Storia Di Moncasacco

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1 Enrico E. Clerici - Elvy Costa Appunti per una Storia di MONCASACCO Cahiers de la Malmostosa ______________________________ Moncasacco MMI

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History of Moncasacco (Caminata) near Piacenza, Italy by Enrico E. Clerici and Elvira Costa Clerici.Storia del paese di Moncasacco (comune di Caminata) in provincia di Piacenza, Italia. Autori: conte Enrico E. Clerici e Elvira Costa Clerici.

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Enrico E. Clerici - Elvy Costa

Appunti per una

Storia di MONCASACCO

Cahiers de la Malmostosa ______________________________

Moncasacco MMI

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INDICE Pag. 5 - premessa 5 - ringraziamenti 5 - abbreviazioni

Parte prima Considerazioni geografiche

9 I.- L’isola di Moncasacco 9 II.- Cenni geografici, geologici e climatici 11 III.- Il panorama che si ammira da Moncasacco 13 IV.- La flora e la fauna a Moncasacco 15 V.- Etimologia di alcuni nomi geografici

Parte seconda Notizie storiche

23 VI.- Gli abitanti i veri artefici della storia di Moncasacco 26 VII.- Moncasacco faceva parte della Rosara? 29 VIII.- Moncasacco nel Medioevo feudo dei Malvicini Fontana 32 IX.- Moncasacco terra dello Stato della Chiesa (1521-45) e del Ducato di Piacenza sotto i Farnese 34 X.- Marchesato (1650-1677) e contea (dal 1688) 42 XI.- Moncasacco terra del Regno di Sardegna dal 1743 49 XII.- Moncasacco terra dell’Impero di Francia, poi nuovamente del Regno di Sardegna in

provincia di Bobbio 51 XIII.- Moncasacco passa alla provincia di Pavia (1859-1923) 53 XIV.- Moncasacco ridiventa piacentino nel 1923 e nel 1938 ritorna alla provincia di Pavia 56 XV.- La guerra partigiana 62 XVI.- Il dopoguerra: Moncasacco ritorna alla provincia di Piacenza.- Lo spopolamento e l’arrivo

dei “milanesi” 68 XVII - L’isola di Moncasacco e il suo futuro

Parte terza Appendice

73 XVIII.- Il blasonario di Moncasacco 74 XIX.- La Chiesa 75 XX.- Le feste:

1) festa patronale (pag. 75); 2) calendimaggio (pag. 76); 3) carnevale (pag. 76); 4) la nott dì grasb (pag. 77) 77 XXI.- La casa 79 XXII.- Il corredo della sposa 79 XXIII.- Il forno 80 XXIV.- Il desinare di ogni giorno e quello della festa 82 XXV.- La stalla 83 XXVI.- La macellazione del maiale 84 XXVII.- La veglia 84 XXVIII.- La veglia funebre 85 XXIX.- Il dialetto di Moncasacco 86 XXX.- Il costume 87 - Bibliografia

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PREMESSA Nel marzo 1970 arrivammo a Moncasacco un po’ per caso e da subito lo amammo perché ci sembrò di averlo sempre conosciuto. Sarà stato il fatto che potevamo vantare l’una una bisnonna (Maria Parma) nativa di Ottone e l’altro un sacerdote (don Pietro Antonio Clerici) che fu Parroco di Soriasco dal 1707 al 1743. Per trenta anni abbiamo raccolto notizie su Moncasacco, certamente senza rigore scientifico, così come capitava… alla buona. Il materiale raccolto ci è sembrato “sufficiente” per scriverne un breve cenno storico che offriamo a tutti coloro che, come noi, sono affezionati a Moncasacco. Dalla Malmostosa in Moncasacco il 20 luglio 2001,

ENRICO E. CLERICI ed ELVY COSTA

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RINGRAZIAMENTI

Avremmo scritto ben poco senza il racconto e le precisazioni di queste persone (alcune purtroppo scomparse) : signor RINO BELLINZONA; signor GIOVANNI GANELLI; signor GIUSEPPE QUADRELLI; signor AGOSTINO CALATRONI; signor PIETRO CALATRONI; signor TINO ACHILLE; signor PRIMINO CALATRONI; signora GIUSEPPINA SCARANI in CALATRONI; signora ANNAMARIA ACHILLI in CALATRONI ; signor LIVIO CALATRONI; signor PIETRO CAI; signor QUINTINO CAI presidente della pro loco di Pometo; signor Antonio VISERTA. Un grazie alla signora CARLA CALATRONI segretaria del Comune di Caminata; alla geometra CLAUDIA CALATRONI che ci ha fornito della documentazione molto utile; allo storico commendatore VINCENZO STALTARI. Un ringraziamento particolare rivolgiamo a tutti i componenti della famiglia ACHILLE della Rossarola, che per più di un anno abbiamo “importunato” per avere notizie e precisazioni sulle vecchie tradizioni che è stato possibile “ricostruire” grazie alla “memoria storica” del signor GUIDO ACHILLE e della signora LINA REMUZZI in ACHILLE. Nella ricerca bibliografica siamo debitori a due persone ora scomparse: l’avvocato ALDOGRECO BERGAMASCHI, noto storico della Val Tidone e al ragioniere ROMEO RAZZINI che, sapendo del nostro interesse, ci segnalava articoli di storia locale. Nonostante l’autorevolezza del contributo delle molte persone citate la responsabilità degli errori e delle valutazioni è da attribuirsi unicamente agli autori.

ABBREVIAZIONI

A.C.= Archivio del Comune di Caminata; A.d.c.C.= Archivio Clerici (Moncasacco); A.S.M.= Archivio di Stato di Milano; A.S.P.= Archivio di Stato di Piacenza; A.S.T.= Archivio di Stato di Torino.

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PARTE PRIMA

Considerazioni geografiche

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I.- L’ISOLA DI MONCASACCO Moncasacco è un’isola! Certamente non un’isola in mezzo al mare, ma un’isola amministrativa perché il suo territorio è staccato dal territorio del proprio Comune (Caminata Valtidone) da una striscia di terreno della profondità di circa trecento metri, che appartiene al comune di Nibbiano.

L’isola ha la forma di un triangolo della superfice di 101 ettari1 incuneato nella Lombardia: confina a ovest col comune di Ruino (Lombardia); a nord ed est col comune di Canevino (Lombardia) e a sud col comune di Nibbiano (Emilia-Romagna).

I paesini di Moncasacco e di Canova e il casale della Mostarina di Sotto sono i centri abitati dell’isola di Moncasacco, che d’ora in poi chiameremo solo Moncasacco, il cui territorio, situato nella regione Emilia-Romagna, appartiene al Comune di Caminata Val Tidone in provincia di Piacenza. II.- CENNI GEOGRAFICI, GEOLOGICI E CLIMATICI Moncasacco è ubicato sulla linea di crinale che costituisce lo spartiacque fra la Val Tidone e la Val Versa, nella porzione appenninica a ridosso del confine delle regioni Emilia-Romagna e Lombardia.

Le coordinate geografiche2 di Moncasacco, prendendo come centro l’Oratorio, sono:

- latitudine 44° 55’ 42” - longitudine - 3° 09’ 16” (riferita al meridiano di Roma – Monte Mario) 9° 17’ 53” (riferita al meridiano di Greenwich).

Geologicamente Moncasacco si erge nella zona di formazione oligocenica-eocenica delle arenarie di Ranzano che si presentano nella veste marnoso-sabbiosa: strutture plicative sinclinaliche che per effetto di processi erosivi risultano sopraelevate rispetto alle altre formazioni. I fronti di sovrascorrimento e gli assi delle pieghe risultano orientati verso la direttrice appenninica NW-SE. Si può notare che

su ciascuna di queste prominenze boscose o nei pressi si trova un insediamento. Nell’ordine: l’abitato di Vallorsa, il castello di Rocca de’ Giorgi, la cascina Ginestre, la cascina San Silvestro, infine i paesi di Canevino e Moncasacco3.

11 Sono poco meno di un terzo dell’intera superfice del comune di Caminata che è di 317 ettari. 2 Informazione forniteci dall’Istituto Geografico Militare (Firenze) con lettera del 21 maggio 1979: A.d.c.C. 3 FABRIZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’ (Pavese, Piacentino, Tortonese), Ed. Croma (Pavia, 1996).

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Da un esame di un campione di terreno, prelevato nel dicembre 1998 in Moncasacco alta, è risultato:

da cm. 0,20 a 0,60 suolo argilloso agrario con radici e resti vegetali; da cm. 0,60 a 0,90 limi sabbiosi compatti, marne fessurate e alterate.

In un documento del 1767, che si conserva nell’Archivio di Stato di Torino, sul quale torneremo, si parla di una frana che aveva interrotto la strada nei pressi di Moncasacco. Quello delle frane è un fenomeno naturale che caratterizza tutto l’Oltrepo’ e che è

particolarmente attivo in primavera e in autunno quindi in corrispondenza dei mesi più piovosi, quando le abbondanti precipitazioni inducono importanti modificazioni nel suolo e i banchi argillosi sottostanti, riducendo l’attrito fra le due componenti e facilitando così lo smottamento4.

Il territorio di Moncasacco, che è costituito da una serie di dossi e

di valloncelli intramezzati da piccole zone pianeggianti, ha un andamento altimetrico molto movimentato perché va dai 384 metri sul livello del mare nelle vicinanze di Ca’ del Gatto ai 601 metri delle due collinette (una che sovrasta l’Oratorio e l’altra dove vi è l’acquedotto): Moncasacco centro è a 578 metri s.m., Canova è a 584 metri s.m., il casale diroccato della Mostarina di Sopra è posto a 540 metri s.m. e il casale della Mostarina di Sotto è a 451 metri s.m. Le acque che filtrano dalle terre poste sul lato sud di Moncasacco danno origine al rio Cavaglione, che è tributario del Tidone, affluente del Po, che da Moncasacco appare scorrere in un arco ad “esse” che va da Zavattarello a Caminata. Le acque che filtrano dalle terre poste sul lato nord di Moncasacco danno origine al torrente Versa che nell’ottocento il Casalis così descriveva5:

questo torrente scaturisce nei colli presso Moncasacco sui limiti del Piacentino, passa per le terre di Canevino, Montecalvo, Soriasco6, Donelasco, Montescano, taglia la via Regia a levante di Stradella e si scarica nel Po a Port’Albera.

Il clima di Moncasacco è temperato d’estate e freddo d’inverno con giornate mitigate dall’effetto benefico del Marin : un vento così chiamato perché proveniente dal Mar Ligure. Ha scritto Enrica Bellocchio7:

4 PIERMARIA GREPPI, L’Oltrepo’ Pavese collinare e montano, Greppi Editore (Piacenza, 2000), pag.- 37. 5 GOFFREDO CASALIS, Dizionario geografico-storico-statistico degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, parte relativa a Voghera, pg. 61, 1ª edizione del 1833, riedizione anastatica a cura dell’editore Arnaldo Forni (Bologna, 1972) 6 Fino al 1890 Soriasco era comune e Santa Maria della Versa frazione.

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il marin ha una forza impetuosa, arriva improvvisamente e fischiando fra i coppi e comignoli scioglie i ricami di cristallo che ornano le grondaie. Quest’aria proveniente dal mare riesce a trasformare i lastroni di ghiaccio ai bordi delle strade e i cumuli di neve indurita in acqua gocciolante.

Non sempre il marin porta benessere: spesso dal Penice porta temporale8 con nubi basse e grige, il suo soffiare qualche danno alla stagionatura dei salami lo arreca se riesce a penetrare nelle cantine.

Altri venti sono: il piacentino che spira gelido da nord-est e può durare per più giorni; il vento d’la vall che spira dalla Val Versa e porta cattivo tempo. La tramontana che spira da nord- nord ovest perde umidità nella zona alpina e arriva su Moncasacco senza nubi e permette giornate di rara limpidezza.

Sulla variabilità del tempo a Moncasacco riportiamo quanto descritto da Fabrizio Capecchi:

Mi trovavo in pieno vento, che continuava a soffiare da nord-ovest, sulla costa tra Pometo e Moncasacco. Nel giro di pochi minuti il vento era scemato. L’aria era ancora limpida, si distinguevano facilmente città e paesi in pianura. Avvertii alle spalle una folata: il vento improvvisamente aveva virato da nord est. Osservai la pianura in quella direzione e vidi un’onda di foschia grigia che avanzava veloce. In un quarto d’ora invase tutto il settore che rientrava nella fotografia. Non potei fare altro che riporre l’attrezzatura e rientrare9.

Ancor oggi è rimasta un eco della meterologia popolare in voga presso i Moncasacchesi. Un proverbio dice:” quand che ël vent tira in ver sira pia la rôca e fila; quand ël vent tira in ver matin pia la zapa e ël bõtazzìn”. Altri proverbi di contenuto meteorologico dicono: “quand piöva in sla ruzä piöva tütta la giurnä”, “quand ch’ël sôl turna indré l’acqua ghe l’uma al pè”. Si dice (ed è vero) che quando a Moncasacco ci sono le nubi basse in pianura non si trova nebbia. III.- PANORAMA CHE SI AMMIRA DA MONCASACCO Un capitoletto a parte vogliamo dedicare al panorama che si può ammirare dalle posizioni alte di Moncasacco e di Canova. Panorama costituito dalla catena degli Appennini (a sud-ovest e a sud est), mentre se ci volgiamo da ovest verso nord-est scorgiamo (a circa 175 chilometri in linea d’aria) la catena delle Alpi.

7 ENRICA BELLOCCHIO, “ il marin “ componente essenziale del clima invernale bobbiese, in La Trebbia del 21 gennaio 1999. 8 Il Penice nuvoloso è segnale di mal tempo per l’isola di Moncasacco. 9 FABRIZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’ (Pavese, Piacentino, Tortonese), ed. Croma (Pavia, 1996), pag. 60.

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La vetta che domina paesaggisticamente l’isola di Moncasacco è il Monte Penice, che al di là del Tidone si erge maestoso con i suoi 1460 metri s.m. Anche se deturpato da alcuni ripetitori della televisione, guardandolo non si può non avvertire un che di maestoso, quasi di sacro. In antico la vetta del monte Penice era luogo di culto pagano10 come testimonia il ritrovamento di una statuetta11 del I-II secolo d.C. raffigurante un sacerdote con in mano una patera12. Nel VII secolo d.C. i Monaci dell’abbazia di Bobbio sostituirono il culto pagano col culto cristiano dedicando il Monte Penice alla Madonna. Scrive il Tosi13:

dagli estimi del IX secolo ricaviamo la testimonianza dell’esistenza di un oracolo dedicato alla Madonna: esso reca il nome di «oraculum S. Mariae»14.

Da sud-est verso sud-ovest si vedono: il Monte Lazzarello, il Monte Aldone il Monte Lesima (metri 1742 s.m.), il Monte Calenzone (metri 1724 s.m.) e il profilo tripartito del Monte Vallassa.

Posando lo sguardo oltre la Val Versa appare la Valle Padana con le sue città che nelle serate chiare si manifesta illuminata da migliaia di luci.

Nelle giornate terse si distingue15 in lontananza la catena delle Alpi Marittime e Cozie con le principali cime (da ovest verso nord-est): l’Argentera, il Monviso, il Gran Paradiso, le Alpi Pennine con il Cervino, il Monte Rosa; le montagne svizzere del cantone del Vallese (lo Strahlhorn, l’Alphubel e la catena dei Mischabel), le Alpi Bernesi, le Grigne, le Alpi Retiche con l’Adamello.

Oltre a questo vi è un panorama “immediato”: si vedono il paese di Trebecco, il lago di Molato, Zavattarello col suo castello, Ruino con la sua chiesa che sembra a guardia della Val Tidone, i paesi di Pometo e di Canevino. La chiesa di Canevino è posta sul cocuzzolo di una collinetta: qualche volta emerge da un “mare” di nebbia così da sembrare la miniatura di Mont Saint-Michel16. Poco oltre si vede: il castello di Montecalvo Versiggia, che lo scrittore Carlo Alberto Pisani Dossi ricordava nelle sue “Note Azzurre”; più lontano l’imponente castello di Montalto Pavese e quello di Cicognola posto a guardia della Valle dello Scuropasso. 10 MICHELE TOSI, Santuario Millenario di Monte Penice, Edizione a cura del Santuario (Bobbio, 1980). 11 Conservata a Genova nella collezione de Albertis nel castello di Montegalletto. 12 Recipiente usato dai Romani per i sacrifici. 13 MICHELE TOSI, Bobbio, guida storica, artistica, ambientale della città e dintorni, Edizione degli Archivi Storici Bobiensi (Bobbio, 1983), pgg. 160-161. 14 La costruzione fu ampliata intorno al 1073. La Chiesa attuale risale al XVII secolo. 15 Vi è una descrizione particolareggiata nel volume di FABRZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’-pavese, piacentino, tortonese, Edizioni Croma (Pavia, 1996). 16 Alludiamo alla celebre abbazia francese.

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IV.- LA FLORA E LA FAUNA DI MONCASACCO Attualmente (scriviamo nel 2001) il paesaggio che circonda Moncasacco è caratterizzato dall’attività agricola: pochissimi sono gli “incolti”, diffusa è la coltivazione della vite (vida) , del frumento (forment) dove occhieggiano i papaveri (cônfanòn), del granoturco (mèlga), della biada (biava) oltre ad alcuni prativi. Nei boschi (bòsc) troviamo esemplari di querce (rõvër), la sangonella (sanguanei) con la quale un tempo si facevano le scope (scõva), i noccioli , la fusaggine o beretta del prete dalle curiose capsule rosse con semi arancione e il crataegus monogyma, un arbusto spinoso molto ramificato che a maggio si ricopre di fiori bianchi profumatissimi. Di primavera inoltrata le macchie giallo vivo della ginestra colorano i sentieri che frangiano i boschi e inondano di una fragranza dolcissima l’aria nelle calde serate. Il castagno è diventato raro, mentre l’olmo (olëm) è quasi scomparso a causa di una malattia apparsa intorno agli 1970-80: un tempo il suo legno durissimo era prezioso perché serviva per fare carri, gioghi, piallotti e manici degli attrezzi agricoli. La robinia pseudoacacia (rûbinia) è un acquisizione recente (inizi dell’ottocento) ed essendo un infestante si è diffusa moltissimo. Delle caprifogliace abbiamo il sambuco (sambugh) che deve il suo nome alla “sambuca” l’antico strumento musicale costruito col suo legno leggero, rallegra i nostri autunni con le drupe rosse o nere, che un tempo venivano usate per dare colore al vino o come antinevalgrico naturale. Oggi i boschi sono meno curati d’un tempo così anche le piante più vigorose diventano facile preda della vitalba (videlbör). Nel sottobosco non è raro trovare gli asparagi selvatici (besàprett) e il dittamo (erba panneina). A primavera è tutto un fiorire di primule che punteggiano di giallo tenero i prati ombreggiati. Assai diffusa è la malva che cresce spontanea e che un tempo veniva usata per tisane antinfiammatorie ed empiastri emollienti. Dalla tarda primavera fino all’inizio dell’inverno appare sia sui prati che ai bordi delle strade rustiche il taraxacum officinale utile per decotti diuretici. In estate fiorisce l’orchis purpurea dal fusto eretto con molte foglie alla base e con il fiore in spighe dal colore viola brillante. A giugno le spallette assolate sono ricoperte da un fitto tappeto di fragole (magiöstar). Nei boschi di Moncasacco dalla primavera all’autunno si possono raccogliere funghi (fönz). Molto diffusa è la colombina dorata (culumbéna o panera se bianca, buleri se rossa) Dall’estate all’autunno viene raccolta anche la mazza di tamburo (masa âd tabûran), mentre in primavera si raccoglie la morchella rotunda (spunsgnöla) e il chiodino (ciudén) usato per prepare sughi. Dall’estate all’autunno nelle radure scoperte si trovano a gruppi i prataioli

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(pradarö o fons da prà). Fra gli altri abbiamo: il gallinaccio (galinâta) che spicca nel verde col suo bel cappello carnoso di color arancione chiaro; il gelone (urgéna) aggregato alle latifoglie, che nasce sia d’autunno che di inverno, dalla buona pasta bianca e soda. La vescia (lofa ad lu) si trova di preferenza nelle faggete o sui tronchi morti ed è commestibile solo in giovane età. Da ottobre fino alla caduta della prima neve cresce spontaneo e succulento il tartufo nero (strüfel). Quando d’inverno la neve ricopre tutto e tutti, saltella da un ramo nudo all’altro, alla ricerca di cibo, l’ôslèin däl frëd grande come un pollice, e il passero invernale (passrèin). Dorme sotto i cespugli o nel cavo degli alberi il tasso (tass) e lo scoiattolo rosso (girëta rôssa) si avvicina alle case e si vedono le orme sulla neve fresca e quelle piccole e saltellanti della lepre (levör) e quelle grosse e profonde del cinghiale (gugn salvadegh). Con i primi tepori primaverili si sveglia la puzzola (gatt spuss o spussõ) che si avvicina alle corti rustiche in cerca di alimento. La notte fanno sentire il loro canto-pianto i piccoli predatori: la civetta (murit) e l’allocco (ciod) entrambi hanno un richiamo amoroso piuttosto lugubre, che in antico si considerava di malaugurio fautore di qualche magia (striozz). Non lontano dalle case abitate fanno le loro tane le volpi rosse che appaiono in gran numero durante la falciatura dell’erba. E’ facile trovare “tracce” che a seconda della stagione contengono noccioli di ciliegie o bacche di rosa selvatica (rösla salvâdga).

La voce della primavera sono le rondini che arrivano puntuali dall’Africa in numero sempre minore e ritrovano il vecchio nido volando alte nel cielo. Più in basso volteggia il pipistrello (rat sgulatèn) che ha il suo ricovero nei vecchi portici dove un tempo si conservava il fieno. Anche il batticoda (bôareina) arriva in primavera e il picchio (picõsson o catlinon) batte la corteccia degli alberi. Nelle giornate terse e ventose fa il volo a vela, fra le due valli della Versa e dello Scuropasso, la poana (pôiana) parente stretto delle aquile che ha timore delle cornacchie, ma in realtà è molto astuta: stanzia in località ricche di selvaggina e vola in picchiata sulle prede. La tortora (türdla) ha sistemato il suo nido nel bosco dell’Inferno e la si sente tortoreggiare in cerca di cibo. Finito il suo tempo parte per luoghi lontani, mentre rimane la tortora dal collare ormai da lungo tempo stanziale che contende la pastura al colombaccio. A Moncasacco hanno trovato il loro habitat ideale anche le quaglie e il fagiano così domestici da attraversare a volo radente i giardini recintati. Le trasparenze dell’inverno permettono di vedere alti sugli alberi i nidi (nid) delle gazze simili a enormi cestini. La cornacchia bianca e nera (sgasla) e la cornacchia grigio scura (berta) sono in concorrenza nella caccia con la poana e si adattano anche al rigore della stagione, quando nel silenzio si ode il loro roco verseggiare.

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V.- ETIMOLOGIA DI ALCUNI NOMI GEOGRAFICI Alcuni anni fa, il professore Dante Olivieri scriveva17:

oggi è principio incontrastato che anche i nomi di luogo riflettono in sé la storia delle vicende linguistiche di un paese.

Dal momento che non possiamo che condividere questa tesi cercheremo di indagare sull’etimologia dei principali toponimi dell’isola di Moncasacco. Moncasacco

Moncasacco, l’oggetto della nostra narrazione, in antico era chiamato18 anche Moncastracum o Montesacco o Mongasacco . Questa ultima voce è frutto dell’italianizzazione delle termine dialettale Mongasac. Certezza sull’etimologia del nome non c’è. Il dottore Pierino Boselli, noto studioso di etimologia, da noi interpellato in proposito, ci ha scritto19:

del toponimo MONCASACCO posso fare solo un’ipotesi circa la sua etimologia. Così come è oggi, il toponimo sembra composto da queste tre radici: mon “troncamento di monte”, cà “troncamento di casa” e sacco “via senza uscita”.

Potrebbe quindi Moncasacco significare “casa del monte senza uscita”. Noi guardando i due cocuzzoli che sovrastano Moncasacco abbiamo pensato a due corni di un sacco capovolto e sosteniamo che Moncasacco voglia dire “casa del monte sacco ” . Del resto in antico era anche chiamato Montesacco. Tutt’altra etimologia venne attribuita nell’ottocento da Francesco Nicolli che fece riferimento alla posizione di terra di confine20 dove prosperava il contrabbando. Scrive21 il Nicolli:

MANCASACCO o MONCASACCO = in qualsiasi maniera si legge tale nome, egli sembra derivato in odiosità delle gabelle cui ivano soggetti i sacchi di merce i quali in conseguenza venivano a ritrovarsi monchi o mancanti in una parte delle medesime.

Moncasacco non potrebbe derivare dal latino Moncastrum (= monte fortificato)?

17 DANTE OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, ed. Ceschina (Milano, 1961, 2ª edizione) pag. 7. 18 SERAFINO MAGGI-CARMEN ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella leggenda, Unione Tipografica Editrice Piacentina (Piacenza, 1967). 19 Lettera datata 25 agosto 1979 in A.d.c.C. (Moncasacco) 20 nell’ottocento nelle vicinanze di Moncasacco vi era il confine fra il Regno di Sardegna e il Ducato di Parma e Piacenza. 21 FRANCESCO NICOLLI, Dell’etimologia dei nomi di luogo degli Stati ducali di Parma, Piacenza e Guastalla (Piacenza, 1833), due volumi.

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Canova

Canova ( in dialetto Kanöva) è un paesino dell’isola di Moncasacco. L’etimologia ci dice che in origine era costituito da una “casa di nuova costruzione”, infatti in una relazione del 1767 si menziona una “cascina nuova” che sicuramente rappresentò il primo nucleo abitativo dell’attuale paese. Mostarina

un tempo vi erano due cascinali chiamati Mostarina di Sotto e Mostarina di Sopra: quest’ultimo da tempo è diroccato. Il nome Mostarina deriva probabilmente da “ most “ (= mosto) che è il prodotto della pigiatura dell’uva o dal verbo môstà (= pigiare). Bregne

strada comunale che fino al 1977 circa collegava (usiamo l’imperfetto perché una frana l’ha interrotta) Moncasacco alta con la strada provinciale che porta a Canova. Potrebbe derivare il nome dal piacentino “brugna” cioè la prugna selvatica. Alcuni invece pensano possa derivare dalla voce ligure o gallica preen (= bosco) che potrebbe significare “strada nel bosco “. Iinferno

bosco che da Moncasacco si estende verso il territorio comunale di Canevino: è chiamato Inferno (in dialetto Infèran) perché d’autunno le querce, che lo formano, prendono una colorazione rossa che ricorda l’Inferno. Raspa

nel 1747 il confine (conteso) fra il Comune di Moncasacco e il Comune di Ruino era costituito dal fosso della Raspa. In dialetto râsp significa “scabro, ruvido”, ma potrebbe significare anche “erta, salita”. Bubbiano

in dialetto Bubiàn è una località nelle vicinanze della Mostarina di Sopra. Nel milanese c’è un paese che si chiama Bubbiano: il Boselli22 scrive che la radice probabilmente è da ritrovarsi nel nome proprio Bubbius. Noi avanziamo l’ipotesi che derivi dal vocabolo latino bivium che vuol dire “punto d’incontro di due strade”. Bui

è un terreno, ora inglobato nella Malmostosa, dove un tempo c’era un pozzo. Secondo il Sertoli Salis23 Bui vorrebbe dire “buglio, fonte, sorgente, vasca, conca”. 22 PIERINO BOSELLI, Toponimi lombardi, Sugarco Edizioni (Milano, 1977), pg. 57. 23 RENEO SERTOLI SALIS, I principali toponimi in Valtellina e Val Chiavenna, dott. A. Giuffrè Editore (Milano, 1955), pg. 29.

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Versa

è il torrente che nasce nell’avvallamento fra Moncasacco e Canova. Un tempo era chiamato “Versula” o “Anversa” o “Aversa”. L’Olivieri24 dice che il toponimo significherebbe “storta” o “risolta”, mentre il Boselli25 avanza l’ipotesi che significhi “riversare ai lati, sulle sponde” con riferimento alle piene torrenziali. Tidone

è un importante affluente del Po che scorre a sud di Moncasacco. Del toponimo ne sono state fornite due etimologie26:

Da un etimo ligure trarrebbe nome il Tidone. Deriverebbe dalle voci Tid che significava “tempo” e On abbreviativo di “Avon”, acqua. Dall’unione dei due termini, risulta una parola di senso compiuto: “acqua di ore”, ossia acqua temporanea, vale a dire torrente. E’ questa appunto la natura del Tidone. Di questo nome piace però riferire una spiegazione più leggendaria, che sebbene sicuramente priva di fondamento storico, ha il calore della poesia con cui gli uomini di un tempo popolavano monti, boschi e fiumi di ninfe e di numi. L’antica leggenda ci riporta alla battaglia della Trebbia, combattuta nel 218 avanti Cristo non lungi dalle nostre terre. Apprestandosi a rinchiudere di sorpresa l’esercito romano in una morsa, Annibale, in segno di gratitudine per aver potuto varcare senza difficoltà il torrente che alle pendici del Monte Penice scende verso il Po, si sarebbe sfilato un anello dal dito e, gettandolo nella corrente avrebbe esclamato: “Te dono”, ossia “Ti dono”, da cui Tidone.

Cavaglione

in dialetto Kavaion è il torrente che nasce a sud di Moncasacco ed entra nel Tidone nei pressi di Caminata. Trattasi di toponimo frequente in Lombardia e nel Veneto che deriva da “cav”= fosso e che unito al suffisso “ion” significa “grande fosso”. Lo Chalet

villetta costruita nel 1973 dai coniugi Panelli su progetto del geometra Mario Bollati. Chalet è parola che significa “piccola costruzione turistica” la cui etimologia27 è da rintracciarsi nei “dialetti della Svizzera Romanda; diminutivo in -et di una base di partenza cala = “rientranza, riparo sotto la roccia.” Il Glicine

24 DANTE OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Ceschina editore (Milano, 1961), voce “Versa”. 25 PIERINO BOSELLI, op. cit., voce “Versa”. 26 CARLO ALBERTO FACCHINO, ANTONIO TRAZI, ENRICO BALDAZZI, Zavattarello pagine di storia e di vita, Associazione Amici di Zavattarello (Pavia, 1972), pg. 28. 27 GIACOMO DEVOTO e GIAN CARLO OLI, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader’s Digest (Milano, 1971).

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casa di proprietà Montalbano deriva il suo nome da un glicine che fu piantato intorno al 1974. L’Eden

villa costruita nel 1975 dall’avvocato Sebastiano Triscari che significa il “il paradiso terrestre” dall’ebraico28 ´Êden. La Malmostosa

casa di proprietà Clerici che deriva il suo nome dall’aggettivo del dialetto milanese “malmostos” che significa “sgraziato, malcontento”. Nell’ambito della Malmostosa è stato incorporato il terreno che gli abitanti di Moncasacco chiamavano Bui . Via dell’Oratorio

strada che dalla piazza della Chiesa porta a Moncasacco alta. Oratorio è il nome italiano per indicare una piccola chiesetta per l’appunto quella di Moncasacco. Via San Colombano

strada, indicata da un targa in marmo, che poco dopo casa Viserta al termine della via dell’Oratorio porta oltre il cancello della “Malmostosa”. Il nome della via è stato dato nel 1987 a ricordo di un miracolo, legato a San Colombano, che si verificò più di mille anni fa alle pendici del paese di Canevino. Il 17 luglio 929 d.C. era partito da Bobbio un corteo di Monaci che, in processione, doveva portare a Pavia il corpo di San Colombano. Il corteo passò29 per Arcello, Pianello, Nibbiano, Caminata, Montelungo ed il giorno 18 transitò nei pressi di Canevino, dove avvenne il miracolo. La descrizione la ricaviamo dal “Miracula S. Colombani 30”, un opuscolo di uno scrittore anonimo che probabilmente31 era un monaco del monastero di Bobbio che partecipò alla “traslazione”. Narra l’anonimo che:

un contadino del villaggio di Canevino aveva un figlio muto dalla nascita. Proprio quel giorno, egli e suo figlio si trovavano a lavorare nei campi. All’improvviso, il ragazzo, rivolto al padre, disse:«Papà, papà. c’è San Colombano!» Il genitore sorpreso e contento gli rispose: «Che vuoi, o figlio?» e quello riprese: «Non senti, papà? Arrivano i monaci che trasportano San Colombano!» Il padre, salito su di una altura, stando con orecchi ed occhi intenti, cercava di scoprire un qualche segno di ciò che aveva udito dal figlio. A lungo aspettare, di lontano, lungo il monte che si chiama Longo32, percepì voci di persone che si avvicinavano e

28 idem 29 Monsignor MICHELE TOSI, Il trasferimento di san Colombano da Bobbio a Pavia: 17-30 luglio [929], articolo in Archivium Bobiense, anno III, maggio 1981, pg. 129-150. 30 L’edizione critica fu curata da H. BRESSAU in M.G.H. SS. 3012, Lipsiae 1934. 31 TOSI, opera citata, pg. 135. 32 Il corteo proveniva da Montelungo dove il Monastero di Bobbio aveva una cella monastica e una chiesa dedicata alla Madonna.

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cantavano “Krieeleyson”. Constata la verità di ciò che aveva udito dal figlio, corse alla Chiesa per avvertire il Sacerdote. Questi all’annuncio, indossate le vesti sacre, ordinò di riempire un vaso di vino. Uscito sulla strada, per la quale sarebbero giunti, gli andò incontro. Arrivati alfine i monaci. Con modi, umili e supplici pregava il santo e narrava a tutti l’accaduto. Egli offrì da bere a tutti.

Reso grazie a Dio il corteo col corpo di San Colombano riprese il cammino per dirigersi a Pavia attraverso la Val Versa.

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PARTE SECONDA

NOTIZIE STORICHE

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VI.- GLI ABITANTI I VERI ARTEFICI DELLA STORIA DI MONCASACCO La vera storia di Moncasacco (fatta di sudore, di fatica, di fame) l’hanno certamente “fatta” i suoi abitanti (i Moncasacchesi) e non i feudatari (Malvicini Fontana e Arcelli) che a Moncasacco nulla o poco hanno investito economicamente, ma solo…«preso» quel che si poteva prendere. Del resto anche, dopo l’abolizione del feudalesimo, i governi centrali (Impero francese; Regno di Sardegna; Regno d’Italia; Repubblica italiana) ne seguirono l’esempio. Gli abitanti di Moncasacco, fino al 1960 circa , erano degli agricoltori che possedevano poca terra (qualche pertica) che coltivavano a vigna (lavorandola col solo vanghetto) o a grano (i più abbienti con l’aiuto di un paio di buoi, gli altri aggiogavano le vacche). Quando il tempo era stato inclemente (siccità, gelate, grandinate, ecc.) significava un inverno di “fame nera”. Le case dei Moncasacchesi erano modeste: una stanza al piano terra; una stanza al piano superiore collegata da una ripida scala di legno a pioli. Le case dei più ricchi dall’ottocento ebbero anche il solaio. Case di questo tipo erano le case di Moncasacco alta (ora Viserta, Di Silvio, Bianchi, Montalbano). L’acqua, non essendoci un acquedotto, si doveva andare a prenderla “a l’Infèran” cioè ad una sorgente nel bosco dell’Inferno e in alcuni pozzi: se ne possono vedere ancor oggi uno all’esterno di casa Farina e un altro (ora diroccato) detto “põzz dell’albra” lungo la strada per andare verso il bosco delle castagne. Un altro pozzo si trovava nel Bui (ora terreno della Malmostosa), scomparso in seguito ad una frana. Le donne il bucato lo facevano in alcune risorgive del Bubbiano Per risparmiare la legna nei mesi freddi i Moncasacchesi passavano le serate nelle stalle facendo la così detta “veglia”. Fino al 1950 circa vi era a Moncasacco un’osteria-privativa gestita da ultimo dalla signora Giuseppina Calatroni. Questa osteria esisteva già nel seicento, come troviamo nell’atto di infeudazione del 1688. L’osteria costituì per secoli uno dei pochi svaghi di un paese che d’inverno era “quasi” isolato perché le strade, per il gran fango (malta), erano spesso impraticabili. Come tutte le terre di confine, Moncasacco visse anche di contrabbando, attività che cesserà solamente nel 1859 quando il Regno di Sardegna, al quale Moncasacco apparteneva dal 1743, incorporò il vicino Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Nel XVI secolo gli abitanti di Moncasacco erano individuati col solo nome di battesimo. In un documento del 1537, conservato nell’Archivio di

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Stato di Milano33, alcuni Moncasacchesi che possedevano terre in comune di Canevino erano individuati col nome di battesimo seguito dalla dizione “da Moncasacho” o “da Moncasaco”. I cognomi fecero a Moncasacco la comparsa qualche decennio dopo. Nell’agosto 1688 abitavano34 a Moncasacco queste famiglie: BERINZONA35, CHIAPPINO, DALL’OCCHIO, DA PIAZZO, JANVELLA, MOLINARO, MONTEMARTINO, NONINO, PISANO, ZUFFADA. Qualche anno più tardi, cioè nel 1718, abitavano36 a Moncasacco le famiglie: ALESSI, BELLINZONA, BORGOGNONI, CALATRONE, CHIAPPINI, DELLA COLOMBA, DALL’OCCHIO, DA PIAGGIO, FARANELLI, FASOLI, MARTINONI, MOLINARI, PISANI, PISANO, ZANARDA, ZUFFADA. A Moncasacco nel 1687 c’erano 19 fuochi che equivalevano a più di un centinaio di persone; nella prima metà dell’ottocento il Molossi scrisse che c’erano a Moncasacco centotrenta abitanti. Dati più precisi sul numero degli abitanti li abbiamo dal 1871 grazie ai censimenti che prima il Regno d’Italia e poi la Repubblica italiana indissero. L’ISTAT (Istituto Centrale di Statistica) ci ha comunicato i dati dei vari censimenti: 1861 il dato non si può ricavare perché confuso con altri del Comune di Caminata. Secondo il censimento gli abitanti del comune di Caminata erano 627 (326 uomini e 301 donne). 1871 l’isola di Moncasacco aveva 126 abitanti così suddivisi:

- 87 a Moncasacco - 39 a Canova e alle Mostarine

1881 l’isola aveva 129 abitanti così suddivisi:

- 112 a Moncasacco-Canova - 14 alle Mostarine - 3 assenti

1901 gli abitanti dell’isola erano 143 così suddivisi:

- 130 a Moncasacco – Canova 33 A.S.M., sezione censo – parte antica – cartella 263. 34 Dall’atto di infeudazione del 1688. Ci siamo serviti della copia conservata in A.S.T. 35 probabilmente Bellinzona. 36 A.S.T.

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- 13 alle Mostarine 1911 Il dato del censimento comprende il numero degli abitanti dell’isola (148) e quello delle famiglie (30) così distribuiti:

- a Moncasacco – Canova 118 abitanti (suddivisi in 27 famiglie); - alle Mostarine 15 abitanti (suddivisi in 3 famiglie); - 15 abitanti risultavano temporaneamente assenti

1921 Gli abitanti dell’isola erano 155 di cui 5 temporaneamente assenti. Le famiglie erano 27. 1931 Gli abitanti dell’isola erano 150 così suddivisi:

- 136 a Moncasacco- Canova - 14 alle Mostarine

1936 Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano138 di cui :

- 78 a Moncasacco - 60 in case sparse (Canova e Mostarina).

193837 Gli abitanti dell’isola erano 137

1951 Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 93 di cui:

- 32 a Moncasacco - 54 a Canova - 7 in case sparse (Mostarina)

1961 Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 67 di cui:

- 23 a Moncasacco - 40 a Canova - 4 in case sparse ( Mostarina di Sotto)

1971 Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 47 di cui:

- 7 a Moncasacco - 37 a Canova

37 dato rilevato nell’atto di aggregazione di Moncasacco al comune di Pometo-Ruino.

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- 3 in case sparse (Mostarina di Sotto) 1981 gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 42 di cui:

- 5 a Moncasacco - 35 a Canova - 2 alla Mostarina di Sotto

I dati dei censimenti dimostrano che lo spopolamento, che si verificò dopo la seconda guerra mondiale, fu più marcato a Moncasacco che a Canova. A cominciare dal 1970 le case disabitate dell’isola di Moncasacco vennero poste in vendita (il fenomeno fu rilevante soprattutto nella capitale dell’isola): “abboccarono” delle famiglie che cercavano una seconda casa per avere un motivo plausibile per uscire il sabato e la domenica dalla città. Le statistiche non censiscono i “dimoranti” così non è dato sapere quanti abitanti abbia l’isola di Moncasacco nel fine settimana. Nell’elenco telefonico (aggiornato al 30 ottobre 1998), le Famiglie (sia residenti che dimoranti) abbonate al telefono risultavano essere: BELLINZONA, BENVENUTI, BOSONI, CALATRONI, CHIESA, CLERICI, D’AYALA VALVA, FOLCINI, GANELLI, GRACI, MONTALBANO, PIROSCIA, SANTUCCI, TRISCARI, VALENTINO, VISERTA, VOMOZZI, ZUFFADA. Nel 1998 c’erano anche le famiglie: BIANCHI, ANGUISSOLA, DI SILVIO, ROSSI, MILANI, FARINA. Nel 2001 vi sono stati nuovi arrivi: significativo quello del giornalista e storico Giorgio Boatti autore fra l’altro del libro: “Preferirei di no ”, edito nel 2001 da Einaudi. VII.- MONCASACCO FACEVA PARTE DELLA ROSARA? Dobbiamo iniziare la storia di Moncasacco col riferire ed analizzare una leggenda che intorno al periodo 1970-75 ci fu raccontata grosso modo così: Moncasacco in antico era una città che fu distrutta da un terremoto. Sulle prime non prestammo al racconto l’attenzione dovuta: qualche dubbio ci venne in seguito perché ci accorgemmo che la leggenda veniva raccontata in vari paesi della Val Tidone (Caminata, Pianello, Corano) e della Val Versa (Santa Maria della Versa, Castana). Col tempo acquisimmo due altri elementi: la distruzione doveva essere avvenuta a cavallo fra il II e il III secolo d.C. e la “città” si chiamava Rosara (in dialetto Rosera ). Qualcosa di vero ci potrebbe essere. A Moncasacco alta nel dicembre 1998, facendo uno scavo per un garage, vennero alla luce alcuni frammenti di materiale di ferro che “sembrerebbero” accreditare l’esistenza di una antica

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fornace. Che ci fosse un castelliere? Dove? Dove c’è l’acquedotto o dove sorge dal 1976 la Malmostosa? Per ora sono domande senza risposta. Poco distante da Moncasacco alcuni anni fa affiorarono dei reperti di interesse archeologico e l’avvocato Aldo Greco Bergamaschi scrisse38

in località «Monte Pioggia» (a quota 592 s.m.) sita in Stadera, frazione del comune di Nibbiano, da testimoni oculari si conferma l’esistenza di affioramenti, tracce murarie di un’antica fortificazione dominante la via di comunicazione che (in epoca romana) risalendo la Val Tidone si dirigeva a Libarna.

A Caminata Val Tidone si trovarono diverse testimonianze della presenza romana. Scrisse sempre Aldo Greco Bergamaschi39 che si scoprirono:

anfore, tavelloni, embrici romani, i resti di un edificio da identificarsi presumibilmente con una fornace, situato sulla via sinistra del Tidone nella confluenza del torrente Cavaglione col Tidone stesso.

Presenza di vestigia romane si sono trovate anche in Val Versa40. Sul muro della Chiesa di Volpara si trova una lapide sepolcrale pagana, del secondo secolo dopo Cristo, che reca sul timpano la mitica Gorgona41.

Baruffi e Lonati gli autori di una bella storia di Santa Maria della Versa nell’esaminare la leggenda sostengono che la Rosara più che una città vera e propria poteva essere

un vasto susseguirsi di nuclei insediativi, tanto esteso da essere definito città.

In quest’ottica può essere credibile che anche Moncasacco facesse parte della Rosara, ma che cosa voleva dire Rosara? Ancora una volta lasciamo la parola ai due autori Baruffi e Lonati42:

innanzitutto bisogna prendere in considerazione la voce dialettale (Rusèra) e non quella italianizzata del termine. Infatti Rosara traduce Rusèra e la radice Rus è sicuramente riconducibile al sostantivo latino rus -uris = campagna. Risulta pertanto molto probabile che, nel latino volgarizzato ultrapadano, sia avvenuta un’aggettivazione di tale sostantivo in Rusara. In seguito attraverso il corso dei secoli, si verificò l’ultimo passo, cioè una modifica fonetica con sostituzione di vocale (in piacentino la lettera “e” prevale sulla “a”) determinata da influssi

38 ALDO GRECO BERGAMASCHI, La Val Tidone dalla preistoria alla romanità, in studi raccolti in occasione del Convegno Storico tenuto a Pianello V.T. a cura della sezione di Piacenza della Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, estratto dell’Archivio Storico Parmense 1964 (Parma 1966) dal titolo “La Val Tidone “. L’articolo citato a pg. 12. 39 BERGAMASCHI, idem, pag. 12-13. 40 G. BARUFFI- C. LANATI, S. Maria della Versa e il suo territorio, Luigi Porzio e figlio Editori in Pavia, pg. 27-42. 41Viaggio nei luoghi del Vicariato di Val Versa, articolo in “Il Popolo” dell’11 dicembre 1998. 42 Idem pag. 32.

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linguistici locali, che produssero il noto Rusèra, italianizzazione avvenuta in Rosara.

La Rosara, quindi, più che una città, sarà stata una terra molto popolata che subì, intorno al secolo II e III d. C., uno spopolamento repentino. Una Rosara che si trovava vicino a Pianello arrivò fino al 1244 d.C. e fu distrutta dalle truppe imperiali. Certamente non è la Rosara alla quale presumiamo facesse parte Moncasacco. Scrive il Molossi43 che

un quarto di miglio all’E, S-E dalla borgata (n.aa. Pianello) è un luogo denominato le Campagne, lagrimevol sepolcro di un paese antichissimo, dalla tradizione ricordatoci col nome di Rosara, e che dalle immani soldatesche di Federico II o del re Enzo suo figlio, siccome altri deliziosi luoghi della Valtidone, dannato al ferro e al fuoco dell’anno 1244.

Diverse possono essere le cause che portarono alla distruzione, fra il II e il III secolo d.C., della Rosara alla quale apparteneva Moncasacco. Escludiamo possa essersi trattato di un’eruzione vulcanica anche se ancora agli inizi del milleottocento, nelle vicinanze di Cicogni, si poteva vedere il cratere di un vulcano spento. Il Molossi scrive testualmente44:

quasi 2 migl(ia) e ½ al S.O. di Cicogni e sulla linea di detto confine, è Praticchia, villetta di pochi fuochi, nelle cui vicinanze vedesi il cratere di un vulcano estinto. Vuolsi che sienvi memorie scritte di un’irruzione di lava, in tempo ch’esso vulcano ardeva.

L’eruzione avrebbe dovuto essere di tale portata da fare della Rosara un’altra Ercolano o Pompei, ma non ce n’è giunta notizia alcuna. Probabilmente la distruzione avvenne a causa di un terremoto, la vicina zona di Varzi è sismica: questa ipotesi sarebbe in linea con quanto si raccontava. Che la Rosara fosse stata distrutta da un’invasione potrebbe essere la terza ipotesi. Che si trattasse dei Biturigi45? Come siano andate realmente le cose non ci è dato sapere: è rimasto solamente il ricordo in una leggenda che i giovani ignorano e che per noi un qualche fondamento di verità lo potrebbe avere. Fra qualche anno di questa leggenda e di altre se ne perderà la memoria impoverendo il patrimonio culturale di Moncasacco e dell’Oltrepo.

43 LORENZO MOLOSSI, Vocabolario Topografico dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, edito a Parma nel 1832 dalla Tipografia Ducale, sotto la voce Pianello pgg. 409-410. 44 MOLOSSI, op. cit. 45 ipotesi avanzata nella già citata Storia di Santamaria, pg. 36.

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VIII.- MONCASACCO NEL MEDIOEVO FEUDO DEI MALVICINI FONTANA Nel IX secolo dopo Cristo il paese di San Sinforiano (l’attuale Caminata Val Tidone) faceva parte dei beni fondiari dell’abbazia di Bobbio46. Ignoriamo se al Monastero appartenesse anche il territorio di Moncasacco. Di sicuro sappiamo che intorno al XIII secolo Moncasacco si trovava in una zona che il Comune di Piacenza considerava vitale per la difesa del suo territorio e che con la forza aveva sottratto all’egida politica del Vescovo di Bobbio, che era subentrato all’Abbazia. Per arginare l’espansionismo pavese47 verso la Val Tidone, Piacenza aveva favorito la costruzione di castelli che aveva affidato a famiglie guerriere a lei fedeli. Moncasacco nell’orbita piacentina era circondato da castelli e case-forte, alcuni di questi edifici militari si possono ancora vedere, mentre di altri abbiamo solo notizia.

Proprio di fronte a Moncasacco c’è (in linea d’aria: quattrocento metri) Monte Piogg ia 48 sulla cui sommità vi era un castello che apparteneva al Comune di Piacenza. Nel 1283 Ubertino Landi, Signore di Zavattarello, con i suoi uomini assalì ed espugnò il castello che riuscì a tenere solo per pochi giorni: i Piacentini lo ripresero con le armi perché lo consideravano di grande importanza strategica.

A Torre Gandini 49, paese posto sulla strada che collega Nibbiano a Stadera, si erge una torre costruita sul confine del Piacentino per impedire ai Pavesi infiltrazioni dalla Val Versa. Più lontano, oltre il Tidone, a Trebec co ci sono i ruderi di un castello50 già esistente nel 1029 d.C. menzionato come “castrum de Durobecho “. Stando al cronista Codagnello il castello, che era stato distrutto, nel 1180 fu ricostruito dal Comune di Piacenza perché i Piacentini lo consideravano un baluardo per arginare l’espansionismo dei Malaspina. Nel 1207 il Castello passò sotto il monastero bobbiese di San Colombano e poi alla Mensa Vescovile di Bobbio.

46 La descrizione era stata voluta dall’abate Wala. Cfr. ALDOGRECO BERGAMASCHI, Toponimi valtidonesi nelle Carte del Monastero di S. Colombano in Bobbio in fascicolo Bobbio e la Valtrebbia (Piacenza, 1963), pag. 20-26. 47 FLAVIO FAGNANI, Rovescala nei secoli bui: dal «vicus» al «castrum» , studio apparso nel volume di AA.VV., Rovescala (1192-1992), a cura del Comune di Rovescala (Azzate, 1992), pag. 43. 48 alcuni lo chiamano Monte Poggio. In un documento del 1203 è menzionato come “Mons Pioglosi” Notizie si possono trovare in CARMEN ARTOCCHINI, Castelli piacentini, Edizioni TEP (Piacenza, 1983),voce “Stadera (Nibbiano)”, pg.114. 49 ARTOCCHINI, idem, voce “Torre Gandini (Nibbiano)”. 50 ARTOCCHINI, idem, “Trebecco (Nibbiano)”, pgg. 114-118.

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A Zavat tare l l o 51 c’era il castello che nel X secolo era stato fatto costruire dal Monastero di Sant’Ambrogio di Milano. Nel 1327 era divenuto feudo di Manfredi Landi, dopo essere stato conteso fra Piacenza e Bobbio.

A Ruino c’era un castello costruito dai Da Ruino, che erano stati infeudati dal Monastero di Bobbio.

Da Moncasacco alta si vede il tetto del castello di Montù Berchie l l i ,

che i Belcredi avevano fatto costruire nel secolo XII, il castello di Ste fanag o e il castello di Montecalvo Vers igg ia , che facevano parte del sistema difensivo della Val Versa con i castelli di Rocca degli Aymorici52 (l’attuale Rocca de’ Giorgi), di Montalto53 e di Cicognola..

Nel 1355 l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo aveva concesso a Dondazio Malvicini Fontana la Signoria su Castel San Giovanni e su la Valtidone. Nello stesso anno, forte della concessione imperiale, Dondazio Malvicini occupò il Castello di Monte Pioggia, Torre Gandini, Trebecco ed anche il fortilizio54 di Moncasacco che costituiva sul confine piacentino un vero avamposto verso la Lombardia. La politica espansionistica di Dondazio Malvicini Fontana, alleatosi con i Beccaria e col marchese di Monferrato, non piacque ai Visconti che occuparono Moncasacco. I Beccaria, la potente famiglia che signoreggiava su Pavia e l’Oltrepo’, dopo aver respinto (aprile 1356) l’esercito di Galeazzo II Visconti, che voleva impossessarsi di Arena Po55, fecero un’incursione nell’alta Val Versa: assalirono il castello di Moncasacco che bruciarono con le poche case che costituivano il paese. Non immaginiamoci niente di molto epico! Probabilmente a guardia e difesa del castello e del paese i Visconti vi avranno posto una decina di persone che, davanti a una “masnada” più numerosa, avranno potuto fare ben poco. Poi le truppe dei Beccaria avranno appiccato il fuoco e con la mancanza d’acqua che c’era non sarà stato possibile spegnere l’incendio. Per questa “sortita” i Beccaria la pagarono cara: dopo la vittoria, nella battaglia di

51 FLAVIO CONTI - VINCENZO HYBSCH - ANTONELLO VINCENTI, I Castelli della Lombardia (Province di Milano e Pavia), Istituto geografico De Agostini (Novara, 1990), pg. 187.- CARLO ALBERTO FACCHINO-ANTONIO TRAZI-ENRICO BALDAZZI, Zavattarello- pagine di Storia e di vita, Associazione Amici di Zavattarello- Pro Loco editore (Pavia, 1972). 52 Detta anche Rocha Campixanis 53 oggi si vede il grande palazzo costruito nel 1594. 54 Sul castello di Moncasacco si possono consultare questi volumi: (1) GIUSEPPE FONTANELLA, La Valtidone (guida turistica e compendio di notizie sulla storia, geografia, economia della vallata)Lions Club (Castel San Giovanni, 1970), voce “Caminata”, pg. 76.- (2) SERAFINO MAGGI-CARMEN ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella leggenda, Unione Tipografica Editrice Piacentina (Piacenza, 1967). 55 FLAVIO FAGNANI, Origine e sviluppi della Signoria dei Beccaria su Arena Po,Articolo in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, XLII (Pavia, 1990), pag. 84.

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Casorate (12 novembre 1356) Bernabò Visconti, come ha scritto lo Scarabelli56,

per vendicarsi de’ Beccaria che gli avevano arso Moncasacco di qua dal Po (Mocastracum), li fece espellere da Pavia.

Il paese ed il castello furono ricostruiti. Oggi l’edificio del castello, proprietà dei marchesi Anguissola, ha più l’aspetto di una casa colonica che del castello! I Malvicini Fontana si misero d’accordo con i Visconti57 così nell’ambito dello Stato visconteo e poi sforzesco ebbero la signoria sui feudi di Nibbiano, Vicobarone, Moncasacco e Campremoldo. Si trattava di un ampio territorio feudale che confinava con gli Stati Vermeschi, cioè di quel complesso di feudi che erano sotto la Signoria dei Dal Verme. Ancor oggi nel patrimonio araldico58 della nobile casata ne è rimasto il ricordo: conte di Bobbio con Corte Brugnatella e Romagnese, Signore di Zavattarello, Ruino, Trebecco e Caminata. Avere la signoria sul feudo di Moncasacco non voleva dire essere i proprietari del suo territorio (cioè delle case e dei terreni), significava invece esercitare la potestas, cioè il potere diretto, sugli uomini liberi che vi abitavano59 e possedevano beni. In soldoni, i Visconti (poi gli Sforza) erano i Duchi di Milano nel cui territorio c’era anche Moncasacco; i Malvicini Fontana, come feudatari di Moncasacco, avevano diritto di “spremere” con tasse i Moncasacchesi, di imporre corvées, di amministrare la giustizia.. Nel Medioevo60 poco distante da Moncasacco, lungo la via della Costa61, passavano diversi pellegrini diretti al mare per andare in Terra Santa o a Bobbio. Ci piace pensare (è solo un’ipotesi!) che qualcuno di questi pellegrini sia passato, facendo una variante, da Moncasacco con lo scopo di visitare il santuario di Montelungo62.

56 LUCIANO SCARABELLI, Istoria civile dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, 1ª edizione stampata nel 1846 e pubblicata nel 1858; riedizione anastatica Arnaldo Forni Editore (Sala Bolognese, 1989), volume II, pag. 108. 57 Con diploma 8 maggio 1408 Giovanni Maria Visconti, Duca di Milano, investì Francesco Malvicini Fontana dei feudi di Nibbiano, Stadera, Genepreto, Tassara e Vicobarone. 58 Libro d’Oro della Nobiltà Italiana,edizione XXI, volume XXIV (1995-1999), edito dal Collegio Araldico, pg. 843. 59 KARL FERDINAND WERNER, Nascita della Nobiltà, Giulio Einaudi Editore (Torino, 2000), pagg. 221-222. 60 GIANCARLO ALBERTO BARUFFI, La via Franchigena- sulle vie dei pellegrini in provincia di Pavia, edizioni Guardamagna (Varzi, 1999) pgg. 181-185. 61 Da Torre di Pizzofreddo la strada dei pellegrini passava da Casa Scagliosi, Costa Rettani, Costa Calatroni, Stadera, Pieve di Stadera. 62 Il Santuario è stato rifatto nel 1929.

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IX.- MONCASACCO TERRA DELLO STATO DELLA CHIESA (1521-1545) E DEL DUCATO DI PIACENZA SOTTO I FARNESE Nel 1521 Moncasacco, che dalla seconda metà del trecento faceva parte del Ducato di Milano, passò col Piacentino a far parte dello Stato della Chiesa. Il nuovo confine fra le due entità statali (Ducato di Milano e Stato della Chiesa) passava a nord di Moncasacco e coincideva col confine del territorio di Moncasacco con quello dei comuni di Canevino e di Ruino: grosso modo il confine fra i due Stati nel 1521 era dove ora passa il confine fra le regioni Emilia e Lombardia.

Alcuni Moncasacchesi, pur abitando nello Stato della Chiesa, possedevano terre nel Ducato di Milano, che nel 1530 era passato sotto gli Spagnoli, così per lavorarle varcavano spesso il confine. Nel 1537 risultavano avere terre nel territorio comunale di Canevino63, cioè nel Ducato di Milano, i seguenti proprietari:

- Cabro da Moncasacho - Jacomino da Moncasaco - Bassino da Moncasaco - Zanino da Moncasaco - Rancino da Moncasaco - Her(edi) di Albertino Bertolame da Moncasaco

Nel 1545 papa Paolo III creò in favore del proprio figlio (Pier Luigi

Farnese) il Ducato di Parma e Piacenza, donandogli terre che appartenevano allo Stato della Chiesa. Dal 1545 la situazione era questa: Moncasacco apparteneva al Ducato di Piacenza, mentre Ruino, Canevino e Caminata erano paesi sudditi del Re di Spagna che tramite un Governatore amministrava il Ducato di Milano.

Moncasacco era un comune retto da un Console assistito da due Savi; religiosamente dipendeva dalla parrocchia di Pieve di Stadera; feudatari erano sempre i Malvicini Fontana.

Signore di Moncasacco fu anche il celebre condottiero Erasmo II Malvicini Fontana che militò prima al servizio di Carlo IX, Re di Francia, e poi passò al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia che lo nominò governatore di Verona. La morte di Erasmo II Malvicini Fontana diede luogo a una lunga bega riguardante i diritti feudali di Moncasacco. Riportiamo quanto è stato scritto64:

63 A.S.M., sezione censo- parte antica- cartella 263. Elenco riportato anche nel libro di GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO BERNINI, Canevino terra dell’Alta Val Versa, a cura del Comune di Canevino (Broni, 1989), pagg. 53-54. 64 SERAFINO MAGGI- CARMEN ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella leggenda, Unione Tipografica Editrice Piacentina (Piacenza, 1967), voce “Moncasacco”.

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sorse una controversia per la successione tant’è che i beni di Vicobarone, Moncasacco, Stadera e Campremoldo nel 1603 furono «presi» dallo Eccellentissimo Consiglio di Piacenza per togliere gli scandali che potevano nascere tra il marchese Pier Francesco figlio primogenito e i marchesi Alberico e Sforza figli secondogeniti del detto marchese Erasmo avuti da due donne. Dagli atti della Camera Ducale farnesiana si rileva che nel 1625 si ebbero varie convenzioni e composizioni fra la Camera stessa e i Malvicini riguardo alle terre di Stadera, Moncasacco e Vicobarone confiscate tanto al marchese Sforza Malvicini per aver commesso un «delitto capitale», quanto al marchese Fortunato resosi colpevole di aver abbandonato gli Stati Parmensi senza il debito permesso.

Non pensiamo a Moncasacco come a un paese di bengodi, si viveva stentatamente e come terra di confine (di Stato) vedeva un gran passare di soldati e spesso era teatro di scorrerie di bande irregolari come era successo65 nell’estate del 1635. Nell’ottobre 1655 da Zavattarello per la Val Tidone passò una colonna di soldati francesi e piemontesi inseguita dagli Spagnoli66. Intorno al 1686 a Rocca de’ Giorgi un certo Antonio de Vecchi aveva costituita una banda di malfattori che

commise molte spoliazioni coi suddetti sicari assalendo i passeggeri, inseguendo i fuggitivi, conducendo via il bestiame e rubando a molti denaro in quantità67 Il Duca di Piacenza aveva voluto istituire in Val Tidone un

Reggimento (allora si chiamava Terzo) della Milizia Suburbana col compito di polizia e di guardia alle frontiere e repressione del contrabbando. Gli uomini di Moncasacco, compresi fra i diciotto e i quarantatre anni erano tenuti a prestare servizio nella Milizia a meno che non pagassero un’apposita imposta per essere esentati e così attendere al lavoro nei campi68.

Oggi (anno del Signore 2001) i cartografi nelle loro carte, anche quelle stradali delle province di Piacenza e di Pavia, si “dimenticano” di indicare Moncasacco69. Nel milleseicento non era così! Con la dizione Mongasacco il nostro paese fu indicato nella carta70 del Principato di Pavia, edita a Pavia il 17 agosto 1654, disegnata da Ludovico Corte su 65 Atti del convegno di studi tenutosi a Piacenza dal 24 al 26 novembre 1994 sul tema. I Farnese – Corti, Guerra, Nobiltà in antico regime. Vedi relazione di MARCO BOSCARELLI intitolata Appunti sulle istituzioni e le campagne militari dei Ducati di Parma e Piacenza, a pagina 573 degli Atti pubblicati dall’editore Bulzoni (Roma, 1997). 66 GIUSEPPE BONAVOGLIA, Documenti per la storia di Fabbrica Curone, (Tortona 1993) 67 Monsignor LEGÈ, Storia di Montalto, pg. 156.- Monsignor CLELIO GOGGI, Storia dei Comuni e delle Parrocchie delle Diocesi di Tortona, Liticoop (Tortona 1973, 3ª edizione) pg. 315 (voce: Rocca de Giorgi). 68 Atti del convegno ecc., pg. 562- 563. 69 Fanno eccezione, oltre alle carte catastali (Catasto di Piacenza) le carte geografiche dell’Istituto Geografico Militare (Firenze) fatte in scala 1: 50.000 (quadrante Voghera) e 1:25.000 (quadrante: Montalto). 70 la carta si trova riprodotta nel volume di VITTORIO PRINA, Vedute di Pavia dal ‘500 al ‘700, edizioni Vigieffe (Pavia, 1992), pg. 76.

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commissione di Ottavio Ballada ed incisa da “Jacobus Cotta Bergomensis”. Nella carta il torrente Versa è indicato col nome Aversa. X.- MONCASACCO: MARCHESATO (1650-1677) E CONTEA DAL 1688

Il feudo di Moncasacco, tolto ai Malvicini Fontana, fu amministrato dalla Camera Ducale che nel 1650 lo pose in vendita. Fu acquistato il 5 febbraio 1650 da Paolo Camillo Arcelli, che apparteneva a un ramo71 della celebre famiglia che dal 1372 possedeva il castello di Pavarano72. Sua Altezza Serenissima il Duca di Parma e Piacenza, contestualmente alla vendita del feudo elevò Moncasacco a Marchesato, forse perché terra di confine: nell’alto medioevo i feudi posti al confine dell’Impero erano marchesati.

Moncasacco fu marchesato solamente per ventisette anni, cioè fino al 1677, anno in cui morì il marchese Paolo Camillo Arcelli, che fu il primo e l’ultimo marchese di Moncasacco perché non aveva eredi maschi.

Il feudo ritornò alla Camera Ducale, che lo amministrò per undici anni, cioè fino al 1688 quando lo pose in vendita73. Il Duca di Parma non volle più che fosse un marchesato, ma una contea: decisione giustificata dalla piccolezza del feudo. Il prezzo (8 mila lire imperiali di Piacenza) fu stabilito in seguito alla valutazione fatta dal perito Giuseppe Cremonesi. Il valore dei feudi dipendeva dal reddito di carattere fiscale che il feudatario poteva ricavare imponendo tasse su ogni fuoco, sulle attività (osteria, panificazione, macellazione) e sull’utilizzo gratuito da parte del feudatario di alcune giornate di lavoro che gli abitanti del feudo gli dovevano. Nella relazione redatta dal perito Giuseppe Cremonesi leggiamo:

Mi sono portato subito in ordine alli comandi della Signoria Vostra Illustrissima nel luogo di Moncasacco Piacentino e ho pigliato la nota quelli fuochi Regali sono i seguenti: - Una casa di Giô. Antonio Chiappino abitata dal medesimo n° 1 - Una del Giô Antonio Chiappino abitata dal medesimo n° 1 - Una di Bartolomeo Zuffada dal medesimo abitata n° 1 - Una di Giovanni Daltonio dal medesimo abitata n° 1 - La casa dove si esercita l’osteria n° 1 - Una di Pelegrino Pisano dal medesimo abitata n°1 - Una di Francesco Pisano n°1 - Una di Carlo da Piazzo n 1

71 Per la storia di questo ramo si consulti AA:VV., Le antiche Famiglie di Piacenza e i loro stemmi, Edizioni Tep (Piacenza, 1979) pg.119. 72 castello situato in Val Luretta in comune di Piozzano. 73 Ci siamo avvalsi di documenti che si trovano in A.S.T. (feudi) e in A.S.P. (Archivio Arcelli di Corticelli, cassetta 7, fascicolo 91). Tutta la documentazione trovasi in fotocopia in A.d.C.C. (Moncasacco).

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- Una di Mario Molinaro n°1 - Una di detto Francesco Pisano vuota n°1 - Una di Francesca Murano abitata da Stefano Morino n°1 - Una di Riccardo Faravelli dal medesimo abitata n°1 - Una dal medesimo abitata da Carlo Montemartino n°1 - Una di Giacomo Berinzona dal medesimo abitata n°1 - Una di Giô. Campesio vuota n°1 - Una di Giacomo da Piazzo dal medesimo abitata n°1 - Una di detto Riccardo vuota n°1 - Una di Francesco Piazzo dal medesimo abitata n°1 - Una del Co. Giovanni Anguissola abitata dal Fittabile n°1 --------------- Sicchè i fuochi sono in tutto n° 19 che a ragione di Ducatoni a £. 18 sono 3.420

Vi sono poi due case diroccate che formano due fuochi che a una ragione imputiamo 360

---------- 3.780

Vi sono tre giornate per ogni fuoco che i Rurali devono presentare gratis al feudatario. Nel caso non le facciano pagano 15 soldi ed essendo i Rurali n° 18 sono giornate 54, ma perché li su detti Giô. Antonio Chiapino del fu Giô. F.co e Giacomo Berenzona godono una casa per uno, che altre volte faceva un fuoco, ed ora sono incorporate con dette sue case, niente di meno pagano giornate tre ogni anno di più per ciascheduno per detta casa incorporata nelle sue sicchè fanno in tutto giornate 63 che a detta ragione di soldi 15 l’una se causa in tutto ogni anno £. 78 che regolandole al 3% sono £. 2.625 Di più il Jus dell’Osteria, Pristino, Macello che è affittata a £. 18 che a ragione del 3% sono £. 600 e più la Casa dove si fa l’Osteria, qual è della Sovrana Ducal Camera, che consiste di una stanza con sotto una saletta, sopra vi è il granaio, ed il sito dove vi era l’Osteria dirocata quali per mio parere vaglino £. 400 Sicchè detto feudo vale in tutto £. 7.406. Il feudo di Moncasacco valutato 7.406 lire imperiali di Piacenza fu

posto in vendita dalla Serenissima Camera Ducale a lire ottomila. Chiesero di poterlo acquistare i fratelli don Ottavio (sacerdote) e Giovanni Battista Arcelli, figli del fu Sebastiano che abitavano a Piacenza nella Vicinia di San Giacomo Maggiore; si trattava di un ramo che possedeva il castello di Corticelli ed erano parenti molto alla lontana col defunto Paolo Camillo Arcelli, primo ed unico marchese di Moncasacco.

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I Questori della Camera Ducale chiesero l’assenso del Sovrano. A Parma nel Palazzo Ducale il Duca Ranuccio Farnese, il 13 luglio 1688, autorizzò i Questori a vendere il feudo di Moncasacco. Leggiamo nel rescritto ducale:

Illustrissimi e molto Magnifici nostri Amatissimi Contentandoci Noi di dare in vendita il feudo di Moncasacco a Ottavio ed al sacerdote Giô. Battista suo fratello degli Arcelli col titolo di Contea, e colle condizioni espresse nell’ingionto Loro foglio, e nella stima fatta del medesimo feudo per lire otto mille da essi esibiti, ne stipulerete con loro di conformità il contratto in nome della nostra Camera, ne manderete poscia in nostra mano la Supplica secondo il solito, che così vi ordiniamo, e vi preghiamo da Dio ogni bene. Parma 13 luglio 1688

RANUCCIO FARNESE Il 19 luglio 1688 gli Arcelli indirizzarono al Duca questa supplica:

Noi infrascritti Ottavio e Giô. Battista Sacerdote, fratelli delli Arcelli, ci proponiamo, quando venga approvato da S.A.S.74, comperare dalla Serenissima Ducal Camera di Piacenza il feudo col titolo di Contea di Moncasacco col mero e misto Imperio, giurisdizione e potestà del Gladio, con li Regali d’Osteria, Pristino e Beccaria, con la ragione dell’opere dovute annualmente da quei sudditi al feudatario, e con la casa dove al presente si fa osteria, ed il sito nel quale già era l’osteria, come viene espresso nella relazione del perito alla Sudetta Camera Serenissima, e riguardo alla medesima Camera colle riserve del maggior Magistrato e tanto per una parte, quanto per l’altra con le forme e clausole da estendersi all’uso solito in simili contratti. Detto feudo sarà riconosciuto da me infrascritto Ottavio per me, per li miei figlioli, e discendenti maschi legittimi, e naturali nati da un legittimo matrimonio in infinito. A detto feudo S.A.S. ammetterà il detto Giovanni Battista Sacerdote, con patto che morendo esso, la Camera Serenissima non possa prendere la di lui porzione di detto feudo, ne in quella pretendere cosa alcuna, ma che passi detta porzione immediatamente in detto Ottavio suo fratello, o ne’ figlioli o discendenti d’esso legittimi e naturali come sopra. Detto feudo con li Regali ed altro come sopra viene stimato dal suddetto Perito, come dalla sua relazione in prezzo di £. 7405 moneta corrente, ma secondo il concordato pagheremo noi infrascritti fratelli £. 8000. A favore delli Discendenti di detto Ottavio si dovrà esprimere nella investitura feudale, che esso possa erigerlo in primogenitura e non erigendolo, che durante la discendenza d’esso suddetto per linea mascolina legittima e naturale nata da legittimo matrimonio siano li discendenti maschi reciprocamente sostituiti in infinito, ed in mancanza in Colonnella succeda l’altro, senza che la Serenissima Ducale Camera non ne possa pretendere il possesso e non ostante qualsivoglia Costituzione in contrario. E per quanto di sopra si contiene promettiamo e ci obblighiamo in ogni miglior modo. Piacenza li 19 luglio 1688.

74 Leggi “Sua Altezza Serenissima”.

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Io Ottavio Arcelli di man propria a nome anche di Giô Battista Arcelli mio fratello Sacerdote.

Dalla ricevuta liberatoria, rilasciata dal Tesoriere Lorenzo Nonati, apprendiamo che a Piacenza il 26 luglio 1688 i fratelli Arcelli versarono le ottomila lire necessarie per l’acquisto del feudo di Moncasacco. Il giorno seguente a Piacenza i Questori della Camera Ducale vendettero il feudo ai fratelli Arcelli. Con rescritto firmato il 5 agosto 1687 nel Palazzo Ducale di Parma S.A.S. il duca Ranuccio elevò a contea il feudo di Moncasacco investendo ufficialmente i fratelli Arcelli, concedendo loro il diritto di giudicare in materia civile e penale (si diceva allora “criminale”). Il 7 agosto il rescritto ducale fu iterinato dalla Camera Ducale.

Il 23 agosto 1688 Giovanni Francesco Quieti, corriere pubblico, scelto dal conte Arcelli, fu inviato a Moncasacco, per conto della Camera Ducale, per comunicare al Console e ai Savi del Comune l’avvenuta infeudazione e per predisporre la cerimonia di presa di possesso del feudo. Fu fissata la data del 26 agosto 1688. Le carte non lo dicono, ma pensiamo che il Conte si sia mosso di primo mattina dal castello di Corticelli75 dove certamente i suoi ospiti avranno fatta tappa il giorno precedente provenendo da Piacenza. Sicuramente avranno fatto parte del corteo i tre gentiluomini che, per conto della Camera Ducale, avevano avuto l’incarico di fare da testimoni, i due notai e presumiamo un drappello di soldati come scorta e magari qualche “bravo” di manzoniana memoria. Il verbale redatto in latino dal notaio Ottavio Malaragia Cani, che aveva come assistente il notaio Giacomo Prati, ci permette di ricostruire la cerimonia. Sulla piazza di Moncasacco (quodam curia existente inter domos) attendevano il corteo il Console del comune di Moncasacco Giô Maria Molinari, i Savi (o Deputati) e tutti gli uomini, perché dovevano essere parte attiva della cerimonia. Certamente come spettatori ci saranno state le donne, i ragazzi e i bambini del paese: una cerimonia così non capitava di vederla tutti i giorni! Presero posto i tre illustri testimoni: il conte Gasparo Lampugnano76, il nobile Francesco dei conti Landi77, don Francesco Vulpulante78 chierico di Piacenza mentre i due notai si sedettero davanti a un tavolino per redigere il verbale. Il conte Ottavio Arcelli fu fatto sedere su un trono di legno (nel verbale troviamo scritto: « apposita fuit cathedra lignea ») e gli porsero un Vangelo. Il notaio, dopo aver letto i documenti che legittimavano la presa di possesso del feudo, disse che, per volontà del Duca di Parma, Moncasacco era stato elevato a contea e che la signoria spettava ai conti Arcelli che

75 Il castello di Corticelli si trova in territorio del Comune di Nibbiano. Provenendo da Nibbiano verso Castel San Giovanni poco prima di Trevozzo lo si vede sulla sinistra. 76 Il conte Gasparo Lampugnano di Luigi della vicinia di San Paolo 77 figlio del conte Oldradi della vicinia di Sant’Eufemia. 78 Abitava nella vicinia di Sant’Andrea.

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avevano “mero et mixto imperio”, giurisdizione e potestà del gladio con i diritti (Regali) derivanti dall’osteria, forno e macelleria e che gli abitanti dovevano ogni anno prestare loro alcune giornate di lavoro gratuito. In fine il notaio Malaragia Cani lesse, ad alta e chiara voce, la formula del giuramento e chiamò a prestarlo, ad uno ad uno, gli uomini di Moncasacco. Dopo aver fatto la riverenza ognuno si inginocchiava e giurava fedeltà al feudatario e ai suoi successori toccando il Vangelo che era tenuto fra le mani dal conte Ottavio Arcelli assiso in trono. Giurò per primo il Console (Giovanni Maria Molinari) che giurò anche per conto del fratello (Giovanni Molinari), poi il savio Carlo da Piazzi, e dopo di lui gli uomini:

- Francesco Pisani - Riccardo Faranelli79 - Pellegrino Pisani - Stefano Morini - Giacomo Berinzona80 - Francesco Morelli - Franco da Piazza figlio di Giacomo - Franco da Piazza figlio del fu Gerolamo - Giô. Guglielmo Quadrelli - Giô. Antonio Chiappini del fu Giovanni detto della Colomba - Giô. Dell’Occhio - Bartolomeo Zuffada - Carlo Montemartini - Giovanni Antonio Chiappini del fu Filippo.

Subito dopo il Conte di Moncasacco nominò Podestà il notaio Giovanni Prati, che era presente alla cerimonia, attribuendogli la facoltà di amministrare in suo nome, nella contea di Moncasacco, la giustizia sia civile che penale. Il neo podestà giurò nelle mani del Conte e subito dopo fu letto in italiano questo proclama:

Avendo l’illustrissimo Signor Conte Ottavio Arcelli in questa parte Signore e Feudatario del feudo di questo luogo di Moncasacco appartenente al Ducato Piacentino dopo aver preso tanto a nome proprio, come del Molto Reverendo Signor Conte Giovanni Battista suo fratello il possesso ha eletto in Podestà di detto feudo il Signor Giacomo Prati, tale elezione si fa sapere ad ogni persona qualsivoglia sia suddita di detto feudo e abbia od avrà in avvenire di bisogno dell’ufficio suo, debba avanti di lui comparire al suo Tribunale eretto per ora nella casa di Corticelli, nella quale per virtù della parte d’ordine del suddetto Signor Conte Ottavio Signore e Feudatario ha istituito il suo idoneo Tribunale, significando ognuno che da lui sarà amministrata buona giustizia.

79 Potrebbe leggersi Faravelli 80 potrebbe leggersi Bellinzona.

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Inoltre si fa intendere d’ordine e come sopra a ciascuno de’ Sudditi del Signor Conte di detto feudo, che nelle cause civili e criminali si osserveranno non solo li Statuti di Piacenza, ma anche le Grida e Ordini pubblicati d’ordine del Serenissimo Principe in questo luogo e sue pertinenze, e questo sino a nuovo ordine. Dato nel luogo di Moncasacco Li 26 agosto 1688.

Le carte non ci dicono se seguì una bicchierata con buon vino prodotto a Moncasacco. Di certo sappiamo, perché lo troviamo scritto, che da Moncasacco si mosse un corteo formato dal Conte, dai tre gentiluomini piacentini, dal notaio, dal podestà, dal console, dal savio e da tutti gli uomini di Moncasacco. Andarono a Pieve di Stadera perché Moncasacco apparteneva a quella parrocchia: nella chiesa dedicata a San Martino il Conte ed i Moncasacchesi assistettero alla Messa celebrata dall’arciprete don Angelo Matteo Casali, dottore in teologia. Questo ci farebbe pensare che l’oratorio a Moncasacco non fosse ancora stato costruito. In Francia gli Araldi, dopo la morte del Re, annunciavano al popolo:”è morto il Re viva il Re”; non sappiamo se a Moncasacco quando moriva il feudatario si dicesse:” è morto il Conte, viva il Conte”. Quando morì il conte Ottavio gli successe nel titolo di conte di Moncasacco il figlio conte Giambattista.

I Moncasacchesi erano, comunque, sempre tenuti a prestare ognuno le tre giornate di lavoro gratuite al feudatario. Nell’archivio di Stato di Torino abbiamo trovato questo elenco che trascriviamo:

Nota degli Uomini che devono le Giornate annue al Feudatario di Moncasacco conte Arcelli: - Giô. Antonio Chiappino - Agostino Chiappini della Colomba - Giô. Bellinzona - Fratelli Zuffada - Pellegro Pisani - Carlo da Piaggio - Carlo dall’Occhio - Bartolomeo Faranelli - Giacomo e Figli Bellinzona - Giô. Da Piaggio - Contardo Martinoni e suoi Eredi - Giô. Calatrone - Margherita Zuffada - DomenicaAngela da Piaggio - Antonio Castagnola - Angela Maria Bersolotti - Giô. Maria Molinari - Carlo Alessi

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- Antonio Maria Borgognoni - Giacomo da Piaggio - Carlo Fasoli - Francesco Pisano - Angela Maria Zanarda - Pietro Borgognoni 1718 29 Julii datus ordo executionis realis

Gli abitanti di Moncasacco anche se dipendevano direttamente dal feudatario, che aveva una propria sfera di dominio e di autonomia, facevano parte del Ducato di Parma e Piacenza e quindi risentivano della vicende politiche di quello Stato. Furono sudditi dei Farnese fino al 1731 anno in cui morì l’ultimo duca (Antonio Farnese), poi per breve periodo furono sudditi dei Borbone. Nel 1731, infatti, era diventato Duca di Parma e Piacenza il figlio del Re di Spagna: Carlo di Borbone che il 26 marzo 1736 rinunciò al Ducato per salire sul Trono del Regno di Napoli. Con il Trattato di Vienna del 1738 il Ducato di Piacenza passò all’Austria, così Moncasacco fu soggetto agli Austriaci fino al 1743 anno in cui, col Piacentino, passò sotto i Savoia, Re di Sardegna.

*** A Moncasacco “beghe” per i confini ce ne furono come in un qualsiasi paese di campagna, ma una fu “bega aulica”81 perchè veniva a toccare i confini fra gli Stati (il Ducato di Piacenza e l’Oltrepò) ed aveva per oggetto una contestazione che riguardava il territorio del comune di Moncasacco.

Nel 1744 l’agrimensore Gerolamo Gatti di Camatta per conto del Comune di Ruino sosteneva che il confine fra il comune di Ruino (in Oltrepò) e il comune di Moncasacco (nel Piacentino) non fosse costituito dal fosso della Raspa, bensì da una linea retta che partiva dal piede della Croce della Rossarola ed arrivava al termine divisorio dell’imboccatura del torrente Versa. In questo modo il Comune di Moncasacco veniva a perdere una quindicina di pertiche. La questione era complicata perché si trattava di toccare i confini di due Stati: l’Oltrepo (dove si trovava Ruino) e il Ducato di Piacenza (dove si trovava Moncasacco). In verità l’anno precedente (13 settembre 1743) il trattato di Worms aveva posto sotto la sovranità dei Savoia82 sia l’Oltrepò Pavese che il Piacentino, ma il Re aveva preferito tenere i due territori distinti e quindi anche i loro confini.

81 Per la ricostruzione ci siamo avvalsi di documenti rintracciati presso l’Archivio di Stato di Torino 82 sotto la sovranità dei Savoia erano passati anche la Lomellina e il Marchesato di Finale.

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In seguito a segnalazione del console di Moncasacco, il marchese Tedaldi, che era commissario generale dei confini del Piacentino, ordinò un’ispezione che fu affidata a Giacomo Franco Pisani di Roccapolzona, ispettore dei confini nel distretto di Tassara e Stadera. Il Pisani si recò a Moncasacco e interrogò gli uomini del Paese che gli dissero che il confine fra il Ducato di Piacenza e l’Oltrepò era costituito da sempre dal fosso della Raspa e che le quindici pertiche che il Gatti voleva attribuire a Ruino (cioè all’Oltrepò) erano di proprietà enfiteutica del conte Giacomo dal Verme di Zavattarello, che non aveva mai pagato tasse al Ducato di Piacenza perché quei terreni da sempre li avevano goduti gli abitanti di Moncasacco. Le quindici pertiche in discussione confinavano: nel Piacentino con terre di proprietà della Casa Arcelli e da parte pavese con le proprietà del conte Giacomo dal Verme di Zavattarello e con dei beni parrocchiali. La disputa sembrò quietarsi, ma due anni dopo il podestà di Zavattarello rivendicò per Ruino il possesso delle quindici pertiche. Il 6 luglio 1746 il marchese Tedaldi, commissario generale dei confini del piacentino, scriveva da Piacenza a Felice Gazzotti, podestà feudale di Zavattarello, questa lettera:

Molto illustre Signore, non mi giunge nuova la controversia territoriale ultimamente insorta fra il comune di Ruino Pavese, e quello di Moncasacco Piacentino, ma mi è egualmente noto che alla medesima ha dato nocumento la novità irregolare innestata dal signor Gerolamo Gatti agrimensore col volere di propria autorità, e contro ogni ragione mettere mano a tirare linee di confine di Stato, il che non solo a lui non spetta, ma lo rende colpevole d’uno dei più animosi attentati. I sudditi dell’una e dell’altra giurisdizione devono restare nei rispettivi loro antichi possessi senza la minima innovazione e quando dovesse farsi qualche variazione per alcuna concorrente circostanza che lo richiederebbe per maggior comodo e quiete dei Paesi finitimi, non sarebbe ciò eseguibile senza un’intima cognizione di causa, e senza l’ordine superiore del Sovrano. Se la S.V. volesse portarsi sulla faccia del luogo insieme col Sig. Giacomo Francesco Pisani di Roccapolzana, mio delegato in quelle parti alla Cura dei Confini, non avrò difficoltà di accordarglielo, quando Ella si compiaccia di darmene nuovo motivo, prevenendola però, che non potrò attribuirgli altra facoltà, che di pura e semplice oculare ispezione, mentre in ordine al concertare, o stabilire alcuna ben minima cosa, ciò resta riservato alla mia disanima e alle sovrane disposizioni della Corte. Per…83 del più riservato contegno per la parte di questi sudditi Piacentini, quando lo stesso venga ugualmente praticato anche per la parte dei Pavesi di che non posso dubitare, e tutto disposto al di Lei servizio con vera stima mi riaffermo.

***

83 alcune parole incomprensibili

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Un’altra contesa confinaria Moncasacco la ebbe col Comune di Canevino. Nell’Archivio di Stato di Torino84 si conserva il « Tipo dimostrativo delle contese territoriali tra Canevino e Moncasacco colla relazione alli Numeri delle Mappe di detti territori di Canevino, Volpara». Canevino rivendicava alcuni terreni (pertiche 263 e tavole 13) che erano quasi tutti (n°. 632, 639, 640, 641) di proprietà del conte Anguissola, mentre 6 pertiche e 23 tavole (n°. 633) erano del signor Andrea Dappiagio. Non erano certamente tempi tranquilli perché si era in piena guerra: la guerra di successione austriaca. Nel 1747 i Moncasacchesi avranno senz’altro visto, con qualche apprensione, il fumo che saliva dal castello di Zavattarello: l’incendio era stato appiccato dalle truppe franco-liguri, al comando del generale Lintz85. XI.- MONCASACCO TERRA DEL REGNO DI SARDEGNA DAL 1743

Il trattato di Aquisgrana (1748), che pose termine alla guerra di successione austriaca, stabilì che i Savoia dovessero cedere il Piacentino che ritornò Ducato autonomo sotto la guida di Filippo di Borbone, figlio del Re Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese.

Moncasacco, benché storicamente e geograficamente appartenesse al Piacentino, fu lasciato sotto la giurisdizione dei Savoia (Regno di Sardegna) con un confine col Ducato di Parma e Piacenza che a sud lo lambiva a pochi metri dell’abitato. Sempre terra di confine rimase! Prima del 1748 Moncasacco facendo parte del Ducato di Parma e Piacenza aveva il confine di Stato (fra il Ducato e l’Oltrepò austriaco) a nord del paese. In una sua relazione86 l’ingegnere Giovanni d’Aponte definì “il luogo di Moncasacco, terra smembrata dallo stato piacentino “.

Fra il 1763 e il 1764 gli ingegneri del Regno di Sardegna da una parte e gli ingegneri del Ducato di Parma dall’altra prepararono la Carta Topografica della frontiera fra i due Stati, che fu ufficialmente “concordata e sottoscritta”87 il 26 luglio 1764. Con diversa colorazione sulla carta gli ingegneri dei due Stati avevano indicato i “siti controversi”. S.M. Carlo Emanuele III, Re di Sardegna, e S.A.R. Filippo di Borbone, Duca di Parma, decisero di affidare a una Commissione il compito di

84 A.S.T., fondo “confini col Piacentino”. 85 CARLO ROMAGNESE ed ELENA ANELLI, Il castello di Zavattarello, stampato sotto il patrocinio del comune di Zavattarello (Copiano, 2000). 86 relazione del 1 luglio 1767 in Archivio di Stato di Torino. 87 Regolamento dei Confini stabilito tra le Corti di Torino e di Parma li 10 marzo 1766, Stampato a Torino nel 1766 nella Stamperia Reale. In A.d.c.C. si conserva la fotocopia integrale del regolamento.

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fissare un regolamento dei confini che fosse di reciproca soddisfazione delle Due Corti…e con un sodo stabilimento de’ Limiti radicalmente togliere le occasioni di dispute sempre contrarie al buon vicinato e alla quiete de rispettivi Sudditi.

Sua Maestà il Re di Sardegna delegò a rappresentarlo nella Commissione

(il) Barone Giò. Giuseppe Foucet di Montallieur, Signore de la Tour, Presidente e Sopraintendente dei Reali Archivi, e Giuseppe Francesco Girolamo Perret, conte di Hauteville, Signore di Trauz, e de la Batie, Regio Intendente delle Provincie Pavese Oltrepò, Siccomario e Bobbiese.

Sua Altezza Reale l’Infante Duca di Parma, Piacenza e Guastalla designò quali suoi Commissari

(il) marchese Gioseffo Domizio Tedaldi marchese d’Ancarano, Commissario Generale de’ Confini, e (il) conte Gioseffo Pompeo conte Sacco, e (il) Regio Avvocato Fiscale Giambatista Antonio Riga.

La Commissione decise di riunirsi a Stradella (che faceva parte degli Stati Sardi) perché era la località più vicina ai luoghi in contestazione, il che permetteva di poter fare più facilmente, se necessario, dei sopralluoghi. La Regolamentazione dei Confini richiese delle “opportune conferenze” sopra tutti gli oggetti in contestazione, trovato un accordo, fu stesa una bozza del Regolamento che sottoposero alle rispettive Corti che autorizzarono i Commissari a firmare il Regolamento. La firma avvenne a Stradella il 10 marzo 1766: ogni Commissario vi appose la sua firma e il sigillo col proprio stemma. Per essere esecutivo il Regolamento richiese la ratifica dei due Sovrani88: lo scambio degli strumenti di ratifica fu fatto a Torino come prevedeva l’articolo XXI del Regolamento.

Non possiamo parlare di tutta la Regolamentazione del confine fra Regno di Sardegna e Ducato di Parma, tratteremo invece di quella parte che riguarda da vicino Moncasacco. L’articolo VII del Regolamento recitava:

Dalla croce, e termine della Rossarola resta convenuto, che la limitazione traverserà il territorio di Moncasacco fino alla Croce della Rossella secondo la linea verde nuovamente tirata sopra a detta Carta concordata, a tenore della quale la strada, che dopo la Croce della Rossella ritorna fino all’angolo di quella, che viene da Stadera al Villaggio di Moncasacco, sarà comune e divisoria per metà; e quanto all’altre parte della medesima strada, che da detto angolo saranno limitrofe fino alla Croce della Rossarola, resteranno per intero della Sovranità di S.M.89, e, mediante questa nuova linea di divisione, la parte settentrionale del Contado, e territorio di Moncasacco col sito, che formava un oggetto di

88 Il Re di Sardegna lo ratificò il 31 marzo 1766. 89 Cioè del Re di Sardegna.

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contestazione tra questo medesimo territorio, e quello di Canevino, apparteranno alla medesima S.M.

Moncasacco aveva il confine di Stato sotto casa, cosicchè i suoi abitanti coltivavano i campi sia nel Regno Sardo (dove c’era il paese) che nel Ducato di Parma. Per un Moncasacchese, che era suddito del Re di Sardegna, andare a coltivare la proprio terra, che si trovava negli Stati parmensi, voleva dire “espatriare”. Per ovviare a questo l’articolo XX del Regolamento permise ai Moncasacchesi di godere dei loro beni che si trovavano nel Ducato di Parma “con libertà di estrarne i frutti “ e di trasportarli attraverso il confine di Stato

senz’essere soggetti al pagamento di alcun diritto per questo riguardo, una soltanto le precauzioni necessarie per prevenire gli abusi.

Un chiaro riferimento allo “abuso” che equivaleva a dire “contrabbando”. I Moncasacchesi espatriavano non solo quando dovevano lavorare i loro campi posti verso la Val Tidone, ma anche da morti perché il cimitero era a Pieve di Stadera nelle vicinanze della Chiesa che era sede della parrocchia da cui Moncasacco dipendeva. Il paese amministrativamente faceva parte del Regno di Sardegna, e religiosamente dipendeva dalla Diocesi di Piacenza che era nel Ducato di Parma e Piacenza. L’articolo XXI del Regolamento stabiliva che

si procederà alla piantumazione de’ termini necessari per far constare dalla divisione delli due Stati nell’estensione della nuova ed antica linea de’ confini, e se ne farà processo verbale, colla formazione di una Carta di limitazione.

Fino al 1975 circa almeno tre di questi termini erano ben visibili nell’isola di Moncasacco: ora l’unico ben visibile si trova nelle vicinanze di Canova sulla destra, dopo il cimitero, venendo da Moncasacco.

*** Nell’ancien règime vigeva un sistema di governo complesso:

governavano, nel caso di Moncasacco, i Savoia con la loro burocrazia e un qualche potere lo avevano i feudatari : i conti Arcelli, che sebbene abitassero in altro Stato (a Piacenza) mantennero i loro diritti feudali come prevedeva l’articolo XIX del Regolamento sottoscritto a Stradella nel marzo 1767. Conti di Moncasacco furono nel Regno sardo: Giambattista Arcelli (1727-1792) e Carlo Arcelli (dal 1792). Il 7 aprile 1770 Re Carlo Emanuele III aveva emanato nuove “Regie Costituzioni 90“ che obbligavano i Feudatari a

90 il testo si può leggere in CARLO MISTRUZZI di FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, dott. A. Giuffrè Editore (Milano, 1961), volume primo.

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presentare i documenti che legittimavano il possesso del feudo. Gli Arcelli consegnarono la copia dell’atto di investitura del feudo all’Intendenza dell’Oltrepò che aveva sede a Voghera. La documentazione fu trasmessa a Torino dall’Intendenza. Con lettera firmata Cappa, datata Torino 31 luglio 1771, e indirizzata a Voghera all’intendente conte d’Hautville si diceva:

Ho ricevuto col compitissimo foglio di V.S. Ill.ma la desiderata notizia del Feudatario di Moncasacco unitamente all’Atto d’Infeudazione, quale ho l’onore qui compiegato restituirle senza averne nemmeno fatta fare la Copia in vista, che rilevo dal precitato suo foglio, che V.S. Ill.ma è in disposizione di farlo passare quanto prima unitamente ad altri titoli agli Archivi di Corte e sensibile alla di Lei attenzione ho l’onore di dichiararmi con tutto il rispetto. Di V.S. Ill.ma Div.mo Obb.mo Ser.e”

Probabilmente l’Hauteville presentò agli Archivi di Corte la documentazione infatti il barone Antonio Manno ci riferisce che Giambattista Arcelli, conte di Moncasacco, nel 1778 figurava nel “Titolario”91.

Nel 1766 l’Ufficio del Censo inviò a Moncasacco l’ingegnere Giovanni D’Aponte che fece la misurazione dell’intero territorio di Moncasacco. Il 16 settembre il D’Aponte si recò a Moncasacco e avvalendosi delle indicazioni del moncasacchese Giuseppe Dalochio cominciò a tracciare la mappa del comune di Moncasacco. I rilevamenti durarono una quarantina di giorni cioè fino al 31 ottobre 1766. Gerardo Conti copiò la mappa su tre fogli che attualmente (2001) sono conservati nell’Archivio di Stato di Torino. Scorrendo la mappa rileviamo che il confine di Stato (Ducato di Parma- Stati Sardi) era compreso fra la croce della Rossarola (termine n. 61) e la croce della Rossella (termine n. 69). Lungo questo confine vi era una strada che, nella mappa, dalla Rossella a Moncasacco venne indicata come “Strada che dal Piacentino tende a Moncasacco” e da Moncasacco alla Rossarola come “Strada pubblica che da Moncasacco tende ai feudi vermeschi e oltre”. Sempre dalla mappa rileviamo che nel 1766 Moncasacco era esteso come oggi, Canova era costituito solamente da quattro fabbricati, non esistevano né la Mostarina di Sotto né la Mostarina di Sopra.

*** Il governo piemontese dimostrò di interessarsi ai problemi concreti

del territorio che da poco era sotto la sua giurisdizione. Un esempio di solerzia piemontese ci è fornito dalla tempestività con cui il governo del Re (regnava allora Carlo Emanuele III) si occupò di una frana che minacciava

91 dal libro di ANTONIO MANNO, Il Patriziato Subalpino, Stabilimento Giuseppe Civelli (Firenze, 1906), volume II (Dizionario genealogico: A-B), pag. 75.

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la strada che portava a Moncasacco92. Le piogge dell’aprile 1767 avevano creato guai alla viabilità tanto da allarmare il Comandante del Cordone Militare93 che inviò una memoria alla Segreteria di Guerra con cui avvisava

di una certa rovina seguita sulla strada confinante collo Stato Piacentino nel territorio di Moncasacco fra i termini 61 e 62 della nuova limitazione stabilita fra i due Stati.

Nel maggio 1767 la memoria del Comandante del Cordone Militare fu trasmessa dalla Segreteria di Guerra alla Segreteria di Stato che la sottopose al parere del Re che ordinò personalmente al conte d’Hauteville, intendente della provincia dell’Oltrepò che si trovava a Torino per conferire, di

far fare per mezzo di un ingegnere la ricognizione di detta rovina e dello stato della strada, con farne rilevare l’opportuno disegno accompagnato di tutte quelle informazioni di fatto, che potessero mettere la M.S.94 in grado di dare le sue determinazioni circa l’oggetto.

Il conte d’Hauteville, appena giunto a Voghera, convocò l’ingegnere D’Aponte, che conosceva bene il territorio di Moncasacco perché l’anno precedente aveva fatte le misurazioni per conto dell’Ufficio del Censo. L’ingegnere si recò subito a Moncasacco, prese visione della frana e il 1° luglio 1767 sottoscrisse la sua relazione95 per l’Intendente dell’Oltrepo che intitolò “Relazione sovra la libbia96, o sia valanca nel Territorio di Moncasacco nella strada esistente tra i termini 61 e 62 tutto di ragione del dominio di Sua Maestà”. Si trattava di una frana che già l’anno precedente esisteva e che nelle sue rilevazioni catastali l’ingegnere aveva censita e disegnata sulla mappa al n. 53, frana che lambiva i fondi n. 54, 55, 59, 60 e continuava la sua discesa

fino al fondo della confluenza di due Riali, a forma di cuneo, i quali dividono i tre confini, questo di Moncasacco, Ruino, Clanevino97, verso dove la suddetta libbia ha il suo motto discendente mettendo sopra i fondi il terreno, le ripe , e li macigni, formando una catastrofe d’irregolarissime alture, a guisa di tanti monticelli con lunghe e larghe aperture, o fessure, sorgendo eziandio l’acqua in più luoghi ripieni, originati dalla stessa libbia a guisa di piccoli laghetti.

L’ingegnere trovò che la strada (Strada Regia ) che portava a Moncasacco, all’altezza della frana, dall’anno precedente era peggiorata, tanto che i

92 ricostruzione fatta con documenti che si trovano in A.S.T. (fondo” Confini verso il Piacentino”). 93 Il Cordone Militare era un rafforzamento di truppe che avevano il compito di sorvegliare la frontiera. 94 la sigla va letta “Maestà Sua”. 95 Datata 1 luglio 1767 scritta fitta in tre facciate. Si trova nell’Archivio di Stato di Torino. 96 Voce antica per frana. 97 Canevino

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viaggiatori erano costretti, per passare, a sconfinare nel Ducato di Piacenza ed avevano creato un sentiero che permetteva, a loro e agli animali, di superare la strada franata. Per porvi rimedio l’ingegnere escludeva la costruzione di muri o palificate, costosi e, per la natura franosa del terreno, inutili. Proponeva di tenere buono il tratto della strada spianandola e facendola

ingiarare con pietre e scaglie in buona forma che nel paese non sono scarse la quale con tutta diligenza va in ogni bisogno riparata e mantenuta, con nuovi ingiaramenti, espianamenti, a misura che la libbia la rimovesse, senza mai inoltrar gli spianamenti verso il Piacentino, già che si ha il luogo di poterla sbassare quanto si vuole, che sarà sempre men male che dilatarsi oltre lo Stato. In questo modo è facile abolire l’accennato sentiero, poiché essendo conveniente la strada gli stessi possessori de’ fondi della parte del Piacentino, che sono campi e vigne si difenderebbero dal danno con impedirne il passo.

Avuta la relazione dell’ingegnere D’Aponte l’intendente conte d’Hauteville il 1 agosto 1767 da Voghera la spedì a Torino alla Segreteria di Stato indirizzandola a monsieur Bruel pregandolo di fargli sapere le determinazioni del Re

particolarmente sul modo di contenermi nel far riparare la detta strada, ed evitare, o togliere qualunque pregiudizio che dalla rovina di essa potesse risultare alla Regia Giurisdizione.

Il 12 agosto il Bruel scriveva al conte d’Hauteville comunicandogli gli ordini di Sua Maestà che voleva che si facessero le riparazioni proposte dall’ingegnere d’Aponte. Il 14 agosto l’Hauteville scriveva al Bruel assicurandolo che

mi farò in dovere di dare le disposizioni opportune per l’esecuzione delle riparazioni proposte dal sig. ingegnere D’Aponte.

Dalla relazione dell’ingegnere possiamo ricavare altri dati importanti sulla viabilità nelle vicinanze di Moncasacco. Lasciamo la parola all’ingegnere D’Aponte:

Ho esaminato il rimanente della strada di questo territorio confinante al Piacentino, ed i rispettivi termini i quali sono tutti al loro posto. E sebbene questa, anch’essa è molto cattiva all’inverno per la gran fanga, nulla meno è soggetta a pericolo di Libbia. In tal stagione si fanno da condottieri molti sentieri trasversali per evitare il fango, espressamente massime ne boschi della Cascina Nova98, ch’è sullo Stato99, e parte di quelli della Rossella100 Piacentino, i quali non

98 l’attuale Canova. 99 Piemonte 100 Cascina sopra Canova attualmente è in territorio del comune di Nibbiano.

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credo di conseguenza poiché nella buona stagione si riprende la strada grossa perché più comoda, né soggetta a fessure o libbie: oltre di che qui la strada è divisoria fra gli Stati .

La “grande fanga” contribuiva ad isolare Moncasacco e i suoi abitanti. Oggi pensiamo alla strada Stradella-Pometo-Romagnese come un’arteria asfaltata, ma allora era poco più di una mulattiera che si percorreva a fatica. Moncasacco era luogo di passaggio “clandestino” del sale che arrivava dalla Liguria. I contrabbandieri lo portavano in Val Versa e di lì nella Lombardia governata dagli Austriaci. Sotto il Regno di Carlo Emanuele III di Savoia vi fu una forte repressione del contrabbando101.

Qui vogliamo dissentire con coloro che scrivendo delle storie locali danno un’idea idilliaca delle condizioni di vita dei nostri antenati. Non ce la sentiamo di trasformare le case degli abitanti di Moncasacco in regge perché non lo erano. Si soffriva il freddo (per ripararsi si passavano le serate nelle stalle), la fame, l’analfabetismo, le malattie (basti pensare alla alta mortalità infantile) regnavano sovrane: i pochi risparmi venivano presi dal feudatario e dal governo centrale

Mentre nel 1537 i Moncasacchesi proprietari di terreni nel vicino comune di Canevino erano sette, in un Summarione datato 27 luglio 1785, conservato nell’Archivio di Stato di Torino, vi figurano solo gli “Eredi di F.co d’Appiaggi da Mongasacco Piacentino ” che possedevano 8 pertiche e tavole 18 per un valore di 7 scudi e ottavi 5.

Con manifesto senatorio102 del 29 agosto 1789 il Regno Sardo per “agevolare le assise dei Giudici” aveva suddiviso in Cantoni il territorio delle Province di Novara, Pallanza, Tortona, Voghera e Vigevano. Il comune di Moncasacco fu assegnato al primo Cantone (quello di Voghera), mentre i paesi vicini (Zavattarello, Ruino, Trebecco, Caminata) fecero parte del secondo Cantone.

Con editto del 7 marzo 1797 Re Carlo Emanuele IV di Savoia, sotto la spinta delle idee rivoluzionarie francesi, abolì negli Stati Sardi la feudalità. Questo provvedimento avrebbe dovuto liberare gli uomini di Moncasacco dall’obbligo di prestare (gratis) ognuno tre giornate di lavoro all’anno in favore del feudatario, ma gli eventi bellici ne impedirono l’attuazione. Sarà Napoleone a farlo:

il 27 giugno 1797, con una sua lettera diretta al cittadino Faypoult, inviatogli dal Direttorio di Parigi, decretava che i diritti feudali erano aboliti e dava disposizioni

101 CORNELIO MORARI e DANIELA BOTTO, Voghera e l’Oltrepo Pavese, Edibooks (Milano, 1994), pagg. 202-203. 102 Il testo integrale del Manifesto lo si può trovare nella “ raccolta delle leggi 1681-1798” curata da F.A. Duboin, tomo III, (Torino, 1826).

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per un proclama ufficiale allo scopo. Il feudalesimo fu dunque soppresso in Oltrepò’103.

XII.- MONCASACCO TERRA DELL’IMPERO FRANCESE, POI NUOVAMENTE DEL REGNO DI SARDEGNA Le truppe napoleoniche conquistarono l’Italia. Moncasacco dal 1802 al 1814 divenne parte integrante della Repubblica Francese che nel 1804 si trasformò nell’Impero Francese. Ve li immaginate i Moncasacchesi alle prese col francese perché gli atti pubblici dovevano essere redatti in quella lingua!

Amministrativamente Moncasacco faceva parte del circondario (arrondissement) di Bobbio che dipendeva dal dipartimento di Marengo. Il 15 giugno 1805 il circondario di Bobbio (Moncasacco ne seguì le sorti) fu staccato dal dipartimento di Marengo e aggregato al dipartimento di Genova104 sempre nell’ambito dell’Impero Francese. L’aggregazione a Genova fu la goccia che fece traboccare il vaso: vi fu una rivolta di contadini, ma ignoriamo se qualche Moncasacchese vi abbia partecipato. Il 6 dicembre 1805 l’insurrezione era scoppiata a Castel San Giovanni e si propagò nelle Valli del Tidone e del Trebbia105. Napoleone soppresse i piccoli Comuni, provvedimento che colpì anche Moncasacco, che si trovò retrocesso al ruolo di frazione. Caduto Napoleone, Moncasacco ritornò nel 1814 ad essere paese degli Stati Sardi, sotto la Real Casa di Savoia, come frazione del Comune di Caminata nel mandamento di Zavattarello che faceva parte della provincia di Bobbio nell’ambito della divisione di Genova. Oltre a Caminata, facevano parte del mandamento di Zavattarello: Fortunago, Ruino, S. Albano, Trebecco, Valverde. Il comune di Canevino, che confinava con Moncasacco era invece in provincia di Voghera.

Venne ripristinato anche il confine di Stato col ricostituito Ducato di Parma e Piacenza: confine identico a quello fissato nel 1766 che a sud lambiva l’abitato di Moncasacco. Il Congresso di Vienna assegnò il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla a Maria Luisa d’Austria moglie di Napoleone. I Moncasacchesi che avevano terreni nel Ducato, cioè quei

103 FABRIZIO BERNINI, Quando Napoleone pranzò a Broni, articolo in “Il Popolo” del 27 gennaio 2000. 104 Facevano parte del dipartimento di Genova gli arrondissements (circondari) di Novi, Tortona, Voghera e Bobbio. 105 V. PALTRINIERI, I moti contro Napoleone negli Stati di Parma e Piacenza (1805-1806), (Bologna, 1927)- FRANCESCO LEONI, Storia della controrivoluzione in Italia (1788-1959), Guida Editori (Napoli, 1975), pagg. 37-40.

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terreni che si affacciano sulla Val Tidone, quando espatriavano per andare a lavorarli dicevano: «vo’ né lla Maria Luisa».

Movimenti di truppe lungo il confine ce n’erano spesso: ora per reprimere il contrabbando, ora per evitare ingressi non desiderati. Nel settembre 1831 lungo il confine le autorità piemontesi rafforzarono la sorveglianza nel timore di un espatrio di agitatori carbonari provenienti dal Ducato di Parma e Piacenza106.

I Moncasacchesi i loro prodotti li vendevano nei mercati che si tenevano nei paesi vicini. Di questi mercati scriveva nella prima metà dell’ottocento Lorenzo Molossi:

Pianello…è floridissimo il mercato di bestiame, granaglie, polli, frutte, cuoi ed altro che si tiene ogni mercoledì, al quale concorrono circa 3.000 persone dalla bella e popolosa vallata del Tidone, ed anche dal Pavese. Vi si tiene pure una fiera negli ultimi lunedì, martedì e mercoledì di agosto (decreto 9 agosto 1827)107. Nibbiano…al tempo del governo francese108 era un mercato fiorente, ma oggi109 è ridotto a poco per cagione delle gabelle piemontesi. Il lunedì dopo la 3ª domenica d’agosto vi si fa pure110 una piccola fiera di bestiame111

I Moncasacchesi, che acquistavano beni sia a Pianello che a Nibbiano, sarebbero dovuti passare con i loro acquisti da Caminata, dove vi era la ricevitoria di Dogana sarda112 per pagare la “gabella”, ma…ogni buon Moncasacchese sarà andato a casa per sentieri. Sfidiamo il lettore a dimostrarci il contrario! Senza dover attraversare la frontiera i Moncasacchesi potevano andarsene, sempre a piedi, a Zavattarello dove il mercato di bestiame e merci si teneva il mercoledì di ogni settimana113. Vi era poi il mercato di Santa Maria della Versa la cui esistenza venne ufficializzata da Re Vittorio Emanuele II, con decreto 23 marzo 1853, che autorizzò

a stabilire un mercato da tenersi nella borgata di Santa Maria della Versa nel

106 G. BARUFFI e C. LANATI, S. Maria della Versa ed il suo territorio, Luigi Ponzio e Figlio (Pavia, 1994), pg. 254. 107 LORENZO MOLOSSI, Vocabolario Topografico dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, edito a Parma nel 1832 dalla Tipografia Ducale, pag. 408. 108 Anni 1800-1814. 109 Anno 1832. 110 Ancor oggi (anno 2001). 111 MOLOSSI, op. cit., pag. 237. 112 La Ricevitoria di dogana del Ducato di Parma-Piacenza era Nibbiano. 113 Il mercato, su richiesta dei conti dal Verme, era stato autorizzato dal governo spagnolo con rescritto datato da Madrid il 4 dicembre 1649.

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sabato di ogni settimana, ed una fiera pure da tenersi nella stessa borgata nel lunedì immediatamente successivo al giorno sedici luglio di ogni anno114.

Il mestiere di vivere a Moncasacco era reso difficile anche dalle

epidemie che colpirono la regione: nel 1817 si era visto il tifo petecchiale, il colera si era affacciato negli anni 1836, 1837 e 1855.

Nel 1844 moriva a Piacenza il conte Carlo Arcelli che fu l’ultimo conte di Moncasacco perché non aveva eredi maschi. L’evento aveva solamente un risvolto araldico perché con l’abolizione del feudalesimo (1797) i conti Arcelli non esercitarono più alcuna signoria su Moncasacco.

Tre soli furono i conti di Moncasacco: Ottavio Arcelli dal 1687 al 1727; Giambattista Arcelli dal 1727 al 1792 e Carlo Arcelli dal 1792 al 1844.

Con legge 19 luglio 1857, n. 2320 i Comuni del circondario di Bobbio ebbero una riduzione del canone gabellario di lire 14 mila che si traduceva per Caminata in lire 248 e centesimi 27 e… per l’isola di Moncasacco nella classica castagna “bausciata”! XIII.- MONCASACCO PASSA ALLA PROVINCIA DI PAVIA (1859-1923)

Nella imminenza della seconda guerra di indipendenza (1859) Moncasacco, come terra di confine vide movimenti di truppe. Una traccia di questi eserciti “forse” è rimasta. Nel 1975 dove ora sorge “la Malmostosa” fu ritrovato un acciarino che un esperto (dottore Luciano Selvatici) affermò appartenere a fucile militare

di modello francese e più precisamente quello modello 1842 che fu usato da molti eserciti. Visto il luogo di ritrovamento i candidati più probabili sono il Regno di Sardegna (al quale Moncasacco apparteneva) o il Ducato di Parma col quale Moncasacco confinava115

. Probabilmente l’acciarino ritrovato nel 1975 apparteneva a un fucile che qualche soldato aveva abbandonato e che qualche Moncasacchese occultò. Sempre nel terreno dove sorge “La Malmostosa” fu ritrovato nel novembre 1998 un concreto ferroso che “sembrerebbe” appartenere a un crogiolo del periodo romano o antecedente (forse dei Liguri?). Ricerche fatte con apparecchio cerca metalli non hanno dato esiti positivi.

Il Piemonte invase nel 1859 il Ducato di Parma, che fu annesso al Regno Sardo in seguito a un plebiscito ben orchestrato (63.167 voti 114 G. Baruffi e C. Lanati, S. Maria della Versa ed il suo territorio, Luigi Ponzio e figlio Editori (Pavia, 1994), pg. 254. 115 Lettera del 14 gennaio 1988 del dottore Luciano Selvatici al dottore in medicina Carlo Alfredo Clerici.

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favorevoli contro 504 “no”) Questa annessione qualche riflesso l’ebbe: dopo secoli Moncasacco non fu più terra di confine fra Stati.

Amministrativamente Moncasacco frazione del comune di Caminata, circondario di Bobbio, fu aggregato alla provincia di Pavia.

A Bobbio i giovani Moncasacchesi andavano a fare la visita di leva. Era una “impresa” che durò fin quasi ai tempi della seconda guerra mondiale. A piedi i coscritti andavano a Bobbio attraverso la montagna. Impiegavano un giorno e mezzo ad andare ed altrettanto tempo a tornare. Se dichiarati abili i Moncasacchesi erano soggetti al servizio militare che dal 1861 al 1875 era di otto anni; ridotto a tre dal 1875 al 1887 e a due dal 1888 in poi. Indubbiamente il servizio militare era un “balzello” molto gravoso che toglieva braccia preziose alle famiglie. Unico elemento positivo era costituito dal fatto che i Moncasacchesi potevano “vedere” luoghi diversi dalla Val Versa e dalla Val Tidone. Certamente ne avrebbero fatto a meno!

Anche il nuovo Regno d’Italia, che era stato proclamato a Torino nel 1861, non fu foriero di grandi progressi sociali. Osservava giustamente Giovanni Spadolini116

Il Risorgimento politico della Nazione italiana non coincise con il Risorgimento sociale del suo popolo.

Per secoli a Moncasacco si arrivava per strade fangose, mulattiere e sentieri e questo costituiva un isolamento molto pesante, ma qualcosa col nuovo Regno cominciava a muoversi. Nel 1867 iniziarono i lavori dell’importante arteria, che dopo alcuni anni di lavoro fatto di piccone e di pala, congiunse Stradella a Zavattarello.

Nel triennio 1896-98 il Moncasacchese che scendeva a piedi a Santa Maria della Versa trovava un servizio di tram a cavalli col quale andava a Stradella dove poteva prendere il treno per Alessandria (il tratto era in funzione dal 1858) oppure il tram per Voghera (in funzione dal 1883). Per Moncasacco furono anni ancora duri: ci si muoveva a piedi per strade piene di fango, si lavorava la poca terra con il vanghetto e l’aiuto dei buoi. Anche lo Stato con nuove tasse contribuiva a rendere difficile la vita. Dal 1° gennaio 1869 fino al 1884, in forza della legge 7 luglio 1868, i Moncasacchesi dovevano pagare una tassa sulla macinazione dei cereali che versavano nelle mani del mugnaio prima del ritiro della farina. Solitamente si servivano di mulini posti lungo il Tidone e la Versa (Molino dei Fondi, Molino Garbarini, Molino Montà, ecc.). Il mulino era luogo d’incontro: mentre si aspettava il proprio turno per macinare si chiacchierava, si scambiavano idee e spesso si concludevano affari117. 116 GIOVANNI SPADOLINI, Lotta sociale in Italia, Firenze 1948, pg. 14. 117 MATTIA TANZI, L’ultimo mulino d’Oltrepo’ rischia la scomparsa, articolo in “Il Popolo” del 22 febbraio 2001.

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Nel 1879 arrivò l’infezione della peronospera. Ci vorranno dieci anni per debellarla spruzzando sulle viti, con una pompa a pressione azionata a mano, una miscela di solfato di rame e calce. Negli anni 1867 e 1886 fece la sua comparsa il colera. Raramente arrivava il medico condotto, il più delle volte si ricorreva a qualche “medicone” che conosceva le proprietà delle erbe medicinali. Fra questi ricordiamo don Giovanni Guasone, prevosto di Canevino dal 1873 al 1908, che aveva

fama di medico, ordinava erbe e unguenti e una quantità di ammalati si recavano da lui118.

La lontananza dei mercati rendeva difficile vendere “vantaggiosamente” i prodotti della terra. Qualche utilità la portò la costituzione, nel 1905, della Cantina Sociale di Santa Maria della Versa119. Si ebbe nella Val Versa una trasformazione del paesaggio agricolo: ci si indirizzò verso la monocultura (cioè la vite) perché grazie alla Cantina Sociale era possibile vendere “equamente” il prodotto. Lo scoppio della prima guerra mondiale vide partire alcuni Moncasacchesi per il fronte. Giuseppe Quadrelli fece la guerra fra gli Arditi, in un reparto d’assalto cui erano affidate operazioni particolarmente rischiose. Al ritorno il mutilato Varini, con i soldi dell’assicurazione che spettava ad ogni soldato ferito in zona di guerra, si costruì in Moncasacco alta una torretta in pietra a tre piani che pericolante venne demolita intorno al 1980. XIV MONCASACCO RIDIVENTA PIACENTINO NEL 1923 e RITORNA PAVESE NEL 1938 Il dopoguerra fu movimentato dallo scontro fra “rossi” e “fascisti” che culminò il 28 ottobre 1922 con la marcia su Roma.

Nonostante tutto la civiltà avanzava: alla fine degli anni venti il Moncasacchese aveva la possibilità di farsi a piedi una decina di chilometri e poteva trovare a Nibbiano o a Santa Maria un tram che lo portava a Castel San Giovanni o a Stradella.

Una concreta occasione di lavoro per gli abitanti di Moncasacco (come per quelli di Ruino, Zavattarello, Caminata, ecc.) fu la costruzione

118 Dalla Cronistoria della Parrocchia di Canevino scritta dal prevosto don Antonio Grassi e pubblicata nel libro di GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO BERNINI, Canevino terra dell’Alta Val Versa, a cura del comune di Canevino (Broni, 1988), pg. 157. 119 GIORGIO CASELLA, Le cantine sociali nell’Oltrepo. Origini e primi sviluppi, articolo in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria (1974-76), pagg. 231-257.

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della diga che ha dato origine al lago di Molato120. Il 21 marzo 1917 era stato costituito il “Consorzio di irrigazione della Val Tidone” che incaricò l’ingegnere Augusto Ballerio di fare il progetto per una diga che doveva sbarrare il Tidone a 250 metri a monte della confluenza del torrente Molato. Il 15 giugno 1923 Benito Mussolini, presidente del Consiglio dei Ministri, venne ad inaugurare i lavori della diga che durarono per sei anni. Il lavoro di scavo e la gettata in calcestruzzo121 furono fatti a mano da lavoratori che venivano dalla Val Tidone e… anche da Moncasacco. Costruirono una diga, che poteva trattenere 12 milioni di metri cubi d’acqua, di

un’altezza di 48 metri dal piano dell’alveo a valle; la parte centrale con struttura ad archi multipli, consta di 17 volte in calcestruzzo armato che scaricano su 16 speroni intermedi e, alle estremità, su tronchi di diga a gravità massiccia122.

Nel maggio 1929 la diga fu inaugurata alla presenza del Principe Ereditario: S.A.R. il Principe Umberto di Savoia giunse accompagnato dal suo primo aiutante di campo: il generale Ambrogio Clerici, un pavese nativo di Costa de’ Nobili. Il Regio decreto 8 luglio 1923, n. 1726, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 agosto 1923, soppresse la circoscrizione circondariale di Bobbio assegnando i Comuni, che ne facevano parte, alcuni alla provincia di Genova, altri a quella di Piacenza, altri lasciandoli a quella di Pavia. I comuni di Caminata (e quindi Moncasacco), Ottone, Cerignale, Zerba, Corte Brugnatella, Bobbio, Romagnese, Zavattarello, Trebecco e Ruino furono aggregati alla Provincia di Piacenza ed assegnati al primo circondario. Vi furono dei malumori, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno (n. 113 del 15 maggio 1925) del Regio Decreto del 2 aprile 1925 che istituiva la circoscrizione di Bobbio aggregandola alla provincia di Piacenza. Nel decreto si leggeva:

E’ istituita la circoscrizione circondariale di Bobbio con i comuni di Bobbio, Caminata, Cerignale, Coli, Corte Brugnatella, Ottone, Pecorara, Romagnese, Ruino, Trebecco, Zavattarello e Zerba.

Scoppiò nella Alta Val Tidone una piccola rivoluzione123 che durò dal luglio 1925 al dicembre 1926. Il ponte di legno (ora è in muratura) della strada 120 ANTONIO e MARCO ZAVATTARELLI, La diga di Molato, Trebecco, la Madonna della Torrazza, edizioni Pontegobbo (Fidenza, 1995). 121 Una cementiera fu impiantata poco fuori il paese di Caminata e ancora nell’anno 2001 se ne vedono gli anti-estetici resti. 122 ZAVATTARELLI, op. cit., pg. 20. 123 CARLO ALBERTO FACCHINO, ANTONIO TRAZI, ENRICO BALDAZZI, Zavattarello- pagine di storia e di vita, stampato a cura dell’Associazione Amici di Zavattarello- Pro Loco (Pavia, 1972) pgg. 103-114.

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Zavattarello-Caminata una notte venne bruciato. La linea telefonica con Piacenza fu più volte interrotta perché i pali di sostegno furono segati o fatti saltare con la dinamite. Nel dicembre 1925 più di mille uomini della Valtidone marciarono su Bobbio, allora sede di una sottoprefettura. In seguito a questo episodio il Governo di Roma il 27 febbraio 1926 indisse un Referendum: la maggioranza votò per il ritorno alla provincia di Pavia. Con la legge 23 dicembre 1926, n. 2246 (in Gazzetta Ufficiale n. 8 del 12 gennaio 1927) i comuni di Zavattarello, Romagnese e Ruino passarono di nuovo sotto la provincia di Pavia. Moncasacco, quale frazione di Caminata, restò alla provincia di Piacenza. Moncasacco fu ed è terra piacentina, staccata dal Ducato di Parma e Piacenza dal trattato di Worms del 1743, restò separata dalla madre patria (il Piacentino) per centottanta anni. Non avverrà mai, ma nel caso si dovesse ripristinare il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla certamente si dovrebbe includere nel Ducato l’isola di Moncasacco che per tanto tempo fu “terra irredenta”124; al contrario Caminata (sede del Comune) è da considerarsi terra di tradizione pavese. Gli sconvolgimenti amministrativi dell’isola di Moncasacco, aggregata al comune di Caminata non erano certamente finiti! Il Regio Decreto 13 dicembre 1928, n. 3173 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 25 del 30 gennaio 1929) dispose la soppressione dei comuni di Caminata e di Trebecco e la loro aggregazione al comune di Nibbiano. Moncasacco divenne così frazione di Nibbiano, cessando di essere un’isola amministrativa perché non era più separata dal territorio comunale. Con legge 30 dicembre 1937 Moncasacco, Canova e le Mostarine, con i loro 137 abitanti, passarono sotto il comune di Pometo125 che apparteneva alla provincia di Pavia. Nel 1938 arrivò a Moncasacco anche la luce elettrica. La scuola era in due stanze del castello (proprietà Anguissola) e dipendeva prima dalla direzione didattica di Caminata e poi (1938) da quella di Pometo. Ancora nel decennio 1930-40 i Moncasacchesi si muovevano a piedi; sulle strade vi era un gran passaggio di pedoni: automobili se ne vedevano poche. Da Moncasacco a piedi per sentieri molti suoi abitanti andavano a Nibbiano. Fra tutti ricordiamo il signor Giuseppe Bellinzona e la signora Giuseppina Scarani che sposò poi il signor Leonida Calatroni che si recava in Val Tidone per rifornirsi di tabacchi per la privativa che gestiva prima con 124 Sulla pretensione al Trono del Ducato di Parma e Piacenza si consulti di PAOLO RINALDO CONFORTI,Il patrimonio araldico della Real Casa di Borbone Parma – L’Ordine di San Lodovico, Silva Editore (Parma, 1998). Cfr. articolo in “Libertà” del 27 settembre 2000 di LUDOVICO LALATTA, Carlo Ugo di Borbone a Piacenza. 125 Il regio decreto 3 settembre 1936, n. 1758 (in Gazzetta Ufficiale del Regno n. 233 del 7 ottobre 1936) stabilì che i comuni di Ruino e di Canevino si unissero in un unico comune denominato Pometo.

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la madre e poi lei stessa. La privativa era un negozietto che, oltre ai generi del monopolio di Stato (tabacchi, sale, chinino, fiammiferi) vendeva di tutto. In locale separato c’era l’osteria che aveva la stessa conduzione della privativa. L’osteria era un’istituzione: abbiamo visto che esisteva a Moncasacco già nel 1688. Come in tutte le osterie si

parlava dei fatti della settimana (non arrivavano giornali), dei campi, dei raccolti, dell’andamento del tempo e delle stagioni. L’Osteria era luogo d’incontro, di discussioni, di confronti, di scambi di pareri, di affari, di informazioni e quindi di emancipazione e, perché no, anche di cultura e di formazione professionale126.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale vide alcuni Moncasacchesi partire per fronti lontani. Uno di questi non rivide Moncasacco perché cadde in combattimento: si chiamava Gino Mastri. Chi rimase a Moncasacco però dovette affrontare un periodo difficilissimo. Alla sera spesso si sentivano passare gli aerei degli Alleati e poco dopo si vedeva in lontananza su Pavia e su Milano il cielo diventare rosso per gli incendi provocati dalle bombe.

Lo zolfo e il solfato di rame furono razionati così per tutto il periodo di guerra vi fu un aumento delle malattie dell’uva. Nel febbraio 1943 vennero proibiti i mercati e le fiere del bestiame, anche i Moncasacchesi furono costretti a sottostare alla vendita controllata conferendo i loro prodotti all’Ammasso. In questo periodo era venuto ad abitare a Moncasacco un tipo strano: un certo Nemesio Quadrelli, proveniente da Golferenzo. Faceva il fabbro: a piedi andava a cercare il lavoro di paese in paese, di cascina in cascina. Era abilissimo a saldare a fuoco vivo, nel costruire attrezzi agricoli…non era però abile a farsi pagare così viveva in ristrettezze. Il fabbro Nemesio si era costruito un alambicco per distillare la grappa, operazione quasi alchemica che faceva nelle nottate senza vento per non turbare le narici della Regia Guardia di Finanza. A Moncasacco c’era un altro fabbro (Gustèn Bellinzona) che aveva il suo laboratorio davanti alla Chiesa, nell’edificio in pietra che poi fu adibito a box dal signor Giovannino Ganelli. XV.- LA GUERRA PARTIGIANA

Nei giorni che seguirono l’8 settembre 1943 passarono da Moncasacco alcuni soldati del disciolto Regio Esercito, che cercavano di sfuggire ai posti di blocco istituiti dai Tedeschi lungo la via Emilia.

126 Da articolo di EMILIO del GOBBO contenuto nel libro di ENZO DRIUSSI, Vecchie osterie friulane solo un ricordo?, CCIAA Servizi (Udine, 1995), pag. 67.

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La costituzione della Repubblica Sociale permise, per breve tempo, ai fascisti di affacciarsi nella alta Val Versa. Poterono farlo per poco tempo perché la zona venne occupata dai partigiani.

A Pometo e Ruino c’era il gruppo di Tiziano Marchesi, detto il Tungra, mentre il gruppo “Montù” comandato da Cesare Pozzi (detto Fusco) si muoveva nella Val Versa e, pur mantenendo i suoi punti di forza nella zona collinare e montana di Casa Matti, Scagno, Torre Alberi, Calghera, Ruino, etc. ha come principale obiettivo la via Emilia, importantissima arteria di collegamenti e dei vettovagliamenti nazi-fascisti127.

Poco distante da Moncasacco il 16 maggio 1944 un commando della “Piccoli” aveva freddato il colonnello Vittorio Ricci, commissario prefettizio di Volpara: un fascista al quale qualche abitante di Moncasacco aveva fatto ricorso.

La zona a cavaliere tra il torrente Versa e il torrente Tidone era presidiata dalla 2ª Brigata Giustizia e Libertà. Nell’agosto 1944 i partigiani avevano liberato

Rocca de Giorgi, Ruino, Montecalvo, Canevino, Volpara, Golferenzo, Fortunago, Borgoratto Marmirolo, Montalto Pavese e Rocca Susella128.

Il 9 agosto i Tedeschi avevano abbandonato il presidio di avvistamento situato a Costa di Volpara perché seriamente minacciato dai Partigiani129.

Le notizie dei rastrellamenti fascisti, nelle località vicine, tenevano sulla corda i Moncasacchesi. Il 10 agosto 1944 a Santa Maria della Versa

circa duecento persone, tutti uomini adulti, sono arrestate e portate in piazza della Chiesa per essere fucilate. In favore degli arrestati interviene coraggiosamente don Vincenzo Lanardi, parroco di Santa Maria della Versa e con le sue suppliche riesce a convincere i nazifascisti a rinunciare alla strage130.

Moncasacco ebbe la fortuna di non subire il grande rastrellamento che la 162ª divisione Turkestan131 iniziò la notte fra il 22 e il 23 novembre 1944 lungo tre direttrici: una da Borgonovo Valtidone attraverso Pianello e Nibbiano, un’altra da Casteggio e una terza da Broni e da Stradella.

127 Paesi e Gente di quassù, Centro Culturale “Nuova presenza” (Varzi, 1979) pgg. 143-144. 128 UGO SCAGNI, guerriglia partigiana e popolazione in un settore dell’Oltrepo’ pavese, Editoriale dei Corsi Serali di Stradella, pg. 63. 129 UGO SCAGNI, La Resistenza e i suoi Caduti tra il Lesima e il Po, Edizioni Guardamagna (Varzi, 1995), pag. 171. 130 AA.VV., Cento Croci e Cento pagine di Storia della Resistenza nell’Oltrepo, ANPI di Stradella (Broni, 1980), pag. 13. 131 Grande unità dell’esercito tedesco composta in gran parte da truppe turcomanne ed impiegata in Italia con compiti antiguerriglia. I suoi componenti erano impropriamente chiamati “mongoli”.

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Passarono da Pometo e dal Carmine. A Moncasacco tirarono un respiro di sollievo quando appresero che i “mongoli” si erano diretti verso il Pavese montano (Zavattarello, Romagnese). I partigiani “prudenzialmente” si erano ritirati in luoghi più sicuri, poi nel gennaio 1945, allentata la morsa tedesca, rioccuparono l’alta Val Versa con tre brigate (Togni, Milazzo, Matteotti).

La brigata Togni formatasi il 10 gennaio 1945 presidiò la Val Ghiaia e il costone che dal castello di Montù Berchielli arrivava alla Chiesa di Canevino. L’8 febbraio 1945 la brigata Togni occupò Pometo.

La brigata GL. Milazzo-Deniri, comandata dal tenente Guido, aveva inizialmente il comando a Cascina Rossarola, poi da metà gennaio 1945 si trasferì a Casa Calatroni.

La brigata Matteotti nel novembre 1944, sotto la pressione della divisione tedesca Turchestan era stata costretta a rifugiarsi sulle montagne della alta Val Curone. Verso Natale i partigiani della brigata Matteotti ritornarono alla spicciolata in Oltrepo’. Fusco,132 il comandante della brigata decise di occupare Moncasacco

essenzialmente per la sua posizione, allora più difficile di adesso da raggiungere. Si lasciavano le strade innevate si da rendere difficoltoso il traffico di mezzi a motore; difendibile, per quanto lo potevamo difendere, abbastanza defilato, per vederlo bisognava entrarci ma soprattutto perché offriva varie possibilità di ritirata in particolare per la vicinanza al piacentino. Tra le forze avversarie pavesi e piacentine non esisteva quel collegamento atto a produrre unità nelle operazioni. Sul piacentino si stava meglio, non vi era la Sichereits (la SS italiana)133.

Dalla metà del gennaio 1945 cominciarono ad affluire a Moncasacco una quarantina di partigiani e la popolazione li accolse favorevolmente. Fusco ha scritto134:

nella popolazione, che allora credo fosse un po’ meno di 100 unità, trovammo una cordiale ospitalità e nonostante rischiassero più di noi in quanto per noi, era solo la vita, per loro: la vita ed averi. Da parte nostra cercammo di dare il meno fastidio possibile. Ricordo vi era un tale che chiamavamo il Fabbro135, lo faceva per mestiere, era il maggiorente della frazione e funzionava da collegamento collaborando con noi per risolvere ogni problema che poteva sorgere e il comune di Pometo per quanto riguardava la amministrazione.

Il comando della brigata partigiana fu posto nel castello dove

132 Cesare Pozzi 133 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 settembre 1993. In A.d.c.C. 134 idem. 135Si tratta del fabbro Gustèn Bellinzona.

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vi era una piccola scuola elementare, due locali ed una scala per accedervi. Ne facemmo un ufficio e vi collocammo una vecchia Olivetti e dove tenevamo i processi136.

In un processo contro un partigiano il fabbro Gustèn Bellinzona fece da pubblico ministero137. Il primo pensiero del comandante Fusco fu di rendere difendibile Moncasacco nel caso di un’incursione nazi-fascista. Fu stabilita una linea avanzata sul costone Mollio-Costa Piaggi, mentre a Moncasacco si prepararono delle difese perché era prevista

la resistenza nella parte nord del paese, quella che guarda Canova, dove scavammo una specie di trincea su un sentiero che dalla frazione scendeva sulla strada per Canova138.

Fino al 1985 questa trincea era ben visibile sul terreno sotto l’acquedotto, poi il proprietario (Romeo Razzini) fece livellare il terreno da una ruspa, cancellando la trincea. I Partigiani non avevano bisogno di “depredare” gli abitanti di Moncasacco perché erano ben forniti di denaro e potevano acquistare ciò di cui avevano bisogno sia a Moncasacco che al mercato di Nibbiano. Questo facilitò i rapporti con i Moncasacchesi. L’atmosfera che c’era in paese in quel periodo la possiamo ricavare da due lettere del comandante Fusco che ha scritto:

gli abitanti di Moncasacco, in quel tempo, vivevano sui terreni che lavoravano traendone il sostentamento, agricoltura e bestiame. Le stalle erano piene di buoi. Ovviamente una vita semplice, non vi era certamente il consumismo di oggi. Una vita dignitosa. Nessuno è mai venuto a lamentarsi ne chiederci aiuti di sorta139. Nel dramma non mancarono anche i momenti della commedia, momenti felici con la gente del paese140.

Gli Americani con aviolanci rifornirono i partigiani di armi, di divise, di benzina, di razioni di viveri, di radiotelefoni, di carte geografiche dettagliate e di denaro141.

Nel febbraio 1945 i Partigiani che erano a Moncasacco avevano queste armi: una mitraglia di fabbricazione tedesca (machine Ghaver) usata

136 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C. 137 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 settembre 1993. In A.d.c.C. 138 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C. 139 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 ottobre 1993. In A.d.c.C-. 140 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C. 141 lettera di Cesare Pozzi del 25 settembre 1993. In A.d.c.C.

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da un tedesco che aveva disertato, fucili e sten americani, oltre a molte bombe a mano142. Il 14 febbraio 1945, era il giorno delle Ceneri143, verso le otto del mattino le vedette partigiane che erano appostate sulla linea Mollio-Costa Piaggi diedero l’allarme. Il comandante Fusco, giunto da Moncasacco, ha poi raccontato144 che cosa vide:

…scorsi nel cerchio del binocolo un autobus che, alla grande svolta della provinciale che da Santa Maria della Versa porta a Montecalvo dove è il bivio per Volpara e cioè la strada che arriva fino a noi, scaricava uomini. Feci girare le lenti e al bivio Volpara-Golferenzo vidi una lunga fila indiana che si snodava per la strada tortuosa tra la neve sino al nostro torrente. Venivano, infatti, dopo un attimo di sosta al bivio (probabilmente la guida non sapeva la strada) scelsero la destra.

Fu dato l’allarme. Fusco decise di aspettare il nemico sulla linea Mollio-Costa Piaggi. Arrivarono da Moncasacco i partigiani della brigata Matteotti e da Costa Calatroni quelli della brigata “GL Milazzo De Niri”. Quando la colonna nazi-fascista arrivò in località “Bacà”145 i partigiani, che occupavano una posizione dominante cominciarono a sparare. Il capitano Hofman146, che guidava la colonna nazi-fascista, fu colpito a morte: ed i suoi tentarono invano di portarlo verso il Colombarone. La battaglia durò147 dalle dieci alle sedici con alterne vicende perché i fascisti ricevettero verso le quattordici dei consistenti rinforzi che portarono un cannone e dei mortai. Verso le quindici i partigiani mossero all’attacco e per il nemico non ci fu più scampo: i nazi-fascisti dovettero battere in ritirata verso Santa Maria della Versa lasciando sul campo diversi morti.

A Moncasacco fu portato il cadavere del capitano Hofmann e fu giustiziato il sergente Muller148. I loro cadaveri, nel timore di una rappresaglia tedesca, furono sepolti nel bosco dell’Inferno. Poco dopo vennero esumati perché il Comando Tedesco, tramite don Diana parroco di Volpara, aveva chiesto di poter avere i corpi, richiesta che il Comando della Brigata Matteotti decise di accogliere. Dal presidio tedesco di stanza alla

142 idem 143 CARLO ALFREDO CLERICI ed ENRICO E. CLERICI, La battaglia delle Ceneri (14 febbraio 1945), in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria dell’anno 1996 pagg. 391-399. 144 memoria del comandante Fusco pubblicata nel libro di GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO BERNINI, Canevino, terra della Alta Val Versa, a cura del Comune di Canevino, (Broni, 1988) pag. 177. 145 Sulla strada per Nibbiano al bivio per Moncasacco. Ora vi è un misero monumento a ricordo della battaglia. 146 Il capitano Hofman in realtà si chiamava Luis Ferdinand Bisping. 147 testimonianza di Cesare Pozzi (Fusco). 148 Il suo vero nome era Werner Schlneter.

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Centrale dei telefoni di Montù Beccaria, sempre tramite don Diana, arrivarono due casse da morto, cosicché

martedì 20 febbraio alle quattro del pomeriggio le spoglie mortali di Hofmann, con quel tram salito giorni prima con tanta sicurezza, arrivarono a Stradella.

Il Parroco di Canevino (don Grassi) scrisse subito una bella poesia per celebrare la vittoria:

il nemico è battuto ed in rotta mentre Hofmann è ucciso al Bacà.

La sera del 14 marzo nei paesi occupati dai Partigiani si fece festa. La felicità dei Moncasacchesi per la vittoria era più che giustificata perché il nemico era stato fermato sul costone di Costa Piaggi e quindi il paese era stato risparmiato sia dalle bombe che dalla rappresaglia nazi-fascista. Scrive149 Fusco:

indubbiamente dopo la battaglia vi fu allegria in tutte le popolazioni della zona. Da un documento trovato nelle tasche del sergente tedesco, caduto, nell’itinerario che avrebbe dovuto percorrere quel giorno (se andava bene) vi era anche Moncasacco e il rastrellamento (così si chiamavano le incursioni nazi-fasciste) doveva essere di terzo grado, incendiare i nostri rifugi.

Gli abitanti di Moncasacco non avevano partecipato alla battaglia delle Ceneri, ma alcuni portarono viveri e soprattutto vino ai partigiani che combattevano150.

Alcuni giorni dopo la battaglia delle Ceneri, era la sera del 18 febbraio 1945, il comandante Fusco con altri due uomini scese da Moncasacco a Stradella per giustiziare alcuni fascisti. Uno di questi benchè colpito reagì ferendo alla pancia il partigiano Romano Bongiorni151. Fusco caricò il ferito su un calesse e lo portò a Moncasacco: era gravissimo perché aveva perso molto sangue. Bisognava trovare un medico: ci pensò Quintino Bongiorni che era stato avvisato del ferimento del cugino da un partigiano della Matteotti. A cavallo andò a Borgonuovo e convinse un medico di quell’Ospedale a seguirlo per sentieri fuori mano. Era notte, per non incontrare i fascisti i due passarono per Vicomarino, Montalbo, Tassara, Stadera, Monte Pioggia e alla fine arrivarono

a Moncasacco dove si compì il miracolo. Il medico al lume di candela e in una stalla, gli estrasse la pallottola152.

149 Cesare Pozzi (Fusco) lettera del 12 settembre 1993. 150 Lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 ottobre 1993. In A.d.c.C.00 151 Memorie del partigiano Gino Bongiorni, Casa Editrice Vicolo del Pavone (Piacenza, 1999) pg. 76. 152 Idem pg. 76.

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Il partigiano Romano Bongiorni guarì grazie alla perizia di quel medico, il cui nome ignoriamo. L’occupazione di Moncasacco da parte della Brigata Matteotti durò poco più di due mesi (dal gennaio al marzo 1945). Scrive153 il Fusco:

levammo le tende da Moncasacco verso la metà di marzo, un reggimento di soldati slovacchi aveva disertato, esigenze logistiche esigevano l’occupazione di zone più a nord così ci portammo a Costa Calatroni, sopra Volpara, da dove partimmo per la pianura il 25 aprile.

XVI.- IL DOPOGUERRA: LO SPOPOLAMENTO E L’ARRIVO DEI “MILANESI”

La guerra finalmente finì! Bisognava ricostruire l’Italia. Le donne di

Moncasacco, per la prima volta nella Storia, furono chiamate a votare, diritto che esercitarono a Pometo, dove154 nel referendun istituzionale vinse la Repubblica con 618 voti, mentre la Monarchia ebbe 234 voti. Dopo Volpara (23,5%), Pometo fu il comune della provincia di Pavia colla maggiore percentuale di voti non validi: 250 (22,7%), di cui 232 schede bianche. L’Italia divenne una Repubblica: i Moncasacchesi erano stati sudditi della Real Casa di Savoia per 203 anni, cioè dal 1743 al 1946.

Nell’agosto 1946, in varie parti d’Italia, molti ex-partigiani salirono nuovamente in montagna per protestare contro il tradimento degli ideali della Resistenza. Su proposta dell’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della giustizia, il governo De Gasperi aveva concesso un’amnistia della quale beneficiarono “anche” i fascisti. Il 24 agosto 1946 il quotidiano “l’Unità ” così spiegava la protesta degli ex-Partigiani che vedevano

una metodica distruzione delle loro speranze e degli ideali per i quali hanno dopo l’8 settembre impugnato le armi.

Il 24 agosto 1946 anche il territorio del Comune di Pometo155, del quale Moncasacco era frazione dal 1938, fu occupato da una sessantina di ex-Partigiani al comando di Tiziano Marchesi. Dopo qualche giorno con “false” promesse il Governo li convinse a tornarsene a casa. I Moncasacchesi, durante l’occupazione partigiana, non furono disturbati, dovevano solamente superare un posto di blocco nei pressi di Pometo.

153 Lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C. 154 MINISTERO DELL’INTERNO, Consultazioni popolari della Lombardia 1946/60, volume I, edito dal Poligrafico dello Stato (Roma). 155 UGO SCAGNI, La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po, Edizioni Guardamagna (Varzi, 1995)

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Il Fascismo aveva soppresso i piccoli Comuni, la neo Repubblica invece volle ripristinarli. La legge 21 gennaio 1950, n. 25 (in Gazzetta Ufficiale n. 41 del 18 febbraio 1950) decretò la “Ricostruzione del Comune di Caminata” con la circoscrizione preesistente all’entrata in vigore del regio decreto 13 dicembre 1928, n. 3173 che aveva stabilita l’aggregazione del comune di Caminata a quello di Nibbiano. Ope legis l’isola di Moncasacco passò dal comune di Ruino-Pometo a quello di Caminata. Si ridiventava piacentini! La cosa non piacque a tutti: alcuni Moncasacchesi guidati da Giuseppe Quadrelli protestarono energicamente. Fra le famiglie residenti in quel tempo a Moncasacco ricordiamo: Bellinzona, Cagnani, Calatroni, Dalmini, Duca, Ordali, Pezzina, Quadrelli, Varini, Vornucci. Ancor oggi si racconta di un evento naturale che sconvolse la zona fra Pometo e Moncasacco: nel giugno 1950 il cielo si oscurò e si scatenò una terribile grandinata che fece ingenti danni distruggendo i raccolti…come al solito gli aiuti del governo furono pochi. I dati dei censimenti parlano chiaro: nel dopoguerra l’isola di Moncasacco cominciò a spopolarsi. La gente migrò nei paesi vicini (Pometo, Broni, Stradella) e nelle grandi città (Pavia, Milano). Prima della seconda guerra mondiale (ci riferiamo ai dati del censimento del 1936) i residenti erano 138; nel 1951 erano scesi a 93, nel 1961 a 67 e nel 1971 a 47. I Moncasacchesi se ne andavano altrove: la privativa e l’osteria vennero chiuse; i pochi che rimasero dovettero fare i conti col molto silenzio: poterono però ampliare i loro possedimenti acquistando terre da chi lasciava il paese. L’esercizio dell’agricoltura anche a Moncasacco, nonostante il governo di Roma, divenne più redditizio grazie alla meccanizzazione e al maggior numero di terreni da coltivare soprattutto a vigna: un’unica scelta che ha anche condizionato il paesaggio156. Intorno al 1975 ad uno degli autori capitò di assistere a uno scambio di “impressioni nostalgiche” fra i signori Agostino Calatroni e Giuseppe Quadrelli che rimpiangevano la qualità del vino d’un tempo, quando la vigna si lavorava tutta col vanghetto…sembrava che parlassero dell’ambrosia, la bevanda degli Dei dell’Olimpo.

Se esaminiamo nel dettaglio i dati dei censimenti ci accorgiamo che lo spopolamento fu più marcato nella capitale dell’isola che a Canova. Nel 1936 i residenti a Moncasacco erano 78 e nel 1971 erano solo 7; mentre a Canova nel 1936 i residenti erano circa157 55 , erano scesi a 37 nel 1971. Già

156 articolo di CORRADO BARBERIS intitolato “il paesaggio agrario” contenuto nel volume Il Paesaggio Italiano, Touring Editore (Milano, 2000). 157 Il dato della Canova non era scorporato da quello della Mostarina di sotto ed indicato sotto la voce “case sparse” che indicava 60 residenti.

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nel 1951 gli abitanti di Canova (54 residenti) superavano quelli di Moncasacco (32 residenti).

Fin verso il 1970 la spesa si poteva farla a domicilio: passavano con i loro carretti sia Pipotu (Giuseppe Labò), che vendeva alimentari, carne di maiale, mostarda che teneva in mastelle di legno di castagno sia “ad Gilon ” (Mario Pezzati) che vendeva frutta e verdura. Quest’ultimo arrivava su un carretto trainato da un mulo, che aveva la caratteristica di fermarsi davanti alle porte delle osterie.

La scuola fino al 1968 si tenne, come sempre, in due stanzette del castello di Moncasacco: vi insegnò anche la maestra Anna Maria Achilli. Nel 1969 la scuola fu spostata a Canova in una casa di proprietà del signor Primino Calatroni, dove vi insegnarono le maestre: Mariuccia Tagliani, che veniva da Borgonuovo, Nicoletta Zuffada e Mariangela Chiesa. Lo scuola-bus e il decremento demografico fecero chiudere la scuola: i pochi ragazzi furono costretti ad andare a Pometo dove, oltre alle elementari, era stata istituita la scuola media, divenuta scuola dell’obbligo. L’isola di Moncasacco ebbe i suoi primi geometri e ragionieri, ma anche questo traguardo fu conquistato a costo di fatica perchè per frequentare a Stradella le superiori i giovani Moncasacchesi dovettero sobbarcarsi delle “levatacce”. Una delle cause dell’abbandono di Moncasacco era il frazionamento della proprietà che non dava reddito sufficiente per tutti. Gli autori di questa breve storia il 20 febbraio 1971 a Stradella, davanti al notaio Giovanni Adamo, acquistarono due stallette e dieci pertiche di terreno dove nel 1976 cominciarono la costruzione de “La Malmostosa”. I venditori di quella poca terra erano ben dodici (cinque Bellinzona; un Dalmini e sei Calatroni), tutti nati nell’isola di Moncasacco, ma al momento dell’atto solo cinque residenti. Il più vecchio, nato il 28 ottobre 1884, era il signor Ernesto Calatroni che da “patriarca” venne a Stradella accompagnato dai suoi cinque figli. Il Comune di Caminata non era in grado di provvedere “ad una curata e ordinata manutenzione delle strade158“. Per poter beneficiare dell’intervento dello Stato (come prevedeva la legge n. 181 del 21 aprile 1962) nella seduta del 4 gennaio 1965 il Consiglio Comunale classificò le strade comunali ad uso pubblico. Le strade dell’isola di Moncasacco furono così classificate:

a) Strade comunali esterne (extra-urbane) 1. Bivio Rossarola-Moncasacco- Canova-Bivio Baccà159 Km. 3,064

b) Strade vicinali

1. Canova-Rossella-Pieve di Stadera Km. 2,560 2. Moncasacco-Mostarina Km. 1,852 3. Rio Cavaione-Moncasacco Km. 0,772

158 Documento in A.C.C. 159 ora strada provinciale n. 160.

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Dal 1970 si verificò il fenomeno del ripopolamento durante il fine

settimana. Le case disabitate (erano in maggioranza a Moncasacco paese) vennero poste in vendita. Uno degli artefici di questa operazione fu il mediatore Attilio Zandalassini che si pubblicizzava sul quotidiano “La Provincia Pavese”. In archivio conserviamo questo annuncio apparso il 21 marzo 1970:

Casetta 3 locali, 4 pertiche terreno, collina pavese, vista panoramica vendo 700.000.- Zandalassini Attilio, Albergo Belvedere, Carmine di Ruino tel. 0385-79743.

Per curiosità l’annuncio si riferiva alla casa che fu acquistata da Romeo Razzini, ora casa di Antonio Viserta. Agli annunci del Zandalassini, il tipico mediatore col fazzoletto annodato al collo, “abboccarono” numerose famiglie che cercavano una seconda casa per avere un motivo plausibile per uscire il sabato e la domenica dalla città.

Ogni rilevamento catastale, ogni frazionamento era fatto dal geometra Fausto Calatroni, che aveva studio a Pometo, che potremmo definire il “catasto vivente” perché quello che diceva lui in fatto di termini era “Vangelo”. Vennero poi altri geometri: Gatti (dal Carmine); Mario Bollati (da Nibbiano); Tino Comaschi (da Santa Maria della Versa) e in seguito Graziano Degli Antoni (da Pometo) e Marino Calatroni. Tecnici del Comune furono, in ordine di tempo, i geometri: Mario Bollati, Giuseppe Romani e Claudia Calatroni. I nuovi dimoranti vennero subito bollati dai residenti come “i milanesi ”, ma ad onor del vero l’etichetta era impropria perchè160 i ROSSI erano di origine cremasca; pavesi erano i NEGRI, i RAZZINI, i CLERICI161; siciliani i TRISCARI e i BRIGANDI’; piemontesi i VITTONE; pugliesi i RECCHIA.

All’inizio degli anni settanta ci volle del coraggio, se l’incoscienza si può definire coraggio, ad acquistare a Moncasacco case e terreni. In quel periodo dei “servizi civili “ c’era solo la luce; l’acqua era erogata (si fa per dire) da un acquedotto rurale che mal funzionava tanto che a Moncasacco alta non arrivava: si doveva andare a prenderla con delle taniche a un rubinetto vicino alla Chiesa. Non c’erano né il telefono, né la fognatura, né il servizio spazzatura: le strade non erano asfaltate. Sembrava di vivere in un’altra epoca. Fin verso il 1980 si poteva incontrare, trainato da un vecchio cavallo, il tibar162 del “mulnè Valeri” che ritirava nelle cascine i cereali che riportava macinati qualche giorno dopo.

160 Per tutti ci riferiamo all’origine del capo famiglia. 161 Apparteneva alla famiglia don Pietro Antonio Clerici che fu parroco di Soriasco dal 1707 al 1743. 162 Carro a due ruote ribaltabile all’indietro.

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I “milanesi” di diverse estrazioni portarono la loro cultura e purtroppo qualcuno, contro il più elementare senso dell’estetica, portò la “cultura della periferia“ che consisteva nel far baracche di lamiera e nell’ammonticchiare i “residuati” degli straccivendoli, svilendo la bellezza del posto e col rischio, fortunatamente sventato, di trasformare il paese in una “favela”. Nel 1977 le famiglie presenti163 nell’isola di Moncasacco erano:

AIMI, BELLINZONA, BORIERI, BRIGANDI’, CALATRONI, CHIESA, CLERICI, CORDELLI, DATO, FERRARI, FRANZINI, GANELLI, MARABELLI, MILANI, MOIOLI, MONTALBANO, NEGRI, PANELLI, QUADRELLI, RAZZINI, RECCHIA, RIZZI, ROSOLILLO, ROSSI, SANTORO, SANTUCCI, TRISCARI, VALENTINO, VEREZZI, VERONESI, VITTONE, VOMOZZI.

Fra i grandi appassionati di Moncasacco, che non risultano nelle carte, dobbiamo citare: i coniugi Garavaglia; il capitano di marina Alfredo Costa: il signor Emilio Pisanti, cancelliere di Corte d’Appello; la signora Rosetta Filippone Razzini “autentico” pollice verde. La necessità di un nuovo acquedotto era veramente sentita sia dai residenti che dai dimoranti. Si trattava di trovare i soldi perché il comune di Caminata poteva metterne solo una parte, cioè una somma proveniente da un indennizzo governativo per danni provocati dall’alluvione di Genova. Nel periodo 1972-73 si attuò una situazione di “democrazia diretta”, simile a quello che avviene in qualche cantone della Svizzera: le riunioni venivano fatte sulla piazza della Chiesa a ridosso di un pagliaio di proprietà del marchese Anguissola. Vi partecipavano tutti i capi famiglia (residenti e dimoranti) e le riunioni erano presiedute dal Sindaco di Caminata commendator Quintino Pizzali, assistito dal consigliere comunale Gian Pietro Calatroni e dal geometra Mario Bollati che era il progettista del nuovo acquedotto. Con fatica e dopo tanto discutere si arrivò a un civile compromesso: il Comune ci mise cinque milioni, i frazionisti di Moncasacco lire 1.874.300, mentre quelli di Canova lire 1.140.000. Il Genio Civile di Piacenza appaltò i lavori dell’acquedotto all’impresa edile di Pietro Molinari da Nibbiano. Finalmente furono messi i contatori e Moncasacco-Canova ebbero l’acqua, ma… l’acquedotto, fatto in “grande” economia, funzionò male. Si fecero riunioni su riunioni. Il Sindaco di Caminata (commendatore Pizzali) esasperato propose di affidarne la gestione agli utenti164. Si costituì un comitato, un dimorante fece (6 luglio 1977) perfino un esposto al Procuratore della Repubblica di Piacenza. Fuochi d’artificio! Il problema 163 Residenti e dimoranti (alcune proprietarie altre in affitto). I nominativi li abbiamo ricavati da due documenti conservati in A.d.c.C. 164 in A.d.c.C. alcune lettere.

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acquedotto fu risolto dal nuovo Sindaco di Caminata (dottore Eugenio Dovati) che fece fare alcuni lavori risolutivi. Dal 15 settembre 1980 si può dire che l’acquedotto funzionò bene. Il “problema acquedotto”, può sembrare strano, ebbe “anche” un risvolto positivo. Dal 1972 al 1980 indubbiamente fu motivo di aggregazione perché si fecero riunioni su riunioni: ci si “doveva” incontrare, parlare, discutere. Quando l’acquedotto fu sistemato a Moncasacco trionfò il “privato” quello che Guicciardini chiamava il “particulare”. Sotto l’amministrazione del dottor Eugenio Dovati a Moncasacco si fecero delle consistenti migliorie: fognatura, servizio spazzatura, raccolta differenziata del vetro165, asfaltatura di alcune strade. Come annunciava un articolo apparso il 24 dicembre 1987 sul quotidiano “Libertà”, l’acquedotto di Moncasacco-Canova fu potenziato. Nel luglio 1980 vi fu una raccolta di adesioni per il telefono privato e l’allacciamento fu fatto nel 1981: prima vi era un posto pubblico a Canova. Nel 1989 il Comune di Caminata prese la decisione di metanizzare anche Moncasacco. Il 4 novembre 1989 chiese agli abitanti una adesione di massima. Vi fu una riunione in Municipio e presto anche a Moncasacco e Canova arrivò il metano (i contatori furono installati nell’ottobre 1990) distribuito dalla società CO.RE.GAS con sede a Cremona. Fra coloro che in vari tempi rappresentarono l’isola di Moncasacco nel Consiglio Comunale di Caminata è doveroso citare i Consiglieri: sig. Rino Bellinzona, signora Luciana Calatroni, il signor Angelo Calatroni, il veterinario dottore Gianfranco Negri, e il signor Gian Pietro Calatroni che per circa trenta anni partecipò attivamente alla amministrazione del Comune sia come consigliere che come Assessore166. Nel periodo 1970-2000 a Moncasacco si ristrutturano vecchie case e se ne costruirono di nuove. Un “vincolo estetico” avrebbe evitata qualche costruzione di “stile mediterraneo”, ma è un discorso soggettivo! Del resto in tutto l’Oltrepò il patrimonio edilizio della antica civiltà rurale è stato “violentato” da case con le tapparelle, da verande in allumio anodizzato, ecc.167 La storia di Moncasacco dal 1970 ad oggi registra: beghe di confine e di vicinato; la visita del Vescovo di Piacenza; la concessione del cavalierato di Vittorio Veneto a Giuseppe Quadrelli che era stato un ardito durante la prima guerra mondiale; buoni e cattivi raccolti; l’ordinazione sacerdotale di don Chiesa della Mostarina di Sotto; la laurea in informatica di Roberto

165 Con raccoglitore posto all’inizio della strada delle Bregne. 166 Libertà (22 giugno 1985), pg. 9. 167 GUIDO NICOSIA, Il nuovo cemento uccide la Storia, articolo ne “Il Giorno” del 28 settembre 1973.

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Bellinzona; la permanenza (intorno al 1975) durante qualche fine settimana dei componenti del complesso dei Dick-Dick, ospiti dell’architetto Marabelli. Fra il 1973 e il 1980 l’isola di Moncasacco fu attraversata da diverse competizioni sportive: il Rally Automobilistico e la Marcia Internazionale dell’Alta Val Versa. Di quest’ultima se ne fecero diverse edizioni. I marciatori, provenendo da Campasso-Ortaiolo, attraversavano Canova e transitavano sulla provinciale che lambisce Moncasacco per ritornare verso Santa Maria della Versa dove era posto il traguardo.

Negli ultimi anni alcune seconde case sono state poste in vendita: i dimoranti con più di trenta anni di presenza sono rimasti in pochi (Triscari, Milani, Montalbano, Clerici). Nella primavera 1982 una immobiliare milanese (San Giorgio) faceva mettere sui parabrezza delle macchine posteggiate a Milano un volantino dove si leggeva:

CANOVA di CAMINATA (Oltrepo’ Pavese) rustico su due piani completamente ristrutturato e rimesso a nuovo, completamente arredato, due camini, orto, nel centro di un magnifico paesino a 700 metri di altitudine, per un totale di mq. 180 circa, vista magnifica, possibilità mutuo all’80%, minimo contante.

Nel volantino era indicato il prezzo che era di lire cinquantasei milioni a condizione che l’acquisto fosse fatto entro il giugno 1982. Un’importante conquista si ebbe nel 1992: ai vigneti dell’isola di Moncasacco, facenti parte del sistema orografico della Val Versa, venne estesa la “Doc Oltrepo’ Pavese” 168. Fu un provvedimento doveroso perché da molti anni le uve prodotte in questi terreni venivano conferite a Cantine Pavesi (Cantina La Versa, Faravelli, ecc.) che dichiararono, durante l’istruttoria, che le uve di Moncasacco non dimostravano diversità rispetto alle altre uve della Val Versa169. Nell’ottobre 2000 i comuni di Caminata, Pecorara, Nibbiano e Pianello hanno presentata alla Regione Emilia Romagna la domanda per ottenere la costituzione della Comunità Montana della Val Tidone170. XVII.- L’ISOLA DI MONCASACCO E IL SUO FUTURO

Il compito dello storico è “ricostruire” il più fedelmente possibile il passato, progettare il futuro è compito del politico. Un progetto politico per Moncasacco non sembra esserci: in verità non c’è mai stato!

168 Corriere dell’Oltrepo’ del 17 ottobre 1992. 169 idem 170 Libertà 1 ottobre 2000 pg. 17.

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La marginalizzazione di Moncasacco ha un suo fascino, tuttavia non si può non essere preoccupati dalla “marginalizzazione” dei paesi vicini: gli uffici postali, le scuole, i negozi e le pompe di benzina chiudono.

Per eleggere le amministrazioni comunali la legge italiana dà diritto di voto ai soli residenti, così a Moncasacco i numerosi “dimoranti” non hanno voce. Questi pagano, senza sconto171 alcuno, l’ICI (= imposta comunale sugli immobili), ma non possono decidere sul suo impiego. Da questo punto di vista nel Regno del Lombardo-Veneto, soggetto al “retrivo” Impero d’Austria, vi era una legge che concedeva ai possessori di beni immobili (sia residenti che dimoranti) il diritto di partecipare al Convocato che era un’Assemblea che si riuniva ogni anno per approvare il bilancio del Comune e nominare gli ufficiali (medico, maestro, ostetrica). Per ovviare a questa “palese ingiustizia” andrebbe riformato lo Statuto del Comune di Caminata che potrebbe istituire un Consiglio di Frazione, eletto fra “residenti” e “dimoranti”. Un Consiglio che abbia solo un potere consultivo e propositivo: sarebbe certamente un passo avanti! Parlando del futuro di Moncasacco una domanda pare legittima: il paesaggio muterà? Un tempo i boschi erano molto estesi, poi si disboscò per piantarvi le vigne, forse un giorno, sia per mancanza di addetti all’agricoltura o per accordi internazionali (globalizzazione), si potrebbe ritornare per forza di cose al bosco.

171 Nell’anno 2000 i residenti fruivano di uno sconto di lire 200mila.

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PARTE TERZA APPENDICE

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XVIII.- BLASONARIO MONCASACCHESE Ci avrebbe fatto piacere riportare la blasonatura degli stemmi dei produttori di vino, ma purtroppo nell’isola di Moncasacco le etichette dei vini sono molto semplici, al contrario di quello che succede in altre località (Piemonte, Tirolo, ecc.) che coniugano la commercializzazione al folclore. Il “Blasonario di Moncasacco” risulta di conseguenza ridotto agli stemmi degli Enti pubblici, da cui Moncasacco dipende, e agli stemmi di alcune famiglie che hanno avuto rapporti col Paese o perché feudatarie del luogo o perché semplicemente proprietarie di beni allodiali. ANGUISSOLA

Partito: nel 1° d’oro all’angue al naturale; nel 2°di rosso ai quattro albioni o promontori d’argento.

ARCELLI

Inquartato: al 1° d’azzurro alla mezza aquila coronata d’oro, uscente dalla partizione; al 2° inquartato: a) e d) d’argento (o oro) a tre cani di nero, correnti, posti uno sopra l’altro; b) e c) scaccato d’argento e di rosso di sei pile 2,1.

AYALA VALVA (d’)

Partito nel 1° d’argento a 2 lupi di nero uno sull’altro colla bordatura di rosso, caricata di otto decussi d’oro; nel 2° d’argento alla fascia di rosso, accompagnato da nove uccelli di nero, cinque in campo (3 e 2), quello di mezzo ed in capo coronato d’oro, e quattro in punta rivoltati (2 e 2).

CLERICI

D’oro allo scaglione di rosso, accompagnato in capo da due stelle dello stesso e in punta da una granata fiammeggiante di porpora, crociata d’argento. Capo d’azzurro carico di una spada da parata, posta in fascia, d’argento, con l’elsa e l’impugnatura pomellata d’oro.

MALVICINI FONTANA

Inquartato: nel 1° e 4° d’azzurro alla croce d’oro trifogliata, nel 2° e 3° di rosso alla croce d’argento e d’azzurro.

MONTALBANO

D’azzurro al monte a cinque vette d’oro emergente da un mare mosso di nero con le onde d’oro.

VISERTA

D’azzurro all’albero di quercia, sostenente un nido con un uccello, nodrito su un prato verde fiorito, accompagnato in capo da tre stelle (8) male ordinate.

Parlando di stemmi, che hanno qualche collegamento con Moncasacco, non si può non citare gli stemmi degli Enti dai quali dipende amministrativamente:

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EMILIA ROMAGNA (regione) trapezoide rettangolo, di colore verde, con lato superiore di andamento sinusoidale, inserito in un campo quadrato bianco confinato di verde.172

PIACENZA (provincia)

Dado d’argento in campo rosso CAMINATA VAL TIDONE (comune) Lo storico avvocato Aldogreco Bergamaschi ha scritto173:

lo stemma del Comune di Caminata riassume, per simboli, le fortunose vicende del paese. Traversalmente esso si divide in due distinte sezioni. Nella sezione superiore, a sinistra guardando, su sfondo azzurro ed in oro, è inserito il sigillo del Monastero di San Colombano di Bobbio, a ricordare come Caminata sia stata un possedimento fondiario. Nella sezione inferiore, a destra, su sfondo rosso, in un paesaggio montuoso dalle tinte ferrigne, campeggia, stilizzato, un luogo fortificato: la spericolata vita di contrabbando e di brigantaggio è simboleggiata dal falco rapace che cala sulla intravista preda. Il motto scritto nel cartiglio spiegato a piè dello scudo («Audenter», cioè «con audacia») riassume il coraggio e l’audacia delle genti di Caminata, auspicio di un migliore avvenire.

XIX.- LA CHIESA

Lorenzo Molossi nel Manuale Topografico degli Stati Parmensi, edito a Parma nel 1856, scriveva che la Parrocchia di Pieve di Stadera

stende la sua giurisdizione su la villa piemontese di Moncasacco (comune di Caminata, Diocesi di Bobbio), la quale ha un oratorio pubblico e circa 130 abitanti.

Queste poche annotazioni mettono in luce che già nel 1856 a Moncasacco esisteva l’oratorio, che noi pensiamo risalire a metà del settecento. Intorno al 1975 il costruttore Quadrelli da Nibbiano raccontò che suo trisavolo cadde (e morì) mentre riparava il tetto dell’oratorio. La Chiesa di Pieve di Stadera, che per secoli fu la parrocchia di Moncasacco, già nel Medioevo era molto importante perché era collegiata

e l’Arciprete unitamente ai canonici, che erano cinque, aveva il diritto di eleggere i cappellani di Nibbiano, di Montemartino, di Ginepreto, di Santa Maria del Monte e della Tassara174.

172 Articolo 1 della Legge regionale n. 46 del 15 dicembre 1989. 173 ALDOGRECO BERGAMASCHI, «La Caminà » ( Caminata)- Appunti di storia, dialetto, usanze e tradizioni locali, Bollettino della Società Pavese di Storia Patria (Pavia, 1985), pag. 135.

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La crisi delle vocazioni sacerdotali rese vacante la parrocchia di Pieve di Stadera. Fra il 1972 e il 1975 il Parroco di Tassara (don Dino Merli) fece da delegato Vescovile della Parrocchia, così nei mesi estivi veniva a celebrare Messa a Moncasacco. Nel 1975 il Vescovo di Piacenza chiese al Vescovo di Bobbio di provvedere alla cura delle anime di Moncasacco. Fu incaricato il Parroco di Pometo: monsignor Martino Marini, fino al 31 ottobre 1993, don Giampiero Culacciati dal 1993 al 1995, don Claudio Carbeni, fra Arnaldo Pellesi e dal gennaio 2001 don Donato Casella. Un tempo i Morti dell’isola di Moncasacco venivano seppelliti a Pieve di Stadera solamente nel 1965 Moncasacco ebbe il suo cimitero. La religione fino agli inizi del novecento era molto sentita, anche se vi erano usanze che avevano “radici superstiziose”. In tutta la Val Tidone nella settimana santa alcuni battevano il rollo (barloca175) o dei tolloni (tola) provocando un suono che si sentiva molto lontano e serviva a mezzogiorno ad avvisare chi lavorava in assenza delle campane che erano “legate”. In antico176 si pensava così di battere i peccati (bat i pcà) o Ponzio Pilato (bat Pilàt) o Giuda (bat Giuda). Il venerdì santo con paglia sottratta nei fienili si faceva un fantoccio, che simboleggiava Barabba e che dopo la processione veniva bruciato (brusà Baraba). XX.- LE FESTE Quando si parla di Moncasacco con i vecchi dei paesi vicini quasi tutti ricordano con nostalgia le feste di Moncasacco alle quali partecipavano venendo a piedi. Uno di questi ci disse che veniva da Genepreto. 1.-Festa Patronale

La festa di Moncasacco si celebra la prima domenica d’agosto. Un tempo interveniva il Parroco di Pieve di Stadera sotto la cui giurisdizione c’era Moncasacco. Venivano anche il gelataio, il venditore d’angurie, quello che vendeva file di nocciole, croccanti e poi c’era la balera. Ancor oggi si ricorda che un certo Mario detto Marion da Colombato preparava la pista da ballo con assi di legno dietro il portico di Giuseppe Quadrelli o nella corte del castello, innalzava tutto attorno dei teli di sacco affinché la pista fosse celata a quelli 174 ANTONIO BOCCIA, Viaggio ai monti di Piacenza (1805), TEP-Gallarati (Piacenza, 1977), pg. 168. 175 Troviamo scritto nel Vocabolario pavese-italiano redatto dal Gambini che la «barloca è quel celebre movimento delle bacchette o di altri simili corpi sopra il tamburo od altro arnese sonoro per cui ne nasce unsuono particolare. La pavese voce barloca indica quel rollo particolare che si fa nelle nostre cascine sopra il fondo del secchione capovolto, onde chiamare i famigli al lavoro.» 176 CARMEN ARTOCCHINI, Le superstizioni nel Piacentino attraverso i Sinodi diocesani post-tridentini, Bollettino Storico Piacentino (luglio-dicembre 1993), pag. 238.

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che non ballavano. I ballerini paganti erano separati, da quelli che volevano ballare senza pagare, da una fune che ogni due o tre balli177 veniva tesa da un lato all’altro della pista. Accorrevano a piedi dal circondario molti giovani, si facevano gare di danza: Agostino Calatroni della Canova è ancor oggi ricordato come provetto ballerino. Si eleggeva anche una Miss: una Ordali vinse la sfida. I ragazzini spesso si divertivano ad “alleggerire” il carretto del gelataio, nascevano nuovi amori, ci si divertiva molto e… con poco! 2.-Calendimaggio

A maggio si traevano auspici per l’annata: magg’ vintus ann bundasius. Il risveglio primaverile fin dall’antico veniva celebrato in tutta Europa con feste e cerimonie che risalivano a tempi remotissi178. Questo avveniva anche a Moncasacco il primo giorno del mese di maggio (calendimaggio). Si formavano delle squadre di giovani che andavano a bussare alla porta di ogni famiglia per chiedere uova per poi farne una grande frittata, che si mangiava in compagnia. La richiesta era accompagnata dalla filastrocca della “galeina grisa “ di derivazione piacentina

Se la padrona mi darà il côccon Scampa la ciossa con tütt i so padron. Se la padrona non mi dà il côccon Crapa la ciozza e tütt i sö padròn.

Se la regiora era stata generosa nel dare uova il gruppo le faceva lodi sperticate; se la regiora era stata sparagnina il gruppo non le lesinava insulti mordaci. 3.-Carnevale

Oggi (2001) il Carnevale non si festeggia più in Moncasacco. Una volta durava tre giorni. Il primo giorno si festeggiava a Colombara, il secondo giorno all’Ortaiolo e Mollio, il terzo giorno a Moncasacco. Si faceva una grande mascherata. Ci si preparava alcuni giorni prima: grandi e piccoli cercavano nel fondo dei bauli gli abiti smessi, i vecchi scialli, le pezze di stoffa colorate per fare il più pazzo degli arlecchini e poi su e giù per il paese cantando e ballando: i maschi vestiti da donna, le donne in abiti lunghi delle bisnonne con strani capellini, le guance infarinate, le bocche rosse ridisegnate, le voci chiocche per non farsi riconoscere, ognuno prendeva in giro l’altro e ne faceva le spese il più grullo (lôch). Erano risate, canti, balli, bevute. Si mettevano in piedi commedie ruspanti dove 177 Alcuni dicono ogni dieci balli. 178 Enciclopedia Italiana (Treccan) voce: maggio.

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l’originalità non stava tanto nel travestimento, quanto nel divertire il pubblico con le loro trovate179.

Tutto finiva in grandi mangiate di chiacchere, tortelli e ravioli (ciaciar, tôrtlitt, chifér).

4. La nott dì grasb

Peggiori degli scherzi di Carnevale erano quelli che coincidevano con il 3 maggio festa della Santa Croce. Si celebrava la nott dì grasb o nott dì malfatt cioè la notte dei malfatti. Durante quella notte, nonostante la vigile attenzione di tutti, gli scherzi non avevano limite: da giorni erano tenute d’occhio le vittime prescelte e al mattino… era sparita la ruota di un carro o una carèta si trovava issata su un albero alto. XXI.- LA CASA La casa tipica di Moncasacco era costruita col lato lungo a ridosso della collina, quasi a ripetere nel tempo la disposizione dell’antico castelliere, così da essere protetta dal vento di tramontana, ma non per tutte era così, molte costeggiavano la sottile lunga strada che partendo dal “paese basso” si insinuava nel sottoportico dell’osteria, si addossavano all’oratorio e attorno al castello, fiancheggiavano ad intervalli la breve salita e si schieravano strette l’una all’altra guardando la valle del Tidone esposte al vento di “marin”. Tutte però avevano una caratteristica comune: il pianoterreno con la cucina abbastanza grande per consentire alla massaia di muoversi bene e alla famiglia di disporsi con le “cadreghe” attorno al tavolo; il camino non molto grande nel quale trovava posto il treppiedi (pulintera) per abbrustolire le fette del “micon” o quelle di polenta o per tenere in caldo le vivande nei tegami, pentolini e piatti di rame. Appesa sopra l’acquaio lo scolapiatti (scoladõra), c’era la “ramera” con i tegami di rame, il setaccio (sdazzèin), l’imbuto (pilièù) e lo scaldaletto (previ e scaldalet) tenuti lucidissimi vanto dalla “arzadora”. Sulla credenza (pannadôra) troneggiava il macinino (masnèin) per il caffè ( un vero lusso!), la bilancia a due piatti (balanza), il piatto non troppo concavo per servire le pietanze(tond), la grattugia (grattaréna), alcuni vasi di terra usati come casseruole (biella e stuòn) ed il ferro da stiro (fèr da sopress) che veniva scaldato sui carboni roventi per stirare a dovere le camice dell’uomo. Nel cassetto del tavolo era tutto il necessario per apparecchiare: il cucchiaio (cuciâr), la forchetta (förslena), il coltello (curtè), il cucchiaino (cuciarin). Qua e là appesi al muro un paio di cestini (scôrbinèin) e un piccolo 179 Articolo di Carlo Lanati pubblicato su “Il Popolo” del 19 dicembre 1989.

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canestro (cavagneù) per tenere le verdure o quando c’era la frutta, ed era festa quando attorno aleggiava il profumo del “crescente” o della “schisla”. Appoggiata allo stipite della porta d’entrata immancabilmente c’era la scopa fatta di rami di sangonella(scuon o scova), per tenere pulita l’aia e a scacciare il malocchio quando cantavano il “ciod” e il ”murit”. Una scaletta di legno (scalëta) a pioli conduceva al piano superiore costituito da un’unica stanza da letto in qualche caso due. Nella camera prendevano posto il letto (lett), due comodini (cumoden), l’armadio per gli abiti (vestè) e l’armadio per la biancheria (armàri), il cassettone (cumô), il portacatino (portacatei) e il baule (bavül). Un portico (pòrtich), anche se di piccole dimensioni, era sempre nelle vicinanze della casa o addossato ad essa. Al piano terreno si tenevano gli attrezzi d’uso: la forca (fôrca), il forcone (fôrcòn), il rastrello (rastè o rastèll), il marazzo (marass), la vanga (badìl), il badile con pala più leggera (badila), la falce da fieno (fèrr da pra), la falce messoria (msôra), il falcetto per tagliare l’erba nel campo (msôrein). Non era raro vedere nei giorni di pioggia, quando non era possibile lavorare nei campi, gli uomini seduti ad intrecciare “cavagnei ” o a preparare la cesta per la chioccia (ciösa), usando i giovani rami del salice bianco (gabba), o i tralci sottili (broca) per legare la vigna o intenti ad usare la mola (meùla) per macinare i cereali secondo la stagione. Al riparo del portico c’erano i conigli da carne (cunili). In un angolo dell’aia, protetto dai rigori dell’inverno e dal sole, c’era il pollaio con il gallo (gal), le galline (galène), la chioccia (ciösa) e i pulcini (pulestren) e più distaccato il porcile con la mangiatoia (arbi) per il maiale (gugn o animâl) la ricchezza della famiglia. La cantina (cantena) doveva per necessità essere buia (scur), fresca e ben orientata. Al suo interno troneggiava la botte (bôta) col suo tappo (stoplòn) e sotto di questa il mastello per il travaso (travasen ), ed accanto la botte per il vino da imbottigliare (buttarlèn) e la bigoncia (nävassa) capovolta in attesa della vendemmia o il recipiente (bigoncen) dove si schiacciava l’uva a piedi nudi. Appeso al muro il setaccio (sdàsa de la cantèna), in un angolo a testa in sù la pala per rimuovere il graspo e le vinacce (pala per le racche). Varie assi sovrapposte reggevano le bottiglie destinate all’invecchiamento. Possibilmente distante dal vino c’era la botticella per l’aceto (buttarlen per l’asèd). Da un muro all’altro veniva teso del filo di ferro al quale si appendevano i salami (saläm), la pancetta e le bondiole per la stagionatura. Su di un ripiano di legno (ass) qualche formagetta (formagela) ad indurire.

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XXII.- IL CORREDO DELLA SPOSA

Ogni ragazza che si sposava portava il corredo che veniva preparato con largo anticipo. Facevano parte del corredo: lenzuola (linsèù), asciugamani (sugaman), federe (fodrëta), e la coperta imbottita (cuerta trapònta). Il corredo minimo veniva detto “a dodici”, ma se la sposa era più abbiente si faceva nei multipli di dodici. Tutto munito delle immancabili cifre della sposa. Ricordiamo che il corredo veniva sempre mostrato alla suocera prima delle nozze. La sposa conservava gelosamente il suo corredo nel baule (bavül) che era l’elemento più importante dell’arredo della camera da letto. XXIII.- IL FORNO Il forno (ël fôrën) consisteva in una piccola costruzione di pianta quadrata con tetto a spiovente nelle immediate vicinanze della casa, in pietra esternamente e con la volta semisferica di mattoni all’interno, con la bocca chiusa da un coperchio in ferro con maniglia, il tutto sormontato da un comignolo (camen). Sotto il forno isolato da una tramezza poteva esserci il porcile (stabi) con il suo truogolo (arbi). Un forno si può vedere ancora in Moncasacco alto ora proprietà Montalbano. Gli attrezzi necessari per usare il forno erano: la ventola (ventàla) per arieggiare il fuoco; la pala (pala da fôrën); il gancio (rampin); il secchio (basul) per raccogliere le braci e uno spazzolone fatto di strisce di stoffa (brus,cion) che inumidito serviva a nettare dalla cenere il piano di cottura. Quando il cielo del forno arrivava al calor bianco si potevano introdurre i pani da cuocere. I meno fortunati, un tempo, mangiavano il pane nero fatto con la farina della vicia sativa (vëssa) mischiata a quella delle fave essiccate e macinate con la mola (mèula). In antico i cereali erano battuti sulle aie con il coreggiato180 (verga). Il pane di farina bianca era confezionato in grosse pagnotte (micon) che si conservavano per più giorni nella madia (mesla). A forno meno caldo cuocevano forme di pane di polenta (pan giard), i panini (michei)e le ochette per la merenda dei piccoli, fatti con i ritagli della sfoglia di pasta di pane con aggiunta di zucchero.

180 Strumento che un tempo serviva per battere il grano ed era fatto di due bastoni, uno che si teneva in mano detto manfanile, altro che serviva a battere detto vetta e questi erano legati insieme, per i capi, con gombina o correggia.

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XXIV.- IL DESINARE DI OGNI GIORNO E QUELLO DELLA FESTA Come in ogni contrada d’Europa un tempo anche a Moncasacco il cibo era frugale: polenta, pane nero, qualche patata181 (pom ëd tera) condita con il sale (sal), che al di là di ogni superstizione non andava sprecato ed era un elemento prezioso. Dall’orto di casa si avevano i fagioli (fasèù), il cavolo d’inverno (verz), qualche zucca (zuca e zucheìn).

San Geri, San Geri, la pegôra la ga la lana, la vaca la ga ël lat, ël tajabosch ël ga la lëgna, a mi dam una castegna.

Il bosco in tutte le stagioni era fonte di sostentamento: i funghi (fons), le lumache (lumäg), le castagne (castegne). Queste ultime si cuocevano in acqua con la scorza (balët). Carne se ne vedeva poca o nulla. Il brodo (breüd) solo per gli ammalati, una formula curativa diceva:brèùd de galena e decot de cantena. Questo e poco d’altro. La dieta base di ogni giorno consisteva in zuppa, fagioli, polenta (sûpa, fasèù, puleinta). Poche fette di polenta mangiate tra le nove e le dieci del mattino erano il viatico fino a sera. Ovviamente quelle famiglie che allevavano le galline, il maiale, la vacca potevano usufruire di una maggiore benessere: qualche fetta di pancetta (pan e panseta) e di lardo (lard); con lo strutto (l’unto) si friggeva la focaccia con i ciccioli (schisla coi gratòn) e le patate (pôm frit). Il risparmio era una regola per tutti: qull ca travia incö qull ga pèù niènt për dmàn. Con la torta di patate, ad esempio, si faceva a meno della farina bianca Dai soffitti delle cantine pendevano i salami crudi e le coppe (salam crû e bondièùla) e sulla tavola ogni tanto faceva la sua apparizione il salame cotto (salãm cot). Per la ricorrenza dei morti era di rigore la zuppa di ceci (supa ëd zisër) o la cotenna con i ceci (ziser con la cõdga).

Santa Lucia ël di ël pussé cürt che ghe sia. Si avvicinava l’inverno: le nevicate erano abbondanti, si attendeva al lavoro al riparo dal freddo e il cibo era più calorico, si terminava il pasto con pere o mele tagliate ed essicate al sole dell’estate rinvenute in acqua e cotte in poco zucchero (barciùll), barbabietola rossa (bidrâva) e baccalà in umido (mërluzz) con cipolla e salsa di magro (pucia). Il pasto del venerdì e quello della vigilia di Natale erano di magro stretto, così l’antivigilia si celebrava la sira di set sene cioè si mangiavano a scoppiare i ravioli (ravièù) vivanda di uova, carni e formaggio o verdure tagliati nella pasta in forma quadrata con la rotella (rodleina), arrosti di pollame cotti nel forno del pane, anzichè nel modo consueto, bolliti con

181 La patata fece la sua comparsa a Moncasacca agli inizi del milleottocento.

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verdure, e per finire ciambelle (buslan) fatte con farina, burro, latte e zucchero, e croccanti con le noci (crocant coi nös). Salvo il giorno dopo dover invocare:

Santa Apollonia, Santa Apollonia fa che ël mal ch’ go in di dent va tutto nella sanforgna182.

Arrivava Natale (Nadal un pas ëd gal): al suo pranzo si rivedevano i ravioli, gli arrosti e la ciambella e per la prima volta faceva la sua comparsa in tavola l’uva, croatina o verdea (croateina o verdea), messa ad essiccare (uga secca) su graticci o appesa a travetti del soffitto con dello spago, in un locale asciutto, appassiva mantenendo la sua bontà e durava ben oltre le feste. All’Epifania si diceva “Pasquetta un’oretta” e si portava in tavola polenta con la frittura o risotto con la carne trita e i funghi (risòt e fons) e si festeggiava con gli invitati

Pär la Madona ëd la Ziriöla183 ëd l’invërn sum fõra ma che piöva, che fiöca, che faga él sôl, quaranta di aggiuma in co.

Il 17 gennaio: Sant’Antonio Abate si festeggiava con le castagne bianche pelate (castegne plà) cotte in acqua con alloro e ammorbidite col lardo e unite al riso.

Carnua ël vusa. A Carnevale quanta neve ancora! Le mascherine saltellavano infreddolite, rattrappite, ma era un’occasione per festeggiare e mangiare insieme a tutto il paese.

San Giuseppe era la festa delle frittelle (festa di farsèu) e delle chiacchere. Le Ceneri e la Quaresima volevano ancora il magro stretto con baccalà (mërluzz) e aringhe (sâracch) e il pane vecchio tagliato in fette sottili rinvenuto in poca acqua e olio con l’aggiunta di un uovo e formaggio (panada ) o la pasta con i funghi (pasta coi fons) e le cipolle ripiene (zigoll pen).

A Pasqua si rivedevano i panini di piccola forma (michei), ma questa volta con inserito un uovo simbolo della vita che rinasce.

Se marz al na bagna, an fa erba ne päia ; aprïl tùtt i di un barì. E’ primavera, nuovamente la terra offre i primi frutti, anche le erbe tenere del campo vanno a puntino, scottate in acqua bollente, strizzate e passate in padella al burro con aggiunta di un paio di uova (para d’èùv), ecco la frittata di tarasacco (frità de dent ëd can) e più avanti frittata di foglie tenere di papavero (frità ëd cöfanon). Per le merende dei bambini (bagai) pane e crema di latte (pan e panna) o pane e mela (pan e pôm).

182 Sanforgna= scacciapensieri, strumento a foggia di piccolissima arpa. 183 Ziriöla=candelora, festa della purificazione della Madonna.

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Per le Cresime i padrini (gudàss e gudàssa) regalavano collane di ciambelline (brassadè, buslanëi) che si mettevano al collo dei festeggiati.

San Giovanni: (San Giôan la giurna pussè lunga dl’ann). E’ il tempo del gran lavoro: la massaia accompagnava il marito nei campi e il cibo ridiventava frettoloso e frugale. XXV.- LA STALLA La stalla (stala) era di norma orientata ad est, non esposta ai venti dominanti. Essa era di forma rettangolare con porta e finestrino per consentire il ricambio dell’aria, sui lati lunghi era sistemata la mangiatoia (grüpia), gli animali occupavano la posta (antag) ed erano legati con la catena (cadeina). Il pavimento era leggermente in discesa per consentire lo scarico del liquame. In antico a Moncasacco in ogni stalla non vi erano più di un paio di animali o due buoi o due vacche. I buoi venivano ferrati e aggiogati mentre le vacche davano vitelli e latte. Talvolta una sola vacca veniva attaccata con un piccolo giogo ad un aratro di ridotte dimensioni (àra) e il Moncasacchese lavorava il campo per quel che poteva. Era vita dura! Al mattino d’estate la sveglia (levà su) era molto prima dell’alba: gli uomini dovevano rifare la lettiera (fa su ël let) con il forcone (fôrca a tri dent) rinnovandola con paglia fresca e resti di erba e fogliame (paja e bula), pulire gli animali (ras,ciai e brus,ciai). L’impiantito veniva lavato con la ramazza (strusòn o scôva)e si ripuliva la zanella (ël foss o rusadè) al centro del locale. Il pasto dei buoi era costituito dal beverone (búaia) consistente in crusca bollita in acqua. Alle vacche era destinato lo stesso pasto dei buoi più erba appena falciata per dare buon sapore al latte; al vitellino l’orzo e il seme di lino cotto (linôsa). Il mungitore sedeva sullo sgabellino (scailegn) ed era munito del secchio per mungere (slen da mönz). Il latte veniva raccolto in recipienti (bidon) che venivano prelevati da un raccoglitore che passava il mattino presto. Col latte rimasto toccava alla massaia preparare il burro (butër) sbattendo il latte col battiburro o pestone (burlarö) nel vaso fatto di doghe di legno, la zangola (tinèll de fa ël butèr), tagliare la panna dal latte nella pannarola (spannadôra). Quando il burro doveva durare per l’uso della famiglia la massaia lo faceva soffriggere (butèr zittà), in modo che scaldandosi perdesse umidità, lo formava in piccoli pani, lo salava e lo conservava in barattoli. Preparava inoltre con i cagli naturali del piccolo cacio fresco o da conservare (ribiöla e strachin) la cui forma tonda e schiacciata veniva data dall’apposito contenitore in legno con i buchi (farscela) e il formaggio passo (formag niss o ribiöla cui begh). Quest’ultimo si preparava lasciando maturare le formaggine

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tenere fino a vederne dei piccoli vermi, questo era il momento giusto per tagliarle a pezzi e metterle in un vaso di vetro con panna o vino bianco e zucchero, tutto ben impastato; dopo qualche tempo si ripuliva il formaggio dai residui, si amalgamava bene e serviva per condire le fette di polenta o spalmarlo sul pane. XXVI.- LA MACELLAZIONE DEL MAIALE Quasi tutte le famiglie di Moncasacco allevavano il maiale: quelle abbienti ne allevavano due. In questo caso per un detto in auge in Oltrepò era come avere un salvadanaio perché il primo maiale serviva a pagarli, mentre il secondo era gratis184. Per le famiglie contadine, e quindi anche per quelle di Moncasacco, l’uccisione del maiale (dopo il matrimonio, la nascita e la morte) era l’avvenimento più importante. Il giorno stabilito185 tutti i membri della famiglia, anche i bambini, si alzavano presto e sul fuoco mettevano grandi pentoloni perché occorreva molta acqua calda.

Il maiale (gugn, porsé) veniva fatto uscire dal porcile e con l’aiuto di una corda veniva accucciato su un fianco. Il norcino (masulàr) lo uccideva vibrandogli sulla testa un colpo secco di scure, poi gli infilava un coltello nella gola per far uscire il sangue che veniva raccolto in un secchio. Il maiale veniva adagiato su una scala a pioli e pulito con acqua bollente. Poi la scala veniva issata e il maiale appeso ad essa per essere sventrato e squartato. Nulla si perdeva! Le budella venivano lavate con acqua e aceto. La carne tritata serviva per i salami, i cotechini (cùdghin). Si ricavavano coppe (bondièùla), pancetta (pansèta), lardo (lard), salsiccia (salsizza). Si facevano col sangue dei sanguinacci(sangônàzz). Le cipolle ben rosolate con l’aggiunta del sanguinaccio tagliato a fettine, condite con burro, sale e pepe costituivano una pietanza succolenta chiamata il “sang rustì”; invece i nervetti di guancia e di piedino con l’aggiunta di uva passa, zucchero ed aceto costituivano il ghiotto “duls e brusc”.

Il lavoro durava tutto il giorno. Il masulàr veniva pagato in denaro. Al termine si faceva una festa alla quale partecipavano anche i vicini; si mangiava risotto con funghi e carne trita del maiale appena macellato e si beveva vino rosso.

L’aria di Moncasacco era (ed è) particolarmente adatta per la stagionatura dei salami: coloro che non avevano la cantina li facevano stagionare in camera da letto.

184 OSVALDO GALLI, äl masulàr, edizioni Guardamagna (Varzi, 1991), pag. 63. 185 Idem pagg. 31-35.

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XXVII.- LA VEGLIA Le stalle di Moncasacco, d’inverno, erano luogo di riunione (sït o sïd) caldo ed accogliente dove si trascorreva la sera (veglia). Ci si riuniva anche di giorno quando all’esterno c’era la neve o il gelo. Per partecipare alla veglia, che avveniva dopo la cena frugale, tutti si portavano da casa una seggiola (cadregh) o uno sgabello (sgabell). All’accogliente calore della stalla, dove stavano silenziose le vacche e la “primareula” che avrebbe partorito a primavera il “bôcin” (vitello da latte), si attendeva la notte: qualche donna filava o lavorava a maglia e alla tenue luce del lume a petrolio (lüm) si raccontavano storielle ai bimbi appariva nel buio l’immagine del diavolo (Barlìcc), mentre gli uomini giocando a carte si scambiavano opinioni sui fatti del paese, sui frutti dell’annata, sul vino (ven) , sul vitello (vidèll) o recriminavano i danni provocati dal cinghiale (gügn salvadeg) alle culture, oppure infinite discussioni sul prezzo del grano. Se era novembre si gustavano i ciccioli di maiale (gratòn) offerti su un “tond” oppure fragranti castagne cotte in acqua con la scorza (ballìt), il tutto innaffiato di tanto in tanto dal buon vino novello, versato dal “butili ” appena spillato dal “bottarlin ” nei capaci “bicèr ”, mentre ogni capofamiglia beveva nel “pèchër186” . Si sbocconcellavano avanzi di micca o di polenta I più giovani amoreggiavano nella semi oscurità: si ballava e si rideva. Attorno i “bagai ” sgattaiolavano tra le gambe degli adulti giocando nel buio a nascondino (scôndalera) o a testa e croce (cröss e stëlla) o ad “andà sött”, mentre qualche piccino, ultimo nato. dormiva nella “côna” (culla). Dai Santi a Pasqua la veglia era anche occasione di preghiera comune: si recitava il santo Rosario. XXVIII.-LA VEGLIA FUNEBRE

La morte oggi è diventata quasi un fatto privato. Un tempo non era così. A Moncasacco, fino al 1960 circa, a turno si vegliava, anche durante la notte, la salma del compaesano che era morto. Si recitava coralmente in latino il Rosario quasi a sottolineare il passaggio dalla vita mortale alla vita eterna. Questa ritualità era un mezzo che permetteva, per dirla con le parole dello storico Ernesto de Martino187, di “trascendere il momento critico della situazione luttuosa” che non era avvertito solamente dai familiari del defunto, ma da tutti i componenti della comunità di Moncasacco.

186 Il pèchër è un bicchiere grande col manico. 187 ERNESTO de MARTINO, Morte e pianto rituale, Paolo Boringhieri (Torino, 1975), pag. 43.

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Tutto il paese partecipava al funerale: il corteo si avviva da Moncasacco per la strada, che dopo l’attuale cimitero, passa per Monte Pioggia per giungere a Pieve di Stadera nella cui chiesa si celebrava il rito funebre al termine del quale la salma veniva accolta nel locale cimitero. La famiglia del defunto faceva intervenire alle esequie dei cantori che lo facevano di professione. XXIX.- IL DIALETTO DI MONCASACCO La Val Tidone e la Val Versa sentono l’influenza del sistema dialettale emiliano-romagnolo che si propaga oltre la regione Emilia, verso ovest, sino a Voghera e Pavia188. Il dialetto dell’area di Moncasacco è un misto di termini piacentini e pavesi. Senza voler fare una trattazione scientifica indichiamo, a titolo di esempio, alcuni vocaboli usati a Moncasacco sottolineandone la derivazione

Italiano

dialetto di Moncasacco dal dialetto

barba di becco botte cappello cappello di paglia castagna castagna lessata ceci cestino covone finocchio fragola grattugia madrina mugnaio ortolano padrino padrone di casa padrona di casa rastrello taraxacum vitalba zucca zucchina zuppa

basa prètt bôtta capell lobia castegna ballìtt zìzër cavagnèù môrgnòn erba bona magiostra grattaréna gudazza mulnè ortlàn gudazz arzadõ arzadôra rastè catareina videlbôra succa suchèin supa

piacentino piacentino pavese pavese pavese piacentino pavese pavese piacentino pavese pavese pavese pavese antico pavese pavese pavese antico pavese pavese pavese piacentino pavese pavese pavese pavese

Di alcuni vocaboli, che non citiamo, non abbiamo ritrovato il corrispondente nei dialetti pavese o piacentino perché sembra predominare 188 Enciclopedia Italiana (Treccani), voce Emilia pg. 905-6.

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l’influenza dell’italiano. Di alcune parole non siamo riusciti a trovare il riscontro in altri dialetti tanto che pensiamo siano vocaboli formatisi nell’area di Moncasacco quando l’isolamento era più marcato. Spesso abbiamo avuta difficoltà a scrivere alcune parole, infatti quando non è stato possibile un riscontro sui dizionari dialettali abbiamo trascritto i vocaboli così come si pronunciano. Soluzione adottata anche dai più autorevoli cultori del dialetto189. XXX.- IL COSTUME Nel novecento, in occasione delle festività, gli uomini di Moncasacco indossavano pantaloni alla zuava o la muda (comprendente giacca, gilet, calzoni); d’inverno il mantello (tabar) di panno nero pesante, con il bavero (bavër) lasciato ricadere all’indietro. Le donne portavano sul capo un fazzoletto (fazzolët), legato sotto il mento, dai colori più o meno vivaci secondo l’età e l’occasione; sopra la camicia (camisei) indossavano un corpetto190 (bust), indumento che, come il grembiule (scossal) si può riscontrare in quasi tutti i costumi regionali Solo nei giorni di festa le donne calzavano degli stivaletti. Di più non ci è dato sapere, eppure siamo convinti che nel settecento e nell’ottocento in Val Versa e in Val Tidone (e quindi anche a Moncasacco) ci fosse un abito tradizionale di cui si è persa la memoria. Forse in un baule depositato in qualche soffitta c’è la soluzione del mistero, che se svelato potrebbe servire al folclore della zona.

189CESARE ZILOCCHI, Asé, azé o aseo? Il dubbio resta. Breverant potrebbe derivare da ebreo errante, articolo nella “Libertà” del 5 febbraio 2000. 190 Indumento che si tiene sopra la camicia.

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BIBLIOGRAFIA

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Finito di stampare nel mese di luglio dell’anno 2001 nella Tipografia