Storia di anime gemelle

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Tabata Baietti, sentimentale. A volte il fato è clemente. Capita che trovi la tua anima gemella dall'altra parte della strada. Non la stavi cercando e non volevi trovarla, ma poi eccola lì. Sola e fragile, arrampicata sul tetto di una casa, nel silenzio della notte. A volte, ancora più rare, capita che le due metà di una mela siano così vicine che si trovano a condividere lo stesso utero. Capita che siano così simili, che a volte anche la loro madre li confonde. Nascono insieme e per sempre staranno insieme, nessuna distanza basterebbe a separarli. Gemelli, talmente simili, talmente vicini, che sembrano una sola persona. Sono, una sola persona. E ciò che il Destino ha unito, l'uomo non osi dividere.

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TABATA BAIETTI 

 

 

 

 

 

STORIA DI ANIME GEMELLE 

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Serie BIG‐C  Grandi Caratteri, lettura facilitata 

STORIA DI ANIME GEMELLE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-694-3 Copertina: immagine di Simona Cané

Prima edizione Marzo 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

 

 

 

Questo  libro  è  un’opera  di  fantasia.  Nomi,  personaggi,  luoghi  e 

avvenimenti  sono  frutto    dell’immaginazione  dell’autore  o  sono 

usati  in maniera  fittizia. Qualunque  somiglianza  con  fatti,  luoghi o 

persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale 

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A chi è tornato a galla,  

a chi sta andando avanti. 

 

 

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DOMINOS  

 

 

 

Si sentì di nuovo a casa. Si aspettava di vedere la sveglia a 

forma  di  rana  che  teneva  sul  comodino  quando  era 

bambino.  Si  aspettava  di  vedere  i  contorni  della  sua 

cameretta e  il  sorriso di  suo  fratello nel  letto accanto al 

suo.  Ma  una  volta  aperti  gli  occhi,  ognuna  di  quelle 

immagini svanì, risucchiata nei buchi della memoria. 

Quella  che aveva davanti agli occhi non era  certo  la  sua 

cameretta.  Quella  era  sabbia.  Davanti  ai  suoi  occhi  e 

dentro la sua bocca. 

Sabbia straniera di un paese straniero. 

E man mano  che  riacquistava  i  sensi,  iniziava  a  sentire 

anche il garrito dei gabbiani e il soffice rumore delle onde 

che si infrangevano sulla battigia. 

Per un momento si rattristì. Non era a casa. Non avrebbe 

potuto,  essere  a  casa.  Tanto  dolce  quanto  doloroso,  il 

sogno che aveva fatto. «Ma questo è quello che hai, Matt, 

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questo è quello che ti meriti» si disse, e poi sospirò. 

Rotolò sulla schiena e si mise sdraiato, a osservare il cielo 

infinito dell'alba. Sfumature di rosa e di giallo e di azzurro 

si  mescolavano  intorno  al  sole  pallido.  Nell'aria  vi  era 

ancora  il profumo della notte, ma  i deboli  raggi del  sole 

spazzavano via il buio e ogni ombra. Un nuovo giorno era 

appena  cominciato.  Quante  volte  aveva  già  assistito  a 

quello spettacolo? Innumerevoli volte,  in altrettanti punti 

del globo  terrestre. E ogni alba  lo  lasciava  senza parole, 

senza fiato, senza energie, come se tutto scomparisse di 

fronte a quella bellezza. La natura onnipotente. 

Fu  guardando  il  cielo  che,  tanto  tempo  prima,  si  rese 

conto dell’inferiorità dell’essere umano su tutto ciò che lo 

circonda. Fu guardando il cielo che si rese conto di quanto 

gli stava sotto. 

E adesso come allora. 

Si mise seduto, demoralizzato. Aveva smesso di sognare, 

eppure  il  gusto  dolce‐amaro  dei  ricordi  continuava  ad 

assillarlo. Si guardò intorno perplesso e si portò una mano 

alla  testa,  come  se  quell'unico,  inutile,  gesto  potesse 

contribuire a ricordargli gli eventi della sera prima. Come 

era arrivato in spiaggia? E cosa l'aveva convinto a dormire 

sulla sabbia? 

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Domande  che,  probabilmente,  si  facevano  anche  quei 

pochi  coraggiosi  mattinieri  che  vedeva  correre  sul 

bagnasciuga,  in  quel  momento.  Lo  guardavano  con  la 

stessa dubbiosa espressione. 

Notò  il  suo  cappello,  poco  lontano,  e  lo  scrollò  dalla 

sabbia che lo aveva inghiottito durante la notte. “Il Re del 

Mondo”  lesse  e  voltò  lo  sguardo  verso  il  bar  alle  sue 

spalle.  Anche  lì,  sull'insegna,  c'era  scritto  “Il  Re  del 

Mondo”,  e  inevitabilmente  spuntò  un  sorriso  sulle  sue 

labbra.  “Noi  siamo  infinitamente  piccoli”  pensò. 

“Talmente piccoli da essere insignificanti, rispetto a tutto 

ciò che c'è intorno a noi. E non esiste modo per vivere, se 

non lasciarsi trasportare dalla corrente”. 

Si  alzò  in  piedi,  barcollando.  Si  accorse  che  la  testa  gli 

girava, ma non ci  fece caso. Che cosa poteva  significare 

una testa che gira  in confronto al sistema gravitazionale? 

Camminò,  facendo  affondare  i  piedi  nella  sabbia  per 

tenersi  in equilibrio. Si accorse che  la  schiena gli doleva, 

ma  poco  gli  importò.  Pensò  ai  terremoti,  alle maree,  ai 

vulcani in eruzione. 

Il “Re del Mondo”  lo accolse sotto  il suo tetto di  legno e 

paglia, rovinato dagli anni, dalla salsedine, dalle tempeste, 

dalla meraviglia della natura. Un bar,  lo chiamavano, ma 

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forse  era  nato  come magazzino.  Aveva  sedie,  e  tavoli, 

bicchieri e spillatori per la birra, ma mai si sarebbe potuto 

definire  un  luogo  accogliente. Quegli  stracci  appesi  alle 

finestre che filtravano  la  luce del sole  in un altro mondo 

avrebbero  dovuto  chiamarsi  tende,  ma  lì  erano  solo 

stracci.  E  le  luci  al  neon,  così  fredde  e  così  anonime,  ti 

facevano  sentire  in  un  obitorio. Questo  aveva  pensato, 

quando  per  la  prima  volta  entrò  nel  “Re  del Mondo”. 

Quanti  mesi  prima?  Quattro?  Cinque?  Aveva  perso  il 

conto. 

Matt  sorrise  di  nuovo,  mentre  superava  il  bancone  e 

scendeva  nello  scantinato.  Per  assurdo,  erano  quelle 

quattro pareti di compensato che a Matt piacevano di più. 

Non  pretendevano  di  essere  altro  rispetto  a  quattro 

pareti di  compensato e a  lui non  serviva di più. Si  lasciò 

cadere sul materasso buttato a terra in un angolo, il vero 

e unico pezzo di mobilia che conteneva quella stanzetta 

scavata  nella  sabbia.  Si  mise  comodo,  appoggiando  la 

testa a un mucchio di vestiti che usava come cuscino, poi 

sciolse  sotto  la  lingua  un  sottilissimo  strato  di  felicità 

effimera e aspettò che lo scantinato scomparisse. 

All'improvviso galleggiava nel nulla. Galleggiava nel vuoto 

cosmico. Senza tempo, senza ossigeno, senza eventi. Non 

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esisteva né il prima, né il dopo. Tra le stelle troppo vicine, 

e  i pianeti troppo grandi. Era felice. Era felice perché era 

nello spazio e aveva raggiunto il Suo obiettivo. 

Lo  desiderava  da  tanto.  E  questo  voleva.  Questo  si 

meritava. 

Nuotò  a  rana.  Poi  a  stile  libero.  Ridendo.  Ridendo  a 

crepapelle.  E  dall'alto  osservava  la  Terra,  così  piccola. 

Chiamò  Sam,  urlò  il  suo  nome.  «Ce  l’ho  fatta.  Sam! Hai 

visto?». 

Poi  diventò  pesante  e  si  sentì  precipitare.  Sentiva  lo 

scorrere del tempo sulle ossa e sulla carne, sentiva che le 

cose  non  stavano  andando  come  lui  aveva  sperato. 

Sentiva  che  tutta  la  sua  felicità  veniva  risucchiata  in  un 

buco. E la Terra si avvicinava pericolosamente. Sapeva che 

si  sarebbe  schiantato  e  aveva  paura.  Urlò.  Cercò  di 

arrestare  la caduta. Gridò che non voleva  tornare  laggiù, 

in basso. Ma non poté far nulla per evitarlo. 

Niente ha  importanza rispetto all'immensità dello spazio, 

della natura, del ciclo della vita, dello scorrere del tempo. 

Non quello che desideri, non quello che vuoi, non quello 

che meriti. Gli eventi accadono e  si  succedono,  il  tempo 

passa  inesorabile,  e mai  una  volta  si  riavvolge. Mai  una 

volta  ha  il  potere  di  cambiare  le  cose,  il  misero, 

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insignificante, essere umano. 

Mai, per quanto possa impegnarsi. 

E  quando  il  caldo  e  duro  asfalto  di  Los  Angeles  lo 

raggiunse, si svegliò. 

Era di nuovo nello scantinato. Fissava  il soffitto marcio e 

ammuffito,  come molte volte prima di quella. Si  ricordò 

perché una sera, non sapeva quale, decise di dormire sulla 

spiaggia.  Il soffitto  lo  relegava  in un ambiente chiuso,  lo 

confinava,  il  soffitto  significava  fallimento,  e  lui  non 

voleva  fallire  di  nuovo.  Respirò  piano  per  scacciare  il 

terrore  nel  suo  cuore.  Non  sapeva  quanto  tempo  era 

passato. Ore? Giorni? Non  sapeva quanto era alto  il  sole 

nel cielo. Ma niente di tutto questo aveva importanza. 

Aveva  ancora  l’ago  nella  vena  e  il  laccio  annodato  al 

braccio. Un viaggio sempre più corto dei precedenti. 

Di più. Gliene serviva di più. 

A volte scommetti con uno sconosciuto che riesci a bere 

più  birre  di  lui. A  volte  capita  che  vinci.  Succede  che  lo 

sconosciuto che  ti sfida non sappia niente della  tua vita. 

Non sa che hai guidato un camion su per  le vette cilene 

masticando foglie di coca per tenerti sveglio. Non sa che 

sei  stato  piegato  sul  tuo  stomaco  per  un  anno  intero  a 

raccogliere  la  pianta  del  peyote.  Non  sa  che  quando 

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finivano  i sigari, c’era  il  rum a  tenerti  in vita. Non sa che 

sei sopravvissuto ai peggiori  liquori di tutto  il continente 

sudamericano. 

Lo  sconosciuto  non  sapeva  niente  della  tua  vita,  e  non 

avrebbe dovuto sfidarti. 

Così succede che vinci il suo bar sulla spiaggia. Non che tu 

l'avessi desiderato, non che tu l'avessi voluto, non che tu 

l'avessi  previsto.  É  successo  e  basta,  perché  il  Caso  ha 

voluto così. Il tempo ha voluto così, e niente può impedire 

al  tempo  di  scorrere,  niente  può  costringerlo  ad 

avvolgersi su stesso. 

L’asfalto di Los Angeles lo accarezzò ancora una volta. Lo 

toccò appena, ma  il solo contatto bastò a terrorizzarlo. Il 

suo cuore  si  fermò per qualche  istante. Qualche  istante, 

che durò più di una vita intera. Quando riprese a battere e 

l'ossigeno  fluì  di  nuovo  nelle  sue  arterie,  si  sentì 

trascinare.  All'improvviso  veniva  risucchiato  nel  vortice 

del  tempo.  Volò.  Volò  a mezz’aria.  Entrò  con  i  piedi  dal 

parabrezza  sfondato  della  sua Mercedes,  sentì  il  vetro 

tagliare  gli  strati  più  profondi  della  sua  vita  e  il  sangue 

caldo  tornargli  in  corpo.  Sentì  la  fredda  sensazione  che 

tutto sarebbe finito. 

“Oh Sam. Non era previsto tutto questo”. 

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E  ancora  il  soffitto  dello  scantinato.  Brutto  e marcio.  E 

fallimentare. 

Di più. Gliene serviva di più. 

A  volte  capita  che  ti  innamori  di  una  ragazza.  Te  ne 

innamori  dal  primo momento  in  cui  la  vedi. Quando  sei 

così piccolo, che neanche sai cos'è  l'amore. Succede che 

diventi  grande.  Succede  che,  per  qualche  misterioso 

motivo,  lei  ti  corrisponde.  Succede  che  ci  fai  l’amore. 

Succede che  lei ti faccia sentire come sospeso nel vuoto. 

Nel vuoto cosmico. Ed era tutto quello che desideravi. Sei 

felice, come mai potrai esserlo ancora. 

Succede che poi  tutto quello che  fai,  lo  fai per  lei. Tutto 

quello che dici, lo dici per lei. 

Ma  tutto  è  così  imprevedibile.  E  così  fuori  dalle  tue 

possibilità,  anche  se  l'amore  ti  faceva pensare di  essere 

invincibile. Folle, folle, misero, essere umano! 

Così  dici  una  parola  di  troppo,  fai  qualcosa  che  non 

andava fatto. Uno stupido errore, poi un litigio, che ne fa 

nascere altri, che diventano altri errori, che si trasformano 

in  altri  litigi  e  in  altri  errori.  E  all'improvviso  arriva  una 

tempesta e  tu non hai niente sotto cui  ripararti. La bella 

dai capelli biondi come  la paglia,  lunghi come gli steli del 

granoturco pronti per  il raccolto, se ne va. E quegli occhi 

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azzurri, nei quali una volta vedevi  il cielo, all’improvviso, 

non sono più limpidi. Ma solcati da un mare di lacrime. 

“Oh Sam. Non era previsto tutto questo”. 

Ancora il soffitto dallo scantinato. 

Di più. Ancora di più. 

A volte  il  fato è  clemente. Capita  che  trovi  la  tua anima 

gemella  dall'altra  parte  della  strada.  Non  la  stavi 

cercando, e non  volevi  trovarla, ma poi  eccola  lì.  Sola  e 

fragile, arrampicata sul tetto di una casa nel silenzio della 

notte. Volte ancora più rare capita che le due metà di una 

mela  siano  così  vicine,  che  si  trovano  a  condividere  lo 

stesso utero. Capita che siano così simili che a volte anche 

la loro madre li confonde. Nascono insieme, e per sempre 

staranno  insieme,  nessuna  distanza  basterebbe  a 

separarli.  Gemelli,  talmente  simili,  talmente  vicini,  che 

sembrano una sola persona. Sono una sola persona. E ciò 

che il Destino ha unito, l'uomo non osi dividere. 

Poi l’Audi davanti alla loro Mercedes inchiodò, Matt frenò 

di  conseguenza,  e  Sam  venne  sbalzato  fuori  dal 

parabrezza. Il tempo rallentò di colpo e la scena proseguì 

lentamente,  fotogramma  dopo  fotogramma.  Più  e  più 

volte  Matt  rivide  l'incidente,  in  ogni  singolo,  crudele, 

dettaglio. Gli occhi mentivano e i sensi vacillavano, questo 

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credette.  Quelle  immagini,  quegli  istanti  di  morte, 

dovevano  essere  il  frutto  di  qualche  incubo,  effetti 

collaterali di qualche sostanza, ma non realtà. Definitiva e 

immutabile.  Perché  niente  poteva  separare  ciò  che  il 

Destino aveva unito. Non una  cintura  slacciata, non uno 

stupido  incidente  su  un'altrettanta  stupida  autostrada, 

non una litigata senza alcun valore. 

Non quegli splendidi capelli color della paglia. Non quegli 

occhi azzurri che riflettono il cielo. 

No. Nemmeno lei. 

Di  nuovo.  Il  soffitto  lercio.  Per  l'ennesima  volta,  per 

l'ennesima dose. 

Il tempo passa e gli eventi accadono. E tu sei  impotente. 

Niente che tu possa dire, niente che tu possa fare, se non 

osservare  immobile  quanto  accade  attorno  a  te,  lo 

scorrere  della  vita,  lo  scorrere  del  tempo,  e  lasciarti 

trasportare. Mai una volta ha il potere di cambiare le cose, 

il misero,  fallace,  essere  umano. Mai,  per  quanto  possa 

impegnarsi.  E  se  il Destino ha  deciso,  l'uomo  non potrà 

opporsi. 

Potrà solo seguire la sua strada fino alla Fine. 

Matt  non  aveva  previsto  quell'incendio  sulle  colline,  e 

tutto  quello  che  successe  dopo.  Non  aveva  previsto 

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l'amore,  così  come  non  avrebbe mai  potuto  prevedere 

l'incidente.  Suo  fratello non  sarebbe dovuto morire. Ma 

cosa  poteva  fare  lui?  Così  piccolo,  così  impotente?  Le 

parole  erano  state  dette,  le  cose  erano  state  fatte. 

Quante volte sognò di afferrare suo fratello per la spalla e 

dirgli: «Resta, e beviamo ancora un'altra birra. Non dirmi 

che  ti ho deluso, non dirmi  che non mi perdonerai mai, 

che non te lo saresti mai aspettato da tuo fratello. Diamo 

tempo  al  tempo.  Lasciamo  passare  qualche  minuto, 

qualche  ora,  qualche  giorno,  e  vedrai  che  tutto  si 

sistemerà!».  E  l'incidente  avrebbe  coinvolto  altri,  e  loro 

due  sarebbero  ancora  in  quell'angolo  di  paradiso,  a 

vivere. 

Matt non aveva previsto tutto questo. 

Ma  quando,  dopo  l'ennesima  dose, Matt  non  riaprì  gli 

occhi, questo  sì,  che  l'aveva previsto. Questa  era  la  sua 

strada, il suo Destino. Era la sua Fine. 

Era  previsto  che  Matt  morisse  di  overdose.  In  quel 

secondo,  uno  dei  tanti,  quando  il  suo  cuore  smise  di 

battere,  senza  più  ricominciare,  e  lui,  finalmente, 

incominciò a volare per sempre. 

Erano  stelle  troppo  vicine  e pianeti  troppo grandi quelli 

che lui vedeva. E andava bene così. Era leggero. Era senza 

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tempo.  Era  senza  eventi.  E  niente  avrebbe  potuto 

rimandarlo  a  terra.  Fluttuava  nello  spazio  inconsistente. 

Era  lassù,  oltre  le  nuvole  e  guardava  in  basso.  Ed  era 

felice. Chiamò a gran voce suo fratello. 

«Sono qui. Per sempre, questa volta». 

 

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17 

02

VICTIMS  

 

 

 

Hocus Pocus. La porta si apre. Decine di pensieri affollano 

la mia  testa.  Decine  di  persone  si muovono.  Teste  che 

sobbalzano. Parlano.  Si  agitano. Ballano.  Fanno  rumore. 

L’afa, e la puzza di sudore, e il caldo. E questa musica, che 

mi sfonda  i timpani. Ma è  la musica o  il mio cuore a fare 

questo rumore? Sta battendo così forte che sento  la mia 

mano  rimbalzare  sul  mio  petto.  Il  mio  cuore  sta  per 

esplodere. Credo che farà male. 

“Denti da cavallo” afferra il mio braccio, mi chiede se sto 

bene.  Ancora  questa  domanda.  Il  mio  cuore  sta 

esplodendo  e qualcuno mi  chiede  se  sto bene.  Sarebbe 

una bella ragazza se non fosse per  i denti da cavallo e  la 

criniera. «Nitrisci allora!». Mi scosto. 

Non mi sono mai piaciuti i cavalli. 

Hocus Pocus. Dove sono? Sono nella cucina di qualcuno. 

Sto mangiando  patatine  al  formaggio. Una  dopo  l’altra. 

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Non mi sono mai piaciute, eppure continuo a mangiarle. 

La mia mano si abbassa, il pugno afferra, la bocca si apre, i 

denti  masticano.  Sorprendente!  Sono  io  a  volerlo?  Sto 

facendo davvero tutti questi movimenti? Ho fame. Forse è 

la  fame  a muovere  i miei muscoli.  E  credo  che  queste 

patatine starebbero benissimo con la panna spray sopra. 

Ho voglia di panna spray. 

Hocus Pocus. Perché la mia maglietta è bagnata? Sento lo 

stomaco freddo e la bocca asciutta. Ho la sensazione che 

qualcosa sia andato storto, ma non riesco a capire cosa. 

Perché la mia maglietta è bagnata? Questa puzza di alcool 

brucia  i polmoni e  tutto quello  che  incontra prima. Non 

riesco  a  respirare.  Mi  sento  andare  a  fuoco.  «Portate 

dell’acqua!». 

Mi serve dell’acqua, sto cercando un bagno. Sto andando 

al  piano  superiore,  e  mille  persone  inevitabilmente  mi 

toccano. Mi sento a disagio. Mi sento strana. Nauseata. 

Hocus  Pocus.  Dove  sono?  Sono  davanti  a  un  quadro.  Il 

leone  che  rincorre  la  gazzella.  Il  leone  corre  e  corre  e 

corre,  ma  la  gazzella  è  sempre  più  veloce.  E  sta  per 

travolgermi.  Non  ha  intenzione  di  fermarsi,  o  verrà 

mangiata dal leone. 

«Kobe, eh?». Mi distraggo e  la gazzella scompare. Chissà 

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se  è  riuscita  a  sopravvivere.  Chi  mi  sta  parlando?  Ah. 

“Boston Celtics” mi sta parlando. Cos’ho in mano? Ah. Un 

bicchiere di plastica rossa. 

“Boston Celtics”, un bicchiere, e un  fusto di birra. Le tre 

cose  sono  collegate, ma  non  riesco  a  capire  come.  Poi 

tutto  si  fa più  chiaro.  I pensieri,  all'improvviso,  seguono 

una linea precisa. 

«Vorrei della birra! Ho sete!». Ho davvero tanta sete! 

«Lo  so. Me  l’hai già detto!». Ma  io non  ricordo di averlo 

fatto. 

Hocus Pocus. Dove sono? Davanti a un frigorifero. Non è il 

mio frigorifero. 

Se  fosse  il  mio  frigorifero  troverei  la  panna  spray  nel 

ripiano a destra. Non è il mio frigorifero e non sono a casa 

mia. A casa mia non c’è tutta questa gente. Tutta questa 

musica.  Tutto  questo  caldo.  Tutte  queste  luci  che  si 

accendono  e  si  spengono.  Perché  sono  davanti  a  un 

frigorifero e di cosa avevo fame? 

Hocus  Pocus.  Dove  sono?  Sono  su  un  divano.  Chi  è  il 

ragazzo  che  siede  di  fianco  a me?  «Che  cosa  bevi?» mi 

chiede.  Sto  bevendo  qualcosa?  Sì.  Ho  un  bicchiere  in 

mano. Che cosa sto bevendo? Il braccio si alza, la bocca si 

apre, la lingua assapora e butta giù. 

Page 21: Storia di anime gemelle

20 

Brucia.  Potrei  incenerire  qualcuno  con  il  fiato. Mi  sento 

come  un  drago.  E  allora  rido.  E  la mia  lingua  butta  giù 

ancora una volta. Brucia! 

«Credo  che  sia  fuoco!»  gli  dico.  Ecco  quello  che  sto 

bevendo. 

Hocus  Pocus.  Dov’è  la  birra? Non  preoccuparti  di  come 

sto, Denti  da  cavallo.  Il mio  cuore  esploderà. Ma  prima 

voglio  farmi  una  birra.  Dimmi  dov’è  la  birra,  Denti  da 

cavallo! 

Mi  guardo  intorno.  Decine  e  decine  di  persone.  Mi 

assottiglio per non toccarne nessuna, ma queste toccano 

a me. Mi sento nauseata. Mi sento disgustata. 

Cerco  un  bicchiere  di  birra.  Ho  la  bocca  secca  e  sto 

morendo di sete. 

Sto morendo  di  sete.  E  il mio  cuore  sta  per  esplodere. 

Resisti e avrai da bere! 

«Vorrei della birra! Ho sete!» dico, sperando che qualcuno 

mi ascolti. 

Un  ragazzo, con  la maglia dei Boston Celtics, mi sorride, 

guardando  la  mia  maglietta  di  Kobe.  Gli  do  il  mio 

bicchiere. Finalmente, birra! 

Hocus Pocus. Perché ho una panna spray in mano? Non ne 

ho idea. Ho la sensazione che qualcosa sia incompleta ma 

Page 22: Storia di anime gemelle

21 

non capisco cosa. Un tizio davanti a me sorride. Poi urla. 

Vuole  che  mangi  la  panna.  Il  braccio  si  solleva,  la  mia 

bocca  si apre,  il dito preme. Una dolce  inconsistenza mi 

riempie la bocca. Non so perché avessi una panna spray in 

mano,  ma  è  stata  una  bella  sorpresa. 

Il  tizio  mi  sorride  ancora,  poi  applaude  dicendomi  che 

sono  stata  brava.  Vuole  fare  un  brindisi.  Alzo  il  mio 

bicchiere. 

Hocus Pocus. Dove sono? Sono in un bagno. Perché sono 

in  un  bagno?  Perché  sono  sul  pavimento  di  un  bagno? 

Non è casa mia. 

Se fossi a casa mia ci sarebbe un tappeto di colore azzurro 

sul  pavimento.  Invece  qua  è  freddo  e  non  c’è  nessun 

tappeto di colore azzurro. E mi fa male la mano. La pelle si 

è  arrossata  sulle  nocche.  Mi  ricordo  che  è  questo 

l’aspetto di una mano quando si prende a pugni qualcuno. 

Ho preso a pugni qualcuno? 

E chi è quello?! 

Hocus Pocus. Perché questo ragazzo mi sta applaudendo? 

Alzo il mio bicchiere e lo porto alla bocca, come fa lui. Ma 

nella mia gola non scende niente. Mi rattristo. Il bicchiere 

è  vuoto. 

«Tieni! Prendi questo! Te lo sei meritato!» dice. 

Page 23: Storia di anime gemelle

22 

Mette  un  altro  bicchiere  nella  mia  mano.  «E’  buono! 

Bevi!». 

Il braccio si alza. La bocca si apre. Chi, per l’amor del cielo, 

sta  controllando  il  mio  corpo,  mentre  io  non  ci  sono? 

Ingoio. La mia gola immediatamente brucia. 

«Non è birra!». 

«No che non lo è!» dice. «É fuoco, ragazza mia!». 

Hocus Pocus. Che cosa sto  facendo?  Il mio dito preme  il 

numero  tre.  Poi  il  numero  uno.  Poi  lo  zero.  Il  resto  del 

numero  lo  so  a  memoria.  Ma  era  da  anni  che  non  lo 

componevo.  Chi  diavolo  sta  controllando  il  mio  corpo, 

mentre  io non  ci  sono?  “Il  telefono della persona da  lei 

chiamata  non  è  al  momento  raggiungibile”.  Ma  certo. 

Come potrebbe essere altrimenti. 

Che cosa sto facendo? 

Perché ho un cellulare in mano? Di chi è questo cellulare? 

Inorridisco davanti al registro delle chiamate. Matt? 

Hocus  Pocus.  Chi mi  sta  parlando  all’orecchio?  Chi  ti  ha 

dato il permesso di avvicinarti così tanto a me? Non lo sai 

che è vietato? «Ti va di restarcene un po’ da soli?» mi dice 

questo tizio con la maglia dei Boston Celtics. Mi vengono 

in mente le Hawaii, non so perché. 

«C’è una stanza libera di sopra!». Mi viene in mente il Lau 

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23 

Lau che ho mangiato a Log Cabins. Lo preparava la moglie 

di  quel  pescatore  americano  che  abbiamo  conosciuto 

nella baia. Il Lau Lau è il piatto più buono che io abbia mai 

mangiato. 

Credo di avere fame. Ho una fame da lupi. 

Devo cercare del cibo. Probabilmente è tempo di cercare 

una cucina. 

Hocus  Pocus.  «Stai  bene?»  gli  chiedo.  É  svenuto.  Ha 

vomitato  ed  è  svenuto.  Questo  tizio,  in  questo  bagno, 

svenuto. Lo scrollo. Lo tiro per i pantaloni. Ma non riesco 

a  svegliarlo. Poi  capisco. Anche  lui  deve  avere problemi 

con il controllo del suo corpo. Poi capisco. «Hocus Pocus, 

amico!». Lo tiro per la maglietta. Sfilo il suo cellulare dalla 

tasca dei  jeans, e poi anche  il suo portafoglio. Solo venti 

dollari. Perché ha già speso tutto. 

Sei anche tu una vittima di Hocus Pocus, eh? Finirò anch’io 

come te, a vomitare nel bagno di qualcuno? A svenire sul 

pavimento di un cesso non mio? 

Spero di divertirmi ancora un po’ prima. 

Hocus Pocus. Cosa  vedo? Scale  che  salgono. Al piano di 

sopra  c’è  il  bagno.  Dovevo  andare  in  bagno,  ma  non 

ricordo perché. Qualcuno mi  sta  toccando. Qualcuno mi 

afferra  per  un  braccio  e mi  allontana  dal mio  obiettivo. 

Page 25: Storia di anime gemelle

24 

Non  ho  mai  sopportato  essere  toccata  dagli  estranei. 

Serro i pugni. Che finisca presto. Serro i pugni. Che finisca 

presto. Ma c'è troppa gente intorno a me, e questa mano 

continua a trascinarmi. Vedo una maglia sportiva verde. É 

un  tizio  con  la maglia dei Celtics  che mi  sta  toccando, e 

questo qualcuno che mi sta parlando. Chi cazzo ti ha dato 

il permesso di toccarmi? 

Vedo il mio pugno incontrare la mascella di Boston Celtics. 

Sento  un  improvviso  dolore  alla  mano.  Vengo  spinta 

indietro.  Atterro  su  qualcuno.  Altra  gente mi  tocca. Mi 

risolleva. 

«Non toccatemi, cazzo! Non toccatemi». 

Altra gente mi afferra. Devo andarmene, o mi faranno del 

male. 

«Matt!». «Aiutami!». 

Vedo  un  uscita.  Ci  sono  delle  scale.  Vedo  il  pavimento 

molto  più  vicino.  Vedo  le mie mani  su  quel  pavimento, 

mentre velocemente salgo le scale. 

Hocus  Pocus.  Dove  sono?  Sono  su  un  divano.  Chi  è  il 

ragazzo che siede di fianco a me? 

«Mi chiamo Mike. Vengo dall’Oregon». 

«Non mi interessa come ti chiami». Né da dove vieni. 

Fa un sorriso. Un sorriso falso. Mi alzo disgustata. Non mi 

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sono mai  piaciute  le  persone  false,  quelle  che  fingono, 

quelle  che  ti  ingannano. Sento  che mi  rimetto a  sedere, 

ma  contro  la  mia  volontà.  Sento  freddo  allo  stomaco, 

all’improvviso. 

«Credi  che  esista  il  libero  arbitrio,  Mike?  Credi  che  sia 

veramente  io  a  muovere  il  mio  corpo?». 

«Come?». 

Mi hai fatto un sorriso falso, ma ci sono passata sopra. Mi 

hai toccato il braccio per rimettermi a sedere, ma ci sono 

passata  sopra.  Ti  ho  fatto  una  domanda  e  non mi  hai 

risposto. Non va bene, Mike dall'Oregon. Non va affatto 

bene! 

«Guarda! Ti sei rovesciata  il bicchiere sulla maglietta!» mi 

dice. 

Ho un bicchiere in mano. É vuoto? 

É  vuoto!  Qualche  tipo  di  liquido  è  finito  sulla  mia 

maglietta. Qualche odore di fuoco è nella mie narici. Non 

riesco a respirare! 

Hocus Pocus. Perché Boston Celtics mi sta abbracciando? 

Mi vengono  i brividi. Mi sento sporca, ora. L’ultima volta 

che ho abbracciato qualcuno è  stato anni  fa. Ma mi era 

sembrato così bello farlo, quasi naturale. Non mi sono mai 

piaciuti  i  contatti  con  gli  estranei.  Neanche  quelli 

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26 

accidentali. 

«Matt!». Lui lo sapeva che a me non piace essere toccata. 

«No! Mi chiamo Jordan!». 

«Non  mi  interessa  come  ti  chiami!»  gli  dico.  Lui  fa  un 

sorriso, è sincero. Probabilmente neanche a  lui  interessa 

come mi  chiamo.  Si  avvicina  al mio  orecchio.  Lo  tollero 

solo perché il basket è sempre stato il mio sport preferito, 

dopo  il  surf,  s'intende.  Il  surf  migliore  l’ho  fatto  alle 

Hawaii.  Non  perché  ci  fossero  onde  migliori,  rispetto 

all'Australia o al Sud Africa, ma perché fui talmente felice 

lì, che tutte le tappe successive mi sembrarono noiose. 

«Log Cabins!» gli dico. É dove ho fatto surf. Quell’estate, 

quella prima estate senza Sam. 

Sarei dovuta andare con  lui.  «Si  fa  surf anche  in Florida, 

Heidi!»,  questo  aveva  detto  prima  di  partire.  «Vieni  con 

me, e tentiamo di risolvere  le cose. Siamo fatti per stare 

insieme,  noi  due».  Ma  io  sono  partita  per  le  Hawaii, 

perché  ci  sarebbe  stato  tempo per  rimettere  a posto  le 

cose, per rimettere a posto noi due, tutta una vita. E dopo 

le  Hawaii  c'è  stato  il Messico,  e  la  Gold  Coast,  e  tanti 

tantissimi altri posti. Cavalcavo tutte  le onde che riuscivo 

a  prendere,  prima  di  crollare  sulla  spiaggia  senza  forze. 

Quella  prima  estate  senza  Sam,  con  tanto,  tantissimo, 

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tempo davanti a me. 

Hocus Pocus. Perché sta squillando un cellulare? É quello 

che ho  in mano, ma non è  il mio. É quello che ho preso 

dalla  tasca  del  tizio  svenuto.  Il mio  compagno  di Hocus 

Pocus, già! 

Numero  sconosciuto.  Forse  è  il  suo  spacciatore.  Mi 

farebbe comodo un’altra dose al momento. Sento che  la 

magia  sta  svanendo,  e  io  vorrei  che  lo  spettacolo  non 

finisse mai. 

Una voce femminile parla una strana lingua. 

«Non capisco un cazzo di quello che dici!». 

Una voce femminile, allora, tenta di parlare uno stralciato 

inglese. 

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