Milano e Torino), dove aveva distanziato sia la DC sia i comunisti , il PSI ambiva ad essere il par t i to dell 'avvenire, di u n a Italia moderna , in­dustrializzata, efficiente. Pu r t roppo questo proget to si rive­stiva, nell'ala massimalista, dei colori d ' un popul ismo arcai-

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co, pasticcione, fazioso, e a t t ra t to dalle esper ienze del «so­cialismo reale» cioè dei regimi comunisti . Il part i to si ubria­cava di paro le anche q u a n d o voleva passare al concre to , e un p i ano di M o r a n d i p e r i l r i s a n a m e n t o della s i tuazione economica («è necessario o t t enere u n a r iduzione del costo della vita... elevare senza emissione di nuova mone ta il po­tere di acquisto dei salari e degli stipendi. . . effettuare nello stesso t e m p o l 'assorbimento su vasta scala della m a n o d 'o­pera eccedente o disoccupata.. . d iminui re i costi di p r o d u ­zione ai fini di accrescere l 'esportazione» e così via) era aria fritta, e della più ovvia.

Il Partito comunista era stato sconfitto alle u rne , e u n a ri­soluzione della direzione lo ammetteva senza mezzi termini: «Ci p roponevamo di o t tenere tra il nostro parti to e il part i­to socialista u n a somma di voti che ci permettesse di contare la me tà dei d e p u t a t i della Cos t i tuente . Ques to obbiet t ivo non è stato raggiunto. Ci p roponevamo inoltre di affermar­ci come il part i to più forte della classe operaia e come il se­condo part i to del paese. Anche questo obbiettivo non è sta­to raggiunto». La delus ione (in ta luni la costernazione) fu g rande , al vertice e ancor più alla base. I militanti che vive­vano di r iunioni, dimostrazioni e cortei, e che vi vedevano il P C I domina re incontrastato, che ignoravano come entità ir­r i levante quella che fu poi definita «maggioranza silenzio­sa», scoprirono d 'un tratto che la realtà era ben altra e che il loro par t i to , egemone nella Resistenza, e ra for temente mi­nori tario nel Paese.

Al quar to posto si collocò, con un milione e mezzo di voti (meno del sette pe r cento), l 'Unione democratica nazionale: ossia la formazione capeggiata dai «quattro vecchi» (Croce, Bonomi , Nitti e O r l a n d o ) nella quale e r a n o confluiti, p e r l'occasione elettorale, il PLI e i demolaburist i . Fu un risultato modes to , in par t ico la re ove si pens i che i l iberali si e r a n o p ronunc i a t i nel loro congresso p e r la Monarch ia ( p u r la­sciando libertà di scelta agli elettori). La loro immagine, sto­r icamente gloriosa, e ra sembra ta all 'elettorato t r o p p o vec-

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chia (p rop r io p e r que i qua t t r o capofila), t r o p p o debole , t r o p p o compromissor i a . Avvenne così che g r a n p a r t e del voto schiet tamente modera to e t iepidamente monarchico si riversasse sulla D C , che era stata repubbl icana nel suo con­gresso, ma agnostica nel compor tamento di molti suoi espo­nent i : e che il voto mona rch i co r u g g e n t e si or ientasse in buona misura verso il Movimento del l 'Uomo Qua lunque , al quale a n d a r o n o infatti un mi l ione 211 mila voti, e t r en t a seggi.

EUomo Qualunque fu d a p p r i m a la testata di un giornale na to sotto il segno della protesta . L'aveva fondato Gugliel­mo Giann in i che , da b u o n t ea t r an te , au to r e d i c o m m e d i e senza t r o p p e pretese, ma di g r ande mestiere, aveva vivissi­mo il senso del pubblico e sapeva coglierne a volo gli umori . Quest i u m o r i e r a n o sop ra t t u t t o dei m a l u m o r i provocat i , specialmente nel Sud, n o n soltanto dalle frustrazioni e dai disagi della sconfitta, quan to dalla diversa t emper i e in cui e r a n o immers i i d u e t roncon i del Paese. Occupa to subi to dagli Alleati, il Sud n o n aveva avuto la Resistenza, e quindi n o n ne condivideva le passioni. Subiva il vento del Nord co­me un sopruso, che gli risvegliava nel sangue nostalgie bor­boniche, e rifiutava tutto ciò che puzzasse di C L N .

Giannin i intuì questo stato d ' an imo, e lo in t e rp re tò alla perfezione, soprat tut to in d u e rubr iche del suo giornale, le «vespe» e le «parolacce». Sebbene di m a d r e inglese, e ra un napo le t ano verace, alla Scarfoglio, por tava il monocolo , la sua eleganza era un po ' da guappo , e se nei rappor t i uman i n o n mancava di f inezze, nel suo l inguaggio di giornal is ta sapeva adeguars i a quello del loggione e della taverna. Ma fu p ropr io questa voluta rozzezza a render lo efficace. Senza rifuggire dal turpi loquio, ostentato anzi come antitesi della nuova oratoria e pubblicistica, egli prese a smonta rne i miti, l 'enfasi resistenzialista e il v i r tu ismo democra t i co . Ebbe il compito facilitato dai suoi avversari, specialmente da quelli di sinistra, che con le loro p re tese di pa l ingenesi e le loro smanie epuratr ici stavano provocando nel Paese u n a crisi di

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r iget to. In pochi mesi L'Uomo Qualunque r agg iunse quasi il milione di copie. E probabi lmente fu p ropr io questo succes­so la sua disgrazia. Giannini se ne sentì indot to a creare ad­dir i t tura un part i to. Chi scrive p u ò testimoniare ch'egli n o n aveva in real tà né vocazione né ambizione politica. Tant ' è vero che, fondato il par t i to , egli l'offrì a Nitti («Ve lo volete accolla' - gli disse - 'sto pupazzo?»), che rifiutò. Il vecchio statista lucano sapeva beniss imo che i l q u a l u n q u i s m o n o n e ra affatto, come dicevano i suoi den ig ra to r i - che e r a n o tut t i - u n a r iediz ione del fascismo. Giannin i n o n era mai stato fascista, aveva perso l 'unico figlio nella g u e r r a voluta dal fascismo, era l ' in terprete di u n a certa «maggioranza si­lenziosa» (ma non tanto) che anche sotto e contro il fascismo aveva protestato. Ma Nitti sapeva anche che un part i to (ma Giannini lo chiamava «Movimento») senza radici nella storia né ancoraggio ideologico, basato soltanto sulla protesta, n o n poteva avere un d o m a n i . E così fu. Ma ciò n o n toglie che nel '46 avesse un presente . Glielo assicuravano gli altri par­titi coi loro error i , e soprat tut to con la loro pretesa di riscri­vere la storia d'Italia a loro immagine e somiglianza e p r e ­s e n t a n d o i l ven t enn io mussol in iano come un lungo golpe perpe t ra to da un manipolo di criminali contro i l popolo .

Alla politica, che voleva impadronirs i di tutto - ed e rano i p r imi segni di quella partitocrazia che tut tora avvelena l'I­talia - Giannini oppose u n a vaga al ternativa di «Stato am­ministrat ivo», n o n polit ico o a l m e n o n o n pol i t icante , che soddisfaceva soprat tut to una piccola borghesia impiegatizia meridionale , allergica a una demonizzazione del fascismo in cui s i sentiva coinvolta. Era u n a reaz ione di pelle, pove ra d ' idee, su cui n o n si poteva costruire nulla di du ra tu ro . Ma ciò n o n toglie che Giannini un servigio lo rese: sgonfiò, ridi­colizzandoli, molti miti, smascherò molte bugie. Ci sono vo­luti decenni perché alcune delle verità sbandierate da Gian­nini, come ad esempio il fatto che il fascismo aveva godu to un imponen te consenso popolare , venissero riconosciute e, sia p u r e a dent i stretti, accettate.

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La stella di Giannini declinò con la stessa rapidi tà con cui si era accesa. Il qua lunquismo era stato un fenomeno spon­taneo , reaz ionar io nel senso et imologico della paro la . E si esaurì q u a n d o la sua funzione d ivenne superflua, cioè quasi subito. Giannini morì povero e solo: n e m m e n o il giorno del funerale gli furono r i sparmia t i scherni e beffe. Solo il «ri­flusso» gli ha reso, t ren t ' anni dopo , un po ' di giustizia.

All 'ascesa qua lunqu i s t a cor r i spose l ' anemizzazione del Blocco della Libertà, monarch ico schietto, che dovet te ac­contentars i di 600 mila voti. Sul versante di sinistra si assi­stette alla vir tuale sparizione del Parti to d 'azione che, p u r alleato a un part i to sardista, racimolò meno di mezzo milio­ne di voti, al di sotto del d u e pe r cento. I l Parti to d 'azione era stato d is t ru t to dal suo ca ra t t e re a r r o g a n t e m e n t e elita­rio, dall 'indifferenza agli umor i del popolo (di cui n o n man­cava occasione pe r proclamarsi apostolo), dalle lotte intesti­ne. In realtà era già finito con il congresso di febbraio, e con la secessione di Parr i e La Malfa che f o n d a r o n o un Movi­m e n t o democra t ico repubbl icano al quale ebbero l ' impru­denza di pronost icare b u o n e fortune elettorali. Crollò inve­ce il Partito d 'azione, e n o n decollò il Movimento democra­tico repubbl icano che, presi d u e soli seggi alla Costi tuente, defunse p res to anch 'esso . Meglio a n d a r o n o le cose p e r i l Partito repubbl icano storico che - in odio alla Monarchia -n o n aveva avuto a lcuna «contaminazione» governat iva , e che raccolse un milione di voti (4,4 pe r cento).

Così, dei 556 Cost i tuent i , ci fu rono 207 democr is t ian i , 115 socialisti, 104 comunis t i , 41 de l l 'Un ione democra t i ca nazionale, 30 qualunquist i , 23 repubblicani , poi liste mino­ri. Loro compito n o n era di legiferare - le sinistre l 'avrebbe­ro voluto, scontrandosi con la recisa opposizione democr i ­st iana e l iberale - ma di e l abora re la n u o v a Cost i tuz ione . Ino l t r e la Cos t i tuen te d i ede magg io ranze p a r l a m e n t a r i a l governo, e dibatté i problemi del momen to : ed e rano di ec­cezionale gravità, in politica in terna e in politica internazio­nale.

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Tre e rano le scadenze immedia te che si ponevano ai parti t i maggiori , e ai loro capi: l 'elezione del pres idente della Co­st i tuente , la nomina del Capo dello Stato - provvisorio, in attesa che la Repubblica avesse il suo p r imo Presidente desi­gnato con tutte le formalità volute dalla Costituzione ancora in fieri - e la formazione di un altro governo, essendo previ­sto dalla legge sul r e f e r endum che quello in carica desse le dimissioni.

De Gasperi e Nenn i avevano concordato che a presiede­re la Cos t i tuen te fosse ch iamato un socialista. Ma N e n n i - benché forse tenta to - rifiutò la carica che molti gli offri­vano. «È t roppo neu t ra pe r me. Essa mi collocherebbe al di sopra dei partiti , men t r e io sono nella mischia e non inten­do al lontanarmene.» Avrebbe visto volentieri su quella pol­t rona Romita, che «meritava dal part i to u n a manifestazione di cordiale solidarietà e amicizia». La vicenda ebbe invece tutt 'al tro epilogo, e Nenn i stesso la raccontò in questi termi­ni nei suoi taccuini : «La ques t ione della p re s idenza del la Costi tuente si è conclusa questa sera con un inaspettato col­po di scena. Il mio rifiuto non è servito a Romita, ma a Sa­ragat. E questo n o n pe r u n a manovra di Saragat, ma pe r un eccesso di furberia da pa r t e dei miei amici. Quest i si e r ano messi in testa che De Gasperi da un lato e Saragat dall 'altro mi spingessero alla p res idenza p e r immobil izzarmi in u n a cornice dorata . E h a n n o fatto il r ag ionamento infantile del rovesciamento del gioco. N o n h a n n o pensato che i l presti­gio persona le di Saragat uscirà rafforzato dalle sue nuove funzioni. Infatti egli che e ra perplesso d o p o l 'elezione, mi ha telefonato più tardi che capiva la manovra , ma ne p ren ­deva l'utile, sicuro di sventarne l'insidia». Stilettate tra com­pagni di part i to, p re ludio a ben altro.

Se la p res idenza della Cos t i tuen te era , nella sostanza, u n a quest ione in terna dei socialisti, i l n o m e del Capo dello Stato poteva uscire solo da una trattativa interpartitica. Poi­ché De Gasperi n o n era disposto a farsi p r o m u o v e r e (e ri­muovere dal governo) la lista dei nomi possibili si restringe-

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va alle figure insigni del prefascismo, recupera te dal postfa­scismo. At ten to ai dosaggi , p r e o c c u p a t o di rass icurare la mezza Italia monarch ica , De Gasper i aveva in m e n t e un identikit ben definito del p r imo Capo dello Stato repubblica­no. Doveva essere filomonarchico, e doveva essere meridio­nale. Perciò non e rano proponibil i né i l p iemontese Einau­di né i l l o m b a r d o Bonomi . Benede t t o Croce sembrava ri­s p o n d e r e ai requisiti richiesti. E i socialisti, l anc iandone la cand ida tu ra , e r a n o convint i d ' a n d a r e sul sicuro. L'idea fu attribuita a Nenni che in verità se ne fece paladino, ma sen­za entusiasmo. «Alla direzione - raccontò lui stesso - è sbu­cata fuori d ' improvviso la quest ione della nostra adesione a una eventuale candida tura Croce... La proposta iniziale è di Cacciatore. L'hanno r ipresa Silone, i nquad r ando l a nel più vasto p iano del laicismo, e Saragat pe r esigenza di equilibrio i n t e rno . Io t rovo l'iniziativa avventata , ma d o p o t u t t o n o n mi spiace di d a r e u n a punzecch ia tu ra ai democristiani.» E Nenn i in pe rsona firmò suìì'Avanti! del 23 g iugno (manca­vano d u e giorni a l l ' aper tura della Costi tuente) un articolo in favore di Croce Capo dello Stato.

Il filosofo si mostrava ri luttante a impegnars i totalmente nell'attività politica. Ma al di là di queste r emore personali , esisteva un veto democrist iano, morb idamente ma ostinata­mente motivato. Croce, obbiettava la D C , era pres idente del P L I , quindi legato specificamente a un part i to, non super par-tes come il suo delicato ruolo imponeva. Il pretesto era buo­no , ma r imaneva un pre tes to . Altri e r a n o , agli occhi della D C , gli handicaps di Croce: la scarsa malleabilità, e il laicismo intransigente. Sua era stata la opposizione alla richiesta de­mocris t iana d 'avere il Minis tero della Pubblica is t ruzione, q u a n d o s 'era formato i l minis tero Parr i . De Gasper i aveva ceduto, ma n o n dimenticato. E il povero Nenni , bocciatogli Romita in casa, si vide bocciare Croce fuori casa. Croce de­clinò, con u n a lettera a Nenni , l'offerta socialista. Ma r inun­ciava a ciò che non era più, comunque , alla sua portata .

Chi allora? De Gasperi sosteneva Or lando , ma era p ron-

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to ad accettare un altro n o m e idoneo. E il nome fu quello di Enrico De Nicola, che era napole tano , era stato consigliere della Corona (suo l 'espediente della Luogotenenza pe r Um­ber to) e, infine, come spe r imen ta to p a r l a m e n t a r e e come giur is ta insigne, avrebbe sapu to meglio d i c h i u n q u e al tro ideare un protocollo e u n a p rocedu ra tut te da inventare per u n a carica «anomala».

Ma se la carica era anomala, ancor più lo era l 'uomo de­signato a ricoprirla. G r a n d e avvocato napole tano, si e ra af­fermato non con l 'eloquenza focosa e alluvionale che carat­terizzava la scuola forense mer id ionale , ma col suo ferrato punt ig l io giur idico, e sopra t tu t to p r o c e d u r a l e . In un am­biente n o n s empre cristallino, a m m o r b a t o dalla spregiudi­catezza, dalla venalità e anche da compromissioni camorr i ­stiche, aveva por t a to un suo persona le , severissimo costu­me . Non incassava i vaglia dei clienti se n o n dopo aver deci­so di occuparsi del loro caso, e n o n p r e n d e v a un soldo se, e samina to sempl i cemen te i l fascicolo, decideva p e r i l no . Scapolo, ritroso, solitario, suscettibilissimo, perse quasi tut to il pa t r imonio accumulato in u n a lunga e fortunata vita p ro ­fessionale perché , da patr iota imprevidente , aveva avuto fi­ducia nei titoli di Stato. Allo scoppio della gue r r a investì in buon i del tesoro, all ' interesse del 3,50 p e r cento, dieci mi­lioni (di allora, ovviamente), che furono polverizzati dall'in­flazione. La sua eleganza accurata e ant iquata , la sua retti­tud ine , il suo stile, l 'avevano reso popo la re in u n a città che vedeva in lui ciò che avrebbe voluto essere, e che n o n era.

Sulla scia dei brillanti successi forensi, De Nicola era ap­proda to alla politica, ed era stato eletto deputa to di Afrago-la sconfiggendo il cand ida to giolit t iano. Il che n o n gli im­ped ì di essere fatto dallo stesso Giolitti sot tosegretar io alle Colonie, nel 1913. Era allora t ren tase ienne . Praticò la vita pubblica con gli stessi scrupoli di correttezza esasperata cui s 'era ispirata la sua vita profess ionale . «Aveva l ' ab i tudine - riferì Bartol i nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi - di scrivere la corr ispondenza privata su carta senza intestazio-

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ne, e di fare affrancare le lettere a p ropr ie spese.» Gli fosse­ro piaciuti il po te re , e il governo, De Nicola sarebbe diven­tato senza difficoltà ministro, Presidente del Consiglio. Ma­nifestò prestissimo, invece, la sua vocazione al rifiuto. L'as­sunzione di u n a carica pubblica era p r ecedu ta sistematica­men te da u n a fase du ran t e la quale De Nicola si faceva p re ­gare, e accettava, se accettava, di malavoglia. Altrettanto si­s temat icamente sopravveniva u n a seconda fase d u r a n t e la quale De Nicola si d imet teva , e veniva indo t to a r e c e d e r e dalla sua decisione - q u a n d o recedeva - con insistenze n o n minor i d i quelle che e r a n o state necessarie p e r i ndu r lo ad accet tare . Gli e s tenuan t i negoziat i si svolgevano sovente a lunga distanza, pe rché De Nicola, alla min ima contrar ie tà , si rifugiava nella sua villa di Torre del Greco, e di là era dif­ficilissimo stanarlo. Questo cerimoniale contrassegnò il cur­sus honorum di De Nicola che e ra Pres iden te della C a m e r a q u a n d o il fascismo si impadron ì del potere .

Occupava la sua p o l t r o n a a Montec i tor io il g io rno che Mussolini - nel novembre del 1922 - minacciò di fare del­l'aula «sorda e grigia» un bivacco di manipoli : e n o n redar­guì l 'oratore. Anzi r ichiamò al silenzio il depu ta to socialista Modigliani che aveva gridato «Viva il Parlamento». U n a di­most raz ione di pavidità che a De Nicola fu s e m p r e rinfac­ciata. Duran te il ventennio De Nicola, rassegnato ogni inca­rico, si appa r tò digni tosamente , sospendendo la serie delle offerte, dei rifiuti, delle r inunce alle r inunce . Accettò tutta­via nel 1929, la nomina a senatore che Mussolini - il cui con­senso era indispensabile - forse n o n propose , ma che certo n o n avversò.

P ropr io pe r ché così r i lu t tante ad occupare po l t rone , in un Paese dove pe r conquistarle i politici si scannavano, De Nicola finiva pe r essere subissato di proposte . Gliele faceva­no sapendo che le declinava, e che, se diceva sì, si trattava p u r sempre di un sì provvisorio e fragile, che n o n sbarrava definitivamente la strada agli altri concorrent i . Ma i suoi no e rano dosati, c 'erano quelli definitivi e irrevocabili, c 'erano

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quelli tenaci, e c ' e rano quelli che p r e l u d e v a n o all 'assenso, p u r c h é estorto. Nelle elezioni pe r la Costi tuente non aveva voluto candidarsi . Era un no vero. Gli avevano fatto visita, pe r indur lo a en t ra re nella Unione democrat ica nazionale, B e n e d e t t o Croce e Porzio. «L'ho fatto io che n o n sono un u o m o politico - aveva det to Croce - a maggior ragione do­vete farlo voi che vi siete occupato di politica pe r tanti an­ni.» Dopo di lui Porzio era ricorso alla mozione degli affetti: «Mi sono sognato m a m m a tua» aveva det to a De Nicola, la cui risposta era stata fulminea: «Anch'io l 'ho sognata: mi ha det to di n o n presen ta rmi candidato». Avendo a che fare con un pe r sonagg io di ques ta fatta, la Cos t i tuen te de l iberò la sua nomina a Capo provvisorio dello Stato senza chiedergli se e ra d ' accordo . I l 27 g iugno - m e n t r e già sul suo n o m e convergevano tut t i - r ibadiva di n o n vo le rne sapere , e q u a n d o Saragat , ne l l ' imminenza del voto, lo ch i amò p e r vincerne la ritrosia, staccò il telefono. Solo a elezione avve­n u t a p r o n u n c i ò il sospira to sì, e molti sospe t t a rono che il p r eceden te irremovibile no alla cand ida tu ra in u n a lista di par t i to mirasse p r o p r i o a lasciarlo l ibero pe r la successiva ben più alta designazione.

C a p o dello Stato p e r ven t i due mesi - cessò di essere provvisorio e assunse la qualifica di Presidente della Repub­blica solo il p r imo gennaio 1948, con l 'entrata in vigore del­la Costi tuzione - De Nicola rifiutò il fasto del Qui r ina le , e prefer ì i l Palazzo Giustiniani, no to come sede di u n a delle Massoner ie i taliane, che è accanto a Palazzo Madama . Pa­z i en temen te , i n g e g n o s a m e n t e , da p rocedur i s t a raffinato, elaborò il protocollo sul quale la Repubblica avrebbe poi lar­gamente campato di rendi ta , senza tuttavia perseverare nel­lo stile sobrio e sparagnino di questo suo p r imo Presidente. Era schivo, ma con impenna te di puntiglioso orgoglio se ap­pena avvertiva un ' ombra di irrispettosità. Fu un Capo dello Stato senza corazzieri, e senza first lady.

Con De Gasperi e i ministri era cordiale, cauto, bu t t ando là qualche avvert imento politico, ma più sovente insistendo

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perché alcuni atti solenni n o n avvenissero di venerdì , gior­no infausto. Il suo soggiorno a Palazzo Giustiniani fu p u n ­teggiato di scatti umorali , e da qualche sdegnoso ma tempo­raneo ritiro a Torre del Greco. Su alcuni «incidenti» più gra­vi con il governo, e sulle vicende della sua mancata ricandi­da tu ra ed elezione, r i to rneremo. Da Palazzo Giustiniani uscì in collera, così come in collera lasciò negli anni successivi la Pres idenza del Senato e quel la della Cor te Costi tuzionale. Risolse br i l lan temente nella sua esistenza, infinite volte, gli altrui di lemmi umani , o giuridici, o politici, ma n o n risolse mai i l suo p ropr io di lemma: che era quello d ' un amore-odio pe r il potere , pe r le dignità, pe r gli onori . Questa incertezza lo rendeva, lui così amabile, litigioso e anche offensivo. Sem­brava scaricasse sugli altri l ' insoddisfazione p e r quel suo piacere morboso di volere gli inviti, infuriandosi se n o n gli e r ano rivolti, p e r poi sdegnarli .

Le trattative pe r il secondo governo De Gasperi , cui De Ni­cola aveva da to l'avvio il p r i m o luglio, si t r asc inarono p e r dodici giorni , con g ran dispet to di N e n n i che accusava De Gasperi d i averle condo t te t r o p p o l en tamente : un «er rore di metodo», diceva, che «ha rischiato di buttarci in una crisi senza f ine». Non immaginava, Nenni , quali altre lungaggini negoziali aspet tavano la neonata Repubblica. De Nicola ave­va seguito, p e r le consultazioni, u n a regola molto nobile e molto pe rd i t empo , d o p o d'allora sempre rispettata, che im­pone di sollecitare i parer i di personaggi insigni ma del tut­to inutili allo scopo pe r il quale sono convocati.

A sua volta De Gasper i si muoveva con la tenacia del m o n t a n a r o e la cautela del l 'uomo di curia, risoluto comun­que a t r a r r e tu t to il possibile utile dalla vittoria elet torale . C inque furono le novità di rilievo nel n u o v o Minis tero: la designazione di Nenn i agli Esteri (e la perdi ta degli In te rn i per i socialisti); la r inuncia di Togliatti; l ' ingresso dei r epub­blicani; l'uscita dei liberali; l 'assegnazione del Ministero del­la Pubblica istruzione a un democrist iano, Guido Gonella.

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Delle qua t t ro , l 'ul t ima e ra senza dubb io la p iù in teres­sante. La scelta di un esponente dei parti t i laici pe r il Dica­s tero che governa la scuola e ra stata u n o dei p u n t i fermi delle p receden t i trat tat ive. Lo stesso De Nicola s'era det to favorevole al man ten imen to di questo principio. Ma De Ga­speri, consapevole della sua forza, p ropr io su questa preclu­sione, e sulla sua inaccettabilità, s'era impunta to . Q u a n d o i socialisti Ivan Matteo L o m b a r d o e Ludovico D'Aragona gli avevano comunicato che la direzione del loro parti to voleva un laico a quel posto, la replica di De Gasperi era stata iro­nica, quasi provocatoria: «Non ho mai pensato di p r o p o r r e pe r l'incarico un sacerdote». I due precisarono che pe r laico in tendevano un n o n democrist iano, e De Gasperi li incalzò d o m a n d a n d o se alla Pubblica istruzione potesse anda re un ebreo, un ateo, un qualsiasi anticristiano, ma non un cattoli­co. D'Aragona, che era un g ran b r a v ' u o m o , ma n o n all'al­tezza del suo inter locutore , ammise che, sì, le cose stavano p r o p r i o a quel m o d o . E De Gasperi un po ' t ea t ra lmente si alzò, fece cenno alla de legaz ione democr i s t i ana che lo af­fiancava di fare al tret tanto, e dichiarò che considerava il ne­goziato in terrot to . Ci volle u n a mediazione di Togliatti pe r r i a n n o d a r n e le f i la . E a l l ' I s t ruz ione a n d ò Gonel la , u o m o colto e democra t ico cristallino, ma anche integralista con­vinto.

Poiché gli In te rn i se li era tenut i De Gasperi , Nenn i ebbe d u n q u e gli Esteri. Ma fu convenu to che, essendo in p ieno sviluppo la discussione par igina sul t rat tato di pace con l'I­talia, e avendovi De Gasperi partecipato fino a quel momen­to, l ' insediamento di Nenni sarebbe stato rinviato. Avvenne infatti il 18 ot tobre . Nel f ra t tempo, Nenn i ebbe l'interim di De Gasperi alla Presidenza, du ran t e le sue assenze. Era evi­den te a ogni pe rsona di b u o n senso, e s icuramente De Ga­speri lo era, che Nenn i n o n aveva le qualità d ' un b u o n mi­nistro degli Esteri. Dotato di intuito politico e di carisma de­magogico, n o n aveva nulla de l l ' uomo di Stato, anzi ne era la negazione: gli mancavano specialmente quelle conoscen-

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ze ed esper ienze internazionali - al di fuori dell 'ambito so­cialista - che la politica estera richiede. Per di p iù il suo tem­pe ramen to - che qualcuno ha definito «femmineo» - lo ren­deva molto sensibile alla forza, fosse quella di Togliatti o fos­se quella del l 'Unione Sovietica. Per Nenni De Gasperi aveva u m a n a simpatia e amicizia. Ma agli Esteri lo m a n d ò pe r cal­colo freddo, se non cinico.

Togliatti si defilò - la pol t rona di Guardasigilli fu occupa­ta dal suo c o m p a g n o Fausto Gullo - pe r motivi che possia­mo soltanto ipotizzare. Probabi lmente l 'esperienza di Guar­dasigilli lo aveva deluso. Aveva scontentato i «duri» del suo part i to, e n o n era riuscito a cat turare gli amant i della legge e del l 'ordine . L'amnistia, formulata con imprecis ione e ap­plicata dalla magis t ra tura con eccezionale lat i tudine, aveva azzerato le pendenze penali di molti ex-fascisti; o di ex-par­tigiani che, finita la g u e r r a civile, l 'avevano cont inuata pe r loro conto e tornaconto, ammazzando e r ubando . Era stato passato un colpo di s p u g n a su cr imini che l 'esasperazione delle passioni n o n bastava a giustificare. Di fronte a ta lune sentenze l 'opinione pubblica di sinistra r improverava a To­gliatti - e dal suo p u n t o di vista non aveva tor to - la dizione che escludeva dall 'amnistia solo gli autor i di «sevizie par t i ­colarmente efferate», e che m a n d ò liberi parecchi biechi fi­gur i di Salò. Così come a n d a r o n o liberi parecchi «giustizie­ri» che si f regiavano del la qualifica di par t ig ian i . In com­penso Togliatti aveva o t t enu to pe r la Resistenza riconosci­ment i formali - come l 'aggiunta del suo vilipendio alle altre ipotesi di ques to rea to già esistenti - che con t r ibu ivano a r ende r l a impopola re , anziché a tutelarla. Ma vi doveva es­sere nel r i torno di Togliatti al part i to, a t empo pieno, anche un disegno politico. E la diagnosi di Vittorio Foa: «I comu­nisti, dato che le circostanze n o n consentivano loro un con­trollo sul po te re statale pari a quello democrist iano, preferi­vano riservarsi il massimo di libertà d'azione, ossia di oppo­sizione se n o n dire t ta a lmeno indiret ta , a t t raverso l 'azione di massa e le organizzazioni sindacali».

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V ' e r a n o altre spiegazioni più t e r r a te r ra . «Si dice - an­notava N e n n i nel suo diar io - che Togliatti n o n è en t r a to nel governo p e r c h é voleva esserne l 'unico vicepres idente . Lo racconta il pe t tegol ino della Democrazia cristiana, An-dreot t i . E u n a sciocchezza da resp ingere e n o n è a misura de l l 'uomo. Più logico pensa re a u n a decisione ben più im­por tan te , cioè al progressivo d is impegno dei comunist i dal n u o v o corso poli t ico. Verosimile invece che Pacciardi , i l quale stamatt ina si è fatto sostituire al governo da Macrelli, sia uscito dal Ministero solo pe rché De Gasperi n o n ha po­tuto offrirgli la vicepresidenza. Si dicono molte altre cose, e che cioè De Gasperi n o n è stato pe r poco sbranato dai suoi che volevano portafogli e portafogli . Egli stesso mi ha rac­contato di avere invano cercato di i n d u r r e Gonella a restar­sene al Popolo.»

Mentre i repubblicani en t ravano nel governo ne usciva­no i liberali. La loro defezione era in r appo r to diret to con i risultati elettorali n o n incoraggianti della Unione cui aveva­no ader i to . I l par t i to sperava di tonificarsi con un pe r iodo di oppos iz ione , anche se la l inea di De Gasper i spun tava molti dei suoi a rgomen t i polemici . Il leader democr i s t iano non voleva tuttavia privarsi della collaborazione di Corbino che era, agli occhi del m o n d o imprendi tor ia le , qualcosa di più d ' un valente economista: era la garanzia d 'una gestione economica refrattaria alle u topie dirigiste e alle velleità p ro ­g rammat r i c i della sinistra: la quale sinistra accoppiava in questo campo le ambizioni di un profondo cambiamento ad u n a sconcertante superficialità e ignoranza tecnica. Corbino ministro del Tesoro era un cont rappeso rassicurante a Scoc­c imar ro minis t ro delle Finanze. Per r i m a n e r e nel governo Corbino ricorse all 'espediente di dimettersi dal PLI p u r con­t i nuando a capeggiarne il g r u p p o pa r l amen ta re alla Costi­tuente . Nel governo Corbino ci stette tuttavia pe r poco: il 2 se t t embre se ne a n d ò sba t t endo la po r t a pe r ché si sentiva «politicamente isolato», e perché i comunisti lo p rendevano q u o t i d i a n a m e n t e a bersagl io . Lo sostituì Giovan Battista

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Ber tone , che e ra stato minis t ro delle Finanze con Facta, i l Presidente del «nutro fiducia».

P robab i lmente Corb ino avvertiva che, ol t re a De Gasper i , ben pochi politici - anche in casa democrist iana - concorda­vano con la sua «filosofia» liberistica, e con il suo r igore anti-inflazionista, che p u r e avevano da to frutti indubbi . Le ra­zioni al imentari e rano state migliorate, 250 grammi al gior­no il pane , tre chi logrammi al mese prò capite i generi da mi­nestra ; la lira r ecuperava valore r ispet to alle valute «forti» (dall'inizio del '46 al maggio il franco svizzero era sceso da 120 a 90 lire, e il dollaro da 350 a 280); la p roduz ione indu­striale era in r ipresa così come le esportazioni, quadrupl ica­te t ra l 'aprile e il se t tembre di quello stesso a n n o . Anche la implacabile erosione del potere d'acquisto di salari e stipen­di era stata bloccata.

All'atto della formazione del secondo governo De Gaspe­ri fu deliberato di dare ai lavoratori un «premio straordina­rio della Repubblica»: tremila lire a chi, g u a d a g n a n d o me­no di 30 mila lire mensili, avesse carico di famiglia, 1.500 a chi n o n l'avesse. L'elargizione, criticata da molti p e r i l suo carat tere demagogico, costò 30 miliardi: e fu, com'è regola, presto vanificata da aument i dei prezzi. Ma è difficile crede­re a Riccardo L o m b a r d i , i l qua le sosteneva che con que i t renta miliardi, se prelevati dallo Stato sotto forma di impo­sizione s t r ao rd ina r i a , «si sa rebbe p o t u t o occupa re p e r sei mesi un quar to dei nostri disoccupati; av remmo potuto rad­d o p p i a r e i l p r o g r a m m a delle r icos t ruzioni ferroviar ie ; a v r e m m o po tu to fare ope re immense in Calabria e in Sar­degna ; s i s a rebbero po tu t i cos t ru i re 100-150 mila vani di abitazione pe r la povera gente». I calcoli di Lombard i , lo si vide a n n i p iù t a rd i con la nazional izzazione de l l ' energ ia elettrica, tornavano solo quando n o n potevano essere verifi­cati.

Il r i sanamento che Corbino - e con lui De Gasperi - per­seguivano, era u n a restaurazione, e delle restaurazioni ave-

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va i pregi e i difetti. I «padroni» furono reimmessi gradual­mente nelle industr ie da cui l 'epurazione disordinata li ave­va cacciati: vi furono riammessi anche pe rché i «commissa­ri» politici incaricati di gestirle, di solito incapaci e comun­que condizionat i , avevano da to p rova disastrosa. Alla Fiat aveva r ipreso il t imone Vittorio Valletta, r ientrato dalla Sviz­zera dove s'era messo al r iparo insieme ad altri grossi espo­nent i del m o n d o imprendi tor ia le (Marinotti, Cini, Donega-ni). In cambio Valletta concesse che alla Fiat fosse istituito u n o di quei Consigli di gest ione che , nella concezione dei C L N , avrebbero dovuto esercitare la loro sorveglianza affin­ché gli «interessi particolaristici e speculativi n o n prevales­sero sul bene dell ' intera comunità». Ma l ' innovazione ebbe vita breve, e scarso peso.

Vanno messi nel conto della r ipresa gli aiuti alleati (e in prevalenza americani): en t ro la fine del '46 l'Italia ricevette 507 milioni di dollari in soccorsi di emergenza, 520 milioni di dol lar i in assistenza anch 'essa g ra tu i t a t r ami te I ' U N R R A

(l'Agenzia delle Nazioni Unite pe r la ricostruzione dei Paesi colpiti dalla g u e r r a ) , 134 milioni di dol lar i in aiuti d i re t t i del gove rno di Wash ing ton e 250 mil ioni di dol lar i p e r il m a n t e n i m e n t o delle Forze Arma te ang lo -amer icane . La spesa pe r questa voce era stata, ha osservato il Gambino, tre o quat t ro volte super iore : ma n o n è accaduto sovente nella storia che i vincitori risarcissero sia p u r e in par te i vinti pe r le spese dell 'occupazione.

Il liberismo - a lmeno un liberismo economico di fondo -era una ricetta che in definitiva funzionò: solo che Corbino, da tecnico, in tendeva somministrarlo al Paese con u n a coe­renza r ig ida che le p ro tes te , i mot i di piazza, le agitazioni sindacali spesso legittimate da autentico grave disagio - infi­ne le superstiti attese rivoluzionarie che covavano in seno al Partito comunista e alla post-Resistenza, r endevano inappli­cabile. V ' e r a n o esplosioni improvvise di collera anarchica. A fine agosto la destituzione ad Asti d ' un capitano della po­lizia immessovi dalle f i le par t ig iane , tale Car lo Lavagnino

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(era accusato di rapina), indusse il Lavagnino stesso a darsi alla macchia con una t ren t ina di uomin i , a rmi , viveri. Altri partigiani piemontesi s 'erano unit i agli ammut ina t i . Nenni , che sostituiva De Gasperi , faticò n o n poco, con concessioni e mozioni degli affetti, p e r p lacare questa ribellione che mi­nacciava di estendersi a macchia d'olio. Ancora Nenn i vide il Viminale invaso da d imostrant i con randelli , bastoni e tra­vi q u a n d o vi arrivò la mat t ina del 9 ot tobre.

Gli assalitori erano manovali - ma anche estremisti e p ro ­vocatori - eccitati dalla notizia che certi lavori di s te r ramen­to nei d in torni di Roma sa rebbero stati sospesi, e i cantieri chiusi . E rano lavori inuti l i , con appa l t i scandalosi , come Nenni riconosceva: «Il Genio Civile paga centinaia di milio­ni. Gli imprendi tor i assoldano lavorator i di ogni categoria dove gli operai edili sono il quindic i o il venti p e r cento, li pagano trecentonovanta lire al g iorno pe r un lavoro di po­che ore o magari, in alcuni casi, p e r n o n lavorare affatto, e intascano milioni... La situazione crea u n a specie di solida­rietà tra questa massa, che chiede di vivere, e gli imprendi ­tori che vogliono p e r p e t u a r e il sistema at tuale dei lavori a regia, contro il governo e Romita in part icolare (Romita era passato dagli In terni ai Lavori pubblici , N.d.A.), che vuole abolire i lavori a regia, da lui inventa t i in un m o m e n t o di emergenza». L 'annuncio del la sospens ione - ma i Lavor i pubblici nega rono d 'avere d a t o un o r d i n e in p ropos i to -scatenò la piazza. La polizia sparò , si conta rono d u e mort i e 150 feriti. Un episodio t ra i tant i : che tuttavia chiarisce co­me fosse diffìcile evitare gli spe rpe r i sociali. Infatti d o p o la bat tuta d'arresto che Corbino aveva o t tenuto , l'inflazione ri­prese.

La miseria era ancora g r a n d e in Italia, e grandiss ima la strumentalizzazione della miseria. Gli artefici stessi della ri­costruzione e della r ipresa n o n sospet tavano n e p p u r e l'im­peto delle sue successive fasi. Ma a d u e uomini - oltre che al tessitore De Gasperi - va riconosciuto un ruolo e, ciascuno a suo modo, un merito par t icolare in questi difficili e torbidi

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inizi del «miracolo»: Angelo Costa, pres idente della Confin-dus t r ia , e G i u s e p p e Di Vit tor io, mass imo d i r igen te della Confederazione generale del lavoro. Costa era un industr ia­le e un g r a n d e borghese l igure, onesto e r igoroso, ispirato in economia dalla saggezza e inaud i ana , fe rmo nel le sue idee, ma pragmatico nella loro applicazione: un cattolico li­bera le - un ve ro c r e d e n t e - che d i fendeva la concezione classica del capitalismo. Ostile - come scrisse Giovanni Spa­dolini - alla l inea di Valletta («dar lavoro a q u a l u n q u e co­sto»), cont rar io a ogni blocco dei l icenziamenti , a ogni for­ma di autor i tar ismo economico o di regolazione artificiosa del mercato . «Questo industr iale in senso antico - sono an­cora osservazioni di Spadolini - pilotò negli ann i degaspe-riani un indiret to ma efficace ed operoso pat to sociale.»

Ques to po tè avveni re p e r c h é l ' in te r locutore d i Angelo Costa era Giuseppe Di Vittorio, figlio di contadini pugliesi: il p a d r e , «curatolo» (cosi si ch iamavano i braccianti specia­lizzati) a Cerignola, mor ì , p a r e di po lmoni te d o p o un tem­pora le , q u a n d o il f iglio Peppino aveva sette anni . I l ragaz­zetto fu anche lui bracciante, con u n a istintiva curiosità pe r i libri e pe r la politica, e con una g ran voglia di ribellarsi al­la ingrata condizione della «cafoneria» meridionale. Alla vi­gilia della p r i m a g u e r r a mondia le s'era già fatta u n a fama consolidata di agitatore: ma al fronte si por tò bene , e venne g r avemen te ferito. Riprese la sua attività sindacal-polit ica subito dopo il congedo, e seppe d'essere stato eletto deputa ­to nelle liste socialiste (era il 1921) m e n t r e era in carcere a Lucerà. Passò nel 1924 al PCI, poi fu esule in Francia, e com­missario politico nel bat tagl ione Garibaldi delle Brigate in­ternazionali , comanda to da Randolfo Pacciardi, d u r a n t e i l conflitto civile spagnolo. Pur così intriso di ideologia marxi­sta, n o n fu mai un cremlinizzato alla Togliatti, conservò il contat to con la realtà italiana, ed espresse os t inatamente la convinzione che molti giovani fascisti fossero in b u o n a fede, e che si dovesse convertirli, se possibile, n o n condannar l i .

Ques t 'uomo singolare - u n o dei pochi dirigenti comuni-

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sti espressi dal m o n d o contadino - d ivenne il maggior leader sindacale italiano. Non r inunciò, nei comizi, alle tesi massi-maliste e agli slogans toni t ruant i . Ma aveva profondo il sen­so del possibile e la sua lotta ebbe sempre un limite: la vitto­ria della fazione non doveva essere o t t enu ta sulla pelle del Paese. Un fondo di concre tezza e di pa t r io t t i smo senza ostentazione accomunava l 'armatore Costa all 'ex-bracciante Di Vittorio. Ha raccontato un collaboratore del sindacalista: «Con Angelo Costa, il pres idente della Confindustria, si era instaurato un r appo r to chiaro, come fra d u e potenze nemi­che che si r ispettano. Q u a n d o c'era u n a vertenza impor tan­te o un r innovo di cont ra t to , Costa e Di Vittorio si davano a p p u n t a m e n t o alla stazione di Bologna. Salivano su un va­gone-let to, e passavano la not te a discutere. Q u a n d o il t re­no arr ivava a Roma l 'accordo e ra fatto. Na tu ra lmen te , do­po , i r appresen tan t i della Confindustr ia e quelli della CGIL s ' incontravano. Mugugnavano , ma si a t tenevano a quel che avevano già concordato Costa e Di Vittorio». Non un inna­turale idillio, d u n q u e , ma un r appor to d u r o e leale, fatto di stima reciproca, e di civismo. La confusione dei ruoli sareb­be venuta più tardi , in politica, in economia, nel sindacato: e con altri protagonisti .

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CAPITOLO QUARTO

GUAI AI V I N T I

Il trattato di pace tra l'Italia e le potenze vincitrici ha avuto ed ha un n o m e impropr io . L'Italia non trat tò: subì le condi­zioni che le vennero imposte e potè soltanto esporre - senza g r a n frut to - le sue ragioni . A De Gasper i , i tal iano incon­sueto , severo nel l ' aspet to e asciut to ne l l ' e loquio , toccò il compito amaro di farsi difensore d ' una causa persa in par­tenza. Quel lo suo - e del Paese - fu un Calvario del quale c r ed iamo convenga r i p e r c o r r e r e , a ques to p u n t o , tu t te le tappe: anche se alcune sono già state rievocate ne LItalia del­la guerra civile.

De Gasper i n o n si faceva illusioni. «La mia posiz ione - disse alla vigilia d 'uno dei suoi viaggi a Parigi - è pe r quat­tro quinti quella di impu ta to e responsabile di u n a g u e r r a che n o n ho fatto e che i l p o p o l o n o n ha voluto , e p e r un quinto quella di belligerante.» Alcuni sacrifici e rano sconta­ti. Non potevamo realisticamente opporci alla cessione delle isole del Dodecanneso, rivendicate dalla Grecia e abitate da greci. E n e p p u r e po tevamo pensa re di m a n t e n e r e , in u n a qualsiasi forma, la «unione dinastica» t ra Italia e Albania, vanificata anche sul piano formale dalla proclamazione del­la Repubblica. Era par iment i scontato un sacrificio terr i to­riale nella Venezia Giulia: ma si sperava di contenerlo en t ro limiti, se n o n di equità, a lmeno di accettabilità. Q u a n t o alle colonie, era p e r d u t a l 'Etiopia, frutto d i u n a conquis ta che portava il marchio fascista. Senonché Hailé Selassié pre ten­deva anche l 'Eritrea. Sulla Libia gravava u n a ipoteca del Se-nusso, che si rifaceva a u n a promessa inglese degli ann i di g u e r r a . Ques t i appe t i t i sulle colonie n o n sa rebbe ro stati

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preoccupant i , in u n a fase storica nella quale i maggiori im­pe r i coloniali si avviavano al disfacimento, se avessero ri­gua rda to solo le popolazioni locali. P u r t r o p p o r iguardava­no anche gli italiani là insediati: nel '40, 75 mila in Eritrea, 10 mila in Somalia, 150 mila in Libia.

La Francia aveva in un p r imo m o m e n t o garanti to di non voler avanzare pretese territoriali ma i buon i proposit i era­no andat i scolorendo nell 'ambiguità. Perfino la Valle d'Ao­sta pareva insidiata. In un discorso a Nizza, il 10 aprile del 1945, De Gaulle aveva accennato, con linguaggio profetico, a un vento di vittoria «che aleggia in to rno alle nos t re ban­diere sul Reno» e che soffia «anche sulle Alpi, e sta pe r su­perarle». L'Austria rivendicava l'Alto Adige, atteggiandosi a vittima dell 'austr iaco Hitler, e v 'era il rischio che il criterio etnico, r innegato in Venezia Giulia, venisse invece applicato a sud del Brennero .

In questa corona di spine, la spina che più pungeva era quella giuliana. Tito aveva voluto creare il fatto compiuto , e alla fine di aprile del '45, occupata Fiume, si era but ta to ver­so Trieste e Gorizia in gara di velocità con le t r u p p e alleate del generale Freyberg, che si insediò a Trieste, ma n o n potè t enerne fuori gli iugoslavi. Solo il 9 giugno (sempre del '45) gli Alleati avevano o t tenuto che le t r u p p e di Tito si ritirasse­ro da Trieste, ad eccezione di un modes to cont ingente . La zona alleata e la zona iugoslava v e n n e r o divise dalla l inea Morgan, così chiamata dal n o m e del generale che comanda­va le t r u p p e alleate: e ra u n a linea che, concepita in funzio­ne di esigenze militari, aveva pregiudicato i r reparabi lmente i diritti italiani. Correva infatti lungo l 'Isonzo sfiorando Go­rizia, e descriveva a t to rno a Trieste un arco che delimitava p re s sappoco (ma a lquan to p iù favorevolmente) l 'a t tuale confine. Tra gli interlocutori di De Gasperi il meglio dispo­sto nei r iguardi dell 'Italia era il segretario di Stato america­no Byrnes. Ma, politicante di vecchio s tampo, era anche un u o m o di compromess i , cui a volte fu rono s t r appa t e p e r stanchezza concessioni pe r noi deleterie. Ol t re tut to n o n ca-

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piva l 'accanimento con cui era difeso un «fazzoletto di ter­ra».

De Gasperi esaminò e medi tò a lungo, con i suoi collabo­ratori , l 'a t teggiamento da p r e n d e r e . A Paolo Canali, fidatis-simo segretario particolare, disse che voleva soprat tut to evi­tare che si pensasse a un'Italia astuta e sorniona. Gli p r e m e ­va di da re u n a sensazione di lealtà: pe r questo - forse sba­gl iando - non avanzò tesi massime, da cui r ip iegare poi su tesi minori , ma volle indicare subito i sacrifici cui il governo e il popolo italiano e rano spon taneamente disposti, e quelli che invece si sarebbero fatti soltanto i m p o r r e . Indicò per ­tanto come base pe r la nuova frontiera italo-iugoslava la li­nea Wilson del 1919, a m m e t t e n d o do lorosamente l 'abban­d o n o di F iume e di Zara. Promise la più generosa au tono­mia alle minoranze allogene, ed espresse la speranza che l'I­talia ottenesse un manda to sulle colonie prefasciste.

La p r o c e d u r a di massima p e r i t rat tat i di pace era stata concordata dai «grandi» (Truman, Stalin, Attlee) a Potsdam t ra il luglio e l 'agosto del 1945. In base ad essa, i minis t r i degli Esteri che avevano st ipulato le condizioni di resa dei Paesi «nemici» (incluso il francese che in real tà n o n aveva partecipato all 'accordo e con in più il cinese) avrebbero ab­bozzato i t ra t ta t i , sot topost i a u n a conferenza dei 21 Stati che avevano par tec ipa to alle operaz ion i belliche con t ro la Germania , il Giappone, l'Italia e i loro alleati minori .

La p r ima conferenza dei ministri degli Esteri fu aper ta a L o n d r a , alla Lancas te r House , I T I se t t embre del 1945, e De Gasperi venne convocato pe r il 18 set tembre. Parlò con lo slancio secco e la franchezza che gli e r ano abituali, in ita­l iano. Fu un viaggio umi l ian te . De Gasper i t o r n ò in Italia con un ae reo amer i cano che , p e r rag ioni no te sol tanto a qualche sergente alleato, venne d i ro t ta to su Marsiglia e là bloccato. Sarebbe r ipart i to, fu det to ai viaggiatori, solo l'in­doman i . I l leader democr is t iano, atteso p e r impor tan t i im­p e g n i a Roma, era di u m o r e ner iss imo. Con i l segre tar io , s ' inerpicò su u n a cigolante co r r i e r a che lo p o r t ò a Marsi-

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glia, costeggiando t ra l 'altro un campo di pr igionier i italia­ni. Gli fu procura ta a stento una camera all 'Hotel de Noail-les, pe r Paolo Canali fu pescata u n a soffitta. Nella hall del­l 'albergo De Gasper i incrociò, n o n r iconosciuto, i l console genera le d'Italia, che vi alloggiava, e che solo più tardi , sa­p u t o chi fosse quel signore magro e triste, si precipitò a of­frirgli la sua collaborazione.

T ranne la perdi ta del Dodecanneso, alla Lancaster Hou­se non furono prese decisioni definitive pe r quan to r iguar­dava l'Italia. E p r ima che, nell 'aprile del '46, si riunisse una nuova sessione a Parigi , fu inviata in Venezia Giulia u n a Commissione d'inchiesta che prendesse diret ta conoscenza, sul posto, della situazione. Poteva essere un test impor tan te , a favore dell 'Italia, se i «commissari» avessero avuto libertà di o r i e n t a m e n t o e di valutazioni . Essi cercavano invece la conferma alle tesi dei rispettivi governi. In particolare i rus­si volevano soltanto d imost ra re che gli appeti t i di Ti to era­no legittimi.

Gli iugoslavi avevano organizzato, dovunque passassero i componen t i la delegazione, manifestazioni massicce: eppu­re gli italiani r iuscirono a far sentire, tra minacce e violenze, la loro voce. Un giornale svizzero r ipor tò un episodio signi­ficativo. A Pola, all 'arrivo della commissione, italiani e slavi avevano d imos t r a to c o n t e m p o r a n e a m e n t e in d u e diverse strade attigue all'edificio in cui la commissione stessa era in­sediata. Un capetto locale dei comunisti iugoslavi accompa­gnò un delegato russo a u n a finestra e, mos t rando gli attivi­sti titini in t r ipudio, disse enfaticamente: «Ecco il popolo di Pola». Il russo traversò allora la stanza e, affacciato a una fi­nes t ra che dava sulla facciata oppos ta , chiese con qua lche ironia, add i tando la folla che invocava l'Italia: «E questo che popolo è?». Ma queste realtà u m a n e poco potevano contro le esigenze politiche dei vincitori. Molotov era, a parole , ra­gionevole. («Gli italiani stiano con gli italiani, gli slavi con gli slavi»), ma poi tracciò sulla carta una proposta che riportava la frontiera addir i t tura a ovest del tracciato del 1866. La li-

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nea americana e la inglese si avvicinavano en t rambe a quel­la Wilson: un po ' migliore l 'americana che ci lasciava anche Albona con le miniere dell 'Arsa. Il francese Bidault , con la solita dichiarata b u o n a in tenzione di facilitare un accordo, varò u n a linea francese che ancor più ci pregiudicava per­ché intaccava i sobborghi di Gorizia.

La diplomazia italiana assisteva, impoten te , a queste av­visaglie del peggio . De Gasper i chiese e o t t e n n e di essere ascoltato dai ministri degli Esteri, che tenevano la loro riu­n i o n e al Palazzo del Lussemburgo . Ins i eme alla mogl ie giunse nella capitale francese il 2 maggio 1946 (il p r imo d'u­na serie to rmentosa di viaggi) e occupò l ' appa r t amen to ri­servato agli ospiti nell 'ambasciata di Rue de Varenne, da po­co restituita all'Italia. Quella volta, come le successive, uscì pochiss imo, e solo p e r dover i d'ufficio, t r a n n e u n a b reve passeggiata. U n a sera si lasciò trascinare a teatro: la comme­dia che s i r a p p r e s e n t a v a e r a d ' a r g o m e n t o serio, n o n gli spiacque. Ma la Parigi no t tu rna n o n volle mai conoscerla. A volte, in p iena notte - lo h a n n o ricordato sia la moglie Fran­cesca, sia l ' ambascia tore Q u a r o n i - indiceva r iun ion i im­provvise e segrete, dalle quali e rano esclusi i rappresen tan t i dei comunist i . Era a Parigi come consulente di De Gasperi l 'ambasciatore a Varsavia Reale, che più tardi lasciò il PCI: e i comunisti e rano, a Roma, nel governo. I document i segre­ti venivano perciò protett i gelosamente, ad evitare che, tra­mite i comunist i , la delegazione russa fosse informata delle mosse e dei contatti di De Gasperi.

In quella visita par ig ina di maggio De Gasperi , assillato da ciò che accadeva in Italia - con l ' imminente abdicazione di Vittorio E m a n u e l e I I I e i l r e f e r e n d u m isti tuzionale or­mai vicino - non fu né molto brillante né molto efficace. Era già r ient ra to a Roma q u a n d o seppe, e pe r il governo fu u n a sorpresa ingrata, che i ministri dei «grandi» stavano met ten­do a p u n t o un proget to inedito: la costituzione del «Territo­rio l ibero di Trieste», da Duino a Cit tanova. Il p roge t to fu avanzato da Bidault , che così peggiorava le sue già cattive

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preceden t i p ropos te , so t t raendo all 'Italia, a l l ' in terno della sfavorevole linea francese, il terri torio che sarebbe divenuto «libero». Il 3 luglio l 'idea francese fu accettata anche da in­glesi e americani . L'equilibrio etnico veniva «rispettato» la­sciando 180 mila italiani alla Iugoslavia, e 20 mila slavi in terr i torio italiano. Si disse poi che Byrnes aveva accondisce­so in u n o stato di vera prostrazione, dopo u n o svenimento.

Paolo Canali ha così r iassunto i motivi che facilitarono il compromesso, rovinoso pe r l'Italia: «La Russia, impotente a far subito accettare che Trieste fosse assegnata alla Iugosla­via, n o n chiedeva di meglio che un espediente , p u r di n o n lasciarla all'Italia; la Francia, favorendo I ' U R S S con il proget­to dell ' internazionalizzazione, mirava ad o t tenere l 'adesio­ne russa ai suoi piani di pace con la Germania; gli Stati Uni­ti, n o n anco ra a b b a n d o n a t a la poli t ica di appeasement con I ' U R S S , des ideravano met te re fine allo snervante negoziato; la Gran Bretagna, ansiosa a sua volta di non inasprire i r ap ­port i con l 'URSS, n o n si sentiva, pe r Trieste, di pregiudicare l 'accordo p ropr io in extremis».

Dai colpi di accetta e r avamo riusciti a p re se rva re l'Alto Adige. I ministr i degli Esteri alleati avevano accettato alla Lancaster House il principio di «rettifiche secondarie» in fa­vore degli austriaci, che tempestavano con m e m o r a n d u m e istanze di g rupp i irredentisti , e volevano spostare il confine alla stretta di Salorno. Quello spiraglio lasciato alle ambizio­ni austriache era pericolosissimo. Fu richiuso nelle r iunioni di maggio e g iugno , sopra t tu t to p e r c h é I ' U R S S si d ich ia rò contraria alle esigenze di Vienna; ma poteva da un momen­to all 'altro riaprirsi . Ques to era il g r ande t imore di De Ga­speri. Oggi, con il senno di poi, molti affermano che De Ga­speri si lasciò impaur i re dai fantasmi, e che firmò l 'accordo con il ministro degli Esteri austriaco Gruber del 5 set tembre - un accordo che garantiva agli altoatesini di l ingua tedesca ampi diritti e larghissima autonomia, ma sanciva la intangi­bilità della f ront iera al B r e n n e r o - p e r p r even i r e u n a mi­naccia inesistente. Chi ragiona a questo m o d o n o n r icorda

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probabi lmente che 150 deputa t i inglesi avevano biasimato il loro ministro degli Esteri Bevin pe r la mancanza di iniziati­va sul p rob lema altoatesino, e che lasciando che le cose se­guissero il loro corso si era arrivati per la Venezia Giulia alla formula del Territorio libero di Trieste.

La conferenza dei 21 d u r ò dal 29 luglio al 15 o t tobre 1946. Oltre a Stati Uniti, U R S S , Gran Bretagna, Francia e Ci­na vi furono ammessi anche Australia, Belgio, Brasile, Cana­da, Cecoslovacchia, Etiopia, Grecia, India, Iugoslavia, Norve­gia, Nuova Zelanda, Olanda , Polonia, Bielorussia, Ucraina, Unione Sudafricana. Potevamo contare, in quel consesso, su pochissimi amici. L'americano Byrnes tra i «grandi»; il brasi­liano e l 'olandese tra i minor i . Quest i ult imi si sentivano schiacciati dalla p reponderanza dei «grandi», tanto che il neo­zelandese Jo rdan sbottò un giorno: «Che lazza di conferenza è questa, in cui u n a minoranza di quat t ro tizi ha sempre ra­gione? Questa è roba da Hitler e da Mussolini».

Dalle discussioni e r avamo esclusi. De Gasper i avrebbe parlato all'Assemblea generale, gli altri component i la dele­gazione italiana, in par t icolare Giuseppe Saragat e Ivanoe Bonomi , p e r o r a v a n o le nos t re ragioni , su p u n t i specifici, nelle commissioni formate all 'uopo. La preparaz ione del di­scorso che il Presidente del Consiglio p ronunc iò il 10 agosto fu laboriosa e carica di dubbi . De Gasperi aveva convocato a Parigi i più impor tan t i ambasciatori italiani pe r averne l'a­vallo, che e ra anche un avallo politico. Nicolò C a r a n d i n i (Londra) rappresentava i liberali, Tarchiani (Washington) il Partito d'azione, Reale (Varsavia) i comunisti , Quaron i (Mo­sca) la diplomazia di carr iera. L'ambasciata italiana a Parigi e ra scoper ta da q u a n d o Saragat e ra d ivenu to p r e s i d e n t e della Costituente, e nessuno voleva ricoprire quel posto pe r il t imore di dover a p p o r r e la sua firma al diktat.

Si e rano recati a Parigi anche i capi delle grandi corrent i del sindacalismo italiano pe r por ta re ai delegati, in sede pri­vata, la voce delle «masse lavoratrici antifasciste e democra­tiche». Byrnes aveva profuso, pe r loro, molte cortesi parole .

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Ma il laburis ta e sindacalista Bevin (l 'episodio è stato rac­conta to da Ugucc ione Ranier i che e ra a capo dell'ufficio s tampa della delegazione italiana e che accompagnò, come in terpre te , i sindacalisti) fu aspro, quasi sprezzante. Accolse i rappresentant i dei lavoratori italiani senza alzarsi in piedi, senza n e m m e n o tendere la mano . E, ascoltate f reddamente le loro pa ro le , r ibat té r i c o r d a n d o le colpe del fascismo, e astenendosi da ogni distinzione tra il regime e il popolo ita­liano. Nella preparaz ione del discorso De Gasperi, ha anno­tato Canali, «distillava testi già prepara t i , memoriali , verba­li, pare r i di colleghi», riceveva delegati istriani, e alti ufficia­li delle Forze Armate che si d isperavano pe r le p ropos te li­mitazioni militari. Via via gli abbozzi e rano tradott i e scarta­ti. Anche questa volta si pose, come in occasioni precedent i , il p roblema della l ingua da usare. Fu di nuovo preferito l'i­ta l iano, e fu saggia decis ione. I c o m p o n e n t i l 'assemblea av rebbe ro seguito i l discorso a t t raverso le t r aduz ion i : e ra giusto che De Gasperi potesse met tere , in ogni sua parola, il calore che solo l'uso della l ingua mate rna gli consentiva. An­cora a mezzog iorno del 10 agosto il discorso subì qualche ul t imo ritocco. Alle 15 furono p r o n t e le t raduzioni . Un 'o ra p iù ta rd i i delegat i italiani venne ro ammessi , ad un cenno di Bidault che presiedeva, nell 'aula delle r iunioni , dove mil­lecinquecento r app resen tan t i d i ven tun nazioni aspettava­no . I l min is t ro francese ebbe pa ro le di c ircostanza p e r la «nuova Italia», si accesero i riflettori, presero a ronzare le ci­neprese m e n t r e De Gasperi , in un silenzio impressionante , saliva alla t r ibuna.

Cominciò un po ' in sordina, ma senza nervosismo. Con­fidò poi che si sentiva calmo, che n o n avvertiva soggezione. L'esordio fu di alto livello drammatico: «Prendendo la pa ro­la in questo consesso mondiale sento che tutto, t r anne la vo­stra personale cortesia, è contro di me: e soprat tut to la mia qualifica di ex -nemico , che mi fa cons ide ra re i m p u t a t o , e l 'essere citato qui d o p o che i più influenti di voi h a n n o già formulato le loro conclusioni, in una lunga e faticosa elabo-

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razione». Con sobrietà di gesti, ma anche con voce sempre più calda e crescente vigore, De Gasperi disse che il trattato aveva un' impostazione punitiva, e affrontò la quest ione giu­liana. «La linea francese - osservò - era u n a linea politica di comodo, n o n già u n a linea etnica nel senso delle decisioni di Londra , perché r imanevano nel terri torio slavo 180 mila italiani, e in quel lo i tal iano 59 mila slavi: sop ra t tu t to essa escludeva dall'Italia Pola e le città minori della costa istriana occidentale ed implicava pe r noi una perdi ta insopportabi­le. Ma, pe r quanto inaccettabile, essa era a lmeno u n a fron­tiera italo-iugoslava che aggiudicava Trieste all'Italia. Ebbe­ne, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso du ran t e il giugno, perché il 3 luglio il consiglio dei quat t ro rovescias­se le decisioni di L o n d r a e facesse della l inea francese non più la frontiera fra Italia e Iugoslavia, ma quella di un co­siddetto terr i tor io libero di Trieste?» E proseguì : «Per cor­re re il rischio di tale espediente , voi avete dovuto aggiudi­care l '81 p e r cento del t e r r i to r io della Venezia Giulia alla Iugoslavia, avete dovuto far torto all'Italia r innegando la li­nea etnica, avete abbandonato alla Iugoslavia la zona di Pa-renzo-Pola senza r icordare la Carta Atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiament i territoriali».

Fu un b u o n discorso, fermo e pieno di dignità. Venne ac­colto in silenzio. Per gli italiani, la cui voce doveva p u r t r o p ­po r isuonare nel deserto degli egoismi altrui, era già venuto i l momento di andarsene . Prima, però , stettero ad aspettare che fossero lette le t raduzioni (non funzionavano ancora in queste occasioni i modern i sofisticati impianti di t raduzione simultanea). Poiché De Gasperi risaliva l'emiciclo pe r seder­si, Byrnes gli si fece incontro, alzandosi dal suo scanno, gli strinse la m a n o con calore e gli sussur rò qualcosa all 'orec­chio (voleva vederlo in privato dopo la seduta). Sforza, che era in viaggio nell 'America Latina pe r sollecitare interventi a nos t ro favore, telegrafò poi a De Gasperi , con egocentr i­smo scoperto e inconsapevole, che il suo (di De Gasperi) di-

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scorso era stato il miglior aiuto all 'opera che lui (Sforza) an­dava in quel m o m e n t o svolgendo.

De Gasper i aveva fatto o t t ima impress ione . Il New York Times notò che era toccato a una nazione sconfitta di rialza­re il t ono della verbosa conferenza . «Voi par las te - scrisse un autorevole pubblicista inglese in u n a "lettera aper ta al si­gnor De Gasperi" - n o n a una conferenza di pace ma a u n a conferenza di guer ra . Voi sì, s ignore, avete il diritto di p re ­sentarvi come antifascista e democra t i co , p e r c h é n o n ab­bracciaste il signor Ribbentrop sotto il segno della croce un­cinata. Ma voi, nonos tan te tut to , foste ascoltato dai milioni che anelano alla pace che voi prospettate.»

U n o di coloro che avevano abbracciato Ribbentrop, il so­vietico Viscinski, ebbe , in un discorso che r ibat teva le tesi i tal iane, u n o scatto violento e insul tante . «Non è vero che Trieste sia italiana. Trieste è stata fondata dagli slavi, e anzi è colpa dell 'Italia se è decaduta dal r ango che aveva di pri­mo por to di tut to il Medi te r raneo . Non è vero che il signor B o n o m i sia un democra t i co , anzi è stato min is t ro del la G u e r r a del regime fascista. N o n è vero che l'Esercito italia­no ha abbat tuto l ' impero aust ro-ungar ico: l ' impero austro­ungar ico fu vinto dai russi del genera le Brussiloff che nel 1916 fecero prigionieri d u e milioni di austriaci. Anzi, sanno tut t i che gli italiani sono mol to più bravi a scappare che a combattere.» N o n a p p e n a la delegazione italiana seppe che e r a n o state p r o n u n c i a t e queste frasi e in par t icolare l'ulti­ma, de l ibe ra t amen te offensiva, chiese di avere da l l ' amba­sciata sovietica u n a copia del discorso. Q u a n d o l ' o t t enne constatò che, la frase incriminata n o n c'era più.

L'attività di De Gasperi e ra febbrile, e le r icorrent i minacce di crisi di governo - la classe politica non dimostrava ecces­siva sensibilità pe r l 'ora grave che il Paese attraversava - im­ponevano al Presidente improvvisi r i torni a Roma. I ventu­no dal canto loro n o n riuscivano a mettersi d 'accordo nem­m e n o nel l imitato spazio decisionale che i minis t r i de i

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«grandi» avevano lasciato loro: n o n si a r r ivò ad un ' in tesa , ad esempio, sullo statuto del Terri torio libero di Trieste, e la quest ione venne rinviata ai soliti «grandi».

Il 4 novembre 1946 a New York, al trentasettesimo piano di un grattacielo, Byrnes, Bevin, Molotov e Couve de Mur-ville (quest 'ult imo in sostituzione di Bidault impegna to nel­le elezioni francesi) r ipresero in mano la mater ia dei trattati pe r «rifinirla». Davanti a loro, il 6 novembre , l 'ambasciatore italiano negli Stati Uniti Alberto Tarchiani , contrastato con furore dallo iugoslavo Simich, chiese che alle genti giuliane fosse a lmeno accordato il diritto ad un plebiscito. Parlava al vento . Ma u n a b o m b a politica scoppiò i l g iorno successivo in Italia, pe r un ' intervista di Togliatti all'Unità, nella quale e ra p ropos t a u n a inedi ta soluzione del p r o b l e m a giul iano (Togliatti aveva intervistato se stesso, è ovvio). Reduce da un incon t ro a Be lg rado con il maresciallo Ti to , Togliatti , che aveva raggiunto la capitale iugoslava in automobile il 3 no­vembre , rivelava: «Il maresciallo Ti to mi ha dichiarato di es­sere disposto a consent ire che Trieste a p p a r t e n g a all'Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana, qualora l 'Italia consenta a lasciare alla Iugoslavia Gorizia, città che anche secondo i dati del nos t ro Ministero degli Esteri è in prevalenza slava». Il bara t to parve eccellente alla segreteria del P C I che espresse «la r iconoscenza del popolo italiano al maresciallo Tito».

Ma negli altri settori politici vi fu u n a vera sollevazione. I l Ministero degli Esteri negò d 'avere mai ammesso la n o n italianità di Gorizia, anche se il ministro Nenni , affascinato e domina to intel let tualmente da Togliatti, era assai meno ri­soluto dei funzionari . Basta leggere il suo diario: «I d e m o ­cristiani g r idano alla manovra . Io p r o p e n d o pe r u n a inter­pre taz ione a lquanto diversa, p u r r e n d e n d o m i conto che se d i a m o l ' impress ione di c e d e r e su Gorizia la conseguenza p u ò essere grave a New York dove si decide del nos t ro de­stino». E il g iorno successivo, 8 novembre : «La destra è sca­tenata con t ro Togliatti. Ma n o n ragg iunge l 'acredine della

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s tampa cattolica e del Popolo. C'è u n a incapacità totale della nostra borghesia di sollevarsi al di sopra dei suoi odi sociali e dei clericali di rag ionare in termini nazionali. Per i p r imi Tito è l 'espropriatore, pe r i secondi è lo scomunicato, il per­secutore della Chiesa, l ' uomo che ha c o n d a n n a t o monsi ­gnor Stefanic».

N e n n i n o n capiva che Togliatti tentava, con la sua «tro­vata» di cogliere d u e piccioni con una fava: ossia di scrollar­si di dosso l'accusa di r inunciare , pe r solidarietà ideologica, alla Venezia Giulia in favore degli iugoslavi, e nello stesso t e m p o di r e n d e r e un servizio a Ti to , b a r a t t a n d o u n a città italiana con un 'a l t ra città italiana. Il Parti to comunis ta era , in Venezia Giulia, totalmente infeudato a Tito, consenziente Togliatti. Ha scritto Bocca nella biografia di Togliatti: «Nel part i to giuliano sono stati creati i g rupp i dei cinque, l'orga­nizzazione dei fedelissimi; e n o n c'è g r u p p o de i c inque in cui manch i un m e m b r o della polizia politica iugoslava. La d ipendenza da Lubiana è totale. E là che si decidono le no­mine e i trasferimenti del part i to giuliano... Ma vi è qualco­sa di peggio: Rankovic p r e t e n d e che i compagni italiani col­labor ino con il servizio segreto (iugoslavo)... Togliatti è un m u r o d i gomma».

Ques to m u r o di gomma, che tale era sopra t tu t to nei ri­guard i di Ti to, si risentì acr imoniosamente pe r il naufragio del barat to (naufragio provocato tra l'altro da un voto una­nime del governo nel quale sedevano quat t ro comunisti) . In un articolo di fondo dal titolo «La politica dei calci nel sede­re», pubbl icato il 10 n o v e m b r e dall'Unità, Togliatti accusò De Gasperi d 'avere, lui sì, compromesso la sorte delle popo­lazioni giul iane. «(De Gasperi) n o n ha ba ra t t a to nulla, ma ha p e r d u t o tut to, eccetto l 'umiliante carezza fattagli sul dor­so r icurvo dal compassionevole ministro Byrnes.» Togliatti sembrava aver pe r so le staffe ma, come ha scritto Giorgio Amendo la , la sua v i ru lenza e r a p r o b a b i l m e n t e calcolata. Rincarò la dose in un comizio a Livorno ins inuando addiri t­tu ra che De Gasperi avesse di proposi to r i ta rda to il r impa-

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trio dei pr igionier i dalla Iugoslavia, e questa volta il leader democris t iano pretese , in Consiglio dei ministri , un chiari­m e n t o : e l 'o t tenne da Scoccimarro: «Dichiaro, cer to di in­t e r p r e t a r e il pens ie ro pe r sona le dei miei colleghi, e dello stesso intero mio part i to, che nulla p u ò contestarsi di m e n o che onorevole pe r il Presidente del Consiglio». E facile con­statare, oggi, quan to sarebbe stato insensato lo scambio che Togliatti caldeggiava: Trieste è tornata all'Italia, Gorizia è ri­masta italiana.

Il 4 dicembre i ministri degli Esteri dei «grandi» conclu­sero a New York l 'ultima fase del loro lavoro. I trattati ave­vano ricevuto la stesura definitiva, e il nostro r imaneva du­rissimo. Tuttavia Kardelj affermava sdegnosamen te che la Iugoslavia, insoddisfatta, n o n l 'avrebbe ratificato. Voci con­tro la ratifica sorgevano e s'infittivano - con maggior fonda­mento - anche in Italia. De Gasperi disse: «Se fosse possibi­le decidere secondo criteri ideali e di giustizia, il t rat tato sa­rebbe da respingere». Era possibile respingerlo? Era oppor ­tuno rifiutare la f i rma? Da allora, pe r un anno , l 'angoscioso d i lemma politico, morale e giuridico assillò il governo e l'o­pinione pubblica italiani. La firma n o n significava di pe r se stessa accettazione, cos t i tuendo un semplice at to di proce­d u r a (i tedeschi avevano firmato ma n o n accettato il Tratta­to di Versailles). E l 'accettazione veniva, senza dubbio , con la ratifica.

I l d i l emma e ra di p r ima grandezza , anche dal p u n t o di vista pratico. Firma e ratifica avrebbero liberato l'Italia dalle pesanti condizioni armistiziali, anche se già alleggerite: ma po tevano s embra re i l r i conosc imento di clausole ingiuste , vessatorie, odiose. Ingiuste in gran par te le clausole terri to­riali. Inu t i lmente vessatoria l ' imposizione di consegnare ai vincitori la migl ior p a r t e di quel la flotta che discipl inata­men te si e ra affidata, d o p o la proclamazione dell 'armistizio, agli Alleati. Stati Uniti e Gran Bre tagna r inunc iarono a que­sto diritto di p reda , la Francia accordò concessioni, I ' U R S S fu inflessibile. Odiosa, anche se ricalcata su ana loghe n o r m e

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La finzione del Territorio libero di Trieste

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del Trat tato di Versailles, la clausola che consentiva ai vinci­tori di rivalersi, pe r il pagamento delle riparazioni, sui beni di privati cittadini italiani posti nel loro terri torio. (Per deci­ne d 'anni si sono trascinate molte prat iche di emigrat i che, spogliati d i tut to, h a n n o dovuto a t t endere da u n a burocra­zia lentissima e insensibile il r isarcimento cui il governo ita­liano si e ra impegnato.)

Ripugnava infine al sent imento pazionale l'articolo 16, a stento approva to dalla conferenza dei ven tuno a Parigi (10 voti cont ro 9). Eccone il testo: «L'Italia n o n incr iminerà, né a l t r iment i pe rsegu i rà alcun ci t tadino italiano, compres i gli a p p a r t e n e n t i alle Forze Arma te , p e r i l solo fatto di avere , d u r a n t e il pe r iodo di t empo dal 10 giugno 1940 all 'entrata in vigore del p re sen te t ra t ta to , espresso simpatia od avere agito in favore della causa delle po tenze alleate ed associa­te». Era un articolo che poteva sì salvaguardare gli idealisti, i resistenti politici, i fuorusciti che avevano avversato il fasci­smo in n o m e delle loro convinzioni, ma che copriva con i l mantel lo de l l ' impuni tà anche biechi t radi tor i e spie. Qual­c u n o ha asserito che ques ta clausola era stata rafforzata e completata da patti segreti. Da autorevoli fonti l'ipotesi ci è stata smenti ta . La r e n d e poco verosimile la par tecipazione alle t ra t ta t ive degli Stati Unit i , ace r r imi avversar i , allora, delle clausole segrete (già d o p o la p r i m a g u e r r a mondia le Wilson aveva rifiutato validità al Patto di L o n d r a tra l'Italia e l ' Intesa p r o p r i o p e r c h é s t ipulato segre tamente ) . Ino l t r e non si direbbe che l'articolo 16 abbisogni di occulte integra­zioni. Ma esso dava fondamento al sospetto che de termina­te p e r s o n e avessero reso agli Alleati ambigu i favori, e ne avessero ricevuto compensi di vario tipo in epoca p rea rmi ­stiziale: q u a n d o , piaccia o no , ques to c o m p o r t a m e n t o e ra fellonia bella e buona .

Firma e ratifica e rano d u e atti distinti. La p r ima spettava al gove rno , la seconda all 'Assemblea cos t i tuente , con u n a controf i rma del Capo dello Stato. I l «cuore» del Paese era con t ro l 'accettazione, anche soltanto formale, del diktat; la

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ragione suggeriva l 'a t teggiamento opposto. L'economia era ancora assillata da angosciose incertezze: e la precaria situa­zione giuridica e internazionale n o n era fatta pe r dissiparle. Si profilava in part icolare il rischio che, mancando l'accetta­zione del t ra t ta to , gli Stati Uniti , cui De Gasper i aveva do­vuto fare d r a m m a t i c a m e n t e appel lo p e r le «saldature» ali­m e n t a r i e p e r i r i fo rn iment i , sospendesse ro ogni a iu to . E sarebbe stato il disastro.

Posto di f ronte al l 'a l ternat iva «firmare o n o n f i rmare», De Gasperi era, secondo la test imonianza dell 'ambasciatore Quaron i , esitante, anzi pareva p r o p e n d e r e - ma era molto riservato - pe r un rifiuto. Il governo si p ronunc iò infine pe r la f i rma con a m p i e r iserve. L'8 febbraio 1947, d u e g iorni p r i m a che l 'ambasciatore Meli Lupi di Soragna firmasse a Parigi , De Gasper i chiar ì alla Cos t i tuente i l p u n t o di vista del governo. «La nost ra firma - disse - n o n p u ò m u t a r e la realtà come si è svolta e quale fu denunzia ta in ogni fase del­la Conferenza; Essa n o n p u ò cancel lare i l fatto che n o n o ­s tante la Car ta Atlantica e la stessa r ecen te Cost i tuz ione francese, il t ra t ta to d i spone dei popol i senza consultarl i , e n e p p u r e p u ò el iminare i l fatto, p u r t r o p p o incontrovert ibi­le, che la nos t ra economia da sola, n o n o s t a n t e ogn i b u o n volere, n o n p u ò soppor ta re il peso di cui il t rat tato la grava. Non rifiutare la firma richiesta vuol dire che il governo ita­liano n o n in tende pregiudiz ia lmente fare atto di resistenza contro l 'esecuzione del t rat tato: significa che l'Italia vuol da­re p r o v a di b u o n a volontà e di ogni sforzo rag ionevole e possibile pe r l iquidare la gue r ra ; vuol d i re che l'Italia, no­nos tan te i l c o n t e n u t o del t ra t ta to , n o n d ispera , n o n vuole d isperare dell'avvenire.»

E così Meli Lup i di S o r a g n a f i rmò, d o p o u n a e s t r ema schermaglia diplomatica nel corso della quale il governo ita­l iano r ibad ì che il p l en ipo tenz ia r io sottoscriveva il docu­men to «con riserva di ratifica da pa r te dell'Assemblea costi­tuente». Firmò, d o p o tonant i dichiarazioni in contrario, an­che la Iugoslavia ma a sua volta con riserva pe r il manca to

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accoglimento delle rivendicazioni su Gorizia, Monfalcone e Trieste. Lo stesso giorno della firma a Parigi l'italiana Maria Pasquinel l i uccise a Pola, p e r sangu inosa p ro tes t a con t ro l'ingiustizia del diktat, il generale inglese De Winton.

Per effetto del trat tato, l'Italia perde t te Zara, la quasi to­talità della Venezia Giulia, l'isola di Saseno, l 'Etiopia, l 'Eri­trea, la Libia, il Dodecanneso, Briga e Tenda, la concessione cinese di Tien-Tsin. Sulla Somalia o t t e n e m m o nel 1949 l 'amministrazione f iduciar ia pe r m a n d a t o dell'ONU, du ra t a fino al 1960. Trieste e la zona A del Terr i tor io libero torna­rono all'Italia nel 1954. Ci fu imposto di pagare cento milio­ni di dollari all'URSS, 125 alla Iugoslavia, 105 alla Grecia, 25 all'Etiopia, 5 all'Albania. Secondo le clausole militari l'Eser­cito italiano doveva essere limitato a 250 mila uomini (com­presi 65 mila carabinieri) con n o n più di 200 carri armati ; la Marina a 2 corazzate, 4 incrociatori, 4 caccia, 16 torpedinie­re , 20 corvette (e 22.500 uomin i al massimo); l'Aviazione a 200 caccia e r icogni tor i , 150 aere i da t r a spor to , nes sun b o m b a r d i e r e , al mass imo 25 mila uomin i . L'Italia s ' impe­gnava infine a smantellare le fortificazioni ai confini france­se e iugoslavo, a smil i tar izzare Pantel ler ia , L a m p e d u s a e Pianosa, e a n o n acquistare missili guidati , cannoni con git­tata oltre i 30 chilometri , corazzate, sommergibili e por tae­rei. Vincoli molto pesanti , che già contrastavano clamorosa­men te , q u a n d o Meli Lupi di Soragna f i rmò, con la mu ta t a situazione in Italia e nel m o n d o : tanto che, al m o m e n t o del­la ratifica, quel t rat tato era già anacronistico.

Molte cose avvennero infatti t ra l ' au tunno del 1946 e l 'au­t u n n o del 1947. Le accenniamo soltanto - su quasi tutte do­v remo to rna re - pe r chiar i re in quale diversa atmosfera si siano svolti i dibattiti p r ò o contro la ratifica. Un viaggio di De Gasper i a Washington , la scissione socialista di Palazzo Barberini , poi la formazione, nella p r imavera del '47, d 'un governo monocolore democrist iano integrato da poche per­sonalità di alto livello - E inaudi p e r il Bilancio, Sforza pe r

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gli Esteri, Merzagora pe r il Commerc io con l 'estero - segna­vano u n a decisa svolta politica. Socialisti e comunist i e r ano estromessi dal governo: e i comunist i n o n vi sarebbero mai p iù r i en t ra t i . Washing ton , p ressa ta dalle es igenze della g u e r r a f redda, vedeva con ottica diversa l 'Italia e anche la G e r m a n i a . Mosca p rocedeva nel conso l idamen to del suo i m p e r o , e già in U n g h e r i a la m i n o r a n z a comunis ta si e ra impadroni ta con la violenza del potere . In Grecia divampa­va la g u e r r a civile, e gli Stati Uni t i avevano s u r r o g a t o la Gran Bre tagna nel compito di sostenere quel bastione occi­den ta l e con t ro l ' espans ionismo d i Mosca. Un p r o f o n d o cambiamento: e al l 'ombra di esso, le solite miserie e la solita avidità u m a n a . Così, ad esempio , abili trafficanti avevano ammassato a Briga e a Tenda grosse quant i tà di merci che in Francia avevano un prezzo più elevato p e r o t t e n e r n e , q u a n d o fosse stata ammaina ta la band ie ra italiana, l 'espor­tazione occulta e ingenti profitti, senza pagamento di diritti doganali .

Voci au torevol i in Amer ica r ec r iminavano su l l ' e r ro re commesso con quel le condiz ioni one rose . S u m n e r Welles deplorava che fosse stato favorito l 'espansionismo sovietico in Adriatico, il senatore Lodge definì il t ra t ta to u n a «igno-ble a n d unaccep tab le solution». Se ques to e r a consolan te pe r l'Italia, era anche imbarazzante pe r i l governo di Roma: il quale si vedeva costretto a pe ro ra re davanti all'Assemblea costituente la ratifica d 'un trattato che i nemici stessi defini­vano ignobile.

Gli uomin i dell 'I talia prefascista e r ano in genera le con­tro la ratifica. Francesco Saverio Nitti, estensore di u n a rela­zione di m ino ranza con t rappos ta a quella di magg io ranza p re sen t a t a da Gronch i , giustificava i l rifiuto con un argo­m e n t o giur idico. Le g r a n d i po t enze n o n avevano ancora , esse stesse, ratificato (tale era la situazione m e n t r e si discu­teva). Perché d u n q u e l 'I talia avrebbe dovu to p recede r l e? Con alte paro le espresse il suo dissenso, il 24 luglio 1947, Benede t to Croce: «Si è preso oggi il vezzo, che sarebbe di-

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s u m a n o se n o n avesse del t r i s temente ironico, di t en ta r di calpestare i popoli che h a n n o p e r d u t o u n a gue r r a con l'en­t rare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e p r e t e n d e r e che le riconoscano e p rome t t ano di emendarsi . . . I l governo italiano cer tamente n o n si o p p o r r à all 'esecuzio­ne del t ra t ta to ; se sarà necessar io , coi suoi decre t i o con qualche singolo provvedimento legislativo lo seconderà do­cilmente, i l che n o n impor ta approvazione, considerato che anche i condannat i a mor te sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li met te a mor te . Ma approva­zione, no». Con accento più acre Vittorio Emanuele Orlan­do , che p u r e aveva conosciuto nel '19 molte umiliazioni in u n a conferenza della pace alla qua le pa r tec ipava come «grande» e vincitore, sferzava il governo. Ecco il passaggio più celebre del dibattito.

O r l a n d o - Accettare in p recedenza , senza alcun assillo, ques ta pace d i sono ran t e , significa pors i d inanz i ad u n a e n o r m e responsabilità assunta pe r cupidigia di servilità...

Presidente - Invito l 'onorevole Or l ando a r i p r e n d e r e la paro la affinché da ciò che egli d i rà risulti i l valore del suo pensiero.

O r l a n d o - Chiarisco di avere inteso che la paro la servi­lità qualifica l'atto e non le persone. Nessuno quindi p u ò re­stare offeso.

Il testo ufficiale reca il t e rmine servilità, men t r e altre ver­sioni - tra l'altro quella di Nenn i nel suo diario - riferiscono che Or l ando par lò di servilismo. La durezza del te rmine re­sta comunque intatta: e p ropr io quella durezza provocò u n a vera sollevazione dei democr is t ian i , contras ta t i dalle sini­stre. Lo scontro verbale degenerò in tumul to . E Nenni , pe r l 'occasione nazionalis ta , se ne compiacque : «Nessuno to­glierà a De Gasperi il marchio con cui Or l ando l'ha bollato».

Il t ra t t a to fu ratificato il 31 luglio. D a p p r i m a la Costi­t u e n t e resp inse u n a «sospensiva» p r o p o s t a da Corb ino , quindi con duecentosessantadue voti favorevoli, sessantotto contrar i , e ot tanta astenuti approvò la ratifica, subordinan-

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dola a quella dei quat t ro «grandi». L'ultimo strascico di que­sta vicenda dolorosa fu provocato da u n a delle classiche im­p u n t a t u r e di Enrico De Nicola. Citiamo da Bartoli: «Il Pre­sidente rifiutò di f irmare lo s t rumento di ratifica del trat tato di pace perché , diceva, la sua qualità di Capo soltanto prov­visorio dello Stato n o n gli pe rmet teva di consacrare con la sua f irma un d o c u m e n t o così i m p o r t a n t e . De Gasper i e Sforza a n d a r o n o a Palazzo Giustiniani accompagnati dal se­gretario generale del Ministero degli Esteri e da un esperto di storia diplomat ica , il professor Mar io Toscano, al quale toccò convincere il Presidente. La formula che Toscano p ro­pose era vo lu t amen te ambigua : da essa po teva s embra re che il Capo dello Stato, invece di ratificare il t ra t ta to , t ra­smettesse la ratifica compiu ta dal governo. De Nicola lesse paragrafo p e r paragrafo i l contenuto del documento conte­s tandone ogni espressione e a un certo pun to , irri tato dalle repliche del l 'esperto e dalle sue minu te osservazioni legali, gettò pe r aria le carte, rosso in volto pe r la collera. Alla fine accettò di f i rmare. Ma r i m a n d ò di un g iorno pe r evitare i l venerdì».

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C A P I T O L O Q U I N T O

LA SVOLTA

Riesce difficile, in questi t empi di politica e diplomazia iti­nerant i fino alla frenesia, capire l ' importanza del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, ai pr imi del 1947. Ma quella fu la sua vera consacrazione internazionale. L'invito era arriva­to dalla rivista Time che aveva organizzato, a Cleveland, un «forum» sul tema: «Cosa si a t tende il m o n d o dagli Stati Uni­ti?». Si discusse, tra gli intimi di De Gasperi, se fosse oppor ­tuno e dignitoso che il Presidente del Consiglio italiano tra­versasse l 'Oceano pe r par tecipare a u n a r iunione accademi­ca e in qualche m o d o privata. Ma il p roblema venne risolto da l l ' ambascia tore i tal iano Alber to Tarchiani , che o t t e n n e fosse rivolto a De Gasperi , insieme a quello di Time, un invi­to ufficiale dell 'Amministrazione americana.

Le circostanze della visita non parevano , a tutta pr ima, le più favorevoli. De Gasperi e ra un Capo di governo che s'ap­prestava a firmare il d u r o trattato di pace; ed era anche un leader politico reduce da una cocente anche se parziale scon­fìt ta e le t tora le . Il 10 n o v e m b r e del '46 s 'era vota to p e r le amministrative in sei g rand i città - Roma, Napoli, Genova, Torino, Firenze, Palermo -, e la DC non aveva confermato il successo del 2 giugno, anzi: dovunque i suoi voti s 'erano ri­dotti parecchio, in qualche caso alla metà o m e n o (a Roma da 218.000 a 103.000, a Napol i da 89.000 a 28.000, ad esempio). Questo calo era spiegato anche dallo scarso afflus­so alle u rne ; ma c'era dell 'altro. Come tendenza generale, i comunisti e rano cresciuti a sinistra e i qualunquist i a destra. Nell 'area di sinistra il PCI s'era ne t tamente avvantaggiato sui socialisti. Nenn i aveva annota to: «Il peggiorato r appo r to di

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forze tra noi e i comunist i è meri ta to . Negli ultimi tre mesi abbiamo offerto all 'elettorato lo spettacolo delle nostre po­lemiche interne. . . Ho esaminato con Togliatti e De Gasperi i risultati elettorali. Il p r imo si r e n d e conto che n o n deve ti­ra r t roppo la corda. De Gasperi è amaro . A destra lo h a n n o mollato pe rché cede ai comunist i . A sinistra perché è accu­sato di cedere al neofascismo. Cristo in croce».

Il segnale d 'a l larme era serio pe r la Democrazia cristia­na. In Francia le elezioni pol i t iche, inde t t e pe r lo stesso giorno, avevano dato risultati analoghi . Trionfo comunis ta con 172 deputa t i , d u r o scacco dei socialisti r idott i da 118 a 93 , e segni di logoramento del M R P (che era la Democrazia crist iana francese), che g r a d u a l m e n t e fu cancellato dall 'o­rizzonte politico. La tattica del P C I - essere presente nel go­verno con esponent i di secondo p i ano , ma avere le mani li­be re pe r fare opposizione nel Paese - dava soddisfazioni a Togliatti, e dispiaceri a De Gasperi . Non e r ano ancora ma­tura te le condizioni pe r lo «sbarco» dei comunist i dalla zat­tera del governo: ma già il 15 novembre Attilio Piccioni, in­telligente, p igro e taciturno notabile della D C , scriveva ai di­rigenti periferici che «il t r ipart i t ismo non è stato u n a colla­borazione ma u n a coabitazione forzata». La DC di De Gaspe­ri rifiutava d 'essere considera ta un par t i to conservatore , e anche di identificarsi totalmente con la Chiesa che, pe r boc­ca di Pio XII , tuonava il 22 dicembre in u n a grandiosa adu­nata di cattolici in Piazza San Pietro: «Dal suolo r o m a n o il p r imo Pietro, circondato dalle minacce di un pervert i to po­tere imperiale, lanciò il fiero gr ido di al larme: resistete forti nella fede. Su ques to m e d e s i m o suolo noi r ipe t i amo oggi con r innovata energia: o con Cristo o contro Cristo; o pe r la sua Chiesa, o contro la sua Chiesa». Non era, o non era an­cora pe r la D C , il m o m e n t o della crociata. Si avvicinava tut­tavia quello del divorzio dal P C I .

La spedizione americana ebbe un avvio difficile, pe r mol­ti aspetti. Inclemente il t empo, che costrinse il De 6 Skyma-ster di De Gasperi ad at tcrraggi fuori p r o g r a m m a . La figlia

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Maria Romana ha r icordato che, men t r e l 'aereo era sballot­tato dalla bufera, chiese al p a d r e cosa pensasse. «Penso co­me farà Menichella (Menichella era il corpulen to governa­tore della Banca d'Italia, N.d.A.) ad allacciarsi il pa racadu­te. Nella p rova che abbiamo fatto p r i m a della pa r t enza mi sono accorto che i p a r a c a d u t e sono s tudiat i p e r i soli ma­gri». E fredde le accoglienze a Washington il 5 gennaio. Del­le personalità americane era presente il solo ambasciatore a Roma Dunn . Un po ' poco.

Il Presidente del Consiglio italiano, che sperava d'essere salutato dal segretario di Stato Byrnes, ebbe un moto d'irrita­zione. «Se le cose vanno così - disse - questo viaggio, invece di aumenta re il mio prestigio in Italia, rischia di distrugger­lo.» Per la verità, non v'era alcuna intenzione scortese verso De Gasperi nell'assenza di Byrnes. Questi, malandato in salu­te e da tempo in contrasto con il Presidente Truman , era di­missionario (ne fu dato annunc io il giorno dopo) e prestava o rmai agli affari del suo Dicastero scarsa a t tenzione: fu in questo stato d ' an imo che ricevette De Gasperi . I l colloquio d u r ò una mezz'ora in tutto e fu generico. Ma la visita prose­guì in crescendo, De Gasperi fu ricevuto alla Casa Bianca, vi­de molte personalità, e nel discorso al «forum» disse: «A Lon­dra fui accolto come nemico, a Parigi fui riconosciuto bellige­rante , qui a Cleveland sono stato invitato come m e m b r o del Convegno in ternazionale d o p o essere stato accolto a Wa­shington e a Chicago come amico». De Gasperi ebbe final­mente l 'onore della sfilata lungo la Broadway, dalla pun ta di Manhat tan fino al palazzo del Municipio. Precedettero il cor­teo quaranta guardie a cavallo in uniforme, che scortavano la bandiera italiana. La folla era fitta, amichevole, p laudente .

Questo pe r l 'aspetto celebrativo, u n a sorta di solenne ri­conciliazione tra d u e Paesi, ma sopra t tu t to tra d u e popoli . Poi vi fu l 'aspetto sostanziale, economico e politico. All'Italia occorrevano crediti. Li o t tenne. Cento milioni di dollari del­l 'Expor t - impor t Bank, altri c inquan ta milioni a compenso delle spese sostenute pe r le Forze Armate americane in Ita-

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Ha. Non e rano cifre da capogiro, basta pensare che nel mag­gio del 1946 la Francia aveva o t tenuto un presti to di un mi­l ia rdo e 370 milioni di dollari . Ma quei fondi e r a n o indi­spensabili all 'economia italiana (furono p u n t u a l m e n t e rim­borsati).

Si disse allora, e si r ipe te t te ins i s ten temente negli a n n i successivi, che Washington aveva p r e m u t o su De Gasper i p e r c h é es t romet tesse le sinistre dal governo , e che anzi la p romessa di ques ta svolta e ra stata cond iz ionan te p e r la concessione degli aiuti economici. Di ciò n o n v'è traccia nei document i ma si p u ò obbiettare che n o n vi sarebbe n e m m e ­no se qua lche intesa in p ropos i to fosse esistita. Con tu t ta probabilità la sollecitazione amer icana n o n fu perentor ia , e s'intrecciò a un proposi to che De Gasperi già maturava pe r rag ioni i n t e rne . Del res to , in cont ras to con le tesi di suoi compagni che at tr ibuivano a ordini americani il compor ta­m e n t o successivo di De Gasperi , Giorgio Amendo la scrisse che «erano le forze interne, capitalistiche, conservatrici, che volevano r iassumere il p ieno controllo del governo pe r far fronte allo sviluppo del movimento operaio». Certo la guer­ra fredda, che non era stata ancora dichiarata, si stava deli­n e a n d o , e l 'Unione Sovietica imponeva un po ' d o v u n q u e , con colpi di Stato o elezioni addomes t ica te , i «blocchi del popolo» (eufemismo per indicare l 'egemonia comunista) nei Paesi occupati dall 'Armata Rossa.

L'Occidente doveva reagire. R ien t rando dagli Stati Uniti, De Gasperi spiegò che i suoi interlocutori americani aveva­no insistito sulla «stabilità e sul consol idamento del reg ime democratico italiano» e l 'avevano esortato a sot t rarre la sua azione «alle manifestazioni e agli at teggiamenti in contrasto con la col laborazione governat iva». N o n ci po teva essere equivoco: il r iferimento era ai socialcomunisti, e ai comuni­sti in particolare.

Ma, quali che fossero state le insistenze amer icane , e le in­tenzioni di De Gasperi, un avvenimento cui sia gli america-

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ni sia i democris t iani e r ano estranei spinse c o m u n q u e alla crisi minis ter ia le , a n c h e se n o n a un giro di boa polit ico. Quell 'avvenimento fu la scissione socialista.

Abbiamo usato il t e rmine «estranei», p e r i democrist iani: che tuttavia, sia ben chiaro, n o n furono indifferenti né as­senti . Per quel poco o quel mol to che poteva , De Gasper i aveva contribuito ad attizzare le divisioni, in campo sociali­sta, inci tando Saragat a da r vita ad un part i to «con cui alla Democrazia cristiana fosse possibile collaborare». L'avven­ta to N e n n i agevolò gli sforzi del la D C . T e n t a n d o d i con­fondere le acque, e di far c redere che nelle amministrat ive si fosse avuto un successo di sinistra - s 'era avuto un suc­cesso comunista soltanto - lanciò u n o dei suoi predilet t i slo-gans «dal governo al potere», lasciando t rapelare il proposi­to di emarg inare la DC in declino. Era quan to di meglio De Gasperi potesse aspettarsi pe r a l larmare i modera t i e legit­t imare ogni suo i r r ig id imento . Togliatti capì il pericolo in­sito nel l ' azzardata p ropos iz ione n e n n i a n a , e le d i ede u n a cauta «interpretazione autentica», spiegando che n o n si do­veva c redere che la formula «dal governo al potere» signifi­casse l ' a b b a n d o n o , da p a r t e di comunis t i e socialisti, del me todo democrat ico. «Se r iusciremo a conquistare la mag­g ioranza in Pa r l amen to , noi i n t e n d i a m o col laborare leal­men te con la D C . »

Ma nello stesso m o m e n t o in cui a t tenuava alcune impo­stazioni di Nenni , Togliatti approfondiva le frat ture sociali­ste p r e n d e n d o di mira r ipe tu tamente , e con g rande asprez­za, Saragat e i suoi compagni di corrente . «Non è forse pre­mio sufficiente alla fatica del l 'onorevole Saragat - scriveva Togliatti sull'Unità - il fatto che (un suo articolo) gli abbia val­so la simbolica concessione della tessera ad h o n o r e m del Mo­vimento del l 'Uomo Qualunque?» A questo pun to , parados­salmente, gli scopi di De Gasperi e gli scopi di Togliatti coin­cidevano. La scissione socialista faceva comodo ad ent rambi pe r ragioni di fondo identiche. Sia i comunisti, sia i democri­stiani, volevano avere al loro fianco, come alleato, un Partito

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socialista che fosse in posizione subalterna, indebolito, e affi­dabile. Per meglio controllare, nel Partito socialista, i settori «fusionisti», il P C I vi aveva sparso degli «infiltrati», comandati in missione. Lo h a n n o scritto B r u n o Corbi e Fabrizio O n o -fri, due dirigenti comunisti (attingiamo le citazione dalla Sto­ria del dopoguerra di Antonio Cambino) . Ha rivelato Corbi che «di tanto in tanto, q u a n d o un giovane par t icolarmente capace most rava il desider io di iscriversi al P C I , il consiglio che gli veniva dato dai dirigenti comunisti era invece di indi­rizzarsi verso i socialisti». E Onofri: «La presenza del P C I al­l ' interno del P S I U P era desiderata sia da coloro che si richia­mavano alla linea Togliatti sia da coloro che si r ichiamavano alla linea Secchia. Per questi ultimi l'infiltrazione tra i sociali­sti era u n a delle tante mosse con cui ci si p reparava all 'ora X. Per Togliatti e pe r i togliattiani, che non credevano all'ora X, e ra invece solo un mezzo p e r garant i rs i con t ro u n o slitta­mento socialdemocratico del P S I U P » .

Nel Congresso di F i renze le fazioni socialiste avevano raggiunto un compromesso faticoso e fragile, che resse dal­la pr imavera a l l ' autunno del '46. Poi i contrasti d ivamparo­no. Su posizioni autonomiste e rano i riformisti di Critica so­ciale, legati alla tradizione turat iana, e i massimalisti antico­munis t i di Iniziativa socialista, capeggiat i da Mario Zagari . La coalizione saragatiana voleva un Partito socialista che «da r e t roguard ia del bolscevismo diventasse avanguard ia della democrazia». A sinistra stava Lelio Basso, risoluto a seguire in tutto e pe r tut to - anche nel dopp io giuoco - i comunisti . Nenni , che era pe r l 'unità d'azione con i comunisti p u r sen­za ader i re to ta lmente alle tesi di Basso, n o n credeva che la scissione potesse avere conseguenze devastanti . Un giorno S a n d r o Pert ini l ' andò a t rovare , p resen t i Ignazio Silone e Fe rnando Santi, e fu colpito dall 'abulia di Nenni . «Il nostro colloquio quasi subito assunse un tono mol to violento. Ai miei tentativi di scuoterlo, Nenn i r i spondeva s tancamente , con frasi quasi ironiche, dicendo che dal part i to se ne sareb­bero andat i via quat t ro gatti: e infatti qualche giorno dopo ,

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in un discorso pubblico, p ronunc iò la famosa frase dei rami secchi. Gli r isposi al lora b r u s c a m e n t e che si i ngannava in m o d o grossolano... La discussione assunse un tono così con­citato, e tutti e d u e gesticolavamo a tal pun to , che più tardi gli uscieri a n d a r o n o a riferire, e r r o n e a m e n t e , che Nenn i e io eravamo venuti alle mani.»

Sicuro di sé, N e n n i indisse un congresso ant icipato del par t i to , dal 9 al 13 genna io (1947). Era p r e p a r a t o - senza molto t u rbamen to , forse con u n a p u n t a di soddisfazione -al distacco degli autonomisti . «Dietro - malignò nel suo dia­r io - ci sono Vaticano e America , con i quali n o n c r edo si faccia un Part i to socialista, ma si fa p e r ò u n a scissione.» Q u a n d o , nell 'Aula m a g n a dell 'Universi tà di Roma, si apri­r o n o i lavori, vari esponent i di Critica sociale sedevano t ra i delegati. Mentre Iniziativa socialista aveva deliberato di igno­r a r e il Congresso , i r iformisti e r a n o invece, al p ropos i to , mol to divisi. Nel p o m e r i g g i o stesso del 9 genna io Mat teo Matteotti lesse, a n o m e degli oppositori , u n a dichiarazione che invalidava il Congresso. In quelle ore a Palazzo Barberi­ni si r a d u n a v a n o Saraga t e i suoi. Il g io rno successivo - m e n t r e nel Congresso il fusionista Tolloy proclamava spa­va ldamente «per c inquantami la borghesi che se ne vanno , cinquecentomila nuovi aderent i operai», e Angelica Balaba-noff era subissata di fischi pe r aver attaccato Lenin e Stalin -veniva tentata in extremis u n a mediazione. Ne fu protagoni­sta Sandro Pertini, d i re t tore dell'Avanti!, che a n d ò a Palazzo Barberini (lo accolsero, q u a n d o arrivò, con applausi frago­rosi e gr ida di «Sandro, Sandro», perché credevano volesse unirsi ai dissidenti). Pertini, che ostentava disperazione pe r le lacerazioni, e minacciava addir i t tura il suicidio se alla scis­sione si fosse arr ivat i , p r o p o s e un compromesso , r esp in to d a p p r i m a dall 'assemblea, poi anche da Saragat, in un lungo faccia a faccia tra i d u e dirigenti socialisti.

La mat t ina de l l ' I I gennaio , Saragat annunc iò di perso­na, al Congresso socialista, la decisione del suo g ruppo . L'I­talia aveva ormai d u e partit i socialisti: il P S I (Nenni e i suoi

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avevano r iesumato questa storica sigla, nel t imore d 'esserne defraudati dai secessionisti) e il P S L I , Partito socialista dei la­vorator i italiani. I qua t t ro gatti cui aveva accennato N e n n i fu rono invece, sul p i ano p a r l a m e n t a r e , quasi la me tà del par t i to . Su 115 d e p u t a t i del P S I U P alla Cos t i tuente , 52 si schierarono con il PSLI : t re di essi e r ano nel governo (il mi­nistro del Lavoro e della Previdenza sociale Ludovico D'A­ragona e i sot tosegretari a l l ' In te rno e a l l ' Indust r ia e Com­mercio, Angelo Corsi e Roberto Tremelloni).

Rientrato a Roma dagli Stati Uniti, De Gasperi trovò questa situazione nuova: e ne trasse le conclusioni con u n a spiccia-tività pe r lui inusitata, rassegnando le dimissioni del gover­no , i l 20 genna io , senza n e p p u r e aver convocato i l Consi­glio dei ministri . E difficile d i re se mirasse, fin da allora, a e s t rome t t e r e i comunis t i , o se volesse p r o c e d e r e a un p iù modes to agg ius t amen to . Ques ta seconda ipotesi p a r e p iù verosimile anche perché - mancando la firma del trat tato di pace - gli conveniva associare a quella decisione impopolare quante più forze politiche potesse. Si p u ò suppo r r e d u n q u e che avesse in m e n t e un a l la rgamento del governo anche a parti t i e uomini che ne e rano fuori: azionisti, liberali, indi­penden t i . Il che gli avrebbe consentito sia di diluire la pre­senza socialcomunista, sia di avere un maggior sostegno.

Ma i suoi proposit i r isul tarono vani. Bonomi e Carandi-ni , a des t ra , n o n vollero la Difesa e gli Esteri , Riccardo Lombard i (segretario generale del Partito d'azione), cui era stato propos to il Tesoro, declinò a sua volta l'offerta. In tan­to N e n n i , pe r n o n essere scavalcato a sinistra dal P S L I che era pe r l'uscita dal governo, si d imet teva da ministro degli Esteri e cercava di alzare il prezzo della collaborazione del suo par t i to : t ra l 'altro p r e t e n d e v a u n a legge «per la difesa della Repubblica», il r iprist ino del controllo statale sull 'im-por t -expor t , un ' imposta s t raordinaria patr imoniale, il cam­bio della moneta , un piano di ammasso dei gener i di p r ima necessità. Più flessibili, al solito, i comunisti , anche se un ar-

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ticolo di Togliatti («Il t a m b u r i n o e il t amburo») ins inuava che le dimissioni fossero state «se n o n imposte, per lo m e n o sugger i te con insistenza dal l ' es tero , e p r ec i s amen te dagli esponent i di quei circoli politici americani che si e rano affol­lati in torno a lui (De Gasperi) d u r a n t e il viaggio negli Stati Uniti».

La crisi a p p r o d ò sostanzialmente a u n a riedizione del tri­part i to, con in più il repubbl icano ind ipenden te Sforza (do­po 25 ann i d ' intervallo) agli Esteri , Sceiba a l l ' I n t e rno , t re dicasteri ai socialisti e t re ai comunisti . Il n u m e r o delle pol­t rone era stato r idot to da 21 a 16, e le sinistre, la cui presen­za era numer icamente rispettata (da 8 i loro ministri si era­no ridotti a 6, il che era adeguato al totale dei Ministeri) ave­vano tuttavia p e r d u t o gli Esteri e le Finanze. I saragat iani pa s sa rono a l l 'opposiz ione. U n a t empes ta in un bicchier d 'acqua, s tando alle appa renze . De Gasperi , par t i to pe r li­cenziare i comunisti , aveva o t tenuto alla fin fine il risultato opposto, ossia quello di licenziare i saragatiani. Ma si tratta­va soltanto d 'una scaramuccia d 'avanguardie , in attesa della vera battaglia.

Si ha la sensazione che De Gasperi si rendesse p ienamen­te conto di questa realtà, e che invece Togliatti, i nganna to forse dalla sua stessa sottigliezza, e abituato a risolvere i p ro ­blemi con accordi di vertice, si facesse delle illusioni. La sua condotta in quei mesi obbedì alla convinzione che, mancan­do in Italia le condizioni che avevano dato il monopol io del potere , all'Est, ai «blocchi del popolo», la collaborazione tra cattolici e comunist i dovesse d u r a r e indef in i tamente . Solo così si spiega il voto comunis ta in favore de l l ' i n se r imento dei Patti la teranensi del 1929 nella Car ta costituzionale. Il tema dei rappor t i tra la Chiesa e lo Stato, affrontato alla Co­st i tuente in sede di commissioni , vi aveva suscitato scontri aspr i t ra i democris t iani e i «laici». La bozza dell 'art icolo 7 - or iginar iamente, pe r l'esattezza, era l'articolo 5 - e ra stata ogget to di controversie, pe r la forma e pe r la sostanza. Già la dizione della sua p r ima par te , «lo Stato e la Chiesa cattoli-

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ca sono, ciascuno nel p ropr io ord ine , ind ipendent i e sovra­ni», e r a pa r sa opinabi le , p e r c h é sanciva l 'ovvio, e pe r ché , secondo i critici, in t roduceva nella Costituzione un proble­ma di rappor t i bilaterali che doveva r imane rne fuori. Ma su questo p u n t o i comunisti cedet tero presto. Resistette invece f ino al l 'ul t imo la d isputa sulla seconda pa r t e dell 'ar t icolo, nella quale si riconosceva che i r appo r t i tra Chiesa e Stato e r a n o regolat i dai Patti l a te ranens i . In tut t i i set tori n o n confessionali del l 'Assemblea s 'era avuta u n a sollevazione contro questo avallo dei Patti che n o n solo por tavano la fir­ma d i Mussolini , ma con tenevano n o r m e difficilmente di­fendibili in un'ottica liberale: come quelle che discriminava­no tra la religione cattolica e gli altri culti, o che limitavano i diritti civili degli spretati, e così via (norme, si p u ò r a m m e n ­tare , che il nuovo Concorda to , firmato dal cardinale Casa-roli e da Craxi nel 1984, ha abolito). Furono tentate formu­le di compromesso («I r appo r t i t ra Stato e Chiesa sono re­golati in t e rmin i concordatar i») , ma i democr is t ian i le re­sp insero . E r a n o indot t i a ques to a t t egg iamen to r ig ido sia dalla loro convinzione di credenti , sia dai pesanti interventi della Gerarchia. U n a lettera del pres idente dell'Azione Cat­tolica, Vittorino Veronese, a De Gasperi aveva toni poco me­no che r ica t ta tor i . Veronese pronos t icava reaz ioni forte­m e n t e negat ive della massa elet torale «qualora i democr i ­stiani dimostrassero perplessità, anche solo di forma, su un problema fondamentale», si riferiva a un «desiderio preciso della stessa autor i tà ecclesiastica» (leggi di Pio XII ) , espri­meva «un moni to a tutti i deputat i , a qua lunque part i to ap­pa r t engano e che facciano professione di cattolicesimo, per­ché r icordino lo stretto dovere di coscienza di votare secon­do i princìpi cattolici». De Gasperi si risentì del tono intimi­datorio, e chiosò la lettera in questi termini: «Ho fatto capi­re che se queste cose le h a n n o da dire, le devono dire diret­t a m e n t e , e che n o n accettavo in t imazioni di ques to stile, benché contro la sostanza non abbia obbiezioni».

Il pei pareva saldamente installato nella trincea del no al-

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l'articolo 7. Solo nell ' imminenza del voto i deputa t i comuni­sti alla Costi tuente seppero che Togliatti aveva rovesciato la sua strategia. Vi fu sconcerto, e il leader comunista convocò il g r u p p o p a r l a m e n t a r e pe r spiegare il voltafaccia. I più si adegua rono subito, inchinandosi alla autori tà intellettuale e politica di Togliatti. Tre r imasero fermi nel rifiuto fino al­l 'ul t imo. Il vecchio mil i tante Fabrizio Maffi che scongiurò Togliatti di n o n umiliarlo obbligandolo a votare con i preti , Concet to Marchesi che r ivendicò pe r l 'occasione la sua au­tonomia, e chiese di essere liberato dalla disciplina di part i­to, e infine la moglie stessa del «Migliore», Rita Montagna-na. Nella discussione fu det to t ra l'altro, pe r legitt imare l'as­senso all'articolo 7, che nel P C I v'era la presenza di un ottan­ta p e r cento a lmeno di cattolici, e che le smanie laicistiche e r a n o «piccolo-borghesi». Ins ieme ai d i r igent i la virata to-gl iat t iana colse di so rp resa la base. Vit tor io Gorres io rac­contò sull'Europeo che il giorno dopo il voto in molte sezioni comuniste e rano ancora affisse caricature di Mussolini e del cardinale Gasparr i congiurant i pe r in t rappolare gli italiani.

Nulla lascia suppo r r e che vi sia stato tra De Gasperi e To­gliatti un qualsiasi previo pat teggiamento. È anzi verosimile che De Gasperi preferisse avere una maggioranza assicura­ta da l l 'Uomo Qua lunque , e non «inquinata» dai comunist i . Molti depu ta t i democris t iani si resero conto del l 'a t teggia­m e n t o comunis ta solo m e n t r e Togliatti p ronunc iava i l suo discorso alla Cos t i tuente , nel pomer igg io del 25 marzo 1947. Andreo t t i ha riferito che Togliatti l ' incaricò d' infor­m a r e De Gasperi del sì comunista un 'o ra p r ima della seduta a Montecitorio. L'articolo 7 passò così con 350 voti favorevo­li e 149 con t ra r i . A favore anche Nitt i O r l a n d o , Bonomi , Sforza, i notabili del prefascismo. Poi Togliatti spiegò a Le­lio Basso - ed era, lo si vide presto, una profezia non azzec­cata - che con quel voto «il P C I si e ra assicurato il pos to al governo pe r i prossimi venti anni».

In epoca molto successiva il leader comunis ta d iede u n a motivazione più articolata: «Ci fu una dichiarazione di voto

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di De Gasperi immedia tamente precedente alla mia - disse -in cui egli fece chiaramente in tendere che se l'articolo col ri­chiamo ai Patti lateranensi fosse stato respinto, sarebbe sta­to chiesto e deciso un secondo re fe rendum, e in un secondo re fe rendum la Repubblica sarebbe stata probabi lmente bat­tuta perché sarebbe cambiata la posizione della Democrazia cristiana». Nenni - che con i socialisti aveva votato contro -diede una sua interpretazione: «Togliatti ha ragionato così: "De Gasperi ci dichiara guerra : Nenni non l'accetta ed è ve­ro che pe r fare la gue r ra bisogna essere in due . Ma per di­chiararla basta u n o solo. Per togliervi il pre tes to di dichia­rarci la guer ra , votiamo con voi l'articolo 7". E cinismo ap­plicato alla politica. Ma non è il cinismo degli scettici, ma di chi ha un obbiettivo e n o n vede altro. E la svolta di Salerno che cont inua, applicata questa volta alla chiesa e ai cattolici. Togliatti c rede così di salvaguardare dieci, venti anni di col­laborazione con la Democrazia cristiana. Mi sembra un cal­colo sbagliato da cima a fondo. Sono lieto di avere votato no». HUnità p resen tò la decisione comunis ta con questo ti­tolo: «Il p iù alto esempio di responsabilità nazionale - Per la pace religiosa e l 'unità dei lavoratori i comunist i accet tano di votare l'articolo 7». Tutto sommato anche Piero Calaman­drei a t t r ibuì un valore positivo alla mossa togliat t iana che aveva «spezzato in mano ai democristiani l 'arma più poten­te che questi stavano affilando cont ro di loro pe r la prossi­ma lotta elettorale», ossia l 'additarli come nemici della reli­gione.

Furono insomma in pochi, fra gli stessi protagonisti , a ca­pire che, nonostante la spregiudicatezza e le furberie di To­gliatti, il tr iparti to formato da D C , pei e P S I viveva in Italia la sua ult ima stagione, così come sull 'orizzonte internazionale viveva la sua u l t ima s tagione l 'al tro t r ipa r t i to formato da Stati Uniti , U R S S e G r a n Bre tagna (la Francia figurava tra i «grandi», ma la sua e ra u n a p resenza onorar ia ) . L'insedia­mento di T r u m a n alla Casa Bianca n o n vi aveva por ta to so­lo un cambio di pe r sona : vi aveva p o r t a t o un cambio di

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mentalità. Alla arrendevolezza rooseveltiana alle mosse e ai disegni di Stalin, e ra succeduta u n a diffidenza profonda , e ampiamente legittimata dai fatti. Il 12 marzo 1947, T r u m a n pronunc iò davanti al Congresso (Senato e Camera dei r ap ­p resen tan t i r iuni t i in sedu ta s t raord inar ia ) i l discorso che dichiarava la g u e r r a fredda. L'occasione pe r questa storica p resa di posizione gli e ra stata offerta dagli avven iment i greci. In quel paese la guerriglia comunista, al imentata dal­la Iugoslavia ancora fedele a Mosca (a r idosso del confine greco-iugoslavo esistevano campi di addes t r amen to e «san­tuari» pe r gli andartes, i ribelli greci), metteva a d u r a prova il governo di Atene, che reagiva con durezza, in un seguito di bot te e risposte sanguinose . Tradiz ionalmente la Grecia era sotto la tutela degli inglesi, che tuttavia non avevano né i mezzi né - con un governo laburista - u n a g ran voglia di r eggere a quello sforzo immane . Sulla scia della Grecia an­che la Turchia, secondo Washington, correva pericoli.

T r u m a n enunciò allora un p r o g r a m m a che assunse i l no­me di «dottr ina Truman» e che, razionalizzato e ideologiz­zato da George K e n n a n qualche mese dopo , diede luogo al­la teor ia del containment, il «contenimento». D o v u n q u e I ' U R S S manifestasse proposit i espansionistici, gli Stati Uniti si sarebbero oppost i . «Non p o t r e m o ragg iungere i nostr i ob­biettivi - disse T r u m a n - se n o n siamo disposti ad aiutare i popoli amanti della libertà nel man tene re le loro libere isti­tuzioni e la loro l ibera in tegr i tà nazionale con t ro i movi­ment i aggressivi che cercano di impor re i p rop r i regimi to­talitari.» T r u m a n chiese al Congresso di stanziare 400 milio­ni di dollari pe r la Grecia e 100 pe r la Turchia, la millesima par te di quanto la gue r r a era costata agli Stati Uniti, «un in­vest imento pe r la libertà e la pace» pe rché «i semi dei regi­mi totalitari p r o s p e r a n o nella miseria e nel bisogno». Con ciò gli USA diventavano di fatto u n a potenza anche mediter­r anea . Bollata dalla s t ampa comunis ta come reazionar ia e bellicista, assimilata a l l ' imper ia l ismo tedesco, la «dot t r ina Truman» era la risposta occidentale alla dot t r ina Stalin nel-

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l 'Europa dell'Est. Due giorni p r ima del discorso era comin­ciata a Mosca u n a conferenza dei minis t r i degli Esteri dei «grandi» che avrebbe dovuto definire i trattati di pace tede­sco e aust r iaco, e che si concluse il 24 apr i le senza aver adempiu to il suo compito pe rché ormai d u e blocchi si fron­teggiavano. Gli Stati Uniti vi furono rappresenta t i dal nuo­vo segretario di Stato, il generale George Marshall, Capo di Stato Maggiore delle Forze Arma te d u r a n t e la g u e r r a : un mili tare equil ibrato, ma senza dubbio più energico del suo predecessore Byrnes.

Fu in s intonia con la «dot t r ina T r u m a n » che il Dipar t i ­m e n t o di Stato accentuò il suo interesse pe r le vicende ita­liane, che n o n e rano tali da confortare Washington. Il 20 e 21 apri le (1947) si votò in Sicilia pe r e leggere l 'Assemblea regionale, e i segni di logoramento denunciat i dalla DC nelle amministrat ive di novembre si aggravarono. In percentua­le, i democris t iani passarono dal 33,6 al 20,5 per cento dei voti, il Blocco del popolo , che includeva comunist i , sociali­sti, e Par t i to d 'az ione , s ' i m p e n n ò dal 21 a p iù del 30 p e r cento . C o n le «politiche» alle viste (si c redeva in quel mo­men to che sarebbero state indet te pe r l 'ottobre successivo), nella DC si diffuse un 'ansietà molto simile al panico. Sceiba r i teneva che «andare alle elezioni politiche con un governo comprenden t e il P C I sarebbe stato da tutti i pun t i di vista un suicidio. Forse ancora più dei dirigenti centrali, e rano quel­l i periferici ad avere net t issima ques ta sensazione. Per De Gasperi , che d 'a l t ra pa r te n e p p u r e lui aveva dubbi in p ro ­posito, si trattava solo di scegliere le circostanze più adat te pe r c o n d u r r e in por to con successo questa operazione». Lo s p r o n e amer i cano n o n e ra d u n q u e necessar io . Tut tavia Marshall fu esplicito, in un messaggio all 'ambasciatore a Ro­ma James Dunn , nel chiedergli se De Gasperi n o n si p ropo­nesse di a b b a n d o n a r e la gu ida del gove rno «o di fo rmare un gove rno senza l 'es t rema sinistra, nella speranza di mi­g l iorare le p rospe t t ive della Democraz ia cristiana». Nella sua risposta Dunn sottolineò: «Io sono convinto che nessun

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migl ioramento delle condizioni di qui p u ò avvenire con un governo composto come quello attuale. I comunisti , che so­no rappresenta t i nel Gabinet to da un g r u p p o di uomini d i secondo p iano , fanno tut to il possibile, al di d e n t r o e al di fuori del governo , p e r p rovocare la crisi e il caos econoni-co...».

De Gasper i r u p p e gli i ndug i i l 28 apr i le (1947) con un discorso radiodiffuso che si prestava a varie le t ture , ma nel quale era inequivocabile un messaggio: la composizione del governo doveva esser cambiata, se possibile con un allarga­m e n t o che coinvolgesse tu t te le categorie p rodu t t ive nella gest ione del Paese. I l P res iden te del Consiglio d e p l o r ò la febbre speculativa da cui era pervasa l'Italia: «Dattilografe e fattorini giocano in Borsa. Chi ha roba non vende, un fero­ce istinto egoistico e antisociale si impadronisce degli animi pavidi.. . La speculazione f r eddamen te calcolatrice gioca al rialzo, nasconde le merci, trafuga all 'estero valute e gioielli, e a t tende in agguato la crisi nella criminosa speranza di far­si ricca nella miseria genera le» . Ma accanto alla d e n u n c i a del parassitismo affaristico vi fu l'accusa agli alleati sleali che t rad ivano il dovere della solidarietà «nel l 'amministrazione dello Stato e nella legislazione della cosa pubblica», vi fu l 'appello «a tutti coloro che avevano idee pe rché si facessero avanti pe r u n a collaborazione concreta», e vi fu la conferma d ' u n a sostanziale fiducia negli italiani protagonist i di «uno sforzo r innovatore che stupisce gli stranieri». La vitalità ita­liana era impress ionante e caotica, con sintomi degenera t i ­vi, l 'inflazione aveva assunto un r i tmo ver t iginoso (oltre il c inquanta pe r cento di a u m e n t o del costo della vita dall 'a­gosto '46 all 'aprile '47) e come sempre accade venivano du­ramen te penalizzate le categorie a reddi to fisso. V'era, al so­lito, concordia sulla entità p reoccupante del fenomeno e di­scordia sui mezzi con cui avrebbe dovuto essere combat tu­to. I «monetaristi» come il governatore della Banca d'Italia Einaudi e il pres idente della Confìndustria Costa imputava­no alla emissione di carta moneta , imposta dagli oneri stata-

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li, la colpa maggiore pe r il degrado della lira: e suggerivano misure «ortodosse», come la r iduzione delle spese governa­tive e l'abolizione di alcune misure sociali molto costose pe r l 'erario e non al tret tanto benefiche, p r ima tra tutte il prezzo politico del pane . Le sinistre insistevano invece sull 'aspetto speculativo dell 'inflazione, e p r o p u g n a v a n o u n a tassazione p iù severa, control l i sulle m a n o v r e di impor t az ione ed esportazione che consentivano di accantonare capitali all'e­stero, calmieri, tesseramenti differenziati, un controllo glo­bale dello Stato sulla p roduz ione . Probabi lmente la ricetta «liberista» peccava di scarsa fantasia e di miopia conservatri­ce, ma s icuramente la ricetta di sinistra appar teneva al ma­gazzino degli espedienti dirigisti che già imperavano allora e h a n n o cont inuato a impera re nelle cosiddette democrazie popolari , con i risultati che tutti conosciamo.

Se De Gasperi aveva posto, con il discorso del 28 aprile, le premesse pe r la svolta, - e tutto induce a c redere che così fosse - r icevette senza dubbio incoragg iamento da q u a n t o stava accadendo in Francia. Il 30 aprile il governo presiedu­to da Ramadie r (socialista), e che includeva cinque ministri comunisti , dovette decidere se accettare o no le richieste sa­lariali dei 20 mila operai della Renault , scesi in sciopero. Ra­mad ie r e ra p e r il rifiuto, e la «delegazione» comunis ta ab­b a n d o n ò , in segno d i pro tes ta , un Consiglio dei minis t r i . Q u a n d o d u e giorni più tardi i comunisti votarono contro il gove rno all 'Assemblea nazionale , la f ra t tura delle sinistre ebbe la sua definitiva sanzione. Il Pres idente Auriol reinca­ricò Ramadier che il 9 maggio formò un governo senza i co­munisti .

In Italia l 'attenzione dell 'opinione pubblica - e dei politi­ci - si era intanto spostata da Roma alla Sicilia, p e r l'eccidio di Portella delle Gines t re . In quella località vicina a Piana dei Greci si e rano raduna t i il p r imo maggio operai e conta­dini che celebravano la festa del lavoro. «È un luogo - scris­se N e n n i nel suo diar io - c i rcondato quasi da veneraz ione pe rché lì par lò Nicola Barbato , nel 1894, pe r festeggiare il

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Primo Maggio. Cominciava a pa r l a re il vecchio c o m p a g n o Schirò q u a n d o dai mon t i si è ape r to il fuoco sulla pacifica folla contadina . D a p p r i m a i manifestanti h a n n o c redu to a fuochi di gioia, i mortare t t i tanto in uso nell'isola. Poi sono cadut i i p r imi mul i e i p r imi cristiani.» Si c o n t a r o n o dieci mort i e decine di feriti. Le sinistre individuarono subito nel massacro u n a «risposta degli agrar i ai risultati elettorali del 20 aprile», Sceiba negò poco conv incen temente la matr ice politica dell 'episodio; solo con un r i tardo di anni si potè ac­cer tare che della sparator ia era stata responsabile la banda Giuliano, e che i mandan t i andavano cercati nei vertici ma­fiosi e reazionari. Il 2 maggio alla Costi tuente che discuteva dell'eccidio vi furono scontri e pugilati tra le sinistre da u n a par te , i qualunquist i e i monarchici dall 'altra.

La t r aged ia siciliana ra l len tò d i poco , senza i n t e r r o m ­per la , l 'evoluzione politica. In Consiglio dei minis t r i , i l 7 maggio , De Gasperi ebbe accenti d rammat ic i : «Il volto del governo è straziato - a m m o n ì - uomin i e parti t i n o n han­no a n c o r a la sensaz ione di c o m e sia graviss ima la rea l tà , quasi t ragica, sia p e r i l p r e s e n t e che p e r l 'avvenire». E ra un a l t ro sasso nel lo s t agno , la c o n f e r m a che De Gaspe r i aveva deciso.

Come avveniva allora e sempre dopo d'allora è avvenuto nella D C , vi furono a t torno al leader defezioni e mormorazio­ni. Ha raccontato Andreott i : «E assolutamente vero che du­ran te i p r imi qua t t ro mesi del '47 la maggioranza dei diri­genti periferici e anche nazionali della DC aveva richiesto a gran voce una ro t tura immediata e definitiva con il pei. Ma q u a n d o tra la fine di aprile e l'inizio di maggio ci si rese con­to che De Gasperi aveva imboccato a p p u n t o u n a simile stra­da, il coraggio di molti venne meno . Il loro t imore, non in­giustificato, era di dover fronteggiare non tanto un tentati­vo di colpo di Stato quan to un 'onda ta di disordini che, pa­ral izzando il Paese, avrebbe cercato di obbligare la DC a ri­to rnare al tr iparti to, infliggendole u n a sconfitta politica che sul p iano elettorale avrebbe avuto conseguenze disastrose.

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Il risultato fu che al momen to della scelta definitiva De Ga­speri si trovò quasi solo. Una volta che, ai pr imi di maggio, lo andai a t rovare nel suo studio, la sua disperazione pe r le incertezze del par t i to era tale che, lo r i cordo beniss imo, a un cer to p u n t o smise di pa r l a r e e , a p p o g g i a n d o s i con la fronte contro lo stipite di u n a finestra, r imase a lungo in si­lenzio. Q u a n d o si voltò di nuovo verso di me, mi accorsi che aveva gli occhi pieni di lagrime». De Gasperi stesso, scriven­do a Tarchiani , ambasciatore a Washington, a crisi risolta, spiegherà più tardi: «Ho passato ore mor ta lmente pericolo­se. Mi sentivo solo, abbandona to anche da molti amici, e so­lamente la coscienza di lavorare pe r il Paese mi ha sostenu­to. Se costì n o n si c o m p r e n d e quale sforzo io abbia compiu­to pe r il bene dell'Italia e della pace, se n o n mi si appoggerà in p ieno in questa svolta pericolosa, sarà vano sperare in ri­torni».

Gli d iedero una mano , pe r decidere nel senso da lui vo­luto, i soliti i m p r u d e n t i socialisti. Nitti aveva chiesto che la Costi tuente discutesse, nella seduta del 13 maggio, la situa­zione economica e finanziaria. De Gasperi n o n voleva quel dibat t i to , che p rome t t eva di d i lungars i pe r se t t imane e di condiz ionare poi le sue decisioni; ma n e m m e n o poteva ri­fiutarlo. Senonché i socialisti avver t i rono che al d ibat t i to n o n si doveva arr ivare senza un chiar imento della situazio­ne ministeriale, e che comunque il PSI n o n avrebbe accettato u n o spostamento a destra dell 'equilibrio politico del Paese. Era quan to occorreva a De Gasper i p e r convocare , la sera del 12 maggio , la d i rez ione democr is t iana , o t t e n e r n e l'as­senso pe r l ' aper tura della crisi, e poi da rne notizia a De Ni­cola che si era dichiarato ne t tamente ostile a una crisi extra­par lamentare . Dopo le consultazioni di rito De Nicola, con­trario a un reincarico a De Gasperi , affidò a Nitti il tentativo d i formare un nuovo governo.

Molti videro in questo passaggio di m a n o l'avvio al tra­mon to della DC come part i to cardine della politica italiana, o a l m e n o al t r a m o n t o di De Gasper i . Secondo N e n n i «De

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Gasperi n o n ha più credito nel Paese, non ne ha nell'Assem­blea, ne ha poco nel suo stesso g ruppo» . Nitti e ra sugli ot­tanta, ma li portava abbastanza bene. La sua fama di econo­mista br i l lante fece sì che la Borsa reagisse con un deciso rialzo a l l ' annunc io della des ignazione . Si poteva d u n q u e s u p p o r r e che fosse acquisito, pe r lui, l ' appoggio delle de ­stre, e meno facile quello della DC e delle sinistre. Saragat gli aveva subito dichiarato gue r r a , p e r ant ipat ia persona le . E Togliatti era molto cauto, subodorando l 'inanità del tentati­vo. Vi fu un p r imo inceppamento perché la cosiddetta Pic­cola Intesa , ossia i «laici» (ma senza i liberali), r ivendicava u n a sorta di affidamento a scatola chiusa della gestione eco­nomica , con Riccardo L o m b a r d i a F inanze e Tesoro , Tre-melloni a Indus t r ia e Commerc io , Ivan Matteo L o m b a r d o al Commerc io con l 'estero, Ugo La Malfa al l 'Agricoltura. Nitti venne volta a volta accusato di voler cedere t r o p p o a destra e di voler cedere t roppo a sinistra (a Nenni raccontò l 'aneddoto di un conte francese che nello stesso giorno ave­va subito d u e processi, u n o intentatogli dalla moglie pe r im­potenza, l'altro intentatogli da una ragazza pe r s tupro). Or­lando, di sette anni più anziano ma con rancori e ambizioni non ancora placati, litigò con lui. Andreott i , che era in visita ad Or lando , ebbe occasione di orecchiare u n a conversazio­ne t ra i d u e vegliardi. «Par tendo dai loro contrasti sulla si­tuazione attuale, cominciarono a rinfacciarsi i loro rispettivi compor tament i negli anni dell 'avvento del fascismo, e infi­ne a insultarsi nei te rmini più c rudi e volgari» (dalla Storia del dopoguerra di Antonio Gambino) . Il 21 maggio Nitti an­nunciò che il suo «compito di pacificazione» era fallito. Una missione esplorativa affidata a Or lando fu ancora più breve, e nauf ragò in un g io rno . Il 23 maggio - e ra un vene rd ì -De Nicola non prese iniziative, pe r scaramanzia, e il 24 mag­gio reincaricò De Gasperi.

Q u a n d o De Gasperi r iprese in mano il bandolo della ma­tassa infuriava una polemica virulenta tra Togliatti e Sum-n e r Welles, già so t tosegre tar io di Stato di Roosevelt . In

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un' intervista radiofonica questo personaggio di spicco ave­va accenna to alla g r a n d e disponibi l i tà di mezzi f inanziari dei comunisti italiani, agg iungendo che la loro fonte era si­cu ramen te Mosca. Togliatti sfidò S u m n e r Welles a p rovare le sue affermazioni. Se non l'avesse fatto sarebbe stato consi­de ra to «ment i tore e calunniatore» dalle pe r sone oneste di tut to il m o n d o . Non contento di questa intimazione, espres­sa in un te legramma, Togliatti dedicò agli americani un arti­colo sull'Unità dal titolo inequivocabile (e abbastanza volga­re) : «Ma come sono cretini». Togliatti e ra in malafede . I l ment i tore era lui, non Sumner Welles le cui affermazioni ri­spondevano r igorosamente a verità. Il pei era sovvenziona­to da Mosca, in varie forme, e cont inuò ad esserlo per molti anni . ( Q u a n d o nel 1954 scoppiò lo scandalo Seniga - que­sto stretto collaboratore di Pietro Secchia, che aveva in ma­no l 'organizzazione del part i to, scappò con la cassa, supper­giù seicento milioni di allora - Togliatti n o n inol trò alcuna d e n u n c i a alla mag i s t r a tu ra , né accusò pubb l i camen te i l t ransfuga. Lasciò lo scandalo sotto silenzio, pe r ché sapeva di n o n p o t e r giustificare la p roven ienza di quegl i ingen t i fondi.) Ma il leader comunista, flessibile e perfino remissivo q u a n d o sapeva d 'aver rag ione , diventava aggress ivamente spavaldo q u a n d o era in to r to : u n a tattica a p p r e s a senza dubbio a Mosca, e che la diplomazia dell'URSS segue da de­cenni.

Negli Stati Uniti gli insulti di Togliatti suscitarono sensa­zione forse di proposi to ostentata, e il governo affettò fred­dezza verso una delegazione ufficiale italiana che vi si trova­va pe r discutere accordi commerciali . Può darsi che si trat­tasse di u n a manovra concorda ta con De Gasperi , p r o p r i o allo scopo di d imos t ra re che i comunist i n o n dovevano re­stare al governo . P rocedendo nei colloqui politici a Roma, De Gasperi volle soprat tut to far capire ai suoi interlocutori che u n a r iediz ione del «triparti to» era impossibile. I l 26 maggio vide Togliatti, p r e sen t e Sforza che, conoscendo le in tenzioni del Pres idente , c o m m e n t ò : «Dunque è la guer -

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ra». Togliatti e ra disposto a scusarsi in qualche m o d o pe r la violenza delle sue dichiarazioni. «Non ti facciamo difficoltà pe r il Ministero - disse -, ma non tolleriamo esclusioni per­ché allora ci confesseremmo fuori della nazione.» La rispo­sta del leader democrist iano fu formulata morb idamente , ma con sufficiente chiarezza pe r chi volesse capire. Disse che «si tratta del pane» (ossia che p remevano i problemi economici pe r la cui soluzione era indispensabile l'aiuto statunitense) e che la n u o v a s i tuazione sarebbe stata di «breve per iodo» . Lasciò insomma balenare a Togliatti la eventualità di un ri­to rno al governo n o n appena la burrasca fosse passata. Pro­babi lmente Togliatti ci credette. Di sicuro non sospettò, allo­ra, che il passaggio all 'opposizione del pei dovesse diventa­re un dato definitivo e irrevocabile della politica italiana.

Tra il 27 e il 30 maggio De Gasperi tessè la sua tela, assil­lato da r e m o r e e perplessità di democrist iani anche di pr i ­mo p iano (tra gli al tr i Piccioni e Pella). Pe rvenne così alla formazione di un Ministero monocolore democris t iano in­tegra to da d u e liberali, E inaud i (vicepresidente) p e r i l Bi­lancio e Grassi pe r la Giustizia, e quat t ro indipendent i : Sfor­za rimasto agli Esteri, Merzagora al Commercio estero, Cor­bellini ai Trasporti , Del Vecchio al Tesoro. Un Ministero, es­senzialmente, di democristiani e di tecnici; fuori tutti gli al­tri. Ma tra i tutti, quelli che contavano e rano i socialisti e più ancora i comunisti . Anche se n o n molti se ne avvidero (Nen­ni ebbe, u n a volta tanto, b u o n f iuto scrivendo: «Avremo un governo col dopp io avallo del Vaticano e dell 'America. . . il fatto mi pa re di u n a gravità senza precedenti») la virata era di por ta ta storica. Togliatti, che un po ' se l 'era voluta, o l'a­veva accelerata, n o n fece pe r il m o m e n t o la voce grossa. Il 21 giugno, alla Costituente, il governo «passò» con 274 voti favorevoli, 231 cont rar i . Q u a n d o già pa reva che, vara to i l Ministero, le acque polit iche potessero r i m a n e r e calme al­m e n o p e r un po ' , De Nicola p rovv ide ad agi tar le a n n u n ­ciando che si dimetteva. Non stava molto bene , era corruc­ciato p e r gli i t inerar i tortuosi che la crisi di governo aveva

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seguito, e infine era stato preso da u n o dei suoi scrupoli le­galitari: la Costi tuente s'era au toproroga to il manda to , e De Nicola r i teneva che, s tando così le cose, dovesse confermar­lo anche a lui, r imasto con investitura di dubbia validità. La confe rma ci fu, con u n a votazione quasi plebiscitaria, e il Capo provvisorio dello Stato, p iù sereno ma ancora stanco, si r in tanò a Torre del Greco pe r un per iodo di meditazione e di riposo.

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CAPITOLO SESTO

LA LINEA EINAUDI

Carat ter izzato sul t e r r e n o politico dal l icenziamento delle sinistre, il monocolore allargato di De Gasperi lo fu, sul ter­r eno economico, dalla «dittatura» di Luigi Einaudi . Al p ro ­fessore piemontese che s'era appar ta to dal l ' insegnamento e dalla vita pubblica du ran t e il ventennio littorio, De Gasperi aveva delegato la supervisione del l 'economia: u n a mater ia nella quale egli s 'addentrava malvolentieri, e svogliatamen­te, disposto sovente - come tutti i politici «puri» - a forzarne le regole p e r esigenze di g r a n d e o anche di piccola cucina governativa e par lamentare .

Einaudi era invece u n o dei p iù g rand i economisti eu ro ­pei, «liberista» di sicuri convincimenti , espressi, q u a n d o gli capitava di scr iverne, in articoli e saggi dal l inguaggio un po ' ant iquato ma dalla chiarezza cristallina. Avversava i p ro ­g rammi dirigisti delle sinistre - che sognavano di coniugare l 'espansione produt t iva con u n a selva di vincoli politici e as­sistenziali - ma n o n era disposto ad agevolare i l r u g g e n t e boom, nel quale era facile avvertire un che di malsano.

I l p r e s iden t e della Conf indus t r ia , Angelo Costa, e ra schierato senza esitazioni al lato di Einaudi, e della sua seve­rità. Ma a moltissimi imprendi tor i il degrado della lira - con i salari impegnat i nella consueta vana rincorsa dei prezzi -non era dispiaciuto: più d ' uno lo considerava la molla della r ipresa. Propr io nei mesi di massima inflazione - tra il giu­gno del '46 e il g iugno del '47 - le fabbriche, ripristinate in b u o n a par te la loro at t rezzatura e la loro efficienza, lavora­rono a r i tmo intenso. Nel volgere di un anno la p roduz ione automobil is t ica tr iplicò, quel la del co tone e della lana su-

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però i livelli d ' an teguer ra . Le quotazioni azionarie salivano quasi di par i passo, tutti compravano e vendevano in Borsa. «Se nessun avvenimento e nessun provvedimento ve r r anno a guastare l'attività delle Borse - scrisse la Rivista Bancaria -l ' anno 1947 segnerà u n a data di cospicuo rilievo nella no­stra economia industriale e produttiva.»

Questa spinta impetuosa era pe rò inquinata dalla febbre speculativa. Infatti, lo ha rilevato Franco Catalano, «ad un a u m e n t o della circolazione di 20 volte r ispetto al 1938 cor­r i spondeva un a u m e n t o dei prezzi di 50 volte, i l che stava ad indicare che la svalutazione della mone ta derivava n o n tanto dal l 'aumento del circolante, quan to piuttosto da quel­la che gli economist i dicevano velocità di circolazione, e le sinistre speculazione». E inaudi n o n in tendeva cer to p o r r e ostacoli alla r ipresa: ma in tendeva co r r egge rne le degene ­razioni, quel surr iscaldamento che si t raduceva in inflazio­ne . Gli ambient i f inanziari avevano ben valutato, f in dall 'i­nizio, le implicazioni negative della linea Einaudi: tanto che la Borsa ne accolse l 'avvento non con un rialzo, ma con u n a flessione.

I provvediment i che abolivano il prezzo politico del pane e a u m e n t a v a n o vari prezzi pubblici - gas, pos te , ferrovie, elettricità - e r ano impopolar i , ma n o n potevano essere evi­tati se si voleva che il deficit di bilancio - mille mil iardi di uscite, c inquecento di en t ra te - fosse un po ' a t tenuato. Inol­tre il cambio ufficiale del dollaro fu por ta to da 225 a 350 li­re : ben lontano dal cambio «libero» che, toccata u n a p u n t a di 972 lire q u a n d o la sfiducia nella lira era massima e l'infla­zione galoppante , si e ra assestato sulle 600 lire. A fine anno ogni controllo sul cambio venne c o m u n q u e abolito. Ciò fa­vorì le esportazioni - le nostre merci r isul tarono più conve­nienti p e r i compra tor i - ma fece lievitare i prezzi dei p r o ­dot t i impor ta t i . S e m p r e nel la d i re t t r ice «liberista» Cesare Merzagora consentì , con le n o r m e sul «franco valuta», che fosse autorizzata l ' importazione di merci , senza a lcuna pa­stoia burocratica, utilizzando fondi esistenti all 'estero. A chi

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gli chiedeva ragione di questa impuni tà concessa agli espor­ta tor i d i capitali , Merzagora repl icò che la sua e ra u n a «guerra ai disertori», ma fatta con l 'allettamento, n o n con le punizioni. I risultati gli d iedero ragione e ci valsero 100 mi­lioni di dollari d ' importazioni franco valuta nel solo quar to t r imestre del 1947.

Tut to questo andava o t t imamen te pe r gli imprend i to r i . Andava molto male invece la stret ta creditizia che Einaudi deliberò. Portò il tasso di sconto dal 4 al 5,5 pe r cento, p re ­scrisse che le banche investissero impor tant i aliquote dei de­positi bancar i in titoli di Stato o in conti speciali fruttiferi presso la Banca d'Italia, inaridì insomma il flusso di dena ro che fino a quel m o m e n t o aveva finanziato l ' industria. I titoli c ro l l a rono , t ra il s e t t embre e l 'o t tobre del 1947 si ebbe ro p e r d i t e di ol t re la me tà del lo ro valore di merca to , con i l massimo del 91 pe r cento pe r la Breda, del 74 pe r cento pe r l 'Isotta Fraschini, del 75 pe r cento pe r Pirelli e Fiat. All'in­flazione segu i rono s intomi di deflazione, con un calo dei prezzi all ' ingrosso, t ra il se t tembre e il d icembre del 1947, dell '8 p e r cento circa, e un ana logo d e c r e m e n t o del costo della vita. La p roduz ione industr ia le si contrasse, la disoc­cupaz ione salì da m e n o di d u e milioni d 'un i t à a ol tre d u e milioni e mezzo. La terapia Einaudi era du ra , amara , infles­sibile; scontentò i set tori p iù audaci o p iù avventuros i del m o n d o imprendi tor ia le , provocò proteste di massa, con va­ste agitazioni dei metal lurgici e dei tessili, e u n o sc iopero c o n t a d i n o in Val Padana che t rovava p a r a g o n i p e r la sua ampiezza e compattezza solo negli scioperi agricoli del p re­cedente dopoguer ra .

La linea Einaudi n o n si sarebbe imposta, quali che fossero le qualità e l 'autorità del suo assertore, se n o n avesse obbe­dito a esigenze in terne e a esigenze internazionali , politiche ed economiche , che n o n poss iamo fare a m e n o , a ques to pun to , di r iassumere.

Il m o n d o si stava d iv idendo in d u e blocchi, e in quel lo

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occidentale il «la» ad ogni iniziativa era dato dagli Stati Uni­ti che reggevano i cordoni della borsa. La loro potenza eco­nomica, che e ra immensa , s 'era molt ipl icata nel raffronto con l ' impover imento del l 'Europa. Era nell ' interesse di Wa­sh ing ton che gli amici e u r o p e i si r ialzassero dalla rovina: pe r costituire un fronte contro i l comunismo, ma anche pe r offrire un mercato ai prodot t i americani. Gli USA e rano per­ciò disposti ad a iu ta re l a rgamen te gli eu rope i , ma a cer te condizioni, che furono precisate il 5 giugno.

Quel giorno il generale Marshall annunciò , in un discor­so al circolo dei laureati dell 'Università di Harvard , che gli Stati Uniti si p roponevano di sostituire un proget to organi­co ai loro f rammentar i aiuti. «E evidente - disse - che pr ima che il governo degli Stati Uniti possa u l t e r io rmente prose­gu i re i suoi sforzi p e r alleviare la s i tuazione e avviare il m o n d o eu ropeo verso la rinascita, si dovrà ragg iungere un accordo tra i Paesi eu rope i in mer i to alle necessità della si­tuazione e alla par te che questi Paesi stessi dovranno svolge­re. . . Il p r o g r a m m a dovrebbe essere unico e costituire il ri­sultato dell 'accordo fra parecchie, se non fra tut te, le nazio­ni europee.»

L'invito era d u n q u e esteso all ' intera E u r o p a dall'Atlanti­co agli Ural i : e nel m o m e n t o in cui con la «dot t r ina T ru ­man», si consol idavano i fronti cont rappos t i dell 'Est e del­l 'Ovest, il «piano Marshall» pareva , nella formulaz ione se n o n nelle intenzioni , un es t remo tentativo di collaborazio­ne e di intesa mondia le . Bevin pe r la Gran Bre tagna e Bi-daul t pe r la Francia ade r i rono p r o n t a m e n t e e invi tarono il loro collega sovietico, Molotov, a u n a conferenza che defi­nisse l ' a t t egg iamento dell 'Est ne l l ' ambi to e u r o p e o . Molo­tov accet tò . N o n è da to s ape re se l 'abbia fatto solo p e r la ve t r ina , o con il ser io p r o p o n i m e n t o di va lu t a re i p r ò e i cont ro . Se recitò, n o n lesinò nella messinscena. Por tò con sé a Parigi, pe r la Conferenza che s'aprì il 27 g iugno, 4 mi­nistri plenipotenziar i , 18 consiglieri ed esperti , 17 segretari e t r adu t to r i , 56 ausiliari . Tut to ques to solo p e r a r r iva re a

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un niet. «I crediti americani - disse Molotov - servirebbero n o n a ricostruire l 'Europa, ma a p o r r e una par te dei Paesi eu rope i in antagonismo con gli altri Paesi europe i , cosa che po t rà appar i re vantaggiosa a quelle potenze che aspirano a domina re gli altri Paesi. Il governo sovietico c rede di dover met te re in guard ia i governi francese e br i tannico cont ro le conseguenze di u n a tale azione, che t enderebbe n o n a uni­re gli sforzi dei Paesi e u r o p e i ne l l ' ope ra di r i cos t ruz ione post-bellica, ma a real izzare dei propos i t i c o m p l e t a m e n t e diversi.»

C o n prevedib i le docil i tà, anche se con mol to segre to r a m m a r i c o , quelli che già e r a n o i satelliti del Creml ino si ada t t a rono ad u n a decisione della quale si deve riconosce­re la logica politica. Mosca imped ì ai russi e ai popol i vas­salli di profi t tare d ' una offerta che certo non era totalmen­te disinteressata, ma che avrebbe consenti to di da re slancio e n o r m e alla r i cos t ruz ione . Ma n o n po teva scegliere a l t ra s t rada. S icu ramente gli Stati Unit i av rebbe ro chiesto, p e r d a r e i lo ro qua t t r in i , a d e g u a t e ga ranz ie : p r i m a fra t u t t e quella che i dollari prestat i o regalati n o n fossero utilizzati pe r fabbricare a rmi rivolte cont ro gli Stati Uniti . U n a trat­tativa di ques to t ipo sarebbe stata p e r I ' U R S S f rus t ran te , e inconcludente .

Il 3 luglio Bevin e Bidault d i r amarono un nuovo invito a 22 Paesi, ridotti a 16 per la forzata defezione di Polonia, Un­gher ia , Romania , Iugoslavia, Bulgar ia e Cecoslovacchia. I sedici formularono en t ro set tembre (1947) un r appor to che spiegava come dovessero essere destinati i vent idue miliardi d i dol lar i in q u a t t r o a n n i previst i dal p i ano Marshal l : ma quel r appo r to non piacque t roppo a Washington dove lo si considerò «una semplice lista di acquisti» il cui costo sarebbe stato soppor ta to dall 'America, senza l'effettiva indicazione di una «sia p u r minima collaborazione economica continen­tale». Il Congresso diffidò e si mostrò restìo ad approvare il p iano: ma quando , nel febbraio del '48, il m o n d o fu scosso dal colpo di Stato cecoslovacco, la p rocedura ebbe una spin-

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ta decisiva. Il 3 apr i le del '48 fu autor izzata da T r u m a n la concessione di sei miliardi di dollari pe r il p r imo anno .

L'America aveva finalmente e p e r s e m p r e capi to qua le fosse l ' interpretazione che Stalin voleva da re agli accordi di Yalta. Al r iparo dell 'Armata Rossa, nei Paesi da questa occu­pati , i d i r igent i comunist i s ' impadronivano di tu t te le leve del po te re , m a n t e n e n d o in funzione dei governi di f i t t iz ia «unità nazionale», ma cancel lando ogni opposizione, e an­che ogni t imida dissidenza. Si celebravano riti elettorali che n o n e rano ancora le farse totalitarie del 99 pe r cento dei vo­ti ai comunisti , ma già rovesciavano, con pressioni e intimi­dazioni d 'ogni genere , i veri r appor t i di forza. 1131 agosto del 1947, q u a n d o s'era votato in Ungher ia , la coalizione so-cialcomunista aveva raccolto il 37 pe r cento dei suffragi, e il Par t i to dei piccoli p r o p r i e t a r i - esule dal magg io Ferenc Nagy - e ra precipi ta to dal 57 al 14 p e r cento . Quas i negli stessi g iorni i l Parti to nazionale con tad ino e ra stato messo fuori legge in Roman ia , e il Par t i to ag ra r io fuori legge in Bulgaria d o p o la condanna a mor te di Petkov. In set tembre fu deliberato in Cecoslovacchia il pat to d 'uni tà d'azione tra Partito comunista e Partito socialista, e infine il 17 febbraio 1948 il leader comunista Gottwald prese le redini del gover­no in Cecoslovacchia. Il ministro degli Esteri di quel paese, J a n Masaryk, che p u r e si era «allineato» al nuovo corso, ma e ra t o r m e n t a t o dai p iù cupi p e n t i m e n t i e p r e sen t imen t i , mor ì mister iosamente il 10 marzo successivo «cadendo» da u n a finestra del Palazzo Czern in , dove aveva l'ufficio. Se­condo la versione ufficiale, tu t t 'a l t ro che persuasiva, si e ra tolto la vita pe r un grave collasso nervoso.

Ques to rosar io di colpi di m a n o e di usu rpaz ion i ebbe u n a cornice politica: il Cominform, risorto dalle ceneri del defunto Comin te rn nel quale Palmiro Togliatti aveva avuto un ruolo di p r imo piano. I l Cominform r a g g r u p p ò solo u n a par te dei Partiti comunist i che e rano affiliati al Comin te rn (o Terza in te rnaz iona le ) , sciolto da Stalin nel maggio del 1943. Oltre ai Partiti comunist i de l l 'Europa orientale furo-

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no invitati a par tec iparv i - unici r app re sen t an t i dell 'Occi­den t e - gli italiani e i francesi. Dubbio onore concesso - fu sp iegato ufficialmente - «perché (Francia e Italia) sono i paesi che al m o m e n t o attuale sono più minacciati dalle mire aggressive dell ' imperialismo e che più possono fare pe r re­sp ingere la sua offensiva». La verità è che a Stalin i Partiti comunis t i minor i - belga, spagnolo , inglese e così via - in quel m o m e n t o n o n interessavano. Dal Cominform, che teo­r i camen te aveva il compi to di c o o r d i n a r e lo scambio di informazioni t ra Partit i comunis t i , Stalin p r e t e n d e v a in rea l tà u n a di l igente esecuzione del le sue d i re t t ive . Alla g u e r r a f redda di T r u m a n i l d i t ta tore sovietico r i spondeva con un irr igidimento cui veniva dato - pe r il tipico gusto so­vietico della maschera tura verbale - il n o m e di «offensiva di pace».

Il conclave comunista si r a d u n ò a Szklarska Poreba, u n a località polacca della Slesia ex-tedesca, nei pressi di Bresla-via. Non vi in te rvennero i «grandi», a cominciare da Stalin. I delegati e rano tuttavia autorevoli: Zdanov e Malenkov pe r I ' U R S S , Kardelj e Gilas pe r la Iugoslavia, Duclos e Fajon pe r la Francia, Slansky (poi condanna to a mor te e giustiziato) e Bastovanshky pe r la Cecoslovacchia, Gomulka (il persegui­tato di qualche anno dopo) e Minz pe r la Polonia, altri per­sonaggi di analogo rango pe r Ungher ia e Bulgaria. Togliat­ti des ignò Eugenio Reale e Luigi Longo . L'invito era stato indirizzato a lui. Ma - sia che subodorasse le critiche di cui sarebbe stato subissato in Polonia, sia che ri tenesse t r o p p o modesto il livello degli altri partecipanti - si schermì dicen­do che non se la sentiva d'affrontare un viaggio così fatico­so. Raccomandò ai suoi «ambasciatori» di met tere in rilievo la funzione d i r igen te dei comunis t i nella lotta pa r t ig i ana nonché la forza numer ica del part i to .

Zdanov d iede l'avvio ai lavori nella villa - n o r m a l m e n t e adibita a casa di r iposo pe r funzionari di polizia, e vigilata da migliaia di soldati e agenti - in cui si t enne la Conferen­za: e disse che i popol i aman t i della l ibertà avevano «l'im-

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portantissimo compito di assicurare u n a pace democrat ica e dura tu ra , consol idando la vittoria sul fascismo». Un compi­to nel quale «spetta a l l 'Unione Sovietica e alla sua politica estera u n a funzione dirigente». Q u a n t o ai Partiti comunisti italiano e francese, e rano impegnat i a «prendere nelle loro mani la bandie ra della difesa del l ' indipendenza nazionale e della sovranità dei rispettivi Paesi». Si era ancora alle gene­rali. Il peggio, pe r Reale e Longo , venne dopo . Il «revisio­nismo» italiano e francese aveva fatto, nell'ottica di Stalin, il suo t e m p o . Sop ra t t u t t o , il dut t i le e d isponibi le Togliatti , l 'uomo della svolta di Salerno e della alleanza con i cattolici, doveva essere r iconverti to alla durezza. Fedele ad u n a col­laudata tecnica sovietica, Zdanov n o n p ronunc iò personal­mente la requisitoria. L'affidò ai compagni iugoslavi i quali, pe r r ancore anti-italiano ol tre che pe r ortodossia ideologi­ca, non chiedevano di meglio. Kardelj attaccò Togliatti che non riusciva ad essere «un capo che trascina il suo popolo», fece del sarcasmo sull 'affermazione togliatt iana secondo la qua le un tenta t ivo r ivoluzionar io avrebbe fatto del l ' I tal ia un'al tra Grecia («La situazione greca è migliore, dopotu t to , di quella francese e italiana»), osservò che la politica di unio­ne nazionale aveva un senso là dove il Partito comunista era egemone , non là dove s ' imponeva u n a vera «collaborazione con i partiti borghesi». Anche i francesi ebbero la loro razio­ne d i pesant i critiche. L o n g o reagì , ha tes t imoniato Euge­nio Reale, «con dignità e con una certa quale fierezza», Du-clos «come un piccolo bottegaio colto a ruba re sul peso».

C o m u n q u e i delegati italiani f i rmarono docilmente la di­chiarazione finale, che significava u n a svolta in senso intran­sigente della politica comunista. L'ombra di Stalin giganteg­giava sulla Conferenza, pe r sua det ta tura fu deciso che la te­stata del giornale del Cominform sarebbe stata Per una pace durevole, per una democrazìa popolare, n o n p r o p r i o un esem­pio di concisione ed efficacia. «Stalin - ha scritto Bocca nella sua biografìa di Togliatti - si occupa di tu t to , decide tu t to . La sera stessa in cui si ch iude la conferenza gli italiani, che

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versano in difficili condizioni economiche, chiedono al dele­gato sovietico Scevliaghin che si occupa dei partiti italiano e francese di p rocura re un finanziamento pe r YUnità, e Stalin p e r telefono a p p r o v a l 'acquisto da p a r t e russa d i 20 mila tonnellate di aranci e limoni: un funzionario iugoslavo ver­serà la cifra della mediaz ione al c o m p a g n o Paolo Robott i , incaricato dal pei pe r queste delicate operazioni.»

T ramon tava , con la nascita del Comin fo rm, i l d i segno delle vie nazionali al socialismo. Il Cominform, ha ammesso Giancar lo Pajetta, «pesò sui Partit i comunis t i de l l 'Eu ropa occidentale . Molti ne furono come schiacciati». E Alessan­d ro Natta: «Senza dubbio la costituzione del Cominform in­t roduce un elemento di contraddizione e di freno». L'atto fi­nale della Conferenza, oltre a con t r appo r r e la democrat ica Un ione Sovietica agli imperialisti amer icani , si scagliò con virulenza contro «la politica di t rad imento fatta dai socialisti di destra del tipo Blum in Francia, Attlee e Bevin in Inghil­ter ra , Schumacher in Germania , Saragat in Italia. Costoro si sforzano di dissimulare il carat tere brigantesco della poli­tica imperialista».

In questo clima, e sotto le sferzate ammonitr ici del t iran­no di Mosca, il P C I , che già aveva largheggiato in servilismo e adulazione verso l 'Unione Sovietica e Stalin, d ivenne un organismo dalle reazioni pavloviane. Nero e bianco, inferno e paradiso, tut to il male del m o n d o a occidente, tut to il be­ne a est. I notabili del part i to bat tevano I ' U R S S e i suoi satel­liti, e ne tornavano - s tando ai loro discorsi e ai loro articoli - con il cuore gonfio di gioia pe r ciò che vi avevano visto, e nello stesso t e m p o gonfio di amarezza p e r i l cont ras to t ra quella serena letizia e le sofferenze del popo lo italiano. La pubblicistica comunis ta raggiunse rar i vertici di piaggeria , che sarebbe stata a ma lapena tollerabile se si fosse in qual­che m o d o avvicinata alla veri tà, ma diventava r i p u g n a n t e perché consapevolmente falsa. II tono e lo stile surclassava­no, in certezza fideistica e tracotanza inquisitoria, i peggiori eccessi clericali (non ne mancavano).

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Ogni aspetto della società sovietica - negli anni staliniani -e ra esal tato. In un l ibro pubbl ica to nel 1978 (I primi della classe) Ruggero Guarini e Giuseppe Saltini raccolsero un flo­rilegio insieme divertente e avvilente degli inneggianti spro­positi espressi non da incolti braccianti e operai - essi e r ano anzi le vittime della gigantesca mistificazione - ma da politi­ci, intellettuali, giornalisti: alcuni t ra loro poi ta rd ivamente «pentiti». Concetto Marchesi, grecista illustre, scriverà senza arrossire che «l 'opera di Stalin è o p e r a l iberatoria da qua­l u n q u e oppress ione : da quella che fa l 'uomo schiavo della fame e della fatica a quella che lo fa s t rumento e oggetto di rovina». Gas tone M a n a c o r d a i ronizzerà su chi aveva dei dubbi circa la correttezza delle grandi p u r g h e staliniane de­gli anni Trenta: «Sembra incredibile che ancora possa avere qualche successo il mito di questi processi, q u a n d o ormai il carat tere di quinta colonna nazista della congiura bukhar i -niano-trotzkista è la rghiss imamente d o c u m e n t a t o da fonti non sospette». Per Lucio L o m b a r d o Radice «è assurdo voler p o r r e il p roblema del l ' indipendenza nazionale nei confron­ti dell'URSS allo stesso m o d o in cui lo si p o n e nei confronti dei Paesi imperialisti . N o n p u ò esistere t imore , sospetto di oppress ione nazionale del Paese del socialismo a d a n n o di altri popoli». Dello stesso L o m b a r d o Radice questa m e m o ­rabile sen tenza : «La scuola ne l l 'Un ione Sovietica è civiltà che si sviluppa: a noi, che viviamo in u n a civiltà che agoniz­za, tutto ciò sembra quasi fiabesco!». I biechi capitalisti non p r e n d o n o sul serio un saggio linguistico di Stalin? Togliatti li met te in riga: «Non ci soffermeremo sul preteso scandalo di Stalin che scrive sui r appor t i tra il marx ismo e la lingui­stica, perché non riusciamo a capire chi con più competen­za avrebbe dovuto scriverne, ch iudendo una polemica du­rata anni e anni , se non Stalin che è, e nessuno vorrà negar­lo, il più competen te e autorevole dei marxisti».

Se questo era folklore, la polemica più p rop r i amen te po­litica del PCI fu, d o p o la creazione del Cominform, un river­bero preciso del «nuovo corso» dettato da Stalin. Ne deriva-

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r o n o imbarazzi pe r i socialisti, alleati dei comunist i , p r ima scavalcati a destra, ora scavalcati a sinistra, e Nenn i osserva­va il 7 o t tobre 1947: «Salvo un fatto nuovo , si avvera che s t iamo p e r essere sospinti a essere cen to p e r cen to o con l 'Occidente o con l 'Oriente , ciò che pe r noi è impossibile». Unica consolazione pe r i socialisti la confluenza nel PSI del Partito d 'azione, nel f ra t tempo defunto - ne r ipa r le remo -anche ufficialmente.

In parallelo con il «gelo», si deteriorava in Italia la situazio­ne sociale. S e m p r e p iù f requent i e r a n o le manifestazioni violente, gli scontri, gli spargimenti di sangue. Nenn i regi­strava al larmato il p ropagars i di questa torbida inquietudi­ne . «12 novembre . U n a ventata di ter ror ismo si è abbattuta sull'Alta Italia e par t icolarmente su Milano. Si è cominciato con le bombe alle sedi comuniste cui sono seguite misure di rappresaglia che a loro volta h a n n o provocato altri attenta­ti. Un cerchio infernale. Ieri a Mediglia un agrar io ha spa­ra to su degli ope ra i u c c i d e n d o n e u n o ed è stato l inciato. Stamatt ina u n a bomba è stata lanciata cont ro u n a sede co­munis ta a Milano. Ne è seguito u n o sciopero generale con devastazioni di giornal i e di sedi del M S I , dei qua lunquis t i e c c . . 13 n o v e m b r e . L 'ondata di violenza dilaga. A Napol i oggi ci sono stati grossi incidenti. Così a Livorno, nel Saler­n i t ano , a Pa le rmo ecc. Sedi di organizzazioni di des t ra e giornali sono presi d'assalto. Il ministro Sceiba ha risposto oggi a ben undici interrogazioni. Non supponevo in lui tan­to cinismo e u n a così scarsa sensibilità politica. 14 novem­bre . Nel Paese la situazione è sempre molto tesa e si t emono gravi inc ident i a C r e m o n a . I n s o m m a l 'a tmosfera del ' 2 1 , con la differenza che siamo più folti d'allora.»

Più che De Gasperi , pe r le sinistre il nemico era Sceiba, min is t ro de l l ' I n t e rno , anzi, secondo la locuzione che esse preferivano, ministro di polizia. De Gasperi dettava le gran­di strategie, e in questo fu insuperabile. Einaudi reggeva il t imone dell 'economia. Ma il peso della accentuata pressione

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comunista, che si t raduceva in moti di piazza (e alla quale si con t r apponevano i rigurgiti fascisti) lo soppor tò pe r in tero questo avvocato non ancora c inquantenne .

Siciliano come don Sturzo, del quale era stato fedele se­guace e affettuoso discepolo, antifascista senza t en t enna ­ment i , r epubbl icano , fermo nelle sue idee - n o n voleva la firma del t ra t ta to di pace, e lo disse c h i a r a m e n t e - Sceiba non aveva p a u r a d'aver coraggio. I l che ne faceva un demo­cristiano anomalo , un m u r o t ra tanti materassi d i gomma­p iuma. Di statura un po ' inferiore alla media, ma quadra to di spalle e dal gestire risentito, quasi comple tamen te calvo anche in età giovanile, gli occhi piccoli, neri e mobilissimi, il volto pallido ro tondet to e dalla pelle lucida e tirata sul qua­le si inseguivano con t inuamente espressioni fugacissime di d iver t imento , s tupore , i rr i tazione, Sceiba replicava agli at­tacchi che in un Par lamento tumul tuan te gli venivano rivol­ti, con forte accento siciliano, ma anche con un l inguaggio scarno, ade ren te alle cose: ciò che Nenni scambiava pe r ci­nismo. Affermava, quasi ostentava il diritto dello Stato a di­fendersi. Per la ragion di Stato era p ron to anche a ment i re - lo si vide nel caso Giuliano -, mai pe rò a t radire il suo do­vere.

Con la sua polizia ancora «infiltrata» da e lement i par t i ­giani che e rano elementi comunisti , con la sua Celere racco­gliticcia, Sceiba aveva l ' immane compito di fronteggiare non soltanto i pericoli p resent i , ma quelli potenziali . Ci voleva del fegato. Con t ren t ' anni di anticipo sull 'Argentina, l'Italia fu allora la patr ia dei desaparecidos. Togliatti non voleva fare la r ivoluzione, ma alcuni dei suoi - Pietro Secchia in par t i ­colare , lo v e d r e m o - sì. Togliatti lasciava c o m u n q u e che i militanti «duri» credessero alla possibilità d ' u n a risolutiva lotta armata . Il part i to parallelo, e l'«esercito popolare» pa­rallelo, avevano i n q u a d r a m e n t o e armi . Soffitte, scantinati, f ienil i e r a n o zeppi di fucili, mitra , pistole, b o m b e a m a n o . Poteva bas tare u n a scintilla pe r appiccare l ' incendio e t ra­sformare l'Italia, se non in u n a Polonia o in u n a Cecoslovac-

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chia, a lmeno in una Grecia. Sceiba calamitò l 'odio delle sini­stre, e in un cer to m o d o si compiacque di farlo, lasciando agli «amici» della D C , che di amicizia gliene mos t ra rono sem­pre pochissima, il lusso dei «dialoghi». Incappò , p ropr io pe r questo suo carat tere spigoloso, in e r ror i e grossolanità: mai in slealtà. Non aveva la stoffa dello statista, e lo si vide quan­do, scomparso De Gasperi , resse il governo: ma in abbinata con De Gasperi , fu uno dei pilastri della Democrazia cristia­na e anche della democraz ia tout court. La rivolta a r m a t a n o n ci fu, ma le sue «prove generali» sarebbero bastate pe r sprofondare nel panico un u o m o m e n o forte: la p r ima fu la cosiddetta «guerra di Troilo», a Milano, della quale ci occu­p e r e m o subito.

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CAPITOLO SETTIMO

LA GUERRA DI T R O I L O

Ettore Troilo, ufficiale di complemento , avvocato, militante del Part i to d 'az ione, e ra stato un valoroso c o m a n d a n t e d i formazioni par t ig iane della Maiella. Le b e n e m e r e n z e resi­stenziali l 'avevano abilitato a r icopr i re la carica di Prefetto di Milano q u a n d o Riccardo L o m b a r d i se n ' e ra tol to, nel genna io del 1946, pe r a s sumere i l Dicastero dei Traspor t i nel p r imo governo De Gasperi.

Lombard i aveva posto come condizione, pe r allontanarsi da Milano, che la Prefet tura passasse n o n a un funzionario di carriera, ma a un altro politico antifascista. Troilo, picco­lo, garbato, con folti capelli scuri e occhi un po ' sporgenti in un volto facilmente atteggiato alla stupefazione, n o n aveva né la stoffa del prefetto né quella del politico. Erano stati gli avvenimenti a por tar lo nel palazzo di corso Monforte, e lui se ne lasciava trascinare d imos t rando un certo b u o n senso, ma anche u n a certa mollezza: quanto sarebbe bastato a farlo galleggiare in tempi di ordinar ia amministrazione, ma n o n bastava p r o p r i o in que i mesi infuocati. Era ansioso di ga­rantirsi - dopo tanti sommovimenti e tanti rischi - un t ran­quillo futuro personale : scoprì invece, all ' improvviso, d'es­sere d iventa to un Simbolo, inca rnaz ione della Resistenza dell'Antifascismo, della Democrazia, tutto in maiuscolo.

La pol t rona su cui sedeva era scomoda. In Lombardia la tensione era g rande , e le masse di sinistra, t ra le quali si an­n idavano minoranze che prat icavano la violenza sanguina­ria e volevano la r ivoluzione, m o r d e v a n o il freno. L'episo­dio di Giorgio Magenes - d i r igente qua lunquis ta che asse­diato nella sua cascina presso Mediglia, aveva ucciso u n o

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degli assalitori, ed era stato poi linciato - por tò il fermento al di sopra del livello di guard ia . I modera t i ch iedevano il s i l u ramen to del Prefet to che n o n aveva sapu to p reven i r e l 'attacco al Magenes , né far in tervenire con tempestività le forze del l 'ordine q u a n d o la folla si era scatenata; le sinistre inscenavano manifestazioni eccitate - u n a imponen te , il 13 novembre (1947), in Piazza del Duomo a Milano - contro «i delitti e gli assassini dei fascisti». In questo clima esacerbato la r imozione dalla Prefet tura più impor t an t e d'Italia - an­che più della Prefet tura di Roma, m e n o a u t o n o m a perché controllata a vista dal governo - dell 'ultimo Prefetto politico sarebbe stata considerata dal pei ufficiale, e ancor più dalla sua s t rut tura parallela e clandestina, una sfida: la definitiva archiviazione dei «valori della Resistenza». Probabi lmente Troilo, at tento soprat tut to al suo «particulare», non capì tut­to questo. Se lo capì, ne fu più impaur i to che affascinato. E preferì tagliare la corda.

Sulla circostanza delle dimissioni esistono d u e versioni. Secondo la p r ima - che fu la versione di Sceiba - Troilo am­biva da t empo ad essere trasferito nei ranghi della diploma­zia. Il 18 ottobre (1947) aveva inviato a De Gasperi una let­tera nella quale lo pregava «di voler considerare da oggi a sua disposizione il posto che occupo», accennava al fatto che «il lavoro massacrante e le responsabilità che mi oberano mi h a n n o le t tera lmente esaurito», si impegnava a non da re la notizia della sua r inuncia finché non fosse stato designato un successore, e si augurava di poter ancora servire il Paese «in Patria o all 'estero». De Gasper i - cui n o n pareva vero, nel suo piano restauratore, di l iquidare l 'ultimo Prefetto po­litico - si adoperò presso il ministro degli Esteri Sforza, che t rovò a Troilo un incarico, p a r e all'oNU. S tando a q u a n t o Sceiba dichiarò poi alla Costituente, Troilo s'era detto felice della sistemazione «diplomatica», e anzi il 27 novembre ave­va telefonato al sottosegretario agli In te rn i Marazza pe r sol­lecitare l 'avvicendamento. Marazza ne avvertì Sceiba, e Scei­ba chiese al Prefetto di Torino Ciotola se fosse disposto a tra-

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sferirsi a Milano. Ot tenuto l'assenso comunicò il «movimen­to» alle agenzie di s tampa senza aver l'accortezza di sottoli­neare che Troilo lasciava il posto a sua richiesta, e d o p o va­rie sue insistenze.

Assai diversa la versione di sinistra, raccontata da Miriam Mafai nel suo Luomo che sognava la lotta armata (una biogra­fia di Pietro Secchia). La Mafai afferma che De Gasperi ave­va r i p e t u t a m e n t e tenta to d ' i n d u r r e Troilo alle dimissioni. «Ma Troilo n o n era disponibile ed anzi, di fronte a una let­tera di deplorazione che gli g iunge da Sceiba, reagisce con una protesta sdegnata al Presidente del Consiglio. Ormai la testa di Troilo è diventata pe r Sceiba una questione di prin­cipio, ma la sua pe rmanenza a Milano è diventata u n a que­st ione di pr inc ip io anche pe r tu t te le forze democra t i che della città che p r o m u o v o n o a suo favore manifestazioni , cortei, ordini del giorno.»

La versione di Sceiba, anche se burocratica e riduttiva, è d i g ran lunga più at tendibile pe r quan to r igua rda l 'atteg­g iamento di Troilo, che aveva accettato - lo confermò egli stesso - di passare dalla Prefe t tura a un 'ambascia ta e che, placata la sommossa milanese, p e n o s a m e n t e insistette p e r essere accontentato. Egli d ivenne un emblema resistenziale suo malgrado. Fu costretto ad esserlo dalla animosità e dai rancor i dei comunist i , nonché dalla retorica di chi si acco­dava a loro: come il s indaco socialista Antonio Grepp i , un galantuomo emotivo, verboso ed enfatico, che inviava a De Gasperi un appel lo d rammat i co : «Troilo resti a Milano: le pa r lo in n o m e della città, voglio spe ra re che la città ver rà ascoltata». Ma la fragilità del motivo invocato dalle sinistre sarà re t rospe t t ivamente confermata da Nenn i che nel suo diar io (in da ta 1 d icembre) scriverà: «C'è molto fe rmento nelle fabbriche ma si cerca il modo di t irare i remi in barca. I nostri sono cadut i in u n a provocazione di Sceiba. Se nel suo p r imo comunicato il ministro avesse pubblicato la lette­ra di dimissioni di Troilo, e avesse fatto conoscere la sua de­stinazione a un posto diplomatico, nessuno si sarebbe mos-

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so di fronte all ' intesa, o al merca to , fra il gove rno e il suo rappresentante».

Dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri che no­minava Ciotola, la p ro tes ta assunse p res to i connota t i di un ' insurrezione, o a lmeno di u n a pre- insurrezione. Sotto la spinta comunista si formò a Milano, nella notte tra il 27 e il 28 novembre , un Comita to ci t tadino, reviviscenza dei Co­mitati di liberazione nazionale, si dimise Greppi , si dimise il Consiglio comunale , si dimisero 170 sindaci della provincia. Risoffiava impe tuoso i l ven to del N o r d . Nelle fabbriche chiuse alla p roduz ione (non solo in Lombardia , ma anche a Genova e altrove) fu rono mobilitati gli attivisti di sinistra, che concionarono le maestranze e r a d u n a r o n o autocarr i in gran n u m e r o , p rendendo l i disinvoltamente dal parco auto­mezzi degli stabilimenti, pe r u n a marcia su Milano. Il 28 no­vembre 1947 - era u n a grigia g iornata au tunna l e - queste colonne affluirono sulla metropol i lombarda , e si diressero verso corso Monforte e il Palazzo Diotti in cui ha sede la Pre­fettura. N o n tutt i i mili tanti in giubbot to di pelle ne ra che stavano nei cassoni degli autocarr i avevano le idee ben chia­re su quanto stava accadendo. Qualche pattuglia issava car­telli con la scritta «a mor t e Troilo», il Prefetto essendo, pe r definizione, il r appresen tan te dello Stato oppressore e rea­zionario.

I l c o m a n d o delle operazioni era stato preso da Giancar­lo Pajetta, federale comunista pe r la Lombardia , che si era insediato, con altri dir igenti del part i to , in Prefettura: con­senziente, ma t r emebondo , il povero Troilo, tu t tora in cari­ca. Presto la Prefe t tura fu invasa da cent inaia di miliziani che s'installarono un po ' dovunque , sovrapponendos i facil­men te alle forze del l 'ordine che, prive di direttive, non sa­pevano cosa fare. Le s t rade a t to rno al palazzo furono bloc­cate da autocarr i , vennero istituiti posti di blocco controlla­ti da attivistiràèl P C I , furono allineati cavalli di Frisia trovati chissà dove. Richiamata dall '«happening» - u n a presa della Bastiglia all'italiana, con il r app resen tan te del governo che

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sta dal la p a r t e dei rivoltosi - s 'era p rec ip i t a t a in corso Monforte u n a campiona tu ra var iopinta della società mila­nese: i maggiori capi comunisti - Alberganti , Scotti, Venan-zi, ol tre a Giancarlo Pajetta - ma anche resistenti salottieri precursor i dei radical-chic degli ann i Settanta, e teste con­fuse come l ' impresario teatrale Remigio Paone, le cui con­cioni, nel l 'ant icamera di Troilo, n o n contr ibuivano certo a chiarirgl i le idee . Da Roma, Sceiba taceva. Sapeva che il Ques tore Agnesina era asserragliato nel suo fortilizio di via Fatebenefrate l l i , e aveva cerca to di r a g g i u n g e r e subi to il C o m a n d a n t e del C o r p o d 'Arma ta di Milano e i l C o m a n ­d a n t e della divisione Legnano. Essendo e n t r a m b i r isultat i pe r il m o m e n t o introvabili, s'era rivolto al C o m a n d a n t e mi­litare della piazza di Bergamo dandogl i ordini p e r u n a oc­cupazione della Prefettura, se fosse stato necessario, anche con la forza.

Men t r e le ore t rascor revano , cominc iarono a schierarsi a t torno alla Ques tura , e anche a qualche distanza dalle mili­zie operaie e dai cavalli di Frisia, soldati della Legnano, cara­binieri , agenti . La famigerata e sanguinar ia Volante Rossa, che solitamente agiva nell 'ombra, questa volta era uscita al­lo scoperto. Un suo autocarro stava os tenta tamente accanto al po r tone di corso Monforte, guarda to da figuri con mitra e pistole.

Per l ' intera matt inata Troilo non aveva r i tenuto di dover informare il ministro che qualcosa di inconsueto stava acca­d e n d o a Milano (solo alle 17 rispose a un te legramma incal­zante di Sceiba con quest 'altro singolare te legramma: «Sono qui in p iena libertà e in attesa dell 'arrivo dell 'onorevole Ma-razza. O r d i n e pubblico normale nonostante sciopero gene­rale in atto»). E t tore Troi lo doveva avere u n a concezione molto peculiare della normalità. Nel suo ufJSfe spadroneg­giava Pajetta, che ogni tanto, forse a n n o i a i M H p a c e v a qual­che telefonata. U n a volta, s tando a q u a n t | 9 ^ H B : t o Miriam Mafai che c e r t a m e n t e d i s p o n e d i n o t i z i V ^ ^ H m a m a n o , Pajetta chiamò il Viminale e a Sceiba disse i ronicamente: «Ti

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avverto che da adesso hai u n a Prefettura in meno , quella di Milano». Sceiba tacque. Un'al t ra volta Pajetta si mise in co­municazione con Togliatti pe r annunciargli spavaldamente: «Abbiamo la Prefettura di Milano». E Togliatti, gelido: «Bra­vi, e cosa in tendete farne?».

A posteriori Pajetta ha asserito che lui e gli altri p r o m o ­tori del l 'occupazione n o n avevano intenzioni eversive. «Si trattava di mostrare che avevamo u n a forza notevole ed era­vamo pront i a usarla, in m o d o da impedi re che certa gente si illudesse di poterci l iquidare facilmente. Ma nulla di più.» Q u a n d o il generale Capizzi cui Sceiba, p u r esitante, pensa­va di affidare ogni po te re a Milano, en t rò in Prefet tura fa­cendosi largo tra i facinorosi, e riusci ad arr ivare fin davanti a Troilo, Pajetta - lo ha raccontato egli stesso - si rivolse a u n o dei suoi luogotenent i e gli chiese di quant i uomini il PCI potesse d i spor re . «Trentamila mi rispose il c o m p a g n o , e il generale che era arrivato da noi deciso a proclamare lo sta­to d'assedio se ne a n d ò senza aver fatto nessuna minaccia. Ma raggiunto questo scopo io chiamai subito accanto a me gli altri dirigenti comunisti e dissi loro che u n a cosa doveva essere ben chiara: se l'esercito arrivava davvero e si creava­no le condizioni pe r un conflitto, noi ci sa remmo ritirati.»

Che così Pajetta pensasse ve ramente nelle ore infuocate dalla Prefettura, è tutto da dimostrare . Certo la doccia fred­da di Togliatti n o n l ' incoraggiò a giuocare il tut to pe r tutto. Q u a n t o a Troilo, balbettava patetico. Q u a n d o fu avvicinato da qualche giornalista si disse «molto do len te di q u a n t o è avvenuto senza a lcuna mia responsabilità», definì u n a ina­dempienza del governo la mancata missione all'ONU («Si ve­de che di me n o n sanno che farsene all'ONU»), poi lamentò queru lo che non lo si fosse a lmeno lasciato a Milano fino al­la p r i m a v e r a successiva. U n o degli au to r i di ques to l ibro, che era allora un giovane cronista del Corriere della Sera, e che potè anche lui - dopo inquisizioni degli scherani comu­nisti di guardia - avvicinare Troilo, chiese che gli fosse con­cesso d 'usare il telefono pe r avvertire, al giornale, che si tro-

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vava chiuso in Prefettura, senza possibilità di comunicazio­ne . Troilo cor tesemente assentì, ind icando i l suo appa rec ­chio personale. Ma intervenne Pajetta. «Non si p u ò lasciarlo a d o p e r a r e - disse - è un telefono di Stato.» Alla perplessa occhiata del cronista, Troilo rispose, scrollando sconsolata­mente le spalle: «Se è un telefono di Stato...».

La città, e la Prefettura, e rano sospese in un'atmosfera di forte, t ra t tenuta tensione, men t re il sottosegretario Marazza viaggiava in t reno verso Milano, dove sarebbe arrivato solo in p iena notte . S t ranamente , n o n vi furono molti incidenti, né os tenta te violenze. I «benpensanti» s 'erano r in tana t i in casa, e le milizie di sinistra facevano il bello e il cattivo tem­po , senza t rovare altra opposizione che quella dei cordoni di forza pubblica, qua e là. Un 'unica tragedia contrassegnò la giornata. Igino Mortari , ch 'era stato nella legione r epub ­blichina Muti , litigò in u n a tabaccheria di via Lomazzo con un g r u p p o d ' ope ra i della Innocen t i . Fu t rasc inato via su u n a jeep, e lo r i t r ova rono poi in un p r a t o della per i fer ia freddato dal classico colpo alla nuca. Nel resto d'Italia le no­tizie milanesi , r iecheggiate in l inguaggio burocra t ico dalla radio, n o n furono percepite nella loro gravità. La gente era magg io rmente scossa dal l 'annuncio che il pianista Arnaldo Graziosi era stato condanna to a 24 anni di reclusione, su in­dizi assai tenui , pe r avere ucciso la moglie.

S c e n d e n d o dal t r e n o alla Stazione Cen t ra le d i Milano, Marazza incontrò Agnesina, e con lui si chiuse in Ques tura . Poi telefonò a Troilo, invitandolo - ed era un invito che, da Sot tosegretar io a Prefetto, equivaleva a un o rd ine - a rag­giungerlo. Troilo l 'avrebbe anche accontentato. Ma il solito Pajetta s 'oppose. Presagiva, nonos tan te l 'ostentata euforia barr icadiera della folla che s'ammassava in Prefettura, l'epi­logo d e l u d e n t e di ques ta p resa della Bastiglia. E voleva qualche soddisfazione. Impose pe r t an to che non Troilo ma Marazza si scomodasse, r agg iungendo il corso Monforte. Il Sottosegretario pretese delle garanzie, che Pajetta avventu­rosamente gli d iede . Presumeva di po te r governare quella

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ciurmaglia stanca e nervosa. Sugli scaloni del palazzo, e pe r i corridoi, c 'erano cartocci con resti di cibo, bucce d 'arance, fiaschi vuoti. Nel m o m e n t o in cui la jeep di Marazza varcò il po r tone dal quale Mussolini era uscito il 25 aprile 1945 pe r avviarsi verso il fatale t r agua rdo di Giulino di Mezzegra, de­cine di uomini vocianti in giubbotto la sommersero: pallido ma dignitoso, il ro tondet to Marazza si avventurò nello stret­to corridoio t ra d u e siepi u m a n e che si era riusciti ad aprir­gli, sfilò davanti al l 'eterogenea guarnigione degli «occupan­ti», e f inalmente si t rovò faccia a faccia con Troilo, Pajetta, Venanzi.

La trattativa d u r ò qualche ora, n o n pe rché fosse in dub ­bio, ormai, che il governo aveva vinto, ma perché si doveva in qualche modo salvare la faccia a Pajetta e ai suoi caudata­ri. Fu stabilito, alla fine, che Troilo avrebbe lasciato il suo in­carico (egli br igò d o p o d 'al lora p e r avere quell 'ambasciata che gli era stata ancora promessa, sottovoce, ma non ci riu­scì), che in Prefettura si sarebbe insediato t emporaneamente il Prefetto di Pavia, Celona, e che il designato Ciotola avreb­be assunto le sue funzioni d u e mesi p iù tardi «avendo egli chiesto un congedo di tale durata». Venne concordato , ov­viamente, che nessuno di coloro che avevano violato la legge sarebbe stato deferito alla magis t ra tura . L'addio alla rivolu­zione fu malinconico. Pajetta voleva affidare ad Alberganti, u n o tra i più «duri», il compito di dire ai miliziani d 'andarse­ne. Alberganti rifiutò secco: «Non sarò io a ord inare una riti­rata». «Allora ci vado io» disse Pajetta. E così fece.

All'alba il palazzo di corso Monfor te fu evacuato, lenta­mente e tra mugugni , dagli invasori, gli autocarr i gremiti di gente a rma ta r ipa r t i rono p e r la «cintura rossa» milanese e pe r le città di provenienza, repar t i della Legnano e della Ce­lere p r e s e r o possesso della Prefe t tura . A Roma Troilo e Grepp i , convocati da De Gasper i e Sceiba, d i ede ro la loro versione dei fatti, m e n t r e a Milano i vari comitati para insur-rezionali lanciavano gli ultimi vacui appelli allo spirito resi­stenziale. I militari americani che dovevano imbarcarsi a Li-

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v o r n o pe r fare r i t o rno negli Stati Uni t i , e che e r a n o stati t ra t tenut i in Italia, a titolo di a m m o n i m e n t o , in vista della emergenza Troilo, seppero che la loro par tenza era rinviata solo di qualche giorno. (In base a precedent i decisioni, l'ul­t imo cont ingente amer icano d 'occupazione doveva lasciare l 'Italia en t ro il 15 d icembre 1947, e lo sgombero era stato pressoché comple ta to . Washington precisò p e r l 'occasione che se fosse stato necessario ristabilire un equilibrio di forze o di s i tuazioni e v e n t u a l m e n t e t u rba to , po t evano essere rafforzate le t r u p p e americane di stanza in Austria.)

In u n a let tera al sindaco Greppi , Alcide De Gasperi sot­tol ineò che «l 'autori tà dello Stato sarebbe p r o f o n d a m e n t e lesa se, invece di a t t ingere la sua forza da un gove rno re­sponsabile innanzi al Par lamento, subisse l'influsso di azioni e reazioni tumultuarie». E, accennato ai problemi economi­ci e sociali, agg iunse con a p p e n a velata severi tà: «Senza dubbio le difficoltà sono ancora molte e p reved iamo giorni duri . . . Ma riusciremo, se m a n t e r r e m o in casa nostra o rd ine e disciplina, se n o n scaveremo con le nostre mani le basi del­l 'autor i tà dello Stato, la cui tu te la deve essere al di sopra delle competizioni e dei partiti».

Nel PCI il «partito parallelo» aveva mostrato la sua faccia vio­lenta du ran t e l 'occupazione della Prefettura di Milano. E la most rò ancora nei giorni successivi con i r a d u n i e le sfilate indett i , in molte città italiane, pe r il I Congresso nazionale della Resistenza. A Modena, present i ventimila part igiani e duecentomila pe r sone affluite da tut ta l'Emilia rossa, furo­no decorati di medaglia d 'oro Longo e Secchia. Lo fu perfi­no Togliatti resistente di Mosca e di Salerno, che accettava senza entusiasmo questi rituali. Il 6 dicembre si svolse a Ro­ma la manifestazione conclusiva, e centomila par t igiani ir­r u p p e r o nella città preoccupata e torpida. Ecco il significati­vo racconto d ' u n par tec ipante alla kermesse rossa (racconto r ipor ta to da Miriam Mafai):

«Part immo da Genova dove alla stazione funzionava per-

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fe t tamente la sussistenza. A tutti fu distribuita p e r la no t te u n a razione K, razioni d ' emergenza delle t r u p p e america­ne.. . Nel mezzo della M a r e m m a ci fu u n a sosta obbligatoria, penso sia stata dovuta al confluire di diversi convogli... Do­po pochi minu t i corse la voce sabotaggio. Esasperaz ione . I n u t i l m e n t e nel bu io staffette passavano di ca r ro in ca r ro sp i egando le rag ioni della sosta. Dal c a r ro degli spezzini par t ì un colpo di bazooka. Per pochi secondi, ma intensissi­ma, seguì una sparatoria infernale. Raffiche di sten, colpi di pistola e scoppi di bombe a mano . . . Roma era deser ta , ec­cetto le ali di folla p lauden te tutto era deserto. Non si vede­va né polizia né soldati, tutti e r ano p ron t i , ma nelle caser­me.. . Ricordo la delusione di tutti quelli che mi circondava­no quando , nel discorso ufficiale, Longo raccomandò la cal­ma.. . Le in tenzioni di tutt i al basso e r a n o ben diverse. Da par te di tutti c 'era il proposi to di spaccare il m o n d o e a un certo p u n t o la sensazione che si stava pe r concludere qual­che cosa di grosso. Ma poi la tensione cadde in un sciogliete le righe.. . Le armi e rano rimaste sotto il giubbotto, anche se n o n c'era t imore a lcuno e ogni tan to si poteva vede re con facilità spun ta r e di sotto l 'abito qualche manico di rivoltel­la».

Migliaia, anzi decine e forse cent inaia di migliaia e r a n o le pistole custodite da ex-part igiani e du r i del P C I pe r l 'ora X: e tante mitragliatrici e mitragliatori , tante bombe a ma­no , n o n pochi bazooka. L 'ambasciatore degli U S A a Roma, Dunn , scrisse in un r appor to che il pei poteva contare su 50 mila uomin i addes t r a t i ed equipaggia t i con a rmi leggere . Togliatt i f ingeva d ' i g n o r a r e ques to inqu ie t an te e segre to volto del suo par t i to . Se ne compiaceva invece Pietro Sec­chia, po ten te e i r ruen te capo dell 'organizzazione, un posto che gli consentiva di far le pulci a tutti, perfino a Togliatti: il quale dovette infatti piat ire da lui un nuovo alloggio quan­do, separatosi dalla moglie, decise di met ter su casa con Nil­de J otti.

Pietro Secchia, det to Botte, era di Occhieppo Superiore,

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nel biellese. Figlio di povera gente (padre contadino, m a d r e operaia tessile), aveva compiuto tuttavia gli studi ginnasiali, integrati successivamente dalla cul tura ideologizzata dei ri­voluzionari autodidatt i . Ventenne al t empo della Marcia su Roma, s 'era bu t t a to senza esitazioni alla lotta c landest ina , nelle file comuniste. Gli e rano state presto affidate missione delicate - tra l'altro nel 1924 era stato delegato al Congres­so de l l ' in te rnaz iona le giovanile comunis ta a Mosca - poi aveva vissuto in Francia, e ra r ientrato nascostamente in Ita­lia, aveva subito i pr imi arresti e le p r ime schedature . «È di carat tere impulsivo, educazione scarsa, intelligenza p ron ta . Ha u n a cul tura discreta. Ha tendenze all'ozio e vive con le p r ebende che gli frutta la campagna comunista. Appar t iene al Par t i to comunis ta di cui è seguace fanatico.» Q u e s t o il profilo di Secchia tracciato dalla polizia fascista. Pr ima che Mussolini cadesse, Secchia aveva trascorso tredici anni della sua vita (e ne aveva solo quaranta) tra carcere e confino. Era stato tra i capi della Resistenza, coraggioso e spietato.

Per il Togliatti amico di Badoglio, Guardasigilli , fautore del compromesso con i cattolici, questo personaggio rozzo e deciso costituiva insieme u n a risorsa e un ingombro . Poteva essere utilizzato (aveva indubbi talenti di coord ina tore e di trascinatore), ma doveva anche essere a t ten tamente control­lato. Per questo «il Migliore» se lo por tò a Roma. «Sentii su­bito un cer to disagio - l a m e n t ò Secchia - p e r c h é a R o m a trovai un ambiente comple tamente diverso. I nostri, inseriti già da t empo , quasi da un anno , nel lavoro pa r lamenta re e minis ter iale , e r a n o tut t i volti ad altri p rob lemi . C o m p r e s i che pe r la seconda volta e ravamo rimasti fregati.» A Roma Secchia visse a u s t e r a m e n t e , con la sua c o m p a g n a Alba, e con la vicinanza assidua di un guardaspalle-segretario-fac­to tum: Nino Seniga, l ' uomo che qualche a n n o p iù tardi lo lascerà po r t ando con sé la cassa del part i to, e p rovocando la rovina politica del suo «padrone».

Delle s t ru t tu re di par t i to Secchia aveva u n a concezione rigida, ereditata sia dalla lotta clandestina sia dal l ' inquadra-

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mento militare della Resistenza. Nel rivoluzionario si senti­va il piemontese. Al militante era concesso di ubbidire, e an­che di pensare con juicio, mai di dubi tare . Il Quaderno dell'at­tivista, che usciva se t t imanalmente , n o n era un p ron tua r io d i par t i to : e ra un p r e c e t t a n o d e g n o del l ' Inquisizione, che pre tendeva di regolare tut to: perfino a quali l ingue stranie­re convenisse dedicars i («Mi sembra v e r a m e n t e r idicolo - ammoniva ser iosamente un di r igente nazionale del P C I -che alcuni compagn i s tud ino ancora l ' inglese o il francese anziché il russo»).

Secchia era pignolo, infaticabile, brusco e spicciativo, ma un maestro nel l 'addestrare le t r u p p e e i quadr i del part i to . La sua menta l i tà schematica, i l suo spir i to r ivoluzionar io e rano ancora adatti ai tempi , e ancora più lo d ivennero con l ' instaurarsi della gue r r a fredda. Nessuno meglio di Secchia poteva gestire insieme il P C I affiorante e quello sot terraneo: e incoraggia re o copr i r e sot tobanco le azioni dei mili tanti facinorosi, qualche volta sanguinari , lasciando ai Togliatti e agli A m e n d o l a i l compi to di dep lorar l i , ufficialmente. Un giorno (Togliatti e ra ministro della Giustizia) si p resentaro­no a Roma, c h i e d e n d o di veder lo , i «compagni» che nelle carceri di Schio avevano opera to u n a mat tanza di ex-mili­tanti della Repubblica di Salò, imprigionati . Quest i «giusti­zieri» e r a n o t ecn icamente dei lat i tanti . Q u a n d o Massimo Caprara - allora segretario di Togliatti - gliene annunc iò la visita, la risposta fu sferzante: «Ma sono pazzi, digli che non posso assolutamente occuparmi di loro».

Ma altri si occupava, nel pei, di questi comunisti macchia­ti di sangue , e li avviava ol tre front iera, verso i «santuari» dell 'Est. Così Praga d ivenne un covo di imputa t i e di con­dannat i in contumacia e, ha r icordato Miriam Mafai, «attor­no alla Radio in l ingua italiana h a n n o vissuto e lavorato pe r anni molti di coloro che, d o p o il 25 aprile, non avevano ri­nunciato all'azione a rmata e agli atti di ter ror ismo, e lì costi­t u i rono u n a piccola comun i t à che aveva r a p p o r t i regolar i con il P C I » .

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Ana logamen te , i l Part i to comuni s t a n o n sponsor izzava formalmente , ma n e p p u r e r innegava in te ramente , nel fon­do , i fatti e misfatti di quei g r u p p i - con il l inguaggio lati­noamer icano p o t r e m m o chiamarli squadroni della mor te -che pra t icarono la giustizia sommaria nei giorni della Libe­razione, ma seguitarono a praticarla - a lmeno gli irriducibi­li - anche dopo . Gli s terminatori agivano anche all 'ombra di associazioni innocue, e insospettabili. Ad esempio i compo­nen t i la famigera ta Volante Rossa e r a n o , p e r la facciata, m e m b r i d ' u n circolo ricreativo con sede presso la Casa del Popolo di L a m b r a t e (un qua r t i e r e della perifer ia di Mila­no). In mezzo ai tanti che veramente si r icreavano, v 'era un nucleo ristretto di killer professionali. Lo guidava «Alvaro», un giovane ope ra io r e d u c e dalla g u e r r a par t ig iana , nella quale aveva comanda to la 118 a brigata Garibaldi.

La Volante - scuola e modello delle future Brigate rosse -si esibì a volte in azioni clamorose e r ivendicate - le uccisio­ni di Franco de Agazio fondatore e d i re t tore del «nostalgi­co» Meridiano d'Italia, e del genera le Ferruccio Gatti - altre volte in a m m a z z a m e n t i spiccioli e oscur i . «Andavamo a p r e n d e r e l ' individuo - rivelò u n o che sapeva - lo por tava­mo dalle par t i del campo Giuriati, p e r ché allora l ì era tut to p ra to e la mat t ina passava l 'obitorio a ritirarlo.» A volte e ra il Lago Maggiore a far da obitorio, grazie a u n a piet ra lega­ta al collo della vit t ima, condo t to a fare u n a gita in ba rca senza r i to rno . Non mancava, nelle iniziative della Volante, un pizzico di t ruce goliardia. Un dir igente della Falck, l'in­g e g n e r e I ta lo Toffanello, fu seques t ra to in casa di no t t e ­t e m p o e lasciato in m u t a n d e - e ra p i eno inve rno - a poca dis tanza dal D u o m o . L ' impresa fu f i rmata «un g r u p p o di bravi ragazzi». S'è già visto che la Volante si mostrò spaval­d a m e n t e alla ribalta, c r edendo fosse giunta l 'ora X, d u r a n ­te la «guerra di Troilo». Qu ind i r isprofondò nel l 'ombra, f i­no a q u a n d o la ca t tura d ' un giovane a p p a r t e n e n t e alla or­ganizzazione po r tò alla sua scoperta , e alla identificazione dei capi.

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Secchia, terzo nella gerarchia del PCI ufficiale, e ra il pr i­mo nella gerarchia del PCI sot terraneo. A Mosca lo sapevano benissimo: fino al 1956 tutti i verbali dei dibattiti in seno al­la direzione o al Comitato centrale vennero inviati, pe r op­p o r t u n a conoscenza, al Creml ino . In quei dibattiti le posi­zioni di Secchia affioravano vis tosamente . N o n p e r caso d u n q u e fu volentieri accettato da Stalin che Secchia - anzi­ché il r i lu t tan te Togliatti - andasse a Mosca, nel d i cembre del 1947, pe r avere is truzioni , o a lmeno i l luminazioni sul nuovo corso comunista.

Caricato al l 'aeroporto di Mosca sulla immancabile Ciaika n e r a dalle t e n d i n e abbassate , ospi ta to in u n a dacia p e r «compagni» di r iguardo , Secchia vide anzitutto Zdanov, che pochi giorni p r ima aveva a s p r a m e n t e criticato i comunis t i italiani. Zdanov sembrava, a quat t r 'occhi , un po ' m e n o se­vero, anche se a u n a cauta richiesta di Secchia pe r la r inun­cia dell'URSS ad avere le navi da gue r r a italiane in conto ri­parazioni, ribatté brusco: «Noi n o n facciamo la politica ame­r icana alla rovescia». Q u a n t o al res to , «mi è dispiaciuto - disse Zdanov - d 'aver dovuto fare delle critiche al vostro part i to, ma era necessario pe rché voi avete condot to f inora u n a politica f iacca, di capitolazione, avete t r o p p e illusioni parlamentari . . .».

Era un r i m p r o v e r o che Secchia p r o p r i o n o n mer i tava: ma Zdanov parlava alla n u o r a pe rché la suocera (ossia To­gliatti) intendesse. Secchia espose allora le sue idee, ed era­no musica pe r le orecchie di Zdanov, che lo invitò a conden­sarle in un rappor to . Con diligenza, nella dacia isolata, Sec­chia lo scrisse, muovendo anche appun t i a «compagni» non precisati. In realtà sia lo scrivente, sia i dest inatar i del r ap ­por to avevano in testa un n o m e solo. «Ci sono dei compa­gni - era det to nel r appor to - che osservano che De Gaspe­ri avrebbe avuto piacere se noi, nel m o m e n t o in cui stavamo pe r essere esclusi dal governo, avessimo organizzato lo scio­pe ro genera le , pe rché così avrebbe po tu to d imos t ra re che noi ci ponevamo sul t e r r eno extra-legale, sul t e r r eno della

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violenza... Ma noi r i teniamo non esatto questo giudizio per­ché non si trattava già di da re la parola d 'ord ine dell ' insur­rezione, ma di organizzare u n a g rande mobilitazione di po­polo, p r ima ancora che fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla a fare l ' insurrezione ci corre. . . Il nostro e r ro re sta nel fatto che t r o p p o spesso ci siamo lasciati domina re dalle minacce della gue r r a civile, e dell ' intervento straniero...» E più avanti, d o p o aver accennato alla possibilità che il PCI fos­se impegnato in u n a lotta n o n legalitaria: «Possiamo ancora p r e n d e r e l'offensiva, vi sono le forze pe r farlo, e se il nemi­co cercasse di sbarrarci la s trada con la violenza, noi dispo­niamo di un potenziale di forza tale che sa remmo in g rado di spezzare ogni violenza e di por ta re i lavoratori italiani al successo decisivo».

Il r a p p o r t o fu covato pe r t re giorni nel Creml ino , e ap ­p r o d ò anche sulla scrivania di Stalin m e n t r e Secchia aspet­tava nella dacia. Finalmente venne la convocazione pe r un colloquio con il capo s u p r e m o e indiscusso del comunismo mondia le . Era la p r i m a volta che Secchia vedeva «Giusep­pe» (così lo n o m i n ò negli a p p u n t i pres i f re t to losamente) . Era emozionato , ma sicuro. Al f ianco di Stalin e r a n o Zda-nov, Beria e Molotov. Secondo il suo stile, Stalin fu p r u d e n ­te. Ascoltò t i r ando l u n g h e boccate dalla p ipa , e si g u a r d ò bene dallo sconfessare Togliatti. Obbiet tò alla strategia ag­gressiva di Secchia che «non si t rat ta di p o r r e il p r o b l e m a dell ' insurrezione, ma di condur r e lotte economiche e politi­che più decise, con maggiore ampiezza». In sostanza, Stalin sapeva di n o n poter 1 r ibal tare gli assetti politici italiani, ma voleva da re il massimo fastidio al governo e agli americani . Sapeva altresì di avere, nel PCI, due diversi proconsoli , p e r due diverse ipotesi: la possibilista e la rivoluzionaria. Inge­n u o , e anche gaffeur, come tut t i i fanatici, Secchia sostò a Belgrado, sulla via del r i torno da Mosca, e lì p ranzò con Gi-las e Kardelj . «Beati voi che siete stati liberati dalle a rma te sovietiche!» esclamò rivolto ai suoi commensali . «Macché ar­mate sovietiche!» ribatté Gilas, furente.

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Questa fase della politica comunista ebbe in Italia il suo im­primatur dal VI congresso del PCI, aper to il 4 gennaio 1948 a Milano. Il part i to di Togliatti era numer icamente imponen­te - quasi d u e milioni e trecentomila iscritti - ed era ancora un parti to operaista (il 45 per cento di operai , il 17 pe r cen­to di salariati agricoli). Fu il congresso «dell 'obbedienza al Cominform», secondo la definizione di Bocca. «Tutti i lavori del Congresso dov ranno svolgersi alla luce della situazione nazionale e in te rnaz iona le così come è stata definita dalla Conferenza dei nove partiti (Cominform) e dal recente Co­mitato centrale del nos t ro partito.» Togliatti e Longo furo­no confermati r i spe t t ivamente segretar io e vicesegretario. Secchia si risentì (e questo pe r Togliatti n o n era molto gra­ve) ma si risentì anche Mosca, ed era gravissimo.

Consapevole d'aver umiliato insieme Secchia e il Cremli­no , Togliatti corse a i r ipar i con u n a p r o c e d u r a che , anche p e r i l disinvolto au to r i t a r i smo comunis ta , e ra scandalosa. Senza n e p p u r e a t t e n d e r e u n a convocazione del Comita to centrale, scrisse a tutti coloro che ne facevano par te perché consentissero a creare un nuovo vicesegretario da affianca­re a Longo nella pe rsona di Pietro Secchia. Tutti r isposero sì, a s tret to giro di posta, ma n o n m a n c ò qua lcuno che ri­levò l 'arbitrio.

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CAPITOLO OTTAVO

LA C O S T I T U Z I O N E

Il 1947 si chiuse con un r impas to del governo De Gasper i - allargato ai socialdemocratici e ai repubblicani - e con l 'ap­provazione della Carta Costituzionale. Pochi giorni separa­rono i d u e avvenimenti (il 16 d icembre il r impasto, il 22 il sì alla Costituzione): e la successione cronologica ne contrad­disse il significato.

I l varo della Cost i tuzione r a p p r e s e n t ò infatti l 'epi logo della collaborazione ciellenistica e de l l 'unanimismo antifa­scista. La Costituzione passò con 453 voti a favore e solo 62 contrari , d i destra: una maggioranza cui anche q u a r a n t a n ­ni d o p o , ad esempio pe r l 'elezione del Pres idente Cossiga, sarebbe stato dato il n o m e - impropr io , anzi truffaldino - di «arco costituzionale». La nuova s t ru t tu ra del governo am­pliò e consol idò invece il blocco an t icomunis ta , m e n t r e p r e n d e v a defini t ivamente forma i l Fronte popo la re di To­gliatti e Nenni : e insieme delineò la formula di maggioran­za politica sulla quale la democrazia italiana si sarebbe retta, sia p u r e con t en t ennamen t i e lacerazioni, nei decenn i suc­cessivi.

Della Costituzione ci siamo occupati a proposi to dell 'arti­colo 7, e del voto con cui i comunisti si associarono all'inse­r imento in essa dei Patti lateranensi. Vediamola ora nel suo insieme.

La Magna Char ta della Repubblica italiana fu concepita sotto l 'ossessione di un r i t o rno della d i t t a tu ra , ossessione che ne condizionò e spesso viziò gli istituti: e venne tenuta a battesimo, nella sostanza, da d u e forze politiche - la cattoli­ca e la marxista - che e rano state es t ranee al Risorgimento,

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q u a n d o non ostili, e che e rano per tradizione, e per i perso­nali convincimenti di alcuni loro uomini , scarsamente sensi­bili ai g randi ideali liberali. Tortuosa e farraginosa fu inoltre la p rocedu ra attraverso la quale si arr ivò alla formulazione di questa legge fondamentale . Dai 600 costituenti fu espres­sa u n a commissione più ristretta, det ta dei Set tantacinque, che a sua volta si divise in sotto-commissioni per la redazio­ne di questa o quella par te , di questo o quell 'articolo. I testi che dai g r u p p i settoriali risalivano ai Set tantacinque, e dai Settantacinque all 'assemblea plenaria, e rano sganciati l 'uno dall 'altro e scaturivano a volte da ispirazioni diverse. Con la conseguenza, rilevata da Piero Calamandrei , che «quando si arr iverà a mon ta re questi pezzi usciti da diverse officine po­trà accadere che ci si accorga che gli ingranaggi n o n comba­ciano e che le g iun ture del motore non coincidono: e pot rà occorrere qualche ritocco pe r met ter lo in moto». La Costi­tuzione ebbe u n a i m p r o n t a uni tar ia , e omogenea , p r o p r i o in quella che si rivelerà una delle sue caratteristiche più ne­gative: la voluta debolezza del po te re esecutivo, cioè del go­ve rno , nel n o m e di un p a r l a m e n t a r i s m o esaspera to che i l t empo trasformerà in partitocrazia e lottizzazione.

Nessuno dei freni che in altri paesi già esistevano o furo­no adot ta t i pe r scong iu ra re l ' instabilità dei governi - e in definitiva del sistema - e la f rammentazione del quad ro po­litico fu accolto dai costituenti. Niente collegio uninominale , niente soglia del cinque pe r cento (come nella Germania fe­derale) pe r l 'ammissione di un parti to in Par lamento, nien­te p remio di maggioranza (nel '53 De Gasperi tenterà di in­t rodur lo con quella che sarà mal ignamente bollata come la «legge truffa», e sarà battuto), n iente obbligo di p resen ta re una maggioranza di ricambio già p ron ta p r ima di far cade­re la magg io ranza sulla quale si r egge il gove rno . Tut to il po te re al Par lamento , n o n soltanto l 'esame delle leggi im­po r t an t i ma anche quel lo delle famigera te «leggine», u n a g iungla nella quale il lavoro di d e p u t a t i e senator i dovrà aprirsi il varco con stento, e in tempi lunghi . Il sistema bica-

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merale , s icuramente utile pe r cor reggere taluni e r ro r i d'u­na Camera , f in iva p e r d iventare , in quel tr ionfo della len­tezza, un u l te r io re motivo di r i t a rdo all ' i ter dei disegni di legge. Nel documento e rano contenuti , in nuce, la girandola dei governi , la pe renn i t à delle crisi, l 'esigenza che il Presi­den te del Consiglio e i suoi ministri s ' impegnino quotidia­namente più a sopravvivere che ad amminis t rare . Parados­sa lmente , la DC e il P C I , l 'una e l 'altro pe r n ien te tranquil l i sull'esito delle elezioni politiche prossime venture , e rano in egual misura interessati a castrare l'esecutivo. Il P C I pe rché u n a democraz ia debole è u n a democraz ia facilmente infil­t rabile e rovesciabile, la DC p e r c h é un F ron te p o p o l a r e tr ionfante avrebbe trovato, p r o p r i o in quella Costi tuzione, più d ' una r e m o r a all ' instaurazione d ' un potere autori tar io. Da qui certi aspetti equivoci della Costituzione, di cui Mario Paggi scrisse che era «un fragile tessuto fatto di n o n a rmo­niose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxis te dal­l 'altro, con qualche malinconico res iduo di un l iberalismo che ha pers ino p u d o r e della parola libertà».

Da questo ibrido, o da questa confusione, derivò un cer­to tono messianico e verboso della Costituzione (la stessa so­lenne affermazione secondo la quale la Repubblica italiana è fondata sul lavoro appar t iene più alla retorica politica che alla legislazione). Sempre Calamandrei , n o n sospettabile di ten taz ioni reaz ionar ie ma acu to , sot tol ineava che nel suo complesso la Magna Char ta «rischia di riuscire piuttosto che un documen to giuridico, u n o s t rumento politico: piut tosto che la attestazione di u n a ragg iun ta stabilità legale, la p ro ­messa di una stabilità sociale che è appena agli inizi». A que­ste aspirazioni vagamen te progress is te si intrecciava, p r o ­prio pe r la difficoltà di concretarle, lo «spirito di rinvio», os­sia la r inuncia al compito di fissare vere no rme , d e m a n d a n ­dole a fu ture leggi di a t tuaz ione . Le quali sono ancora in qualche caso di là da venire: come la regolamentazione del dir i t to di sciopero. Su alcuni temi scottanti , in par t icolare l'assetto economico, lo sforzo di conciliare l 'ortodossia libe-

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1 rale con conati sociali e dirigisti è quasi patetico (lo ha rile­vato Franco Catalano). Così si garantisce «l'iniziativa econo­mica privata libera» a m m o n e n d o peral tro che essa non p u ò porsi «in contrasto con l'utilità sociale o in m o d o da recare d a n n o alla sicurezza, alla l ibertà, alla digni tà umana» . La p ropr ie tà privata è r iconosciuta e garanti ta ma la legge ne de te rmina «il m o d o di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di render la acces­sibile a tutti».

La smania di regolare tutto, con minuzia notarile e insie­me con velleità innovatrici, diede all'Italia u n a Costituzione prolissa e lacunosa insieme. In realtà quel d o c u m e n t o che ambiva a guidare la vita della nuova Repubblica pe r chissà quant i decenni futuri e ra lo specchio della situazione e del m o m e n t o politico in cui fu formulato. Non che manchino , in esso, par t i d e g n e di sopravvivere. La Cost i tuente aveva nel suo seno ingegni politici e giuridici quali forse l 'Italia non ritrovò più nelle fasi successive della sua storia. Ma an­che i migliori vollero impedi re il r i torno del passato e po r r e le basi di un radioso futuro sociale - c'era in questo l'ideolo­gia, seppure temperata , della Resistenza - t rascurando l 'op­por tuni tà loro offerta di formulare una Char ta chiara, sem­plice e non soggetta - come la Char ta che concepirono - a let ture diverse, a volte opposte : tanto che la Corte Costitu­zionale ha dato, degli stessi articoli, interpretazioni varianti secondo i tempi e le occasioni. Del resto, a t ambur battente, e quando la Corte Costituzionale era ancora di là da venire, la Cassazione si affrettò a sancire che si doveva dist inguere t ra le n o r m e costi tuzionali «programmat iche» e le n o r m e «precettizie», suddivise a loro volta queste ul t ime in «com­plete» e «incomplete». Solo le n o r m e precettizie e complete annul lavano le leggi in contrasto con esse che già esistesse­ro. Per le precettizie ma incomplete, o per le programmat i ­che, il det ta to costituzionale dava sempl icemente direttive dejure condendo. In un'ottica di sinistra Antonio Gambino ha visto in tutto questo un disegno della destra pe r consentire

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innovazioni «prive di garanzie di esigibilità», che restavano u n a p u r a as t raz ione , in cambio «di un conso l idamento d i fatto dello Stato conservatore». Non ci sembra che la mano­vra fosse così net ta , e n e m m e n o così consapevole. L'ibrido ambiguo e il messianesimo verboso della Costituzione furo­no lo specchio di quell '«arco costituzionale» che la concepì: e che pre tese di a rmonizzare gli opposti . Per questo la Co­stituzione n o n è soltanto vecchia. E invecchiata male.

L'esigenza di dare al governo - in vista delle elezioni politi­che - u n a base che raccogliesse il più ampiamente possibile le forze modera te e socialdemocratiche era ben avvertita da De Gasperi cui il monocolore , allargato o no, piaceva poco perché faceva della DC l 'unico bersaglio dell 'opposizione, e perché rendeva incerte e fluttuanti le maggioranze; ed era avvertita anche dagli americani . Il PSLI aveva con il m o n d o sindacale e politico d 'ol treoceano legami privilegiati, e que­sto spiega le sollecitudini del segretar io di Stato genera le Marshall p e r c h é al par t i to di Saragat fossero spalancate le por te governative: «Lei pot rebbe profittare dei colloqui con i leaders democristiani e socialdemocratici - scrisse Marshall all 'ambasciatore D u n n - pe r comunicare una certa delusio­ne a causa del manca to accordo pe r la par tec ipazione del PSLI al governo. Lei pot rebbe spiegare ai dirigenti del PSLI il p u n t o di vista amer icano secondo cui la situazione italiana richiede, nell ' interesse nazionale, la cooperazione di tutti gli elementi rea lmente democratici».

La strada pe r u n a collaborazione ministeriale con il PRI e il PSLI e ra stata p e r ò disseminata di mine e di dispett i , sia per le cautele di De Gasperi , sia pe r le pretese di Saragat e di Pacciardi, che n o n e rano interlocutori comodi. Si era ar­rivati addir i t tura , in au tunno , alla presentazione di mozioni di sfiducia contro il governo propr io per iniziativa dei suoi futuri alleati.

All 'origine dell ' incidente fu Nenni , che a fine set tembre si fece avanti, alla Costi tuente, con una mozione di sfiducia

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perché , secondo lui, il Ministero si e ra dimostrato del tut to impar i ai compiti che doveva affrontare, e soprat tut to ai no­di del l 'emergenza economica. Ai deputa t i N e n n i par lò con la consueta foga tribunizia, ma anche con insolita asprezza, accusando la magg io ranza «d 'avere messo le sue spo rche operazioni di politica in te rna sotto il pa t rona to amer icano, così come fino al '45 le met teva sotto il pa t rona to di Chur ­chill». La «palude» (per usa re la definizione dello stesso Nenn i ) insorse e il conte Sforza sfidò i socialisti a p o r t a r e u n a sola prova di quan to asserivano. «E stato messo du ra ­men te a posto» si vantò Nenn i nel suo diario. Sulla scia dei socialisti anche socialdemocratici e repubblicani avanzarono mozioni di sfiducia, che n o n erano tanto u n o s t rumento pe r abbattere i l governo, quanto un grimaldello pe r forzarne la por ta ed entrarci . Infatti il discorso di Saragat fu una dichia­razione di gue r ra alle sinistre, piuttosto che a De Gasperi.

Si era alla vigilia di elezioni amministrative a Roma, fissa­te pe r il 12 o t tobre (1947), e De Gasper i e ra p reoccupa to . Temeva che un ' impress ione di sfascio della sua maggioran­za si r ipercuotesse negat ivamente sul voto nella capitale. Al­la Costi tuente si rivolse in tono grave, pe r dire che «la mar­cia c o m u n e dei socialisti e comunisti , la quale si r ichiama al­le stesse origini marxiste fino alla di t ta tura del proletariato, r e n d e sospetta, difficile e impossibile ogni col laborazione con loro». La mozione di Nenn i fu respinta con largo mar­gine, 271 voti contro 178, quella di Saragat con margine in­feriore (271 cont ro 224), infine pe r la bocciatura della mo­zione repubblicana (270 voti contro 236) fu necessario a De Gasper i l ' appoggio di Gugl ie lmo Giannini . I qua lunquis t i avevano percorso negli ult imi mesi un i t inerar io a zig zag, con appetit i governativi e insieme con ammiccament i ai co­munis t i (ammiccament i che Togliatti, spreg iudica to come sempre , aveva finto di ricambiare). Se ne accorgessero o no, i qualunquist i e rano in u n a fase declinante, e in m o d o pre­cipitoso, della loro parabola.

Lo d imos t ra rono le elezioni a Roma. La DC r a d d o p p i ò i

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voti (da 104 mila a 204 mila) rispetto alle elezioni di appena un anno pr ima, persero i monarchici e i liberali, ma ancora più persero i qualunquist i caduti da 106 mila a 62 mila voti. I socialcomunisti accrebbero i voti (da 190 mila a 208 mila) ma, essendo parecchio cresciuto il n u m e r o dei votanti, si vi­de ro togliere t re seggi, anda t i al P S L I . Se r e t t amen te inter­pre ta to , questo segnale avrebbe dovuto far presagire l'esito del 18 aprile. Ma pochi, anche tra gli addet t i ai lavori, capi­rono che esso pref igurava la g r a n d e a d u n a t a di tutti i mo­derati sotto le insegne democrist iane.

Il congresso della DC a Napol i (nel novembre del 1947) fu t ranquil lo . De Gasperi lasciò la segreteria p e r assumere la p res idenza , e Attilio Piccioni p rese il suo pos to . Ai con­gressisti De Gasperi aveva lasciato in tendere che un r impa­sto e r a auspicabi le . Fu a t tua to , come s'è de t to , a m e t à di­cembre . Saragat e Pacciardi si affiancarono, quali vice-presi­dent i del Consiglio, a Luigi Einaudi, i socialdemocratici Tre-melloni e D'Aragona ebbero r ispett ivamente l ' Industr ia e le Poste, il repubbl icano Facchinetti la Difesa. Infine fu inseri­to, come minis t ro senza portafogl io p e r i l c o o r d i n a m e n t o delle attività economiche del governo - incarico che prefi­gurava quello dei futuri ministri per le Partecipazioni statali II democrist iano Togni.

Può essere interessante rileggere, a tanti anni di distanza, i cri teri che subito Togni espose pe r q u a n t o r igua rdava lo Stato imprendi to re : «Una gestione a sfondo privatistico che implichi la necessità di quadra tu ra dei bilanci, di determina­zione di utili e di indispensabile controllo amministrativo da par te di chi appor ta capitali; possibilità di un cont inuo con­fronto di gestione tra le aziende di Stato e le aziende di p ro ­prietà privata; minore burocratizzazione; più facile trapasso dalla propr ie tà dello Stato a propr ie tà di privati, e viceversa; una minore tentazione di r i cor re re a particolari privilegi e sottrarsi ad oneri fiscali a d a n n o e a spese della collettività». E rano pr incìpi sa ldamente ancorat i alla visione economica e inaudiana che l 'avvenire avrebbe quasi sempre traditi. Alla

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linea di Einaudi si adeguava - sia p u r e con qualche transito­rio dissapore - anche il produt t iv is ta Merzagora , che deli­b e r ò u n a serie di p rovved iment i p e r favorire i l r i en t ro dei capitali. T raendo spun to da questi indirizzi economici non­ché dai p rovved iment i di amnis t ia e di a t t enuaz ione delle n o r m e epurative - grazie ad essi migliaia di d ipendent i pub­blici allontanati pe r fascismo to rnarono ai loro incarichi - so­cialisti e comunisti denunc ia rono u n a «restaurazione» capi­talista e filoimperialista, pe r non dire nostalgica.

Comunis t i e socialisti marc iavano o rma i insieme, ignari di p r o c e d e r e a r angh i serra t i verso u n a catastrofe elet torale . Nenn i , non Togliatti , aveva voluto s t r ingere i legami t ra i d u e partiti . Spiegò poi: «Forse perché nella mia men te si e ra fissata con tanta forza l 'esperienza del Fronte popolare fran­cese, io ero convinto che u n o schieramento compat to delle sinistre ci avrebbe por ta to al successo». Togliatti aveva fon­date perplessità sugli esiti d ' una linea t roppo scoper tamen­te fusionista, e s 'era l amen ta to : «Cosa ci posso fare io se Nenn i e Basso vogliono il Fronte elettorale a tutti i costi?». Basso, pe r la verità, era molto t iepido. L'entusiasta era Nen­ni, un p o ' i n g e n u o e un po ' cinico, coccolato dall'establish­ment comunista in terno e internazionale.

A fine novembre del '47 a n d ò a Praga, su invito dei so­vietici, e a Karlovy Vary dialogò a lungo con Malenkov, il vi­ce-Stalin, «grasso, un po ' flemmatico, per fe t tamente orien­tale». Il pove ro N e n n i chiese a Malenkov, t ra l 'al tro, cosa l 'Unione Sovietica potesse fare pe r l 'economia italiana, e il sovietico, lon tano le mille miglia dal sospet tare quale fosse la vitalità r inascente del l 'economia occidentale, e ancora to ai modu l i dirigistici di casa sua, r ispose se r iamente : «Se le sinistre vincono le elezioni e t o r n a n o al governo , nel 1948 l 'Unione Sovietica po t rà far fronte al fabbisogno di g rano . Per i l ca rbone n o n p u ò far nulla pe r ancora t re anni». Era archeologia economica, e nessuno dei d u e inter locutor i se ne rendeva conto.

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Benché segretar io dei P S I fosse Basso, N e n n i se ne ri te­neva l'effettivo leader: un leader che , d o p o il t r a u m a della scissione saragatiana di gennaio, aveva colto qualche signifi­cativo alloro. Tra gli opera i i consensi socialisti, p u r net ta­m e n t e inferiori o r m a i a quelli comunis t i , s u p e r a v a n o di quasi il dopp io i consensi cattolici e socialdemocratici. A li­vello di vertice il PSI aveva avuto l 'apporto di g ran par te dei dirigenti del Partito d'azione: personalità di notevole rilievo intellettuale e morale anche se la loro forza politica era assai più corrosiva che costrutt iva. La sinistra n o n marxis ta ag­glutinatasi nel Partito d'azione n o n aveva mai avuto requie, dalla Liberazione in poi. Alcuni suoi uomini sentivano il ri­ch iamo del la sinistra p o p o l a r e - p e r i cui c o m p o r t a m e n t i non avevano vocazione alcuna - altri p ropendevano pe r un l iberal ismo el i tario e progress is ta , nella scia de l l ' insegna­mento di Gobetti e dei fratelli Rosselli.

Ques te forze centr i fughe si acu i rono con la scissione di Palazzo Barber in i p e r c h é al polo socialista t radiz ionale si contrappose, eserci tando u n a attrazione eguale e contraria, il polo socialdemocrat ico. Stato magg io re senza t r u p p e , il Partito d 'azione era stanco di esistere, e voleva confondersi in u n a forza politica più vasta. Questa forza sembrò identifi­carla, agli inizi del 1947, nel PSLI . Ma gli umor i cambiarono, e si arr ivò a u n a fase di equidistanza, poi (fine giugno) alla scelta del PSI . Questa opzione fu approvata dal direttivo del Partito d 'azione a stretta maggioranza, 19 voti cont ro 16: e fu da alcuni considerata un colpo di mano .

Dall 'esecutivo si d imisero Ca lamandre i , Valiani e Garo­sa. A sua volta Riccardo Lombard i , che p u r e era or ientato n e t t a m e n t e a sinistra, r inunc iò alla segre ter ia del par t i to . L o m b a r d i n o n amava la suddi tanza del P S I ai comunist i , e r ipeteva, a proposi to del Fronte popola re , che «non esisto­no d u e partit i e u n a sola politica, bensì d u e partit i e d u e po­litiche, che possono coincidere ma anche n o n coincidere».

Gli azionisti filosocialisti , che e rano maggioranza, tratta­rono con il PSI le modali tà della fusione, e r iuscirono a rea-

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lizzarla nonos t an t e gli accorat i appel l i di Saragat . Anche Lombard i finì pe r associarsi alla maggioranza , e il 21 otto­bre 1947 il Partito d 'azione, lo si è già accennato, fece uffi­cialmente harakiri. Ignazio Silone, s t renuo avversario della manovra , fondò in quelle sett imane Europa socialista, la rivi­sta che ambiziosamente si poneva come p u n t o di riferimen­to pe r chi n o n abbracciava il PSI ma n e m m e n o il PSLI . Si legò a quel g r u p p o anche l 'ex-segretario del P S I U P Ivan Matteo L o m b a r d o che, con i suoi amici di Critica sociale, e ra o rmai quasi un estraneo nel PSI .

Esautorati , isolati e resi impotent i nel PSI i riformisti su­perstit i , l 'opposizione al Fronte popo la re e alle liste eletto­rali con il P C I fu condot ta da leaders della sinistra, in partico­lare da Sandro Pertini e - con ambigui tà - dallo stesso se­gretario, Lelio Basso, che p u r e non aveva alcun preconcet to anticomunista, e si sarebbe anzi distinto, negli anni a venire, pe r zelo filosovietico. Pertini fece sapere a chiare lettere - e lo r ipetè al Congresso che si aprì il 19 gennaio 1948 - che il fronte socialcomunista pe r le elezioni era un e r ro re . Lo era perché diventava un vassallaggio a p p e n a mascherato del PSI al P C I , e perché confermava gli argoment i di Saragat al tem­po della scissione. Con Pertini si schierò l 'ex-azionista Ric­ca rdo L o m b a r d i che esigeva dai comunis t i chiarezza sui p r o b l e m i in te rnaz iona l i (ma in effetti i comunis t i e r a n o chiarissimi, per loro I ' U R S S aveva sempre ragione). Le tesi di Basso e rano più sfumate e contorte , e in larga misura obbe­divano a motivi di bassa cucina di par t i to rivestiti di p a n n i ideologici. «Io ho - disse Basso - l ' impressione che il part i to abbia commesso l 'er rore di discutere la tattica elettorale pri­ma di esaminare le condizioni politiche della battaglia... Ec­co perché sono stato reticente. Io credo che n o n vi sia dub ­bio che se il Fronte si realizza la conseguenza elettorale non p u ò essere che u n a sola. Il p rob lema è di dire se siamo riu­sciti a creare questa atmosfera nel paese.» Tutti gli avversari del Fronte e rano, nel PSI , condizionati dalla demagogia ope­raista e proletaria: perfino Giuseppe Romita, che presto sa-

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rebbe passato ai socialdemocratici, si dichiarò in favore del­l'alleanza, e contrar io soltanto a liste elettorali comuni . Così Nenn i trionfò, e sul diario scrisse sprezzantemente che «Le­lio (Basso) e l ' appa ra to h a n n o v e r a m e n t e balcanizzato il part i to». Il Congresso si p r o n u n c i ò p e r il Fronte (maggio­ranza del 99,43 pe r cento) e anche pe r le liste uniche con i comunisti : ma su questo pun to , non foss'altro che pe r moti­vi di interesse personale (gli aspiranti par lamentar i temeva­no , n o n a to r to , che la fusione facesse fonde re , e le t toral­mente , soprat tut to i socialisti), la maggioranza fu assai infe­riore (66,78 pe r cento).

Nella lunga vigilia elettorale l'esistenza del Fronte , e l'in­t imo legame con i comunist i , furono pe r i l PSI u n a pesante catena. Lombard i aveva visto giusto, subord inando il pat to socialcomunista a u n a emancipazione del pei dall 'obbedien­za cieca al Creml ino . I l F ron te d ivenne invece real tà , p e r s for tuna dei socialisti (ma se l ' e rano cercata) , p r o p r i o nei mesi in cui l ' U R S S , impegnata nella gue r ra fredda, e decisa a trasformare in proconsolati o semicolonie tutti i paesi occu­pati da l l 'Armata Rossa, p r e t e n d e v a che i Partit i comunis t i occidentali n o n solo tollerassero, ma acclamassero. Puntual­mente , e ra obbedita. A braccetto con il P C I , il PSI si trovò co­stretto ad app laud i re - t ra m u g u g n i nelle sue file - le peg­giori infamie. Il colpo di stato di Praga - al quale abbiamo già fatto r i fer imento nel sesto capitolo - p recede t t e di d u e mesi scarsi le elezioni politiche del 18 aprile 1948. A Stalin, che attuava un disegno bruta le e coerente, questa consulta­zione in un Paese che Yalta poneva al di fuori della sua sfera di influenza interessava molto meno della mainmise all'Est.

Ma la t raged ia cecoslovacca, con gli arres t i , le persecu­zioni, le epurazioni at tuate da Gottwald con la collaborazio­ne dello spietato ministro de l l ' In terno Nocek fu una trage­dia anche p e r i socialisti. La reaz ione pavloviana del P C I e dell ' Unità a quei fattacci era scontata, anche se abbietta: le centrali spionistiche e reazionarie amer icane avevano ordi­to un complot to sventato dal sano popolo lavoratore . Ma i

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socialisti, cui g iungevano via via gli echi delle martellate con cui si crocifiggeva la democrazia cecoslovacca, dei penosi ce­diment i di Benes, del sacrificio di Masaryk, dovevano asso­ciarsi all 'ostentato t r ipudio dei compagni comunisti . E cian­ciarono anch'essi di «vittoria di popolo» a Praga e di «smar­r imento dei circoli reazionari». Nenn i non r i tenne valesse la p e n a di dedicare u n a sola riga del suo diario al secondo olo­causto della Cecoslovacchia, né di dis t inguere in pubblico le posizioni del suo par t i to da quelle di Togliatti. Perfino nel rifiuto del p iano Marshall il PSI finì pe r accodarsi docilmen­te, con t e m p o r a n e i r i pensamen t i , ai comunis t i . Q u a n d o a L o n d r a i laburisti indissero u n a Conferenza internazionale pe r convincere i socialisti italiani a recedere dall 'opposizio­ne al generoso piano americano, la delegazione del PSI (Mo-rand i , Vecchietti, Amaduzzi) «ha p ianta to in asso la r iunio­ne . E ha fatto benissimo». Il c o m m e n t o è di Nenn i , che si sentiva euforico perché il 15 febbraio, a Pescara, in u n a vo­tazione amministrat iva, il Blocco del popolo socialcomuni-sta aveva conquistato la maggioranza assoluta.

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CAPITOLO NONO

LA VIGILIA

I l F ron te democra t i co p o p o l a r e di Togliatti e N e n n i n o n comprendeva soltanto i comunist i e i socialisti. Vi e rano in­cluse formazioni minor i , come la Democrazia del lavoro, il Partito cristiano sociale - flebile contral tare trasformista del­la Democrazia cristiana - e anche elementi socialdemocrati­ci e repubblicani . Ques ta tecnica d ' un blocco - antifascista, resistenziale e laico - che si opponesse alle bieche forze del­l 'oscurantismo, riecheggiava - ed era, alla luce di ciò che an­dava accadendo un 'eco pe r più motivi sinistra - altre coali­zioni «democrat iche» a t tua te e impos te nei Paesi dell 'Est . Nelle liste un iche «popolari» a p iù voci, con tavano solo le voci comuniste e socialiste. Si sarebbe poi visto anche in Ita­lia alla luce dei risultati che il PCI aveva tut to organizzato pe r farsi la par te del leone: nella vittoria, se ad essa si fosse arri­vati, ma anche nella disfatta che invece si avverò. Sulla trin­cea oppos ta stava essenzia lmente la DC, cui in caso d'esito incer to si sa rebbero affiancati i socialdemocratici , i r e p u b ­blicani, e i conservator i del l 'a l leanza s t re t ta t ra i l iberali e l 'Uomo Qua lunque .

Le elezioni del 18 aprile e rano un avvenimento decisivo, quale che fosse l 'angolazione da cui lo si considerava. Wal­ter L i p p m a n n ne individuò con molta lucidità, in u n o scrit­to della vigilia, la s t raordinaria importanza. «Dopo la secon­da gue r ra mondia le - scrisse - l 'Armata Rossa è avanzata fi­no al centro del l 'Europa. Tutti i Paesi rimasti alle sue spalle sono stati sottoposti al domin io comunis ta . Ma fino a oggi nessun Paese che n o n sia stato occupato o c i rconda to dal­l 'Armata Rossa è diventato comunista.. . Se il popolo e il go-

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verno italiano si a r r e n d o n o ora al comunismo, l'Italia sarà il p r imo Paese in cui la sola quinta colonna comunista , sepa­rata dalle altre quat t ro colonne dell 'Armata Rossa, sarà riu­scita a conquistare u n o Stato m o d e r n o . Il risultato in Italia dimostrerà d u n q u e se il Cremlino p u ò o meno assicurarsi il controllo de l l 'Europa at traverso la g u e r r a fredda.» Questo era il di lemma. È molto facile par lare oggi di atmosfera iste­rica, di toni apocalittici del clero, di metodi propagandist ici che arr ivavano al ricatto: ricatto della fame (se votate Fron­te popola re gli Stati Uniti n o n ci a iu t e ranno più) , o ricatto religioso (la scomunica pe r gli ade ren t i al blocco socialco-munista) . La posta legittimava ogni mezzo. Dall 'una e dal­l'altra par te ci si batté con il randello, n o n con il fioretto: si p u ò riconoscerlo e magar i deplorar lo , agg iungendo peral ­t ro che le caratteristiche della lotta imponevano quel com­por tamento .

La Chiesa si batté in p r ima linea a m m e t t e n d o e addir i t ­tura os tentando questo suo interventismo che in taluni mo­ment i dovette pa re re eccessivo anche allo stesso De Gasperi. Pio XII aveva già det to che la scelta era «con Cristo o contro Cristo». I vescovi di g r a n d i diocesi - I ldefonso Schuster a Milano, Giuseppe Siri a Genova, ma anche altri - precisaro­no che costituiva peccato morta le sia il n o n votare sia il vo­tare «per le liste e pe r i candidati che non d a n n o sufficiente affidamento di rispettare i diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini». La dist inzione, che sarebbe venu ta con Giovanni XXII I , tra l 'errore e l 'errante , era sconosciuta a questa du­ra impostazione. I presul i p r e s e r o cura di prec isare che il comunismo era contrar io alla fede - a coloro che ne condi­v idevano l ' ideologia doveva essere nega ta l 'assoluzione -«anche quando si presenta , come a t tua lmente accade, sotto spoglie che non sono sue».

In a p p a r e n z a il l egame t ra la Democrazia crist iana e la Chiesa - che era opera t ivamente un legame tra la Democra­zia cristiana e le par rocchie - assicurava u n a pene t raz ione capillare nell 'universo dei credent i al messaggio politico de-

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mocrist iano. Esisteva inoltre l'Azione Cattolica, che il fasci­smo aveva compresso e condizionato ma mai soppresso, ed esisteva la SPES, il Servizio p r o p a g a n d a e studi della D C sorto a me tà del 1947 p r o p r i o pe r r e n d e r e più efficace l 'azione del part i to. In questa s t ru t tura Pio XII e il suo prosegreta­rio di Stato, monsignor Montini, dovettero tuttavia avverti­re lacune e debolezza. Si affidarono allora a Luigi Gedda , pres idente degli uomini di Azione Cattolica, p e r la creazio­ne, nel febbraio del 1948, dei Comitati Civici.

Luigi Gedda , u n o studioso che era stato allievo del famo­so endocr inologo Pende, e che si e ra specializzato in ricer­che sui gemelli, era l 'esponente di un integralismo cattolico esasperato. Dal '34 al '46 aveva diret to, con indubbio talen­to organizzativo e slanci mistici, il set tore giovanile dell'A­zione Cattolica, pe r essere poi p repos to agli uomini di A . c Era ambizioso, e p robab i lmente r i teneva che le sue qualità meri tassero più alti r iconoscimenti: ne faceva fede u n a let­tera - rimasta senza risposta - che indirizzò a Badoglio, do­po il 25 luglio 1943. «Le forze dell 'Azione Cattolica moral­men te sane, di provata fedeltà alla patria e scevre di passio­nali tà politica - p r o p o n e v a - possono essere vantaggiosa­m e n t e impiegate.» E indicava u n a vasta g a m m a di utilizza­zioni, che avrebbero por ta to l'Azione Cattolica a su r roga re la Gioventù italiana del Littorio, l 'Opera nazionale dopola­voro, l 'Opera nazionale materni tà e infanzia, e via dicendo. Infine Gedda si dichiarava p ron to a suggerire persone ido­nee a dir igere I 'E IAR (la RAI dell 'epoca) pe r «controbattere la p r o p a g a n d a sovversiva del fuoruscitismo comunista favori­ta dalle rad io s t raniere le quali fanno ope ra di disfattismo spirituale, patriottico e politico».

Q u e s t ' u o m o impas ta to di fede e di a r r iv ismo e ra p e r ò riuscito a r a d u n a r e in Piazza San Pietro, davant i al Papa, nel set tembre del 1947, settantamila «baschi blu» (il colore, spiegò, gli e ra stato ispirato dal g ran mazzo di fiordalisi of­ferto alla Madonna di Lourdes , d u r a n t e un pellegrinaggio) e in altre occasioni masse imponen t i di baschi verdi , creati

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poco dopo. Pio XII fu conquistato dalla sua sicurezza e dal­la sua fermezza. De Gasperi ne era più impensieri to che af­fascinato. Pensava in par t ico la re agli interessi della D C , al pericolo d 'un secondo part i to cattolico, alla concorrenza dei Comitati Civici nella raccolta di fondi elettorali.

Gedda, forte del placet Vaticano, si d iede a tessere una re­te di t recentomila volontar i affiancati alle 22 mila pa r roc ­chie italiane. E r i tenne sempre d 'aver avuto un ruolo deter­minan te nel successivo trionfo. «Il 18 apr i le - d ichiarò - è stata u n a bella pag ina scritta dal l ' I ta l ia cattolica, un ' I ta l ia che pe r quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della D C , ma questa fu la veste di circostanza della protagonista, l'Italia cattolica che si era andata prepa­r a n d o da a lmeno tre generazioni a questo g rande momen­to... Dovevamo svegliare il gigante addormenta to , chiarirgli le idee, spingerlo a raccogliere l ' indimenticabile appello del Vicario di Cristo.»

I dir igenti democrist iani del t empo t endono a r id imen­sionai^, se n o n a minimizzare, l 'apporto dei Comitati Civici, r i levando, come Gonella, che «la nos t ra forza veniva dalle parrocchie. . . e anche senza l ' intervento di Gedda questo ap­poggio non ci sarebbe ce r t amente venuto a mancare». An-dreott i ha riconosciuto ai Comitati Civici un contr ibuto p re ­zioso nel «portare la gente a votare», insegnare ai meno col­ti dove bisognava met t e re la croce, coniare slogans efficaci come «coniglio chi non vota», in riassunto «scuotere gli stra­ti più assonnati delia popolazione». Le sinistre, e i radical-chic che hanno in odio il 18 aprile, insistono sui risvolti su­perstiziosi e pittoreschi di quella mobilitazione e r icordano «le M a d o n n e che p iangevano e muovevano gli occhi». Ma c'era ben altro.

C 'e ra anzi tu t to i l ne t to mig l io ramen to della s i tuazione economica, dovuto insieme alla politica di r i sanamento ei-n a u d i a n a e al consis tente appogg io amer i cano . O r m a i la crescita dei salari aveva sopravanzato quella del costo della vita (rispetto al 1939 il r a p p o r t o nella p r imavera del 1948

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era di 1 a 49 p e r il costo della vita, di 1 a 51 p e r i salari). Non mancavano gli e lementi negativi, come la crescita dei disoccupati di mezzo milione d'unità, ma la gente avvertiva che l 'Italia stava economicamen te r i sorgendo . E avvertiva inoltre che questo slancio avrebbe perso ogni vigore qualo­ra l'Italia avesse votato per il Fronte.

Nel per iodo tra la metà del '47 e la metà del '48 - che ri­chiedeva u n a sa lda tura t ra gli aiut i d e l l ' U N R R A , finiti , e gli aiuti del p i ano Marshall , ancora da iniziare - Washington des t inò all ' I talia un con t r i bu to d i e m e r g e n z a d i t r ecen to milioni di dollari, essenzialmente in al imentari e medicina­li. Fu stabilito che l 'arrivo in un por to italiano di ogni cen­tesima nave di aiuti fosse celebrato con u n a cer imonia cui intervenisse il dinamico ambasciatore D u n n . I comunist i ne t rassero s p u n t o p e r accusare l 'ambasciatore di essersi tra­sformato in propagandis ta della D C : e sostennero che l'Ita­lia vendeva agli americani la sua ind ipendenza in cambio di cibo.

Ma gli italiani, che non sono sciocchi, sapevano che l 'URSS

n o n avrebbe mai voluto né po tu to fare alcunché di simile: e che se, p e r p u r a ipotesi, l'avesse fatto, la grat i tudine comu­nista p e r il generoso gesto del Paese del socialismo avrebbe di gran lunga supera to , in servilismo e piaggeria, ogni ma­nifestazione filoamericana. Dunn , - chi p u ò negarlo? - col­laborò a p e r t a m e n t e con i l gove rno , ossia con la D C . O g n i o p e r a e iniziativa finanziata dagli USA nasceva tra discorsi inneggiant i all 'amicizia i ta lo-americana e a l l 'opera del go­ve rno De Gasper i . Sarebbe stato s t rano fosse avvenuto i l contrario. L'America intera - gli i taloamericani in particola­re , ma anche gli altri - si sentiva coinvolta nella contesa elet­torale; centinaia di migliaia di americani - sollecitati da u n a c a m p a g n a insistente e intelligente - inviarono let tere a cit­tadini italiani, di loro conoscenza o non , pe r esortarli a n o n dare un voto - al Fronte - che avrebbe significato l'esclusio­ne dell ' I tal ia dal p i ano Marshal l , i l blocco a l l 'emigrazione italiana negli Stati Uniti, e anche, pe r completare la rosa dei

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castighi, la maledizione di Dio. Dove si p u ò suppo r r e che la minaccia t rascendente contasse assai m e n o di quelle concre­te e attuali.

Il Fronte, conscio del peso che la minaccia di interruzio­ne degli aiuti americani poteva avere sulle elezioni, tentò di pa ra re il colpo: e andava spiegando - a mezza bocca i comu­nisti, ammane t t a t i a Mosca che del p iano Marshall e ra ne­mica, un po ' più chiaramente i socialisti - che quand ' anche le sinistre avessero vinto, gli invii U S A sarebbero stati b e n e accettati. La contromosssa amer icana fu risoluta. Con u n a serie di dichiarazioni s e m p r e p iù p e r e n t o r i e i l governo di Wash ing ton - d i r e t t a m e n t e o a t t raverso indiscrezioni di s tampa lasciate vo lu tamen te filtrare - a m m o n ì gli i taliani: n o n pot re te , diceva in sostanza, essere nemici dell 'America e munger la nello stesso tempo. Finché venne una conferen­za s tampa in cui Michael McDermot t , alto funzionario nel D ipa r t imen to di Stato, dissipò ogni possibile equivoco. «I comunist i in Italia h a n n o sempre det to di n o n volere I ' E R P

(European Recovery Program, etichetta ufficiale del p iano Marshall, N.d.A.). Se i comunisti v inceranno - cosa che n o n possiamo c redere , conoscendo lo spirito e lo stato d ' an imo del popolo italiano - non si p o r r à più il p roblema di un 'ul ­teriore assistenza economica da par te degli Stati Uniti.»

Nel caso non bastasse, il generale Marshall in persona in­t e rvenne a Berkeley il 20 marzo 1948: «Dato che l'associa­zione al l 'ERP è comple tamente volontaria, i cittadini di ogni Paese h a n n o il dir i t to di cambiare idea e, in effetti, di riti­rarsi. Se dec idono di votare pe r m a n d a r e a l po te re un go­v e r n o nel qua le la forza polit ica d o m i n a n t e . . . ha spesso, pubbl icamente ed enfaticamente proclamato la p ropr ia osti­lità p e r ques to p r o g r a m m a , ques to voto p o t r e b b e essere giudicato solo come u n a prova del desiderio di tale Paese di dissociarsi dal p r o g r a m m a stesso. Al nostro governo n o n ri­m a r r e b b e che p r e n d e r e at to che l 'I talia si è tagliata fuori dai benefìci de l l 'ERP».

Ques te p rese di posizione furono v i tupera te dalle sini-

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stre come ricattatorie. In questa ottica tut ta la politica inter­nazionale è ricattatoria, specie nei r appo r t i bilaterali. Il ri­cat to amer i cano aveva a l m e n o u n a par t icolar i tà positiva: d o m a n d a v a al popolo italiano di decidere , con il voto, cosa dovesse essere dato , e cosa dovesse essere o t t enu to . Ai po­poli de l l 'URSS e dei satelliti questa facoltà di scelta, pe r il pia­no Marshall, era stata negata.

La strategia occidentale per influire sulle elezioni non po­teva ignorare né la ferita giuliana, tut tora sanguinante, né in generale le d u r e condizioni del trattato di pace. Agli ameri­cani si associò volonterosamente, su questo te r reno , il mini­stro degli Esteri francese Bidault, che a un certo pun to par­ve perfino disposto a restituire u n a par te dei terri tori alpini tolti mesch inamente all'Italia, e p ropose che fossero r idate all 'Italia stessa, senza condizioni, le vecchie colonie (ma qui si scontrò con un inflessibile diniego inglese). Il p e r n o delle iniziative restava comunque Trieste, dove il Terri torio libero tardava a p r e n d e r e forma, e n o n si e ra ancora arrivati alla designazione di un governa tore . Gli Occidental i t emevano t ra l 'altro - in base a r appor t i p robab i lmen te infondati dei loro diplomatici - che I ' U R S S potesse giuocare d 'ant icipo, e pronunciars i pe r un r i torno della zona A all'Italia.

Il 20 marzo (1948) Bidault s ' incontrò a Torino con Sfor­za e gli comunicò, anche a nome degli americani e degli in­glesi, u n a nota in cui si p r o p o n e v a che il Ter r i to r io l ibero tornasse sotto la sovranità italiana. Poiché era fuori discus­sione che gli iugoslavi cedessero la zona B, il passo r iguar­dava in sostanza la zona A. L 'URSS, cui la nota era anche di­ret ta , esitò a r i sponde re , e q u a n d o lo fece il suo fu un niet a p p e n a camuffato da formule giuridiche. Nenn i commentò che «i t re regalano ciò che non h a n n o (la sorte di Trieste di­p e n d e dalla Iugoslavia) e si t engono quello che h a n n o (Bri­ga, Tenda , le Colonie)». HUnità si scagliò contro il «volgare tentativo di trascinare l'Italia in un 'atmosfera di guerra». La nota t r ipar t i ta ebbe pe r i l m o m e n t o valore platonico sulla sorte di Trieste: probabi lmente n o n solo platonico sul voto.

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. y

Qualcuno - ad esempio Antonio Gambino nella sua Sto­ria del dopoguerra - ha dedicato molta a t tenzione all ' ipotesi d ' u n in tervento militare amer icano se il Fronte avesse p r e ­valso. A Washington la fiducia - pe r la verità crescente a ma­no a m a n o che il 18 aprile si avvicinava - si al ternava a fasi di pessimismo. I pronost ic i degli esper t i davano al Fron te t ra il 37 e il 45 pe r cento dei suffragi, nessuno osò prevede­re quanto sarebbe stata bassa la sua marea , coincidente con l'altissima m a r e a democris t iana. Il Dipar t imento di Stato e il Consiglio nazionale di sicurezza, organismo quest 'u l t imo che è alle d i re t te d i p e n d e n z e del Pres idente , e saminarono in diversi document i le opzioni che potevano presentarsi in vista del 18 aprile. Non mancarono opinioni drastiche e av­venturose , come quella di George Kennan , allora d i re t tore del Policy P lann ing Staff, che si d o m a n d a v a se al gove rno italiano n o n convenisse met tere fuori legge il Partito comu­nista, r i m a n d a n d o sine die le elezioni. Secondo Kennan u n a gue r r a civile, cui sarebbe seguito l ' intervento militare ame­ricano, con u n a possibile divisione dell'Italia, «sarebbe p re ­feribile a u n a vit toria e let torale (del Fronte) senza spargi­men to di sangue e senza nostra opposizione che darebbe ai comunist i l ' intera penisola e disseminerebbe il panico nelle aree circostanti». Ma il Dipar t imento di Stato annotò , a lato di questa relazione, che le idee in essa espresse e rano «poco sagge». L'autore della postilla volle probabi lmente usare un eufemismo.

Il Consiglio nazionale di sicurezza - che aveva ben p re ­senti , n o n dobb iamo diment icar lo , le esper ienze dei paesi dell'Est - stabilì, nella più d u r a tra le sue indicazioni, che in caso di dominio comunista del governo italiano «con mezzi legali» si potesse r icorrere a u n a mobilitazione parziale del­le Forze Armate americane anche r ipr is t inando la coscrizio­ne obbligatoria «come chiara indicazione della decisione de­gli Stati Uniti di oppors i all 'aggressione comunista e di p ro ­teggere la sicurezza nazionale». Era consigliato inol t re che gli U S A rafforzassero le «posizioni militari nel Mediterraneo»

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(ossia, ne deduce arbi t rar iamente Gambino, avrebbero stac­cato dall ' I tal ia la Sicilia e la Sardegna) e inol tre fornissero «ai g r u p p i clandestini anticomunist i assistenza finanziaria e militare». E evidente da questo contesto che il Consiglio na­zionale di sicurezza fondava le cont romisure sul p r e suppo ­sto che si fosse consol idato in Italia un r eg ime comuni s t a «tipico», ossia oppress ivo e in t imida to r io : tale cioè da co­str ingere gli oppositori ad agire nella clandestinità. In que­sto scenario es t remo le misure ventilate sono r imarchevol i più pe r i l loro grado di p r u d e n z a che pe r quello di interfe­renza nelle vicende italiane.

«Il Fronte vince - vota Fronte.» Questo era lo slogan p r ima­rio dell 'alleanza socialcomunista, co r reda to da al tre paro le d 'o rd ine accessorie che insistevano sulla soggezione del go­verno a forze estranee e reazionarie (gli Stati Uniti, il Vatica­no) e sulla dubbia italianità dello stesso De Gasperi il cui co­g n o m e veniva distorto in Von Gasper. L'affluenza ai comizi di sinistra e ra immensa , e i leaders p iù emotivi ne e r a n o ubriacati. Il Fronte contrapponeva il suo radioso futuro p ro ­gressista al capitalismo clericale e austriacante del governo, imputava a De Gasperi le concessioni agli imprendi tor i con l 'arr icchimento ruggen te di molti, il colpo di spugna sull'e­purazione, il t rad imento della Resistenza. Gli intellettuali s'e­rano schierati largamente con le sinistre; un appello lanciato dall'Alleanza pe r la cultura aveva raccolto quattromila firme. Molte e r ano di oppor tun is t i e conformisti i quali sapevano che se la DC avesse vinto, la loro adesione allo schieramento opposto non li avrebbe pregiudicati , men t r e se avesse vinto i l F ron te l 'averlo subito prefer i to sarebbe stato di e n o r m e vantaggio. Ma si contarono tra i firmatari anche uomini emi­nent i che in nome del laicismo e della tradizione risorgimen­tale e anticlericale finivano pe r identificare la libertà di pen­siero con le sinistre, e l 'oscurantismo con De Gasperi e i suoi alleati. Così figurarono nelle liste Ar turo Carlo Temolo, Gia­como De Benedetti , Guido Calogero, Giacomo Devoto.

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L'ottimismo dei leaders n o n e ra soltanto di man ie ra . Se­condo Nenni «le prospett ive del Fronte s tanno tra la certez­za della maggioranza relativa e la possibilità della maggio­ranza assoluta». Da un r iassunto pubbl ica to dall ' Unità la mat t ina stessa del voto risultava che tutti i «federali» comu­nisti espr imevano la fiducia in avanzate massicce, u n o scatto in avanti dall 'otto al dieci pe r cento nel Lazio e in Abruzzo, abbondan t i maggioranze assolute in Toscana, in Emilia, in Liguria, in Piemonte, forti affermazioni anche nel Sud.

A pos te r ior i Giancar lo Pajetta spiegò che i comunis t i , avendo visto che il loro appel lo «era stato accolto anche da g rupp i di socialdemocratici, di cattolici di sinistra, di r epub ­blicani, di intellettuali progressisti», e r ano convinti «di esse­re riusciti a r icreare un 'atmosfera simile a quella del CLN» e le piazze p laudent i «ci confermavano nella certezza di avere con noi la maggioranza del Paese...».

Tale era la fiducia in un successo che Togliatti e Nenn i si p o s e r o i l p r o b l e m a del la Pres idenza del Consigl io. Lelio Basso ne discusse con en t rambi e, r ievocando quei concilia­boli, r ivelò po i che secondo N e n n i i l pos to toccava senza dubbio ai socialisti, men t r e Togliatti, cauto e insinuante , ob­biet tava che in teor ia un socialista sembrava p iù indica to d ' u n comunis ta p e r occupare quel la p o l t r o n a senza allar­mare i ceti medi , ma che, essendosi Nenn i «qualificato come un estremista», forse la moderaz ione da lui stesso (Togliatti) d imos t ra ta «lo r e n d e o rma i accettabile a larghi strati della borghesia». Da altre fonti fu invece riferito che i socialcomu-nisti pensavano a un Presidente del Consiglio ind ipenden­te, o alla designazione d ' un democris t iano di sinistra come Gronchi (il che implicava evidentemente u n a sorta di «com­promesso storico» ante luterani).

Vi fu anche u n a querelle preelet torale sul compor tamento che i l C a p o dello Stato av rebbe d o v u t o t e n e r e nel caso i l Fronte avesse avuto la maggioranza relativa. I socialcomu-nisti sostennero che De Nicola fosse tenuto , come p r imo at­to, a offrire l'incarico di formare il governo a un esponente

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della formazione più forte (il p roblema sarà riaffacciato ne­gli ann i '80, q u a n d o diventerà concreta l 'eventualità di un sorpasso comunista in d a n n o della DC) . La DC era di tutt 'al­tro avviso, e affermava che in u n a repubblica pa r lamenta re non conta l 'entità numer ica del part i to più forte, ma l 'entità numer ica di u n a possibile concreta maggioranza.

De Nicola n o n rappresentava , cont ro quella che i d e m o ­crist iani e i lo ro alleati cons ide ravano un ' ins id ia poli t ica, giuridica e costituzionale, u n a b u o n a difesa, anzi. Cit iamo da l Da Vittorio Emanuele a Gronchi di D o m e n i c o Bartol i : «Nei co r r ido i r o m a n i s i diceva che De Nicola, p r i m a che fossero conosciut i i r isultati del 18 apr i le , avesse scoper to u n a sempl ice rego la a r i tmet ica p e r r isolvere i l p iù g rave p rob lema politico che si ponesse al Capo dello Stato: quella di affidare il po te re al leader de l g r u p p o p a r l a m e n t a r e p iù numeroso . . . Sembra dubb io che De Nicola potesse effetti­v a m e n t e r i c o r r e r e a ques to e s p e d i e n t e infant i le p e r n o n p r e n d e r e n e s s u n a responsabi l i tà su di sé. Ma la voce e r a insistente». Fu una voce che in definitiva giovò a De Gaspe­ri. Quest i po tè infatti p roc l amare che pe r sventare i l per i ­colo «rosso» n o n bastava fare del la DC i l pa r t i t o s ingolar­men te più forte. Bisognava da re alla sola DC un solido van­taggio sul Fronte .

Le ul t ime illusioni il Fronte le ebbe dai comizi di chiusu­ra della campagna elettorale. Per ascoltare Togliatti in Piaz­za San Giovanni , la sera di venerd ì 16 apri le affluì a Roma u n a folla oceanica. Questo politico professorale, che citava i classici e ostentava finezze da e rud i to , cedet te allora, forse pe r deliberato calcolo, forse pe r tracotanza, forse perché ec­citato dalla massa, alla volgarità che del resto in lui convive­va benissimo con la cultura. Poiché De Gasperi gli aveva rin­facciato d 'aver «come il diavolo, il p i ede forcuto» Togliatti replicò che, tentato pe r un m o m e n t o di most rare che i suoi piedi e rano normali , aveva poi cambiato idea: «Mi tengo le scarpe ai piedi, anzi ho fatto met tere ad esse d u e file di chio­di e ho deciso di applicarle a De Gasperi d o p o il 18 aprile in

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u n a pa r t e del corpo che n o n voglio nominare» . I militanti e rano in delirio. Ma d u r ò poco.

Abbiamo riassunto gli e lementi - politici, sociali, economici, emotivi - che p r e p a r a r o n o il 18 apr i le . Ma questa serie di addendi , che p u r dovevano essere illustrati, non dà la som­ma alla quale si pervenne . Sbagliava Gedda, nel suo oltran­zismo clericale, r i d u c e n d o il trionfo della DC a u n a rivalsa, se non a u n a vendetta, dell'Italia cattolica: perché la misura di quel trionfo - lo dissero i successivi r e f e r e n d u m r iguar­danti problemi che incidevano d i re t tamente sul t e r r eno del­la fede - superò di gran lunga l 'ambito del m o n d o clericale e par rocchia le e anche dei c reden t i prat icant i . Sbagliò chi vide nel risultato esclusivamente l'effetto d ' un ricatto della fame. La scelta incluse anche questi elementi . Ma fu, consa­pevolmente o inconsapevolmente , di più ampio respiro: fu - o a lmeno fu intesa - come scelta tra libertà e n o n libertà. Gli italiani sono abbastanza smaliziati pe r capire i t rucchi e gli inganni della p r o p a g a n d a politica. Ma sapevano, o senti­vano, che sotto le affermazioni e le promesse della DC v'era un solido fondo di verità.

Il «mito dell'America», la «rendita di posizione degli Stati Uniti» p e r usa re le espress ioni d i C a m b i n o , n o n e r a n o i l frutto di leggende: der ivavano da conoscenze ed esperien­ze, magari eccessivamente acritiche, ma vere. La potenza, lo sforzo di solidarietà, la democraz ia degli Stati Uniti e r ano fatti, n o n fanfaluche. Così come e r a n o percep i t i in tensa­m e n t e l 'onestà di Alcide De Gasper i , i l suo l iberal ismo di fondo, il sostanziale plural ismo della DC dove si dispiegava un arco di opinioni - quasi di ideologie - che andava dalla destra monarchica alla sinistra che sarebbe poi stata definita cat to-comunis ta : e dove n o n mancavano , già allora, espo­nent i tu t t ' a l t ro che tener i verso quella po tenza prote t t r ice

- gli Stati Uniti - che p u r e dava loro un totale appoggio. Nell'affresco elettorale democrist iano spiccavano le tona­

che dei pret i , i bigotti , le p inzòchere , i baschi blu, i baschi

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verdi, le Madonne pellegrine. Ma dietro quelle figure appa­riscenti, la vera forza stava sullo sfondo. Era la forza di chi voterà DC - svuotando gli altri part i t i modera t i o centristi -pe r salvaguardarsi da u n a sorte, politica ed economica, tipo repubblica popola re dell 'Est. I l r ag ionamento di Gedda va radicalmente rettificato, se n o n rovesciato. Non vi fu un ' I ta­lia cattolica che si rivestì di pann i democrist iani; vi fu un ' I ­talia democratica, liberale, anticomunista che rivestì - insie­me all'Italia p rop r i amen te cattolica - pann i democristiani.

Il Fronte, che attribuì poi la sconfitta ai voti delle beghi­ne analfabete , ebbe invece i l to r to di f idare t r o p p o sulla ignoranza e sprovvedutezza dell 'elettorato. Non che talune par t icolar i cri t iche dei socialcomunisti alla gest ione di De Gasper i e di E inaudi fossero i r ragionevol i . Vennero com­messi, dalla DC e dai suoi governi , in quegli ann i e ancora più negli anni successivi, e r ror i gravi: ma non fu commesso né tentato il cr imine supremo di togliere la libertà.

Il Fronte si sforzava di spiegare che, dandogl i il voto, il popolo italiano avrebbe avuto un avvenire più democratico, ma poi por tava come modello politico e sociale l 'Unione So­vietica. Questo n o n era abbell imento propagandis t ico della real tà . Era m e n z o g n a . Ment ivano gli o ra to r i del F ron te , ment ivano più di ogni altro i notabili del P C I quando , di ri­torno dai loro frequenti viaggi in URSS O nei Paesi ad essa as­soggettat i , descr ivevano le meravigl iose conquis te di que i popol i , e le condizioni di vita ideali ad essi ass icurate , in contrapposto alla miseria e alle sofferenze degli operai e dei contadini italiani.

La faziosità è ammessa, tra avversari: ma la falsità di que­sti confront i supe rava i limiti della decenza . Già si sapeva abbastanza di Stalin e dei suoi sistemi, anche se n o n tut to . La DC utilizzò quelle verità pe r screditare la campagna delle sinistre. La conseguenza fu che la p r o p a g a n d a socialcomu-nista, smante l la ta nel suo cuore ideologico, d ivenne poco credibile anche là dove era so r re t t a da b u o n e ragioni . Fu una tragedia soprat tut to pe r i socialisti. Almeno i comunisti

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recitavano il loro copione. Ma il PSI dovet te adattarsi a u n a complicità da molti sofferta: come Vittorio Foa che poi r im­pianse d 'aver dovuto , p e r dovere di mili tante, get tare «chi comunque la pensasse diversamente da noi nel campo degli imperialisti e dei rinnegati».

In un discorso elettorale il ministro del l ' In terno Sceiba ave­va avvert i to che «nel caso di violenza o di a t ten ta t i alla li­ber tà del voto, il governo è p ron to a intervenire anche du­ran te le votazioni, pe r sospenderne lo svolgimento». Il che corr ispondeva allo slogan dallo stesso Sceiba lanciato: «O vo­tano tutti, o n o n vota nessuno». Togliatti aveva polemizzato con lui so s t enendo che spet tava a l n u o v o Pa r l amen to di pronunciars i sulla regolarità delle elezioni, e che il governo n o n aveva la facoltà di intervenire m e n t r e e rano in corso. I sospetti e le accuse di d isordini , brogl i , pressioni indebi te sugli elettori, e anche di un colpo di Stato a risultati o t tenu­ti, correvano in en t rambi i campi .

Sceiba ha successivamente spiegato, in u n a conversazione con Cambino, che «era stata messa a pun to un' infrastrut tura capace di far fronte a un tentat ivo insurrez ionale comuni ­sta». A questo scopo l 'intero Paese era stato diviso in u n a se­rie di grosse circoscrizioni, comprenden t i varie province, e affidate a un funzionario, u n a sorta di prefetto regionale, ri­servatamente designato pe r assumervi la responsabilità del­l 'ordine pubblico in caso di emergenza. Il designato n o n era necessariamente il prefetto più impor tante . Poteva anche es­sere un questore che godesse dell 'assoluta fiducia di Sceiba. Inol t re , pe r impedi re che i socialcomunisti paralizzassero il sistema di comunicazioni impadronendos i dei gangli vitali, «avevamo organizzato un sistema di comunicazioni alternati­ve, servendoci come pun t i d i appoggio d ' un certo n u m e r o di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo».

Nei ranghi del Fronte (ma quasi esclusivamente tra i co­munist i) , furono adot ta te misure p e r l ' emergenza. Secchia era fatto apposta pe r p r e p a r a r e le ore X, e fu attivissimo in

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que i g iorni , con la col laborazione di Nino Seniga, vicere­sponsabile della Commissione di vigilanza. Furono verificati e rafforzati i collegamenti con ex-part igiani , furono fissate pa ro le d ' o r d i n e e sistemi di comunicaz ione . «I capi delle b r iga te pa r t ig i ane che s i sono sciolte solo t re ann i p r i m a - ha scritto Miriam Mafai - r i p r e n d o n o contat to con i loro uomini . Quello che si p r e p a r a p u ò essere un nuovo 25 apri­le: la consegna è di tenersi p ron t i ad ogni evenienza. E gli uomini dissot terrano le armi, le p r e p a r a n o e in molte zone addir i t tura to rnano ad ostentarle in segno di p r e m a t u r a vit­toria o minaccia.»

Un fratello di Pie t ro Secchia, Mat teo , a n d a v a e veniva dal l ' ambascia ta sovietica p o r t a n d o n e consigli, o rd in i , e si p u ò facilmente s u p p o r r e , anche fondi. Fu affannosa la ri­cerca di recapiti clandestini pe r i maggiorent i del P C I . Citia­mo ancora la Mafai: «Appar tament i , ville e casali vengono acquistat i , al tr i v e n g o n o affittati p e r con to del pa r t i to da p r e s t a n o m e asso lu tamente insospettabil i ( g e n e r a l m e n t e professionisti che n o n risultavano iscritti al PCI ) , altri infine vengono messi a disposizione da ignare zie, n o n n e , cugine di fedeli militanti appa r t enen t i alla b u o n a borghesia roma­na e mi lanese . Di tut t i quest i a p p a r t a m e n t i e recapit i , di città e di campagna , Nino Seniga ha u n a pianta dettagliata, n o m e del propr ie ta r io , indirizzo, telefono. Ed è lui, con gli altri compagn i della Vigilanza, a dec ide re dove d o v r a n n o rifugiarsi, nei giorni del pericolo, i dir igenti p iù autorevoli del par t i to . Va a finire che Togliatti - che in verità detesta questi spostamenti - è costretto a do rmi r e p e r alcune notti in u n a stanzetta dell ' Ist i tuto Eas tmann, in viale della Regi­na, una stanza cui poteva avere accesso solo u n o dei medici di servizio. Non d o r m o n o a casa loro, na tu ra lmen te , nem­m e n o Secchia, né L o n g o , né Scoccimarro , né D 'Onofr io . Non d o r m o n o a casa loro i segretari regionali e provinciali. I membr i della Direzione h a n n o avuto tempest ivamente as­segnato un recapi to dove, q u a l u n q u e cosa fosse accaduta , sarebbero stati al sicuro, e assieme al recapito avevano rice-

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vuto d o c u m e n t i falsi e u n a somma di d e n a r o , u n a s o m m a assai alta, sufficiente pe r uscire dal Paese se necessario o, se necessario, per r imanervi in condizioni di illegalità. I docu­ment i più impor tant i del part i to e rano già stati messi in sal­vo pe r tempo». Si p u ò ammira re la p rudenza , l 'esperienza, la disposizione alla lotta, c o m u n q u e gli fosse imposta , del Partito comunista. Ma si deve anche osservare che le cautele del PCI e rano il riflesso d 'una sua peculiare concezione della vita politica, e della conquista del potere . Secchia attribuiva agli avversari le intenzioni che egli avrebbe indubbiamente covato, se si fosse trovato al loro posto.

N e n n i n o n aveva di quest i pa temi . Attese le notizie a Gussago, presso Milano (dove votò), nella villa d ' u n amico del quale era abi tua lmente ospite q u a n d o andava nella ca­pitale l o m b a r d a . Era affranto, e a n n o t ò : «Per o ra n o n ho che un desiderio: dormire , dormire , dormire!».

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CAPITOLO DECIMO

LA VALANGA

L'Italia votò compa t t a . L'aveva già fatto il 2 g iugno 1946, q u a n d o e ra a n d a t o alle u r n e l '89 , l p e r cen to degli aventi diritto. Questa volta la percentuale fu addir i t tura del 92 pe r cento . La sera del 19 apr i le l ' o r i en tamen to del l 'e le t torato e ra o r m a i inequivocabi le . De Gasper i che , secondo i l suo u o m o di f iducia Giulio Andreo t t i , aveva at teso l'esito «in g rande tranquillità, senza t radire emozione e preoccupazio­ne», commentò asciut tamente: «Credevo che piovesse, non che grandinasse». Al Popolo de t tò u n a dichiarazione molto breve: «Sento un solo orgoglio: quello di aver avuto fiducia nel popolo italiano».

Manipolando i dati ancora parziali, V Unità tentò la matti­na del 20 di capovolgere la verità scrivendo che si delineava «uiia potente affermazione del Fronte in tutto il paese» e che il blocco delle sinistre superava, secondo le p r ime informa­zioni, la Democraz ia cristiana. Ma N e n n i r iconosceva, in quelle stesse ore: «Nessun dubbio, siamo battuti». AH*Avanti! trasmise queste istruzioni: «Reputo oppor tuno un commen­to realistico con l 'aperto riconoscimento della nostra sconfit­ta che ci lascia sereni nella coscienza di avere tentato di por­tare avanti una politica giusta. Sottolineare che abbiamo sot­tovalutato l ' influenza di t re fattori: la Chiesa, l 'America, la secessione (saragatiana, N.d.A.). Staremo coerentemente al­l 'opposizione lavorando perché le cose cambino al più p re ­sto possibile». Il giorno successivo annoterà , con u n a sorta di candore : «Come mai ci è sfuggito il senso di p a u r a al quale dobbiamo la sconfitta? Siamo d u n q u e così staccati dal Paese da non saperne più controllare i sentimenti e le opinioni?».

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I risultati definitivi d i e d e r o la misu ra della vit toria de ­mocris t iana e della sconfìtta socialcomunista. Al par t i to di De Gasperi e ra anda to il 48,5 p e r cento, cont ro il 35,2 del voto p e r la Cost i tuente ; al F ron te il 31 pe r cento con t ro il 39,7 di d u e ann i pr ima. I socialdemocratici (7,1 pe r cento) avevano o t t e n u t o , in condiz ioni diffìcili, un 'a f fe rmazione notevole. Tutte pe rden t i le altre formazioni. Quasi dimezza­ti i repubbl icani (dal 4,4 al 2,5 p e r cento) , sostanzialmente distrutta la coalizione liberal-qualunquista. L'Unione demo­cratica (ossia il par t i to liberale con la benedizione dei «gran­di vecchi» del prefascismo) aveva conquistato il 2 g iugno il 6,8 pe r cento dei suffragi, l 'Uomo Q u a l u n q u e il 5,3: totale 12,1. Questa volta dovet tero accontentarsi , insieme, del 3,8 pe r cento. La DC aveva assunto a p ieno titolo la r appresen­tanza politica dei modera t i , decre tando il declino liberale e la rapida marcia verso l'estinzione del qualunquismo.

La C a m e r a (574 deputa t i ) risultò composta da t recento democristiani,, centoventisei comunisti , c inquanta t ré sociali­sti, t r en tac inque socialdemocratici , t redici l ibera l -qualun-quisti, tredici monarchici , dieci repubblicani storici, venti tré del g r u p p o misto (tra essi c inque missini). N o n ci fossero stati i senatori di diri t to (politici prefascisti e antifascisti) la DC avrebbe conseguito la maggioranza assoluta anche in Se­nato dove si contarono , su 334 senatori, centoquarantanove democris t iani , sessantasei comunis t i , t r en t anove socialisti, ventuno socialdemocratici, undici liberal-qualunquisti , nove repubbl icani storici, ot to democrat ic i di sinistra, t r e n t u n o del g r u p p o misto. Anche pe r le preferenze De Gasperi stra­vinse: a Roma ne ebbe 285 mila contro le 97 mila di Togliat­ti e le 57 mila di Nenni .

Un'analisi del voto secondo le diverse a ree geografiche por tava a u n a conclusione certa: il F ron te aveva t enu to , e in alcuni casi perf ino g u a d a g n a t o (Roma, Napoli , Campo­basso) al sud, ma era invece franato al no rd , p rop r io là do­ve ri teneva d 'avere le sue roccheforti. V 'e ra stato un trava­so di voti n o n sol tanto dai socialisti ai socia ldemocrat ic i

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(questo poteva essere at t r ibui to allo scisma di Palazzo Bar­berini) ma anche dal Fronte alla D C , d i re t tamente . Se ne ac­corse anche Giorgio A m e n d o l a , mat i ta alla m a n o . L'Italia del vento del Nord aveva voltato le spalle all 'utopia rivolu­zionaria. Voleva lavoro, e sapeva come, e da chi, le poteva essere assicurato.

Ufficialmente il Fronte sfoderò d u e alibi pe r giustificare la disfatta: l ' interferenza straniera e i brogli. Già il 22 aprile Togliatti disse: «Affermo che quella del 18 aprile non è stata u n a l ibera consul tazione. Vi è stato, in m o d o bru ta le , l'in­tervento s t raniero pe r coar tare la volontà degli elettori. La massa in te rmedia , oscillante e pol i t icamente n o n attiva, ha subito in g r ande misura le conseguenze delle violenze, inti­midazioni e pressioni». In m e n o scoperto tono p ropagand i ­stico Rinascita sos tenne che le elezioni p e r il Pa r l amento si e r a n o t ras formate in un r e f e r e n d u m an t icomunis ta : e ne dedus se che e r a mot ivo d 'orgogl io , p e r i l F ron te , che un elettore su t re avesse rifiutato di prestarsi al giuoco. «Alcune illusioni di rapido successo sono cadute - ammise Rinascita -ma r imane nella massa lavoratrice e nelle sue avanguard ie la volontà di anda re avanti, p e r non lasciare che il Paese ca­da nel marasma economico, nella d ipendenza dallo stranie­ro , nell 'asservimento alle vecchie caste reazionarie.»

Circa un mese d o p o le elezioni, su Cronache sociali, Lelio Basso accennò, quasi enpassant, a «una serie di piccoli brogli che possono app ros s ima t ivamen te calcolarsi del l 'ent i tà complessiva di un milione di voti attribuiti alla DC». Fossero stati veri, e dimostrabili, quei brogli non e rano poi tanto pic­coli. Rappresen tavano la differenza t ra la maggioranza as­soluta e la maggioranza relativa in Par lamento. Ma p ropr io p e r i l m o d o in cui ne rivelava l 'esistenza, Basso at tes tava d 'essere il p r imo a non crederci .

Secondo a lcune tes t imonianze Togliatti , impassibile di fronte alla delusione dei militanti, e ra contento d 'aver per­so. A Franco R o d a n o avrebbe confidato: «Erano i risultati migliori che potevamo ot tenere , va bene così»; in un dibatti-

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to di par t i to preele t tora le avrebbe ostentato preoccupazio­ne in vista d ' un eventuale successo perché «se pe r combina­zione avessimo la magg io ranza alle elezioni, chi di voi sa­rebbe all 'altezza di r e g g e r e alla s i tuazione, se fate politica con il sen t imento e n o n con il calcolo?». Può darsi che To­gliatti si sia così espresso: con l ' ab i tudine , acquisita in de ­cenni di sopravvivenza staliniana, a p reparars i assicurazioni e controassicurazioni pe r ogni evenienza e svolta, alternava la boutade pa radossa le e la d iagnos i c o n t r o c o r r e n t e agli squilli di t r omba del l 'o t t imismo. Ma d e d u r n e che gli piac­que la bas tonatura politica del 18 aprile è t roppo . Anche se si r endeva conto delle difficoltà di t en ta re in Italia ciò che era stato realizzato in Cecoslovacchia, o in Polonia, o in Un­gheria, n o n poteva n o n preferire u n a trattativa da posizioni di forza.

E sicuro invece che della strategia togliattiana faceva par­te il r i d i m e n s i o n a m e n t o del Part i to socialista, cui toccò di po r t a re il maggior peso della sconfitta. Il diario di N e n n i è zeppo , nei giorni successivi al 18 apri le , di patetici lamenti pe r l 'egoismo comunista. «24 aprile... Il colpo di grazia ci è da to dal gioco delle p re fe renze che m a n d e r à alla C a m e r a m e n o di c inquanta socialisti (furono c inquanta t ré , N.d.A.) e p iù di centoventi comunist i . Così nella sconfitta del Fronte c'è la sconfitta del par t i to . Ho de t to a Sandro (Pertini) che vedo in lui l 'uomo che p u ò p r e n d e r e nelle sue mani la dire­zione pe r un r iesame generale della situazione quale si im­pone.» «25 aprile. Io sono eletto a Roma, dove vengo secon­do a distanza d o p o Togliatti, a Palermo, dove sembra sia se­c o n d o d o p o i l comuni s t a Ber t i , a Milano, dove r iusc iamo quat t ro socialisti su quattordici assai distanziati dai comuni­sti. Lelio (Basso), p e r il quale l ' appara to della Federazione ha lavorato a fondo, mi distanzia di circa t remila voti. Ciò d imos t ra che in nes suno dei t re collegi i comunis t i h a n n o votato pe r me. Ne sono lieto pe rché è la prova della mia in­d i p e n d e n z a . Essi d o v r e b b e r o esserne umil iat i c o m e della p rova del lo ro set tarismo.» «30 apr i le . Le elezioni del 18

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apri le sono state l 'ul t ima occasione p e r t en t a r e nel '48 ciò che av remmo dovuto ten tare nel '45 e cioè la scalata al po­tere.. . Sacrificare, come io ho fatto, u n a posizione personale e di par t i to all 'unità della classe operaia, pe r un socialista è un titolo d i o n o r e . Ma posso io r i f iutare d i p r e n d e r e a t to che sotto bandiera , direzione, o ispirazione comunis ta (ap­p a r e n t e o reale poco impor t a ) n o n si vince in Occidente? Possono Togliatti e gli altri dirigenti comunist i n o n p r e n d e ­re atto di questa situazione? O p p u r e tut to ciò è pe r essi sen­za impor tanza pu rché ci sia un forte Partito comunista, sal­d a m e n t e legato alle esperienze del l 'Oriente e in g rado di te­n e r e finché si p r o d u c a u n a situazione favorevole?» Alla ri­cerca disperata d 'una bussola nella tempesta, Nenn i f inì pe r t rovar la nel malinconico pessimismo longanes iano. «Letto In piedi e seduti del mio con te r raneo Leo Longanesi . E un li­b r o amaro , scettico, nichilista. U n a s t roncatura degli italia­ni. Vi si sente u n a segreta nostalgia di Mussolini e nel con­t e m p o l 'odio pe r il fascismo. Si coglie questo dato che pur ­t r o p p o è vero: gli italiani si sono riconosciuti in Mussolini finché s'è trat tato di feste, di esposizioni, di para te . Appena ha chiesto loro , con la g u e r r a , qualcosa di serio, lo h a n n o abbandona to e si sono messi a sedere.. . Se gli italiani fossero quelli descritti da Longanesi non stupisce che a t re anni dal 25 aprile vi sia stato il 18 aprile e che nel naufragio di ogni ideale di g randezza (militare con Mussolini, civile e sociale con noi) trionfino i pre t i e i modera t i , la pa r t e da cui sem­br iamo destinati a n o n guarirci mai.»

Sulle p i aghe socialiste anche i democr is t ian i b u t t a r o n o sale resp ingendo le dimissioni di deputa t i comunisti che, in base ad accordi tra Togliatti e Nenni , avrebbero dovuto es­sere sostituiti da esclusi del P S I . La Camera decise che i co­munisti restassero al loro posto e i socialisti fuori. Nonostan­te quest i dispet t i vi fu tut tavia fin d 'a l lora, da p a r t e di De Gasper i , un assai d iverso c o m p o r t a m e n t o verso N e n n i e verso Togliatti. Verso Nenn i , anche pubbl icamente , fu cor­tese. E in privato gli d imost rò simpatia e amicizia. Con To-

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gliatti s 'erano s e m p r e trat tat i f r eddamen te , ma d o p o i l 18 apr i le ge l idamen te . Alla f ig l ia Maria R o m a n a De Gasper i confidò che Togliatti n o n lo salutava n e m m e n o più, se s'in­contravano alla buvette di Montecitorio.

In pochi giorni, senza t roppi problemi, De Gasperi por tò a conclusione il r impasto del suo governo, più che mai con­vinto - secondo l 'espressione della figlia Maria Romana - di «ricollegare il p r imo al secondo Risorgimento». In famiglia egli ammise che la vi t toria del 18 apr i le d iventava , p e r la Democrazia cristiana, un impegno f in t r o p p o pesante . Para­gona to ad essa, ogni fu turo r isultato sarebbe sembra to in­soddisfacente. Nel nuovo Ministero en t rò , come vicepresi­dente , il segretario della DC Attilio Piccioni, e come ministro della Difesa Pacciardi a spese di Facchinetti. Il socialdemo­cratico Tremelloni fu incaricato di concer tare il Cir (Comi­tato interminister iale pe r la ricostruzione) con I ' E R P (piano Marshall). Le sinistre sollevarono u n a quest ione costituzio­nale di lana caprina, p r e t e n d e n d o che anche i ministri con­fermati p res tassero g i u r a m e n t o , come se i l lo ro fosse un nuovo incarico: questo perché n o n funzionavano e n o n esi­stevano, q u a n d ' e r a n o stati designati , tutti i meccanismi co­stituzionali mancando un Par lamento investito di veri pote­ri legislativi (la Cost i tuente aveva l 'unico compi to di elabo­r a r e la Cost i tuzione) . Era u n a d i quel le d i spu te b izant ine che fanno la felicità dei giuristi e avvocati p resen t i in folla nel Par lamento, ma che lasciavano indifferente De Gasperi «che anzi considerava male speso il t e m p o che vi si doveva dedicare». Alla vexata quaestio di t empo se ne dedicò comun­que parecchio, in un dibattito sulle dichiarazioni del gover­no che si distinse pe r i suoi toni accesi e a tratti tumultuosi , con scambi di invett ive e anche di p u g n i . I l p r i m o Parla­men to repubbl icano debu t tò male: e i rancor i dei socialco-munist i bat tut i si scontrarono con gli zeli clericali dei d e m o ­cristiani. Il 9 giugno socialisti e comunisti da u n a par te e de­mocristiani dall 'altra, pe r opposte ragioni eccitati da un di­scorso di Gullo del P C I , nel quale e rano state messe sotto ac-

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cusa le intromissioni della Chiesa, si cazzot tarono di santa ragione. Dopodiché si alzò nell 'aula un coro democrist iano - abbastanza i n o p p o r t u n o - di «Viva il Papa», cui si contrap­pose un «Viva il 20 settembre» delle sinistre. Del p r o g r a m ­ma e dei p rob lemi futuri , che e r a n o i m m a n i , ci si occupò molto m e n o che della cronaca e della politica elettorale re­trospettiva.

Nonostante questi strascichi virulenti d ' una battaglia che aveva diviso in d u e il Paese, De Gasper i visse allora la sua s tagione p iù felice. Aveva g r a n d e pres t ig io a l l 'es tero, im­m e n s o in Italia. Era l 'ora solare di un u o m o grigio, l 'anti-mussolini, ma n o n nel senso che Nenn i , rifacendosi a Lon­ganesi, dava all 'espressione. Per il m o m e n t o gli integralisti alla G e d d a e quelli alla Dossett i e alla La Pira - i volti di un 'a l t ra democrazia cristiana - e rano costretti ad inchinarsi al p r u d e n t e tessitore. In Vaticano si p lacarono - anche lì pe r il m o m e n t o - i sospetti: il debole De Gasperi si era rivelato s o r p r e n d e n t e m e n t e forte. L'antico suo supe r io re della Bi­blioteca Vaticana, cardinale Tisserant , gli inviò u n a let tera di congratulazioni senza dubbio lusinghiera, anche se vi tra­spar iva un cer to a t t e g g i a m e n t o p ro te t t ivo e didascalico: «Come Vescovo di u n a diocesi i tal iana posso di r le che mi aspetto assai da questa vittoria, che dovrebbe segnare n o n il te rmine di u n a battaglia contro l 'ateismo materialista marxi­sta, ma il pr incipio di u n a lunga e d u r a lotta». La crociata, più che la politica.

Al n u o v o Pa r l amen to che aveva elet to i suoi p res iden t i - Ivanoe Bonomi pe r i senatori , Giovanni Gronchi pe r i de­putat i (quest 'ultimo votato soltanto dai democristiani e solo da loro applaudi to benché avesse p ronunc ia to un discorso g r o n d a n t e ape r tu r e sociali) - spettava il compito di elegge­re il Presidente della Repubblica.

Giulio Andreott i , che alla manovra conclusa con la nomi­na di Einaudi par tecipò at t ivamente, e in p r ima persona, ne ha da to u n a vers ione edu lcora ta , o a l m e n o semplificata: i suoi ricordi sono sovente avvolti da cel lophane diplomatico.

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«L'onorevole De Nicola - ha scritto Andreo t t i - aveva più volte manifestato il fermo proposi to di non cedere alle pres­sioni p e r c h é man tenesse il mass imo ufficio. Si e r a dovu to anzi far fatica p e r i ndur lo a n o n a b b a n d o n a r e il suo posto p r i m a delle elezioni poli t iche. Ho po tu to successivamente accertare , in u n a conversazione p r o p r i o nel g iorno dei fu­nerali dell 'onorevole De Gasperi , che sulla decisione dell 'o­norevole De Nicola pesò notevolmente la convinzione che il Presidente De Gasperi preferisse altro candidato. Non so da che cosa fosse na ta ques ta sensazione, ma è certissimo che ad altra scelta De Gasperi pensò soltanto q u a n d o ebbe dalla viva voce di De Nicola il r e i t e ra to a n n u n c i o della volontà contrar ia alla rielezione... I r appor t i tra De Nicola e De Ga­speri e rano sempre stati i migliori...»

Tutto questo è vero, ma p u ò anche essere falso. Nel sen­so che De Nicola e De Gasper i , cortesi en t r ambi , sia p u r e con diverso stile, n o n e rano uomini che si abbandonassero ai litigi; e anche nel senso che l'avere dalla «viva voce di De Nicola il rei terato annuncio» d 'un rifiuto alla rielezione era la cosa più facile del m o n d o . De Nicola rifiutava sempre : e ci voleva un fine psicologo, se non u n o psicanalista, pe r co­gliere nelle umbrat i l i profondi tà di quel t e m p e r a m e n t o la sottile linea che divideva il rifiuto rifiuto dal rifiuto sempli­ce. Si p u ò se r i amen te me t t e r e in dubb io che De Gasper i spasimasse pe r r iavere insieme a sé, e sopra di sé, quel per­sonaggio intelligente e onestissimo, ma umora le , impreve­dibile, t en t ennan te . De Nicola lo tolse c o m u n q u e d ' impac­cio, formalmente , d icendo che non ne voleva sapere d ' una conferma, e r i fugiandosi nel solito buen retiro di T o r r e del Greco . Era davvero r isoluto a lasciare? Domen ico Bartol i n o n la pensa così: «I motivi di salute non e rano validi: aveva passato i settanta, ma stava bene e visse infatti ancora più di undici anni . Non si p u ò dire n e p p u r e che avesse fermamen­te deciso di n o n occupars i p iù della cosa pubblica: accettò successivamente d u e incarichi , la p res idenza del Senato e quella della Corte Costituzionale, e n o n si vede pe rché allo

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stesso m o d o n o n avrebbe dovuto accogliere con favore l'of­ferta della pres idenza più alta. In realtà il ritiro a Torre del Greco, l 'anticipato rifiuto di un 'even tua le rielezione dove­vano servire a met te re in moto l'abituale meccanismo di cla­morose insistenze, di r innovati dinieghi, di commovent i ap­pelli con l 'epilogo della r i lut tante accettazione».

De Gasperi aveva in men te un suo candidato, i l ministro degli Esteri Carlo Sforza. Sotto u n a vernice di vanità ego­centr ica , aggrava ta dall 'al tezzosità del p o r t a m e n t o e da quella barbe t ta da pochade, Sforza possedeva solide qualità di statista, e di ga lantuomo. Olt re tut to egli aveva conquista­to - o s'illudeva? - il suscettibile De Nicola, che lo riteneva, tra i papabili , il più idoneo alla successione. Molti assicura­vano d'aver visto sul tavolo di De Nicola a Palazzo Giustinia­ni u n a cartel la con l ' intestazione «per Carlo» e g iu ravano che v ' e r a n o descr i t te tu t te le fasi del t rapasso di p o t e r e e del l ' insediamento presidenziale, così come le aveva studiate i l g r a n d e p rocedur i s t a napo le t ano . A m e n o che De Nicola ostentasse la sua p red i lez ione p e r Sforza p e r c h é sapeva ch 'era egua lmente inviso alle sinistre e alle destre , e perciò vulnerabile.

Pr ima però di r ende re pubblica la candida tura di Sforza, De Gasperi volle che u n a volta di più, da Tor re del Greco, De Nicola reiterasse la sua r inuncia, ufficialmente. Gli scris­se, pe r incarico di De Gasperi , il ministro della Difesa Pac-ciardi, e gli scrisse anche Sforza sollecitando in qualche mo­do un appoggio pe r se stesso. De Nicola ribadì che «date le mie condizioni di salute» era indisponibile pe r il Quir inale , ma rifiutò anche di recarsi a Roma pe r sostenere chicches­sia ad evitare «qualsiasi censura sulla gravissima incostitu­zionalità, in ques to m o m e n t o , d i un mio in t e rven to , in q u a n t o esso stabilirebbe i l grave p r e c e d e n t e che colui che abbandona il posto designi colui che deve sostituirlo». Se ne r imase in dispar te , e n o n si fece vivo n e m m e n o pe r le con­segne al successore.

Accantonata l'ipotesi De Nicola (ma il suo n o m e r iemerse

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p r e p o t e n t e m e n t e negli scrut ini) , doveva essere po r t a t a a t e rmine l 'operazione Sforza. L'esito del 18 apri le aveva ri­mosso, secondo logica, i maggiori ostacoli che si opponeva­no alla sua nomina . La Democrazia cristiana, par t i to insie­me m o d e r a t o e antifascista, d o m i n a v a i l Pa r l amen to ; n o n avrebbero dovuto più nuocere a Sforza né il suo risoluto an­t icomunismo (Togliatti lo aveva definito un «servile mar ine americano») né il suo risoluto antifascismo.

Gli nocque , e inabissò la sua cand ida tu ra - o a lmeno vi apr ì u n a falla rovinosa - la fama di tombeur de femmes. Non solo quella na tura lmente . Si intrecciarono nell ' infortunio di De Gasperi - il p r imo d 'una lunga serie d ' infortuni dei lea-ders democris t iani nelle designazioni presidenzial i - anche motivazioni politiche. Ma la «questione morale» (o questio­ne sessuale) ebbe un peso notevole. Nelle p r ime d u e vota­zioni, in cui era richiesta - come nella terza - la maggioran­za di due terzi il grosso fu diviso, suppergiù in part i uguali , t ra De Nicola cui a n d a v a n o i voti delle sinistre e di altri g rupp i , e Sforza, con qualche res iduo a E inaudi , Bonomi , Facchinetti , Casati. Al p r i m o scrutinio (10 maggio 1948) si contarono 535 voti pe r Sforza e 396 pe r De Nicola, con una sorti ta di «franchi tiratori» t ra i democris t iani . Al secondo scrutinio Sforza sembrò avviato alla vittoria con i suoi 405 suffragi, m e n t r e De Nicola regrediva a 336, e i saragatiani s foderavano i l n o m e di Pieraccini . Secondo N e n n i a quel p u n t o «Saragat ha offerto i quaran tanove voti del suo g r u p ­po con t ro compens i in sede governat iva». De Gasper i ri­fiutò. Ma se i democr i s t i an i fossero r imast i compat t i , alla quar ta votazione - con la maggioranza semplice - Sforza sa­rebbe passato. Invece in casa democris t iana c 'era mare t ta . U n a r iun ione dei g r u p p i pa r l amenta r i rivelò a De Gasperi che Sforza sarebbe probabi lmente caduto in altre imboscate guerr ig l ie re . Ai depu ta t i e ai senatori che lo app laud ivano m e n t r e entrava nella sala dov 'era stato convocato il g r u p p o par lamenta re della D C , De Gasperi aveva det to seccamente: «Meno applausi e più voti». E poi aveva commenta to : «Que-

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sta impopo la r i t à (di Sforza) è in g r a n pa r t e il f rut to della ventennale denigrazione compiu ta dalla p r o p a g a n d a fasci­sta». Sta di fatto che La Pira (citiamo Andreott i) «si e ra det to preoccupatissimo perché Sforza aveva fama d'essere un cac­ciatore di gonnelle tu t tora in attività, analoga tesi aveva so­s tenuto presso un alto p re la to i l d i re t to re autorevolissimo di un quot idiano r o m a n o (si trattava di Missiroli, N.d.A.) so­s teni tore a r d e n t e della c a n d i d a t u r a del s ena to re Casati. Cont ro Sforza si espressero anche le depu ta te signora Lom­ba rd i e s ignora Federici». Anche secondo Andreo t t i p e r ò Sforza l 'avrebbe spun ta ta se gli avessero da to l ' appoggio i socialdemocratici, dichiaratisi contrar i a oltranza.

A t a rda sera del 10 maggio u n a r is tret ta delegazione di democr is t ian i (Piccioni, Cingolani , Andreot t i ) r agg iunse Sforza nella sua villetta di via Linneo. Furono fatti a t tendere in un salottino: e videro sulla scrivania un manoscri t to che cominciava con le parole «Onorevoli senatori, onorevoli de­putati». Con immenso imbarazzo i tre esposero la situazione a Sforza, che li mise subito a loro agio, da quel gran signore che era. «De Gasperi mi aveva offerto la candidatura e io mi r imetto comple tamente al suo giudizio. Non mi pe rdonere i mai se arrecassi a lui fastidio o disturbo. Mi ritiro senz'altro dalla compet iz ione e sono a disposizione p e r con t inua re o no la mia ope ra nel Ministero secondo quello che si r i te r rà più conveniente agli interessi del Paese. Ci mancherebbe al­tro che i personalismi pesassero in moment i come questi.»

Tramonta to Sforza, l 'alternativa era Einaudi, il cui n o m e sarebbe stato presentato ai g rupp i par lamentar i della DC alle otto del matt ino successivo ( 11 maggio) pr ima del terzo scru­tinio. De Gasperi delegò seduta stante Andreot t i a comuni­care a Einaudi la proposta democrist iana. Il vicepresidente del Consiglio viveva ancora nella residenza che gli e ra stata assegnata come governatore della Banca d'Italia, in via Tu-scolana. Ricevette l 'ambasciatore di De Gasper i alle sei e mezzo, con le p r ime luci del giorno: si disse lieto d'accettare anche se confessò che la sua zoppia gli causava qualche per-

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plessità. Temeva gli mancasse «la prestanza necessaria nelle pubbliche cer imonie, e par t icolarmente nelle riviste milita­ri». «Sono claudicante e in piedi ho bisogno di appoggiarmi al bastone con la mano destra. La sinistra sarà occupata a te­nere il cappello. Come farò a salutare bandiere e a str ingere la mano a generali e ammiragli?». Rassicurato, riaffermò la sua disponibilità. Einaudi, mari to modello, non trovò obbiet-tori tra i deputat i e senatori della D C . Con una delle sue ca­ratteristiche mosse, Togliatti avrebbe voluto, alla terza vota­zione, far convergere su Einaudi anche i voti delle sinistre, consentendone la nomina al terzo scrutinio. «Il suo proposi­to - scrisse Nenni - è stato manda to all'aria dalla faziosità dei democristiani che hanno rifiutato una sospensione di seduta pe r lasciare ai g rupp i il t empo di consultarsi. C'è stato allora un tentativo dei comunisti di uscire dall'aula in segno di p ro ­testa. Mi sono opposto e i comunisti sono rap idamente rien­trati... D'altro canto n o n c'era nessuna ragione di votare Ei­naudi che un anno fa ha recato alla svolta modera ta della DC l 'apporto della p ropr ia rispettabilità accademica e liberale.» In extremis le sinistre estrassero dalla manica il n o m e di V. E. Or lando, sperando di dividere la maggioranza. Ma al quar to scrutinio Einaudi uscì senza problemi , cinquecentodiciot to voti contro trecentoventi a V. E. Or lando.

L'indomani, a Montecitorio, Einaudi giurò e lesse il mes­saggio d ' insediamento nel quale r icordò di aver votato pe r la Monarchia nel r e fe rendum del 2 giugno 1946, «una opi­n ione radicata nella t radiz ione e nei sentimenti», ma s'im­pegnò a da re «al nuovo reg ime voluto dal popolo qualcosa di p iù di u n a m e r a adesione». I pa r l amen ta r i monarchic i , che avevano atteso l 'arrivo di Einaudi inchinandoglisi, se ne usc i rono «compos tamen te zitti ed in p u n t a di p ied i dalla por ta di destra» (Gorresio) men t r e egli giurava.

La Repubbl ica i taliana aveva la sua Cost i tuzione, il suo p r imo vero Parlamento, il suo p r imo vero Presidente: aveva soprat tut to un protagonista, Alcide De Gasperi.

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P O S C R I T T O

Gl'italiani della generazione cui appa r t engono gli autor i di ques to l ibro sono soliti definire il pe r iodo che va dal refe­r e n d u m istituzionale alle elezioni del 18 aprile come quello delle g r a n d i spe ranze . Lo fu. Ma fu anche quel lo delle grandi p a u r e e delle p r ime delusioni.

Tu t to s o m m a t o , nel conf ronto con altri Paesi d iventa t i anche senza loro colpa campi di battaglia, l'Italia se l 'era ca­vata abbastanza a b u o n mercato. Come perdi te di vite uma­ne , ne avevamo avute m e n o che nella p r i m a g u e r r a m o n ­diale, e le ferite inferteci dai bombardamen t i impallidivano di f ronte a quel le subite dagli altri Paesi bel l igerant i . Nel N o r d occupato dai tedeschi, la strafe, il castigo, annunzia to da Hitler dopo l'8 set tembre, era stato attutito dalla Repub­blica di Salò (questo è un meri to che non le si p u ò contesta­re), e nel Sud gli Alleati e rano sbarcati senza intenzioni pu­nitive. Ma la g r ande illusione, covata dalla maggioranza del­la popolazione, che l'Italia potesse trasferirsi e inserirsi nel campo dei vincitori senza paga re dazio, come se i t re ann i di g u e r r a combat tu ta , sia p u r e di malavoglia, a fianco dei tedeschi, potessero essere cancellati con un colpo di spugna, fece presto a cadere lasciandosi dietro una scia di amarezze e di rancor i , che n o n r imasero senza conseguenze sulla ri­presa politica. Pochi italiani si r e n d e v a n o conto che quello fattoci dai vincitori era un t ra t t amento di favore, e che pe r esempio la perdi ta delle colonie, dolorosa pe r i connaziona­li che vi si e r a n o trasferiti, ci l iberava da un p r o b l e m a che a l t r iment i avrebbe avvelenato tu t t a la nos t ra vita politica, come l ' Indocina e l'Algeria avvelenarono in seguito quella

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francese. L'unica vera e grave ampu taz ione fu quella delle te r re dàlmate e giuliane, che ci costò la perdi ta di città e po­polazioni fra le più civili e le più italiane. Ma era impossibile evitarla, visto il contr ibuto di sangue che gli iugoslavi aveva­no dato alla resistenza antitedesca. Era già un mezzo mira­colo che gli Alleati ci aiutassero a salvare Trieste e Gorizia. Ma più che sproporzionat i alle nos t re colpe, i sacrifici par ­vero addir i t tura u n a ingrat i tudine verso i nostri merit i resi­stenziali, che la p r o p a g a n d a comunista seguitava a gonfiare sino a far a p p a r i r e d e t e r m i n a n t e il nos t ro con t r ibu to alla vittoria finale, e poco m e n o che pleonastico quello delle ar­mate ang lo-amer icane sbarcate nella penisola . E su questi sent imenti e r isentimenti il par t i to di Togliatti poteva giuo-care - e giuoco - da pa r suo pe r trascinarci nell 'al tro cam­po, o quanto m e n o pe r distaccarci da quello alleato. Gli or­ror i dello stalinismo n o n si e r ano ancora rivelati agli occhi di molti i taliani, che li cons ide ravano fandon ie o a l m e n o esagerazioni della p r o p a g a n d a «capitalista».

L'Italia si e ra but ta ta alla ricostruzione, ma si aveva l'im­pressione che lo facesse febbrilmente, g i rando in folle, e cia­scuno pe r sé, guidato soltanto dall'istinto della sopravviven­za. Questo trionfo del «particulare» era in str idente contra­sto con le g rand i predicazioni ideologiche, tut te volte all'e­saltazione del collettivo e del comuni ta r io , e aumen tava la confusione, ma n o n al imentava le speranze . Che lo facesse pe r convinzione o pe r paura , il cosiddetto u o m o della stra­da si e ra annoda to al collo il fazzoletto rosso e «dimostrava» soltanto sotto quella band ie ra . Tra la fine del '47 e gl'inizi del '48 e rano in pochi a dubi ta re che la neo-res taura ta de­mocrazia n o n avrebbe re t to alla g r a n d e p rova elet torale e sarebbe d iven ta ta «popolare» come quel le ins t au ra te nei Paesi dell'Est piantonat i dall 'Armata Rossa.

Fu in questo clima che si svolse la p r ima vera campagna e le t tora le del d o p o g u e r r a , quel la che doveva dec ide re le sorti del Paese. Bisognava anz i tu t to far capi re agl ' i tal iani l ' importanza della posta. Ma n o n bastava. Bisognava anche

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persuader l i che pe r combat te re un blocco come quello so-cialcomunista, reso ferreo dalla disciplina del part i to di To­gliatti, occorreva un altro blocco, che si poteva costituire so­lo i n to rno a un altro par t i to di massa. E nel c a m p o d e m o ­cratico ce n 'era u n o solo che presentasse questo requisito: la Democrazia cristiana.

Per i modera t i di par te laica, fu un boccone a m a r o da in­ghiottire. Essi non avevano un gran r icordo del «Partito po­polare» di Don Sturzo, di cui la Democrazia cristiana era l'e­rede . Dopo la p r ima gue r r a mondiale , esso aveva fatto con­co r r enza ai socialisti n o n solo nel t e n e r e in agi tazione le piazze, le fabbriche e le campagne , ma anche in quel cumu­lo di e r ro r i che avevano spianato a Mussolini la via del pote­re. Non aveva mai voluto intendersi con le forze cosiddette «borghesi», ch 'e ra l 'unico m o d o p e r sbarrargliela. E la sua pat tuglia pa r l amenta re (che e ra più di un reggimento : 150 deputat i ) si e ra adope ra t a soltanto a paral izzare i fatiscenti govern i l ibera ldemocra t ic i che cercavano d i r i p o r t a r e un po ' d 'o rd ine fra le opposte fazioni rosse e nere .

Ma ora n o n c 'era scelta: solo facendo q u a d r a t o i n to rno alla bandie ra scudo-crociata, si poteva sperare di far diga al­la montan te marea socialcomunista. E così pe r la p r ima vol­ta si videro scendere in campo in suo aiuto anche i laici p iù gelosi di questa etichetta.

La Chiesa di Pio XII fece al tret tanto. E anche questo era la p r i m a volta che succedeva. Essa aveva s e m p r e avversato la costituzione di un part i to cattolico, e q u a n d o Don Sturzo aveva fondato il suo, gli aveva proibito di chiamarlo cattoli­co e di a s s u m e r n e la r a p p r e s e n t a n z a in Pa r l amen to , r iba­d e n d o n e l 'incompatibilità con la veste talare. Dopo l'instau­razione della d i t ta tura fascista, q u a n d o De Gasperi , che fa­ceva le veci di Don Sturzo, dovet te disciogliere il par t i to e cercare un posto di lavoro in Vaticano, Pio XI gli fece da re quello di bibliotecario, ma a condizione che cessasse ogni at­tività politica, e n o n volle mai r iceverlo. Il suo successore, Pio XI I , n o n abbandonò le sue prevenzioni verso il rifugia-

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to n e m m e n o q u a n d o quest i d iven tò C a p o del gove rno e della crociata an t i comunis ta . Ma schierò la Chiesa in suo aiuto.

Oggi si fanno molte ironie sulle armi ch'essa impiegò in quella battaglia: le «volanti» di frati e monache pe r converti­re al voto i renitenti , le processioni, le Madonne che piange­vano, la voce tonan te di Padre Lombard i , il «microfono di Dio». Era u n a p r o p a g a n d a che aveva rea lmente aspetti av­vilenti, da Terzo M o n d o . Ma coloro che a distanza di qua-r a n t ' a n n i ne fanno la facile car ica tura , forse d imen t i cano che ad essa devono, a lmeno in par te , la salvaguardia del di­ritto di fare caricature.

Pochi tuttavia e rano disposti a c redere che ciò bastasse a sventare il pericolo. Molto meglio organizzata, la campagna socialcomunista poteva con ta re su messinscene più d r a m ­matiche, su aduna te più «oceaniche», su cori di folla meglio orchestrat i , su slogans più efficaci. Il minis t ro deg l ' In te rn i , Sceiba, mi confidò che più si avvicinava la data del 18 apri­le, p iù cresceva la massa dei capitali fuggiti all 'estero, molto spesso seguita da coloro che li avevano esportati (ed è allora che chi scrive si persuase che il capitalismo meri terebbe de­gli uomini migliori dei capitalisti).

La p a u r a tut tavia giuoco in d u e sensi. Se da u n a p a r t e spinse alla diserzione molti di coloro che potevano permet ­tersela - e che in fondo e rano pochi -, dall 'altra fece da ma­stice alla resistenza coagulandola in torno al part i to e all 'uo­mo che ne e rano assurti a protagonisti . De Gasperi non ave­va nulla che lo qualificasse a questo ruolo . La sua ora tor ia n o n era granché e, caso mai, e ra più da aula che da piazza. Non aveva il genio degli slogans ad effetto, nei quali Nenn i era un maestro. I l suo italiano era un po ' t radot to dal tede­sco. Insomma, n o n esercitava sul podio nessun carisma. Per di più, e ra del tut to sprovvisto di quelle arti di lusinga e di seduzione che a t t i rano le simpatie degl ' intellettuali . Di co­storo, quasi tutti schierati su posizioni di sinistra, quello che gli dette l 'aiuto più sostanzioso fu il g r u p p o che faceva capo

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al sett imanale umoristico Candido di Mosca e Guareschi. So­p ra t tu t to Guareschi , sebbene laico e anticlericale, si rivelò con la sua satira efficacissimo n o n solo nel l ' in terpretare , ma anche nell 'orientare gli umor i popolar i . De Gasperi n o n fe­ce nulla pe r sollecitarne l 'appoggio, e Guareschi n o n chiese nulla pe r darglielo. I d u e uomini non e rano fatti pe r inten­dersi, e infatti s 'intesero così poco che qualche t empo dopo De Gasper i m a n d ò in ga lera Guaresch i ad epi logo d i un processo p e r diffamazione. La diffamazione c 'era. Ma avrebbe dovuto esserci anche un po ' d i g ra t i tud ine pe r un u o m o che del tut to disinteressatamente, e anche a dispetto delle p ropr ie personali allergie, aveva dato al successo della DC un contr ibuto decisivo. Il fatto è che De Gasperi n o n sa­crificava nulla ai sent imenti e alle passioni, e ra incapace di abbandonarv i s i : e lo si sentiva anche dalla sua d i s a d o r n a orator ia che n o n riscaldò mai le piazze. Ma p r o p r i o questa sua antiretorica, dopo i vent 'anni di retorica fascista, avvalo­rava l ' impress ione d i un u o m o d u r o , d i scarsa immagina ­zione, in certe cose anche un po ' ottuso, ma serio, onesto e coraggioso, che meritava la fiducia e la rendeva contagiosa.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Come per LItalia della disfatta, la pubblicistica riguardante il pe­riodo storico trattato nell'Italia della guerra civile e nell'Italia della Repubblica è sterminata. Per non affollare pagine e pagine di titoli, e per non offrire indicazioni incomplete, abbiamo deciso di rinun­ciare a una sistematica bibliografia. I riferimenti essenziali sono tuttavia indicati nel testo.

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C R O N O L O G I A

1943 - 8 s e t t e m b r e . Il marescial lo Badogl io e il gene ra l e Ei­senhower r e n d o n o noto l'armistizio firmato a Cassibile (Si­racusa) t ra il governo italiano e gli Alleati.

1943 - 9 set tembre. I sovrani e Badoglio abbandonano Roma e ri­pa rano a Brindisi. Sbarco anglo-americano a Salerno. Si co­stituisce a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

1943 - 10 se t tembre . Le t r u p p e tedesche occupano Roma. 1943 - 12 set tembre. Mussolini viene liberato a C a m p o Impera to ­

re da un c o m m a n d o di paracadutis t i tedeschi e por ta to in Germania .

1943 - 13-22 set tembre. Battaglia ed eccidio di Cefalonia. 1943 - 18 se t tembre . Da Monaco, Mussolini a n n u n c i a la costitu­

zione della Repubblica Sociale Italiana. 1943 - 13 ot tobre . Il governo Badoglio dichiara g u e r r a alla Ger­

mania. 1943 - 9 novembre . Costituzione dell 'UNRRA, creata dalle Nazioni

Uni te pe r l'assistenza alle popolazioni colpite dalla g u e r r a e p e r la r icostruzione.

1943 - 14 novembre . A Verona il Congresso del Partito fascista re­pubb l i cano a p p r o v a i 14 p u n t i p r o g r a m m a t i c i della Re­pubblica Sociale.

1943 - 23-27 n o v e m b r e . Confe renza del Ca i ro t ra Roosevelt , Churchil l e Ciang Rai-shek pe r l'assetto postbellico dell'A­sia.

1943 - 28 novembre-1 ° d icembre . Conferenza di Tehe ran t ra Sta­ti Uniti , Gran Bre tagna e URSS. Gli Alleati si i m p e g n a n o a sbarcare in Eu ropa en t ro il maggio 1944.

1 9 4 4 - 8 - 1 0 genna io . Processo d i Verona: Ciano , De Bono , Got-tardi , Pareschi e Marinelli sono condanna t i a mor te .

1944 - 22 gennaio . Sbarco ad Anzio della 5 a a rmata americana.

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1 9 4 4 - 14-15 febbraio. B o m b a r d a m e n t o al leato del l 'Abbazia d i Montecassino.

1944 - 23 marzo. A Roma, at tentato di via Rasella. 1944 - 24 marzo. Eccidio delle Fosse Ardeat ine. 1944 - 12 maggio. Le t r u p p e alleate iniziano l'offensiva contro la

linea Gustav. 1944 - 4 g iugno. Gli Alleati en t r ano in Roma. 1944 - 5 giugno. Vittorio Emanue le I I I nomina il figlio Umber to

I I Luogotenen te generale del Regno. 1944 - 6 giugno. Le forze alleate sbarcano in Normand ia . 1944 - 9 giugno. I. Bonomi è incaricato di formare un nuovo go­

verno. 1944 - 20 luglio. A Rastenburg , a t tentato cont ro Hitler, che resta

l eggermente ferito. 1 9 4 4 - 1° agosto. Inizio de l l ' insur rez ione di Varsavia, p romossa

dal governo polacco in esilio a Londra . 1944 - 25 agosto. Le forze alleate en t r ano a Parigi. 1 9 4 4 - 10 se t t embre . Inizio dell 'offensiva alleata con t ro la l inea

gotica. 1 9 4 4 - 11-16 se t t embre . Confe renza di Q u e b e c t ra Church i l l e

Roosevelt , p e r la def inizione della s t ra tegia da a d o t t a r e ne l l 'Europa occidentale.

1944 - 29-30 set tembre. Eccidio di Marzabotto. 1944 - 7 novembre . F. D. Roosevelt è rieletto Presidente degli Sta­

ti Uniti. Vicepresidente è H. T r u m a n . 1945 - 4-11 febbraio. Conferenza di Yalta. 1945 - 12 aprile. Morte del Presidente degli Stati Uniti F. D. Roo­

sevelt. Gli succede il vicepresidente H. T r u m a n . Vienna è occupata dalle t r u p p e sovietiche.

1945 - 25 aprile-25 giugno. Conferenza di San Francisco: costitu­zione del l 'ONU.

1945 - 25 apr i le . Inizio de l l ' insur rez ione par t ig iana a Milano. Il CLNAI assume i poter i civili e militari.

1945 - 27 aprile. Mussolini è catturato dai partigiani a Musso (Como). 1945 - 28 apr i le . Mussolini e Clare t ta Petacci v e n g o n o fucilati a

Giulino di Mezzegra. 1945 - 29 aprile. A Caserta le forze tedesche firmano la resa pe r il

teatro d 'operaz ione italiano. 1945 - 30 apr i le . Suicidio di Hi t le r e di Eva B r a u n nel B u n k e r

della Cancelleria.

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1945 - 2 maggio. Le t r u p p e sovietiche en t r ano a Berlino. Gòbbels e altri gerarchi nazisti si tolgono la vita.

1945 - 7-8 maggio. A Reims e a Berlino, firma della resa incondi­zionata della Germania .

1945 - 5 giugno. La Germania viene divisa in qua t t ro zone di oc­cupazione.

1945 - 12 g iugno. Dimissioni del governo Bonomi. 1945 - 19 g iugno. Costituzione del governo Parri . 1945 - 14 luglio. LItal ia dichiara gue r r a al Giappone . 1945 - 16 luglio. Esplos ione della p r i m a b o m b a a tomica sper i ­

menta le a Los Alamos (Nuovo Messico). 1945 - 17 luglio-2 agosto. Conferenza di Potsdam. 1945 - 6 agosto. Bomba atomica su Hiroshima. 1945 - 8 agosto. L'URSS dichiara g u e r r a al Giappone . 1945 - 9 agosto. Bomba atomica su Nagasaki. 1945 - 2 se t tembre . Nella r ada di Tokyo, a b o r d o della corazzata

Missouri, f irma della capitolazione del Giappone . Ha così t e rmine la seconda gue r r a mondiale .

1945 - 18 s e t t embre . De Gaspe r i e s p o n e a L o n d r a la posiz ione del governo italiano sul p rob lema di Trieste.

1945 - 13 novembre . Il generale De Gaulle viene eletto Presiden­te del governo provvisorio francese.

1945 - 20 n o v e m b r e . A N o r i m b e r g a inizia il p rocesso con t ro i principali gerarchi nazisti.

1945 - 24 novembre . Dimissioni del governo Parri . 1945 - 10 dicembre . Costituzione del governo De Gasperi . 1946 - 2-8 maggio. De Gasperi a Parigi pe r par tec ipare alla Con­

ferenza della pace. 1946 - 9 maggio. Abdicazione di Vittorio Emanue le I I I in favore

d i Umber to I I . 1946 - 2 g iugno. Re fe r endum istituzionale: vittoria della Repub­

blica. Elezioni pe r l'Assemblea Costi tuente. 1946 - 13 g iugno. U m b e r t o II lascia l'Italia. 1946 - 28 g iugno. Enrico De Nicola eletto Presidente provvisorio

della Repubblica. 1946 - 16 luglio. Costi tuzione del secondo Ministero De Gasper i

(DC, PSIUP, PCI, PRI).

1946 - 21 luglio. Inizio a Parigi della Conferenza pe r la pace. 1946 - 10 agosto. Discorso di De Gasper i alla Conferenza p e r la

pace.

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1946 - 5 se t tembre . Accordo De Gasper i -Gruber pe r l'Alto Adige. 15 se t tembre . In Bulgaria proclamazione della Repubblica popolare .

1946 - 16 d icembre . In Francia costituzione di un governo socia­lista p res ieduto da Leon Blum.

1947 - 5-15 gennaio . Viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti. 1947 - 11 gennaio . Scissione di Palazzo Barber ini : il PSIUP si divi­

de in PSI e PSLI.

1947 - 20 gennaio . Dimissioni del Ministero De Gasperi . 1947 - 3 febbraio. Costituzione del terzo Ministero De Gasperi . 1947 - 10 febbraio. A Parigi firma del t rat tato di pace tra gli Allea­

ti e l'Italia. 1947 - 12 marzo . T r u m a n espone al Congresso il suo p r o g r a m m a

di «contenimento» dell 'URSS (dottr ina T ruman) . 1947 - 13 maggio. Dimissioni del Ministero De Gasperi . 1947 - 30 maggio . Costi tuzione del qua r to Ministero De Gasper i

(monocolore DC). 1947 r- 5 g iugno. «Piano Marshall» p e r la r icostruzione economica

del l 'Europa. 1 9 4 7 - 15 agos to . P roc lamaz ione d e l l ' i n d i p e n d e n z a de l l ' Ind ia :

P. N e h r u P r i m o min i s t ro . Nascita della Repubbl ica del Pakistan.

1947 - 5 ot tobre. Costi tuzione del Cominform. 1947 - 22 d i c e m b r e . A p p r o v a z i o n e del la Cost i tuz ione del la Re­

pubblica italiana. 1947 - 28 d icembre . Mor te di Vittorio Emanue l e I I I ad Alessan­

dr ia d 'Egitto. 1947 - 30 dicembre . In Romania proclamazione della Repubblica

popolare . 1948 - 23 genna io . PCI e PSI cost i tuiscono il F ron te democra t i co

popolare . 1948 - 30 gennaio. A Nuova Delhi assassinato il maha tma Gandhi . 1948 - 17 febbraio. In Cecoslovacchia costi tuzione del Minis tero

Gottwald. 1948 - 10 marzo . A Praga, m o r t e del ministro degli Esteri J. Ma-

saryk. 1948 - 18 aprile. Elezioni politiche in Italia: g r a n d e vittoria della

Democrazia cristiana. 1948 - 11 maggio. Luigi Einaudi eletto Presidente della Repubblica.