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kSU RIVISTA DI STUDI UNGHERESI 12 Cultura e presenza ebraica in Ungheria dal Medioevo al Novecento PÉTER KOVÁCS I primi documenti sulla presenza ebraica in Ungheria MARIANNA D. BIRNBAUM La presenza ebraica a Ferrara nel XVI secolo FERENC SZAKÁLY Ebrei in Ungheria durante il dominio turco (1526-1686) PAOLO AGOSTINI La Meghillà di Itzhaq Schulhof (1686) GYÖRGY HARASZTI The Return of the Jews to Hungary in the XVIII century TIBOR MELCZER La storia dell'emancipazione della popolazio- ne ebraica ungherese e i suoi precedenti LÁSZLÓ KARSAI # Dall'emancipazione fino allo sterminio della gente. Questione ebraica in Ungheria tra il 1867 e il 1945 CINZIA FRANCHI Cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania MARIA TERESA CINANNI Roth, Améry, P. Levi, Radnóti: l'esperienza dei lager Bibliografia per lo studio sugli Ebrei in Ungheria Centro Interuniversitario per gli Studi Ungheresi in Italia Università degli Studi di Roma, La Sapienza

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kSU RIVISTA DI STUDI UNGHERESI

12

Cultura e presenza ebraica in Ungheria dal Medioevo al Novecento

PÉTER KOVÁCS I primi documenti sulla presenza ebraica in Ungheria

MARIANNA D. BIRNBAUM La presenza ebraica a Ferrara nel XVI secolo FERENC SZAKÁLY Ebrei in Ungheria durante il dominio turco

(1526-1686) PAOLO AGOSTINI La Meghillà di Itzhaq Schulhof (1686) GYÖRGY HARASZTI The Return of the Jews to Hungary in the

XVIII century TIBOR MELCZER La storia dell'emancipazione della popolazio-

ne ebraica ungherese e i suoi precedenti LÁSZLÓ KARSAI # Dall'emancipazione fino allo sterminio della

gente. Questione ebraica in Ungheria tra il 1867 e il 1945

CINZIA FRANCHI Cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania

MARIA TERESA CINANNI Roth, Améry, P. Levi, Radnóti: l'esperienza dei lager

Bibliografia per lo studio sugli Ebrei in Ungheria

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RIVISTA DI STUDI UNGHERESI

n. 12, 1997 Annuario del Centro Interuniversitario per gli Studi Ungheresi in Italia Rivista di Proprietà dell'Università degli Studi di Roma, La Sapienza Redazione: Cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese OOlól Roma, via Nomentana 118, tel.: 00-39-6-49917252, fax.: 49917250 Registrazione al Tribunale Civile di Roma, n.630/88 Direttore responsabile: Sante Graciotti Direttore scientifico: Péter Sárközy Comitato di redazione: M. Teresa Cinanni, Nicoletta Ferroni, Cinzia Franchi, Matteo Masini, Simona Nicolosi Comitato scientifico: Antonello Biagini, Università di Roma - Amedeo Di Francesco, Istituto Universitario Orientale di Napoli - Armando Gnisci, Università di Roma -Carla Corradi Musi, Università di Bologna - Roberto Ruspanti, Università di Udine

Numero pubblicato con il contributo del C.N.R.

Editore Sovera Multimedia s.r.l., via Vincenzo Brunacci 55/55A, 00146 Roma Tel. 06/5562429/5585265 Prezzo L. 25.000; Estero L. 30.000

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Cultura e presenza ebraica in Ungheria dal Medioevo al Novecento

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INDICE

Presentazione

Cultura e presenza ebraica in Ungheria dal Medioevo al Novecento 5

Saggi

Péter Kovács, I primi documenti sulla presenza ebraica in Ungheria 7 Marianna D. Birnbaum, La presenza ebraica a Ferrara nel XVI secolo 11 Ferenc Szakály, Ebrei in Ungheria durante il dominio turco (1526-1686) 15 Paolo Agostini, La Meghillà di Itzhaq Schulhof (1686) 27 György Haraszti, The Return of the Jews to Hungary in the XVIII century 37 Tibor Melczer, La storia dell'emancipazione della popolazione ebraica unghe-

rese e i suoi precedenti 55 László Karsai, Dall'emancipazione fino allo sterminio della gente. Questione

ebraica in Ungheria tra il 1867 e il 1945 63 Cinzia Franchi, Cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania (Dalle ori-

gini all'Olocausto) 71 Maria Teresa Cinanni, L'esperienza dei lager in alcuni scrittori ebrei europei 79

Documenti

Bibliografìa per lo studio sugli Ebrei in Ungheria (György Haraszti) 91

Rassegne

Péter Sárközy, Antologia di poeti ungheresi di sette secoli 97 Nicoletta Ferroni, A quattr'occhi con Flóra 103

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Dispute

Carla Corradi Musi, Risposta a Danilo Gheno 106

Recensioni

AA. VV., Storia dell'Ungheria - a cura di Giovanna Motta e Rita Tolomeo (Péter Sárközy) - AA.VV, Dalla liberazione di Buda all'Ungheria del Trianon. Ungheria e Italia tra età moderna e contemporanea - a cura di Francesco Guida (Simona Nicolosi) - Pasquale Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867). Marcello Cerruti e le intese politiche italo-magiare (Simona Nicolosi) - György Réti, Italia e Ungheria - Cronaca illustrata di storia comune (Roberto Ruspanti) - Marcello Flores, 1956 (Remo Savoia) - Rita Tolomeo, La Santa Sede e il mondo danubiano-balcanico (Problemi nazionali e religiosi, 1875-1921) (Péter Sárközy) - Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca. La diplomazia italiana in Russia 1861/1941 (Simona Nicolosi) -Péter Esterházy, Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn (giù per il Danubio) (Nicoletta Ferroni) - József Attila, Tanulmányok és cikkek: Szövegek-Magyarazatok - a cura di György Tverdota (Nicoletta Ferroni) - Attila József. Flóra, amore mio - a cura di Nicoletta Ferroni (József Pál) - Péter Sárközy, "Kiterítenek úgyis", József Attila (Péter Egyed) - Gianpiero Cavaglià, L'Ungheria e l'Europa (Matteo Masini) - Péter Sárközy, Roma. La Patria comune (József Pál) - Erdélyi Jiddish Népköltészet (Stefano De Bartolo) - AA. VV., Voci dalla Shoah (Maria Teresa Cinanni) - Maria Teresa Cinanni, Testimoni di voci sommerse. L'esperienza del nazismo in alcuni scrittori ebrei europei: Joseph Roth, Primo Levi, Jean Améry, Miklós Radnóti (Nora Moll) 107-133

Cronache dei convegni Convegno italo-ungherese di studi storici. Venezia, 23-24 gennaio 1997 -Convegno scientifico in occasione del 125° Anniversario della Fondazione della Prima Cattedra di Filologia ugro-finnica all'Università di Budapest (Márta Csepregi) - Notizie CISUI. Anno 1997 135-141

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PRESENTAZIONE

C U L T U R A E P R E S E N Z A E B R A I C A I N U N G H E R I A D A L M E D I O E V O A L N O V E C E N T O

Tra il 20 ed il 27 aprile 1995 si è svolto all'Università degli Studi di Roma, La Sapienza, nella sede di Villa Mirafiori, il seminario di studi del Centro Interuniversitario per gli Studi Ungheresi in Italia sul tema: Cultura e presenza ebraica in Ungheria dal Medio Evo al Novecento. Il numero 12 della "RSU" nella sua parte di saggi e contributi pubblicherà gli Atti del Seminario dedicando il numero alla memoria del Collega Prof. Robert Blumstock dell'Università di Hamilton (Canada), la cui visita all'Università di Roma avrebbe dovuto offrire l'occasione del Seminario. Ma la tragica malattia e la morte gli hanno impedito di vedere la pubblicazione del suo saggio nel numero 9 della "RSU" sulla Thirteenth Tribe di Arthur Koestler. Il numero è dedicato anche alla memoria del caro amico Beniamino Carucci, primo editore della nostra Rivista e di molti pre-ziosi volumi tanto in campo di studi ebraici quanto in quello di studi ungheresi, tra cui la Meghillà di Buda di Isacco Schulhof e la monografia Fuori dal Ghetto del compianto professore Gianpiero Cavaglià. Il numero presente della "RSU" è stato già redatto dal nuovo Comitato di redazione formato dai giovani magiaristi laureati dell'Università di Roma, Nicoletta Ferroni, Matteo Masini, M.T. Cinanni, Simona Nicolosi e Cinzia Franchi, i quali si assumono tutte le fatiche e le noie della redazione dell'unica rivista di magiaristica italiana che è arrivata alla sua 12° annata. Auguriamo a loro tanti successi per i prossimi 12 numeri!

Seminario di Studi "Cultura e Presenza ebraica inUngheria dal Medioevo al Novecento", Università di Roma, La Sapienza, Villa Mirafiori, 20-27 aprile 1995.

Il Seminario si inseriva organicamente nella serie degli incontri scientifici che vengono organizzati ormai da 10 anni nell'ambito del programma scientifico del C.I.S.U.I. "Ungheria - Isola o Ponte", e ha preceduto il grande Congresso Mondiale dell'Associazione Internazionale di Studi Ungheresi (N.M.F.L.) che ha avuto luogo a Roma nel settembre 1996, organizzato appunto dalla Sapienza e dal C.I.S.U.I. sul tema: La cultura ungherese e il Cristianesimo.

Al Seminario hanno preso parte con le loro relazioni studiosi provenienti dall'Ungheria insieme ai colleghi italiani; il 20 aprile sono state presentate le seguenti relazioni: Prof. Péter Kovács, dell'Accademia d'Ungheria: Iprimi docu-menti sulla presenza ebraica in Ungheria; Prof. Ferenc Szakály dell'Accademia Ungherese delle Scienze; Ebrei in Ungheria sotto il dominio turco (1541-1686); Dott. Paolo Agostini (Padova): La Meghillà di Itzhaq Schulhof; Prof. György Haraszti, Direttore dell'Archivio ebraico di Budapest: Il ritorno degli Ebrei in

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Ungheria nel XVIII secolo ed il Prof. László Karsai dell'Università di Szeged: Dall'emancipazione fino all'Olocausto (Storia degli Ebrei in Ungheria nei secoli XIX-XX). La giornata di studio è stata presieduta dal Prof. Antonello Biagini, Direttore del Centro Interuniversitario per gli Studi Ungheresi in Italia.

La seconda giornata del Seminario è stata fissata per il giorno 27 aprile per consentire la presenza e la relazione del Prof. Robert Blumstock, studioso eccel-lente della questione ebraica dell'Università di Hamilton in Canada, ma la sua tragica morte ha causato cambiamenti nel programma. Così il Presidente della sessione, Prof. Amedeo Di Francesco, prima ha commemorato il suo amico e poi ha letto il saggio sul libro di Arthur Koestler, appena pubblicato nel numero 9 della "RSU". In seguito hanno tenuto le loro conferenze, il Dott. Carlo Di Cave del Central European University di Budapest: Kazari e ungheresi nella storiogra-fia ungherese moderna (saggio pubblicato nella sua monografia sulla "Conquista della patria" presso l'Istituto Nazionale di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto); Prof. Tibor Melczer della Biblioteca Nazionale Széchényi di Budapest : Uemancipazione degli Ebrei in Ungheria nel XIX secolo; Prof. Péter Sárközy dell'Università di Roma, La Sapienza: Fuori dal Ghetto, Studi di Gianpiero Cavaglià sulla questione ebraica nella cultura ungherese (pubblicata nel volume di G. Cavaglia, L'Ungheria e l 'Europa, Bulzoni, 1996) e la Dott.ssa Cinzia Franchi dell'Università Babes-Bólyai di Cluj-Kolozsvár: La letteratura unghere-se-ebraica della Transilvania. Le conclusioni dei lavori del Seminario di Studi, che si è svolto davanti ad un pubblico numeroso ed interessato in presenza di non pochi Rappresentanti della Comunità Ebraica di Roma, sono state fatte dal Prof. Péter Sárközy, organizzatore del Convegno. Al posto del mancato saggio del Prof. Robert Blumstock pubblichiamo in traduzione italiana il contributo della Prof.ssa Marianna D. Birnbaum dell'Università di California, autore di preziose monografie sulla cultura ebraica ungherese e il saggio della Dott.ssa M.T. Cinanni, giovane studiosa delle analogie e delle discordanze biografiche e lettera-rie di alcuni grandi scrittori ebrei.

Péter Sárközy

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SAGGI

PÉTER KOVÁCS

I P R I M I D O C U M E N T I S U L L A P R E S E N Z A E B R A I C A I N U N G H E R I A

Poiché l 'uso della scrittura latina nell'Ungheria medievale è cominciato durante il regno di Santo Stefano (1000-1038), risulta molto complicato ricostrui-re per mezzo dei diplomi la presenza ebraica in Ungheria nell'XI secolo.

Santo Stefano, primo re d'Ungheria, credette sinceramente nella possibilità di una fraterna e pacifica convivenza fra tutti i popoli cristiani e gli ebrei. Nel Monito scritto a suo figlio, il principe Emerico, dedicò un intero capitolo "al trat-tamento e al nutrimento degli ospiti". «Gli ospiti e i forestieri — scrisse — porta-no una tale utilità che possono sedersi meritevolmente nel sesto posto delle dignità reali...»

I commercianti di passaggio, soprattutto bavaresi e italiani, furono i primi a riferire dell'esistenza di una comunità ebraica in Ungheria e precisamente ad Esztergom, dove c'era la residenza arcivescovile. Già nel 1105, in occasione della morte di Selómon Rási, il più celebre rabbino francese menzionò nel suo libro (Párdesz) questo ebreo ungherese, abbozzando anche una spiegazione reli-giosa del suo nome. Secondo il rabbino, infatti, egli si chiamava Isacco Jaszkont o Jaszkonti.

II primo documento ufficiale ungherese sulla presenza ebraica fu il codice di Ladislao il Santo (1077-1095), con il quale il sovrano proibì i matrimoni tra ebrei e cristiani. Durante il suo regno, infatti, la presenza ebraica in Ungheria fu alquanto esigua.

Solo dopo la prima crociata (1096), con la devastazione della Boemia e delle sue comunità ebraiche da parte dei condottieri stranieri, ebbe inizio una vera e propria emigrazione ebraica verso l'Ungheria, paese noto per la sua tolleranza ed antitetico quindi alla Boemia ove dal 1098 fu rigorosamente ed esplicitamente proibito l'esercizio della religione ebraica.

Nella nuova situazione il re, Colomanno il Bibliofilo (1095-1116), genero del conte siciliano Ruggero, stabilì che tra gli ebrei, soltanto gli agricoltori, avrebbe-ro potuto accedere alle residenze vescovili. Le funzioni e i compiti di questi ebrei sono ampiamente documentati. Sotto Colomanno, nei luoghi di mercato, si cominciò ad usare la "carta sigillata" fra ebrei e cattolici. Questo documento era un vero e proprio contratto di compravendita e conteneva i nomi dei testimoni ed il valore della compravendita. La carta sigillata è considerata, infatti, il più importante diploma privato nell 'Ungheria nel dodicesimo secolo. Poiché

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Colomanno doveva adattarsi ai tempi, e quindi normalizzare la vita quotidiana dei numerosi ebrei immigrati, pensò prima di tutto alla compravendita.

Fino dall'inizio del Duecento gli ebrei non furono mai puniti dallo stato, pote-vano liberamente comprare terreno agricolo, case, beni mobili e immobili e fare testamento. Esaminando la toponomastica ungherese dell'XI secolo si può vedere che numerosi nomi di località sono di origine ebraica. (Zsidófölde - Terra di ebreo, Zsidóvára - Castello di ebreo, Zsidópatak - Rivo di ebreo). In questo seco-lo la comunità ebraica non dovette pagare le tasse per il regnante, bensì la decima al vescovo come tutti i cittadini ungheresi.

Sotto Andrea II (1205-1235) furono emanati ed applicati i primi provvedi-menti ufficiali contro gli ebrei. Nel 1232 il re proibì loro l'accesso agli uffici sta-tali, destituendoli ad esempio dai loro incarichi di conte di zecca, conte di came-ra, conte di miniera.

Dietro il retroscena politico dell'avvenimento si celava una precaria economia reale; Andrea II infatti aveva precedentemente venduto ogni bene (immobili oppure mobili reali), il suo fisco era privo di entrate e, costretto dagli eventi, aveva persino dato a nolo le miniere, le gabelle e le rade, suscitando così lo scon-tento della chiesa ed in particolar modo di Roberto, arcivescovo di Strigonia. Quest'ultimo, infatti, protestò vivacemente contro i noleggiatori e funzionari ebrei, tanto che il sovrano dovette prendere in considerazione la sua richiesta. A quei tempi, il più celebre conte di camera si chiamava Teka ed era attivo sia in Ungheria che in Austria.

Dopo l'invasione del Tartari (1241-1242) Béla IV (1235-1270), figlio e suc-cessore di Andrea II, introdusse subito un nuovo sistema militare nel paese, con il quale veniva stabilito che ogni città sarebbe dovuta essere circondata da mura di pietra, indispensabili per una migliore difesa. Tale chiusura cittadina avvantaggiò notevolmente anche l'industria e il commercio e ciò produsse un nuovo stanzia-mento ebraico.

Nel 1251 fu emanato un importante diploma con cui lo stato ungherese garantì i diritti degli ebrei (Diplomi simili furono emanati nel 1244 in Austria da Federico II, nel 1254 in Boemia da Ottokár II, e nel 1264 in Polonia da Boleslav).

In conseguenza di tale evento, Béla IV stabilì che in caso di discordia tra un cristiano e un ebreo, il giudice avrebbe dovuto interrogare testimoni di ambo le parti. Era vietato insultarli ed obbligatorio rispettare ed onorare le loro feste. Il diploma non solo proteggeva la vita quotidiana degli ebrei ma anche i loro dena-ri, perché le tasse da loro corrisposte costituivano un'entrata importante del fisco reale. La Santa Sede, però, ogni anno protestava contro i privilegi concessi agli ebrei finché Gregorio IX e Urbano IV chiesero esplicitamente al re di vietare loro il noleggio, sostenuti anche dalla chiesa ungherese che pure aveva tentato in pre-cedenza di limitare i diritti degli ebrei. Nel 1279, all'apertura del Sinodo di Buda, i partecipanti, prima di tutti il legato papale Filippo di Fermo, chiesero che gli ebrei fossero espulsi dalle loro cariche e che portassero sempre un segno distinti-vo (un cerchio di panno rosso). Tale proposta non fu accolta.

Nei tempi degli Arpadi non si può parlare in Ungheria di un problema ebraico.

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Con Carlo I (1308-1342) salì sul trono d'Ungheria una dinastia nuova, gli Angioini, ma il cambiamento del potere non interferì con la vita comunitaria degli ebrei.

Mentre in Austria e in Boemia gli ebrei venivano perseguitati, in Carinzia e in Siria scacciati (1312), in Francia e in Spagna devastate 120 loro comunità, in Ungheria, stando ai documenti, gli ebrei vivevano senza problemi. Esistevano, infatti, numerose comunità a Komárom, Tata, Vasvar, Pozsony, Buda, Esztergom e Sopron.

Luigi il Grande (1342-1382), figlio e successore di Carlo I, cercò di convertire i serbi e gli ebrei, ma la sua impresa fallì. Pertanto, nel 1360 ordinò agli ebrei di lasciare l'Ungheria, concedendo loro il permesso di portare via i propri mobili, mentre le abitazioni lasciate e le sinagoghe dovevano essere donate al re. Nel 1361 Luigi il Grande regalò al suo medico Francesco la sinagoga di Pozsony. Gli ebrei fuggirono verso la Austria e la Boemia.

L'esilio degli ebrei ungheresi finì dopo quattro anni, ma, nonostante l'invito reale, molti non tornarono più. Mentre i magistrati delle città non avevano tenuto in considerazione le loro consuetudini e tradizioni (la maggior parte degli ebrei viveva nelle città), la nuova situazione creata da Luigi il Grande conferì loro nuova dignità. Fu nominato, infatti, un giudice degli ebrei per tutta l'Ungheria (Judex judeorum totius regni Hungáriáé) al quale venne riconosciuto grande potere giudiziario sopra le comunità ebraiche. Questo giudice fu scelto sempre fra i cattolici oppure i baroni ungheresi. Il primo, nel 1371, si chiamava maestro Simone.

Dopo la morte di Luigi il Grande, Sigismondo di Lussemburgo (1387-1437) salì al trono ungherese sposando la figlia di Luigi. Sigismondo fu denominato l'uomo più intelligente del suo secolo da un colto umanista, il cardinale Branda da Castiglione. Sigismondo di Lussemburgo, con un ambizioso progetto, avrebbe voluto innalzare la corona ceca alla stregua di quella romano-germanica.

A causa di un dissesto finanziario Sigismondo chiese un prestito agli ebrei ungheresi, i quali in cambio vollero che fosse ratificato il diploma di Béla IV. La comunità ebraica nel 1406 incaricò Salomone, un ebreo di Székesfehérvár, di tro-vare il privilegio ebraico. Egli lo trovò nell'archivio di un convento della sua città e fu ratificato da Sigismondo. Da allora il potere reale difese sempre gli ebrei contro le città: per esempio nel 1421 contro Pozsony, nel 1432 contro Sopron.

Come il suo predecessore Sigismondo, anche Mattia Corvino (1458-1490) progettò la conquista della Boemia, dell'Austria e della dignità imperiale. Egli impose una tassa statale a carico degli ebrei (ogni anno 4 mila fiorini ungheresi), ma in cambio permise la presenza continua di un prefetto ebreo alla Corte. La nuova dignità venne introdotta dopo le nozze di Mattia e Beatrice, figlia del re di Napoli (1476). Il prefetto era ebreo, scelto nella famiglia di Mendel. Il primo pre-tetto fu Giacomo Mendel, poi suo figlio Giuda Giacomo (1502-1512) a cui seguì il loro discendente Giacomo (1512-1523) e per ultimo Israel Mendel.

Il prefetto rappresentava tutti gli ebrei d'Ungheria, in nome di essi poteva sti-pulare contratti, inoltre era il primo giudice degli ebrei. Naturalmente il sovrano

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poteva annullare i decreti del prefetto ed infatti molte volte Mattia ordinò alle città di non saldare il loro debito agli ebrei, per esempio: nel 1475 Pozsony; nel 1462 Nagyszombat. La sicurezza legale degli ebrei rispetto al resto d'Europa era sicuramente migliore ma loro dipendevano dalla volontà di Mattia Corvino.

Dopo la morte di Mattia Corvino a causa della diminuzione del potere reale, la sicurezza legale degli ebrei andò gradualmente scomparendo. Tante volte furo-no confiscate le loro case nelle città (nel 1493 Tata) e nel 1494 si ebbe il primo pogrom in Ungheria. Nello stesso anno a Nagyszombat vennero condannati al rogo molti ebrei, ingiustamente accusati della sparizione di un ragazzo cristiano che testimoni avevano visto precedentemente agirarsi nel quartiere ebraico. Da quel momento pullularono le atrocità contro gli ebrei e parecchie città ordinarono loro di portare un segno di riconoscimento. (II decreto nel 1520 fu annullato da Luigi II). Il prefetto nel 1522 riuscì a ratificare il diploma di Béla IV, ma nella nuova situazione il potere reale non era più in grado di agire concretamente. Le tasse ogni anno aumentavano: nel 1518 cinquemila fiorini, nel 1524 seimila fiori-ni.

Considerata la difficile situazione, il prefetto fece richiesta al palatino Stefano Báthory. Secondo il progetto di Mendel, la comunità ebraica ogni anno avrebbe dovuto pagare 400 fiorini ungheresi al palatino, il quale in cambio avrebbe pro-tetto gli ebrei. Una circostanza aggravò la loro situazione: la nomina di un ebreo, Emerico Szerencsés, a tesoriere personale di Luigi II (1516-1526). I baroni ungheresi non tollerarono tale azione e, nel 1525, durante la dieta di Buda, deva-starono la sua casa e incendiarono molte dimore ebraiche.

In questo periodo alla sicurezza legale si sostituì l'arbitrio. Tutto ciò che essi volevano, dovevano comprare.

Non si conosce il numero degli ebrei in Ungheria durante il Medioevo. Secondo una valutazione approssimativa essi furono circa 15 mila. Prima della battaglia di Mohács (1526) a Sopron abitavano 500 o 600 ebrei. Tale cifra ci è pervenuta perché nel 1527, quando la comunità ebraica fu allontanata dalla città, il segretario del comune annotò il numero degli ebrei. (L'Ungheria aveva 3 milio-ni di abi tant i ) . Nel le cit tà es is tevano le vie degli ebrei , per esempio : Nagyszombat, Sopron, Pozsony, Esztergom e Buda. La maggior parte di essi viveva a Buda dove c'erano due vie abitate dagli ebrei. Gli ebrei di provincia par-lavano anche l'ungherese.

Il rabbino di Nagyszombat, Ezjek, prima del 1421, commentò in ungherese parecchie parole ebraiche e caldee. Gli ebrei pagavano in un'unica soluzione le tasse al fisco reale o al proprietario della terra.

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MARIANNA D. BIRNBAUM

L A P R E S E N Z A E B R A I C A A F E R R A R A N E L X V I S E C O L O

Dal febbraio 1493, quando Ercole I d'Este accolse a Ferrara ventuno famiglie ebree spagnole1, per almeno un secolo, la città ospitò un cospicuo numero di ebrei europei2. Le loro comunità crebbero rapidamente sotto i duchi i quali, necessitando dei loro crediti economici, si mostrarono sempre benevoli e liberali nei loro confronti. Per lo stesso motivo, furono ben accolti anche molti ebrei por-toghesi, grazie ai quali gli Este speravano di intensificare gli scambi commerciali con le colonie e con l'India3.

Nel 1550, con l'arrivo a Ferrara di Beatrice Mendes-Nasi, detta Gracia Luna, la comunità ebraica vantò un nuovo ed insigne rappresentante. Gracia era nata in Portogallo nel 1510 ed apparteneva alla famiglia spagnola di Miques Nasi4.1 suoi antenati, probabilmente, si erano rifugiati in Portogallo, dopo l'espulsione degli ebrei dalla Spagna e, successivamente, perseguiti anche a Lisbona, avevano opta-to per la conversione, piuttosto che emigrare nuovamente. Tale conversione, solo formale, trovò la sua ufficializzazione con il matrimonio di Beatrice e Francesco Mendes, illustre rappresentante dell'aristocrazia di Lisbona e discendente anch'e-gli di una famiglia da poco cristianizzata. Dopo la prematura morte del consorte nel 1536, Beatrice5, accompagnata dalla figlia Reyna e dalla sorella minore Brianda, si recò ad Antverpen per incontrare il cognato Diogo, il quale, contrav-venendo alla tradizione giudaica, decise di sposare la bella e giovane Brianda, piuttosto che la vedova del fratello, a cui assegnò, però, l'amministrazione dei beni di famiglia e la custodia dell'eredità della piccola figlia.

Dopo l'improvvisa morte di Diogo, nel 1545, gli Asburgo adottarono ogni pretesto, dalla minaccia di eresia al forzato matrimonio con Reyna, per imposses-

1 Come sostiene Gundersheimer, Ercole, per coprire le spese del suo dispendioso stile di vita spesso prese dei prestiti da banchieri ebrei. Cfr. Werner L. Gundersheimer, Ferrara. The Style of a Renaissance, Princeton 1973, p. 202.

2 E interessante notare che uno dei nomi delle famiglie era Franco. 3 Tuttavia, sotto Ercole I, gli ebrei furono costretti a partecipare a pubbliche "discussioni religio-

se" con monaci e nel 1507 fu messo su un "monte di pietà" per contrapporsi all'attività bancaria degli ebrei. Anche Alfonso I ordinò che gli ebrei indossassero uno stemma, una "O" con una striscia gialla-arancione "ampia come un palmo". Tuttavia l'ordine non fu mai completamente adempiuto.

4 Attualmente sto lavorando alla biografia di Gracia Mendes-Nasi. L'unico lavoro monografico ad uso scolastico della sua vita fu pubblicato nel 1948 da Cecil Roth (Dona Gracia Nasi of the House of Nasi, Philadelphia 1948, ristampato nel 1977). Questo lavoro sarà inserito nel capitolo sulla sua vita a Ferrara.

* Beatrice fu il suo nome cristiano, mentre in famiglia si faceva chiamare Gracia, usando il suo segreto nome ebreo: la forma latina di Hanna. Il nome "Luna" è ancora di origine ignota.

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sarsi delle ricchezze di famiglia6. La minacciosa avidità degli Asburgo spinse Gracia ad allontanarsi segretamente da Antverpen e a rifugiarsi nel Sud, mentre le sue fortune rimanevano divise tra Antverpen e la Francia. Dopo un viaggio lungo e pregno di peripezie, le due donne con le rispettive figlie raggiunsero Venezia verso la metà dell'anno 1546, mentre, nel frattempo l'imperatore Carlo cercava di farle tornare indietro, per arrestarle come ebree e confiscare i loro beni. Le disav-venture di Gracia non cessarono con il trasferimento, infatti, ben presto ella si trovò a dover lottare per l'amministrazione del patrimonio anche con la sorella, che, vistosi esclusa, la denunciò alle autorità locali come ebrea segreta in procin-to di partire per la Turchia, ove avrebbe potuto professare liberamente il suo credo. Approfittando di tali contrasti, Enrico II di Francia, mirando alle ingenti somme della banca dei Mendes, confiscò i beni delle due sorelle, cosicché Gracia fu arrestata a Venezia, mentre Brianda si rifugiò in convento. Dopo poco tempo Gracia fu rilasciata, grazie alla mediazione del Sultano turco, il quale sperava di poter custodire in patria le ingenti fortune della prigioniera, che, ottenuta la libertà, partì alla volta di Ferrara, ove Ercole II aveva appena proclamato un sal-vataggio generale per gli ebrei spagnoli e portoghesi. Qui ottenne un permesso speciale che consentiva a lei e ai suoi accompagnatori di "andare, abitare, conver-sare, andare in sinagoga, negoziare, esercitare i propri scambi senza alcun impe-dimento"7. Gracia rimase a Ferrara tre anni, durante i quali si inserì talmente bene nel nuovo ambiente, da divenire rapidamente uno dei membri più significa-tivi dell'aristocrazia ebraica locale. Contrariamente ai suoi avi cristianizzati, Gracia non investì il suo denaro per ottenere onori e protezione, bensì per patro-cinare gli studi e incrementare l'attività intellettuale della città, ove divenne per questo molto popolare. A Gracia e al duca Ercole furono dedicate, infatti, le due versioni8 della famosa Bibbia9 di Ferrara del 1553, che, eccezion fatta per la

6 Per ulteriori notizie cfr. anche M.F. Braudel, "Les emprunts de Charles-Quint sur la place d'AnversCharles-Quint et son Temps, in Colloques Intemationaux du Centre Nationale de la Recherche Scientifique, Paris 1972, pp. 191-201 ; Ernest Ginsburger, "Marie de Hongrie, Charles Quint, les veuves Mendes et les neo-Chretiensin "Revue des études juives", LXXXIX (1930), pp. 179-188.

7 Cfr. Maria Giuseppina Muzzarelli, Ferrara, ovvero un porto placido e sicuro tra XV e XVI secolo, in Vita e. cultura Ebraica nello stato Estense, Atti del 1° Convegno internazionale di studi Nonantola 16-17 maggio 1991, Euride Fregni e Mauro Perani, Bologna 1992, p. 252. Lei ricevette un invito personale dal duca. In questo testo i loro nomi ebrei furono prima usati pubblicamente. Secondo Roth, il documento fu distribuito con i nomi di "Donna Vellida (moglie) di Don Semer Benveniste e Donna Reina (moglie) di Don Meir Benveniste, con tutti i familiari e le rispettive fami-glie" (Cecil Roth, Dona Gracia of the House of Nasi, Philadelphia, 1948, pp. 63-64)

8 L'editore fu Abraham Usque, un portoghese, che era andato in Italia dove era conosciuto con il nome cristiano, Duarte Pinel (o Pinhel). Dopo il suo arrivo a Ferrara (1543), si fece chiamare lui stesso con il suo nome ebraico. Fondò una casa editrice a Ferrara e pubblicò testi ebraici-spagnoli e portoghesi. Tra il 1551 e il 1558 pubblicò 27 libri. La sua pubblicazione più importante fu la Bibbia di Ferrara (Biblia en lengua Espanola traducita palabra por palabra de la verdad Hebrayca .. Privilegio de Yllustrissimo Senor Duque de Ferrara)

9 La Bibbia che è una revisione della traduzione precedente fu diffusa a spese di Yom-Tob ben Levi Athias (Jeronimo de Vargas con il suo nome Marsano) e come suddetto possibilmente con un contributo finanziario da Gracia.

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dedica, constano di sporadiche differenze di traduzione10. A Gracia fu inoltre dedicato l'imponente lavoro di Samuel Usque: "Consola^am às Tribulagoens de Israel"11, testo in cui vengono esaminate le innumerevoli tribolazioni del popolo ebraico in tutta la sua storia. Come ogni scritto del Rinascimento, il libro si avva-le di una scrittura simbolica e della forma dialogica tra i tre patriarchi protagoni-sti, Jacob, alter ego dello scrittore, Nahum e Zacharia. Nei primi due volumi è narrata la storia della distruzione del Secondo Tempio e le sofferenze patite dagli ebrei al tempo dell'Impero romano, nel terzo è descritta la loro Diaspora in Occidente (Francia, Spagna, Persia, Italia, Gran Bretagna e Portogallo) le conse-guenti difficoltà e la loro espulsione anche dalla Penisola Iberica. Le sezioni in cui il libro è diviso si susseguono in ordine cronologico e la terminologia conso-latoria è tratta dalla Bibbia, della quale Usque si rivelò grande conoscitore ed interprete. L'opera, scritta in elegante portoghese12, dedica largo spazio alla figu-ra di Gracia, di cui decanta le numerose virtù, paragonate alle donne della Bibbia. Gracia, infatti, possiede, secondo l'autore, l'innata pietà di Miriam, la prudenza di Debora, i numerosi pregi di Ester, la castità e la generosità di Giuditta. Così è scritto nel testo: «Il Signore ti ha mandata come massima consolazione dei nostri giorni. Egli ha racchiuso tutte le virtù in una sola anima. Per tua fortuna, Egli ha scelto di infonderle nella tua sensibile e casta persona, Gracia Nasi».

Sicuramente il fervore intellettuale e l'ambiente sociale di Ferrara hanno influi-to notevolmente sulla personalità di Gracia, ma io credo che ella sia stata ispirata anche da qualche modello concreto, che assurse a costante punto di riferimento nella sua vita. Tale modello fu Benvenida Abravanel, moglie e vedova di Samuel, il figlio più giovane del famoso filosofo ebraico Isacco Abravanel13. La loro fami-glia era di origini spagnole, ma, dopo l'espulsione, si erano rifugiati in Portogallo tutti tranne uno dei membri, il quale raggiunse l'Italia, ove troviamo Benvenida. Quest'ultima era apprezzata per la sua religiosità, la liberalità e la benevolenza. Così venne descritta da Immanuel Aboab, storico di famiglia: «Uno degli animi femminili più nobili ed elevati che siano esistiti in Israele sin dai tempi della nostra dispersione (...) esempio di castità, di pietà, di prudenza e di valore».

Il testo è così simile all'elogio di Usque, che il nome di Gracia potrebbe facil-mente essere sostituito con quello di Benvenida.

10 Pnina Navè Levinson, Was wurde aus Saras Töchtern? Frauen ini Judentum, Gütersloh 1989, p. 112. Questa Bibbia non fu la prima pubblicazione ebraica e oltre ai libri della biblioteca Estense di Modena, gli archivi italiani contengono migliaia di frammenti di manoscritti ebraici presi da registri e rilegature utilizzati nei secoli XVI e XVII. Cfr. anche Vita e Cultura Ebraica nello stato Estense, Atti del I convegno internazionale di studi Nonantolana, 16-17 maggio 1991. Cfr. anche Cecil Roth, The Marrano Press at Ferrara, 1552-1555, in "The Modem Language Review", XXXVIII (1943).

11 Sebbene il lavoro di Samuel Usque sia stato pubblicato da Abraham Usque, non c'è prova a quale dei due uomini si sarebbe riferito più da vicino. Le note in questo lavoro provengono dalla tra-duzione inglese di Martin A. Cohen, Philadelphia 1965.

12 Fidelino Figuerido chiama la Consolagam di Samuel Usque: "E urna obra nobilissima, que honra a lingua Portuguesa", História da literatura clasica, I (Lisbon, 1922), p. 297. (Citato dall'edi-zione inglese, p. 33)

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Quando gli Abravanel erano residenti a Napoli, ove Samuel serviva il Viceré Don Pedro come supervisore finanziario, Benvenida era molto apprezzata a corte e aveva stretto un forte legame di amicizia con Lenora, figlia di Don Pedro, tanto che questa la considerava una seconda madre14. Quando Carlo V ordinò agli ebrei di cambiare credo religioso, oppure di abbandonare Napoli, Benvenida e suo marito si rifugiarono a Ferrara, ove la sua casa ospitò non solo studenti ebrei e cristiani, ma anche orfani e poveri. Ella morì nel 1554, sopravvivendo di tre anni al marito. Durante questi anni ella, così come Gracia, si occupò degli affari di famiglia ed intrattenne importanti amicizie con le personalità del luogo. Anche Gracia beneficiò della sua vicinanza, che influì notevolmente sul suo carattere e sulla frequentazione di determinati ambienti sociali e culturali di Ferrara.

Nelle varie descrizioni di Gracia, l'unico pregio mai riportato è quello relativo al suo aspetto fisico, responsabile probabilmente del mancato matrimonio con il cognato Diogo. A lei venne erroneamente15 attribuita l'immagine raffigurata sulla medaglia di Pastorino di Pastorini16, che ritraeva, invece, Gracia junior (La Chica), nipote di Gracia Nasi e membro più appariscente della famiglia, precedentemente fidanzata nel 1558 con Samuel Nasi. Indipendentemente dall'immagine riprodotta, la suddetta medaglia assume notevole importanza perché rappresenta una donna ebrea con gli stessi canoni estetici adottati nei ritratti delle aristocratiche cristiane.

È noto che agli ebrei non era concesso farsi ritrarre, ma convivendo con i Cristiani, avevano assunto molte loro abitudini e rituali, risentendo anche dell'e-levato clima culturale del Rinascimento ferrarese, che si distinse per la sua libera-lità. Però, proprio quando l'Inquisizione stava concedendo una certa autonomia agli ebrei ferraresi, il nuovo Pontefice Paolo IV17, successo ad Ercole II, intro-dusse una nuova legislazione anti-giudaica, che spinse Gracia ad abbandonare Ferrara alla volta di Costantinopoli, ove proseguì la sua attività culturale.

13 II nome della famiglia è anche pronunciato Abrabanel e in alcune fonti il nome di Benvenida si trova come Bienvenida. C'erano altre due donne a Ferrara: Pomona e Bathsheba della famiglia Modena, che si dedicarono agli studi ebraici ma in quella fase della sua vita Gracia non si impegnò attivamente nello studio del Talmud o della Cabbala.

14 Meyer Kayseiiing, Die Judischen Frauen in der Geschichte, Literatur und Kunst, New York, 1980 (Leipzig, 1879), pp. 76-9. Si dice che, quando Carlo V voleva espellere gli ebrei da Napoli, Benvenida, sostenuta dal suo amico Lenore e altre donne dell'aristocrazia locale, apparve di fronte all'imperatore e perorò la causa dei suoi corregionali. Ibid. Sebbene la maggior parte degli eruditi accetti la data della morte di Samuel nel 1551, il famoso fisico Amatus Lusitanus la stabilisce nel 1547 (Dioscorides, IV, 171)

15 Precedentemente parecchi eruditi lo considerarono come il profilo di Gracia e si immersero in conti complicati per calcolare il fatto che la medaglia fu incisa molti anni dopo che Gracia lasciò Ferrara e che nel 1558 Gracia non avrebbe avuto 18 anni ma più di di 48. Per un'analisi più approfondita dell'argomento cfr. Daniel M. Friedemnberg, Jewish Medals From the Renaissance to the Fall of Napoleon (1503-1815), New York 1970, rispettivamente pp. 43-45 e p. 128.

16 Pastorino di Pastorini (1508-1572) fu pittore, vetrista e artista di stucco e pure incisore di monete e medaglie. Lavorò a Siena ma durante il governo di Ercole II operò a Ferrara, più tardi fu riconosciuto dal Vasari per i suoi ritratti su medaglie in stucco dipinto. La firma di Pastorino "P" di solito appare sulla manica dell'abito e alcuni studiosi rivendicano la scoperta di quella lettera tra le pieghe della manica di Gracia junior. Friedenberg anche la attribuisce a Pastorino (op. citp.128).

17 II papa dal nome reale Giovanni Pietro Caraffa fu perfino cardinale, un fiero nemico degli ebrei. Durante il suo papato (1555-1559), riorganizzò ed espanse le attività dell'Inquisizione.

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FERENC SZAKÁLY

E B R E I IN U N G H E R I A D U R A N T E IL D O M I N I O T U R C O (1526-1686)

Il rapporto dei conquistatori turchi con la più grande comunità ebraica d'Ungheria, quella di Buda, comincia con un gesto tale da riuscire a delineare i termini più importanti dell'intera questione. Mentre la borghesia magiara, tedesca ed italiana della sede reale ungherese — con a capo la Corte — si precipitava in fuga verso Occidente, la delegazione degli ebrei di Buda si presentò con le chiavi della città davanti al sultano Solimano I, il trionfatore della battaglia di Mohács del 29 agosto 1526. Eppure la loro comunità possedeva larga autonomia — era in contatto con le autorità ungheresi solamente attraverso un prefetto nominato, il quale godeva del diritto di decisione in tutti gli affari interni — e svolgeva un importante ruolo nella vita economica della capitale, specialmente negli affari d'usura. Gli ebrei di Buda non avevano quindi alcun motivo per salutare il sulta-no, che stava approssimandosi a Buda, come liberatore. Il fatto che gli ebrei non fossero partiti con i loro concittadini è facilmente comprensibile: i cristiani si sarebbero rifatti contro di loro della scossa causata dalla sconfitta, oppure — e dal punto di vista del risultato finale questo è del tutto uguale — avrebbero ado-perato come pretesto per i pogrom lo stato d'animo dell'opinione pubblica afflitta dalle disgrazie cadute sul Paese (così come sarebbe accaduto l'anno successivo a Pozsony, oggi Bratislava in Slovacchia).

Dall'altra parte era noto, tramite la rete d'informazione che collegava le comunità ebraiche, che gli ebrei godevano di molto rispetto nell'Impero Turco, e sembrava addirittura che alcuni fossero riusciti ad inserirsi anche nei quadri deci-sionali. A questo punto è d'uopo dare uno sguardo generale al ruolo degli ebrei nell'amministrazione economica e pubblica, e — prima di tutto — nell'economia dell'Impero Ottomano. Sarà proprio questa la base dalla quale partire per poter interpretare anche le faccende dell'Ungheria dei secoli XVI-XVII. Gli ebrei vive-vano, già in epoca remota, nei territori occupati nel corso del tempo dai turchi. La più grande comunità ebraica si trovava a Istanbul, divenuta capitale nel 1453, dove nel 1477 furono segnalate 1647 famiglie ebree e nel 1535 addirittura 8700. Già durante il regno di Mehmed II (1451-1481) aveva ricoperò un importante ruolo politico un medico ebreo, chiamato Iacopo, il quale fu insignito — anche se solo dopo essersi convertito alla religione musulmana — del titolo di vesir, titolo che gli concedeva il diritto di avere voce in capitolo anche davanti al sultano. Già nella seconda metà del secolo XV si registrarono contatti epistolari tra gli ebrei che vivevano sotto la dominazione turca e i loro correligionari europei.

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Nonostante questo, l 'accrescimento dell ' influenza degli ebrei è databile sopratutto dopo le grandi persecuzioni europee (Spagna 1592, Portogallo 1596, ecc). Fra i secoli XV e XVI, e nei tempi successivi, gli ebrei monopolizzarono nell'Impero ottomano:

1. il commercio dei tessili ed — in minore misura — l'industria tessile 2. gli appalti di tasse e di dogana 3. la coniatura ed il cambio di moneta 4. e per esempio le ordinazioni di uniformi, che lo stato ottomano procurava

per i giannizzeri. Gli ebrei in veste di nuovi rappresentanti dei pascià giun-sero anche nelle più remote parti dell'impero, dove crearono diverse imprese fruttuose. Gli ebrei svolsero, secondo tradizione, un importante ruolo nella mediazione delle invenzioni europee verso l'Oriente. Fu questa la base della fortuna — per molto tempo indiscutibile — dei loro medici (quest'ultimi più tardi sarebbero diventati indispensabili proprio perché gelosi custodi di elementi orientali). Furono loro a tentare per primi, con risultati effimeri, l'instaurazione della tipografia e dell'arte drammatica e, secondo "le male lingue", furono loro a far conoscere ai turchi numerose innovazioni della tecnica militare europea.

Fino alla fine del secolo XVI, ad eccezione di Baiasid II (1481-1512), il quale non simpatizzava con gli ebrei, tutti i sultani avevano avuto almeno un confidente ebreo, il quale esercitava un influsso costante nel serraglio. Il loro ruolo assomi-gliava molto a quello dei consiglieri e finanzieri ebrei di statuto speciale, apparsi a f ianco delle maestà europee del secolo XVII ("Court Jew", "Hof jud" , "Schutzjud"), ma del ruolo di questi ultimi parleremo alla fine della relazione. Dato che la loro influenza era basata sui successi economici, il rapporto con il sultano non ebbe riflessi, neanche più tardi, in campo politico tranne nel caso di Mehmed II e di un certo Giacomo (in musulmano Yakub). I diplomatici stranieri sapevano esattamente che, se per esempio volevano ottenere qualcosa da Selimo II (1566-1574), avrebbero dovuto conquistare per prima la benevolenza di Joseph Nasi. Era questo un banchiere ebreo spagnolo, consigliere finanziario che aveva servito non soltanto il sultano, ma, prima di trasferirsi definitivamente nell'I-mpero Turco (1554), anche il re di Francia.

L'indulgenza e l'accoglienza degli ebrei era motivata da quella duttilità, la quale — in contraddizione con la attuale concezione europea — spingeva il governo ottomano verso la tolleranza per tutte le etnie e le religioni. I motivi erano puramente pratici, dal momento che il governo di Istanbul assicurava sem-pre la continuità del pagamento delle imposte e in generale il mantenimeto della pace interna. Inoltre il fatto che fossero diventati proprio gli ebrei la minoranza etnica più favorita tra quelle dell'impero non era dovuto alla simpatia dei turchi, ma ai successi economici — in molti campi indispensabili — degli ebrei. (Questo naturalmente non escludeva quel tradizionale antisemitismo che esplodeva in vista dei loro insuccessi).

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Ritornando al Bacino dei Carpazi, nel settembre 1526 Sulimano I — sorpren-dendo tutta l'Europa — fece evacuare l'Ungheria occupata. Partendo da Buda il sultano portò con sé, nei territori dell'impero, insieme con i tesori del castello, anche gli ebrei di Buda. (Era questa una consuetudine dei sultani per popolare di "uomini di qualità" le città dell'impero; dopo l'occupazione di Belgrado ebbero simile destino anche gli slavi meridionali e gli ebrei di quelle regioni.) Sebbene gli ebrei di Buda avessero ricevuto dal sultano una "lettera-patente", non siamo convinti che sia stata quella la ricompensa attesa in cambio del loro spettacolare omaggio. È probabile che originalmente gli ebrei avessero agito credendo che il sultano avrebbe tenuto per sé la sede reale ungherese. In ogni caso — in un luogo e tra usanze straniere — sarebbero capitati in condizioni chiaramente peggiori essendo Buda uno dei centri politico-economici più importanti di tutta l'Europa centro-orientale. Non sappiamo se vi fossero tra loro alcuni che decisero di ritor-nare indietro, però siamo sicuri del fatto che la comunità ebraica di Buda si è ricostituita dopo il 1526. Dopo la definitiva sottomissione di Buda (1541), i dominatori turchi trovarono esattamente 100 famiglie ebree. Una parte di esse si era insediata qui proveniente dalle zone centrali dell'impero (Istanbul, Saloniki, Kavala e Monastir), mentre gli altri dovevano essere probabilmente "occidenta-li", rimasti in luogo. Il governo turco esigeva ormai anche qua i loro servizi e apparentemente ne incorraggiava il ritorno. Da questo periodo in poi, fino alla fine della dominazione turca, troviamo in queste regioni alcune comunità ebrai-che di diversa grandezza, la cui composizione, in base a dati sporadici, cambiava abbastanza spesso. (È dimostrabile che alcuni ebrei siano stati trasferiti qui anche dai territori di dominazione cristiana). In base alle cronache relative alla riconqui-sta di Buda possiamo calcolare intorno a 500 il numero degli abitanti ebrei e que-sto concorda con il fatto che a Buda in quel periodo si trovavano tre sinagoge.

Abbiamo descritto in modo così dettagliato la sorte della comunità ebraica di Buda non solo perché, qui, stando al centro dei territori ungheresi occupati, sembra maggiormente rintracciabile l'evoluzione delle sfere d'attività e dei ruoli che hanno caratterizzato gli ebrei dell'Impero Turco, ma anche perché, nei tempi successivi, questa rimase la più grande comunità nell'Ungheria ormai divisa in tre parti. Non esistevano comunità maggiori né, nella cosidetta Ungheria reale — la parte setten-trionale ed occidentale del paese amministrata dagli Absburgo — né nella Transilvania, divenuta regione autonoma ma vassallo dei turchi. È uscito nei giorni scorsi il resoconto dello storico András Kubinyi su 36 colonie ebree del Regno Medioevale Ungherese, quando il territorio era ancora unito. Queste si erano inse-diate sulla linea di frontiera occidentale del paese e sulla parte occidentale dell'Alta Ungheria da dove giungevano continuamente dalla Germania e dall'Austria ebrei in fuga a causa delle frequenti persecuzioni. (L'ordinamento giuridico degli ebrei in Ungheria, in seguito al "privilegio ebreo" del re Sigismondo dell'anno 1436, era relativamente consolidato, nonché chiaro e ben regolato).

Nel 1671 l'imperatore Leopoldo I — in occasione del violento assalto diretto alla trasformazione dell'intero sistema governativo ungherese — espulse gli ebrei da quella parte del paese posseduta dall'Ungheria, vale a dire dall'Ungheria reale.

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Non era ancora iniziato l'esodo che egli stesso revocò l'ordinanza. Fu così che la locale comunità ebraica si stabilì in numero sempre più consistente nei territori ungheresi del nord e del nord-ovest, come era già avvenuto alla fine del Medioevo e nei primi decenni dell'epoca turca — Sopron [Ungheria]; Kismarton, Nagy-marton (Eisenstadt), Szalónak (Burgschleining Austria-Burgenland); Bazin (Pezinok), Nagyszombat (Trnava), Pozsony (Bratislava) [Slovacchia]. La maggio-ranza si guadagnava umilmente da vivere con il commercio ambulante, con la rac-colta di pelli ecc., mentre i più abili si industriavano ad incrementare i propri introi-ti con l'usura. Nei documenti delle città interessate ci appaiono come mercanti giro-vaghi che le consulte locali costringevano di solito invano ad aprire bottega.

Potevano invece contare su un più serio avanzamento sociale ed economico solo coloro che, usufruendo delle concessioni dei latifondisti padroni di quasi tutta l'Ungheria occidentale e nord-occidentale, oppure coalizzandosi direttamen-te con questi, ottennero il compito — sovente il monopolio — di acquistare e di vendere singole merci, e che, in altre parole, usufruirono dei proventi dei dazi spettanti a qualche proprietario fondiario (conosciamo l'esempio relativo alle proprietà-Batthyàny). Questo spiega il motivo per cui le città libere dell'Ungheria reale precedentemente elencate — nelle quali vivevano anche gli ebrei — si siano mescolate con i centri dei latifondi di nuovo in fase di sviluppo (Kis e Nagymarton erano il centro delle grandi proprietà dei conti, poi principi, Esterházy, e Szalónak dei conti Batthyány). Giacché gli ebrei che commerciava-no con i prodotti del latifondo potevano usufruire di quei privilegi — in primo luogo della franchigia doganale — di cui usufruivano i loro stessi committenti in base alla loro privilegiata condizione sociale, quest'ultimi si procurarono ulteriori benefici a danno di chiunque si occupasse del commercio estero ed interno dell'Ungheria (compreso l'esercito di frontiera che incominciò a far fruttare in questo settore i suoi privilegi come pure la sua forza armata). Alla luce delle più recenti ricerche sembra che nella seconda metà del XVII secolo fu la concorrenza degli ebrei compratori-affittuari — vale a dire, sostanzialmente, dell'aristocrazia che stava dietro di loro —, e non invece la politica economica deliberatamente antimagiara di Vienna né le società commerciali da questa favorite, a causare la notevole ricaduta del commercio dei contadini ungheresi, come ritiene uno dei maestri della nostra storia economica Sándor Takáts. Dopo queste ultime scoperte troppo recenti per azzardare a trarre ulteriori conclusioni a riguardo, bisogna per il momento lasciar aperta la questione, se anche l'impinguamento della comunità ebraica dell'Ungheria nord e nord-occidentale abbia o meno contibuito alla stabi-lizzazione del sistema grande imprenditore-fornitore militare, questione della quale parleremo alla fine di questo saggio.

È ancor più sconcertante il fatto che i cenni dell'espansione economica degli ebrei — fenomeno tipico nel territorio dell'Impero Turco — non sono riscontra-bili nelle due regioni dell'Ungheria di dominio turco. Il governo di Transilvania, già nel secolo XVI, ritirò dalla libera circolazione numerose merci d'esportazio-ne. Mentre altrove i monopoli di questo tipo attiravano in modo magnetico il capitale ebreo, in Transilvania invece non abbiamo notizie del fatto che gli ebrei

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avessero ottenuto simili diritti d'affitto. Del resto sembra che il numero degli ebrei stabilitisi permanentemente cominciasse ad aumentare solo nel secolo XVII. Che il principe non fosse contrario alla presenza degli ebrei è dimostrato anche dalle le t tere-patent i per il commerc io , edi te per la comuni tà di Gyulafehérvár, oggi Alba Iulia in Romania. La legislazione transilvana ostacola-va, fino ad allontanarli, i commercianti greci e le loro brigate, ma non gli ebrei.

Lo sviluppo delle capacità economiche degli ebrei — poco più di mille — che abitavano nei territori occupati dai turchi era ostacolato dalla specifica situazione politico-economica. I trattati di pace fra gli Asburgo e i turchi assicurarono, alme-no all'inizio, il libero commercio e le autorità turche favorirono addirittura l'in-gresso dei commercianti dell'Ungheria reale e dei paesi con essa confinanti. Contemporaneamente però le autorità viennesi fecero presto sapere agli interessa-ti che nei loro territori non erano benvenuti né i turchi né gli slavi meridionali né gli ebrei né i greci, giudicati collaboratori dei turchi. Di conseguenza ai commer-cianti ungheresi, principalmente a quelli che abitavano nei territori conquistati dai turchi, rimase il compito di ristabilire l'interotta catena commerciale — nella quale la parte del leone la faceva l'esportazione di bovini ungheresi — tra i com-mercianti occidentali e quelli orientali. Questa strana situazione, pur non esclu-dendo dal traffico commerciale gli ebrei dei territori occupati, li chiudeva quasi in ghetti ostacolando fortemente l'esercizio delle loro possibilità.

Nella catena di commercio degli animali gli ebrei in genere non potevano inserirsi, ci si collegavano solo attraverso la partecipazione alla raccolta di pella-me. Negli anni 1571-73, sulle loro navi già daziate dalla città di Buda, il doganie-re — non di rado anch'egli ebreo — trovava per lo più merce come stagno, col-telli, berretti, altri indumenti, spezie. (Dal 1556 in poi per esempio fu Salimun jahudi a tenere per molti anni la carica di appaltatore d'imposte dei fondi di red-dito di Buda e di Pest). È evidente che gli ebrei prendevano tutte queste cose dai loro fornitori, dai commercianti cristiani, prima di tutto a Vác. Gli oggetti d'im-portazione più ricercati erano le armi ed il rame, ma l'esportazione di essi dal ter-ritorio dell'Ungheria reale era severamente limitata. Così solo quei commercianti turchi ed ebrei che godevano di rapporti eccezionalmente buoni con i commer-cianti ungheresi potevano ottenere questi oggetti e, grazie alla loro fiducia, anche zafferano ed altre piante erbacee, tappeti e fini tessuti orientali.

Nonostante la limitatezza del loro movimento, secondo l'opinione pubblica contemporanea, gli ebrei di Buda erano ricchi, e gli scorrazzanti soldati ungheresi delle fortezze di frontiera facevano intere battute per ottenere i loro riscatti. Sebbene la fonte economica di questo non sia ben chiara, Isacco Schulhof, pian-gendo le sorti di Buda per l'arrivo dei turchi e riandando con la memoria ai suoi anni di Buda, trovava anch'egli che "le loro abitazioni fiorivano, come gli ulivi, sicure e quiete..., non c'era torto nel paese..." (ricordava con particolare devozio-ne i prezzi incredibilmente bassi dei generi alimentari).

Secondo l'opinione della letteratura internazionale sulla questione il livello culturale delle comunità ebraiche dell'Impero Turco diminuiva costantemente. In realtà gli ebrei — anche se una colonia era composta solo da alcune famiglie —

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dedicavano molta attenzione all'istruzione elementare. L'attività di una cheder è riscontrabile in numerosi comuni dell'Ungheria occidentale del secolo XVII. Dai ricordi di Schulhof sappiamo che nei maggiori comuni si erano costituiti dei "cir-coli letterali" per la spiegazione del talmud (jesiva). E proprio questo esempio dimostra che la popolazione ebraica sotto dominio turco non aveva perduto la sua vena storiografica. Egli stesso in tre opere trattò l'assedio e la riconquista di Buda del 1686.

La più importante eredità spirituale della popolazione ebraica d'Ungheria risa-lente al periodo turco è la formazione della cosidetta confessione sabataria o giu-daizzante, la quale ha anche contesti italiani. Erano prima di tutto gli "eretici" cac-ciati via dall'Italia e fuggiti in Polonia ed in Transilvania a propagare quel pensiero secondo il quale la Bibbia poteva essere esaminata e criticata come tutte le altre opere storiche. La critica della Bibbia portò alle radicali tendenze del protestantismo come Tantitrinitarismo, da cui mancò solo un passo per la ripresa degli insegnamenti e dei rituali dell'antico testamento (il quale in tutta l'Europa era accompagnato dal-l'accrescimento dell'interesse verso la lingua ebraica). La "giudaizzazione" — sotto la guida di Simone Pécsy (+1642) cancelliere transilvano — trovò adepti prima di tutto tra la comunità "székely" (siculi) degli ungheresi di Transilvania.

Mentre tutta l 'Europa giudicava gli ebrei potenziali agenti dei turchi — Schulhof non negò neanche a Praga la lealtà verso i suoi padroni di una volta —, un ebreo originario di Worms associò gli ebrei del Bacino dei Carpazi alla circola-zione sanguigna economica dell'Europa assicurando ad essa un nuovo orienta-mento. Già da tempo era usanza comune, che le potenze europee impiegassero rappresentanti ebrei per l'esecuzione di incarichi, senza i quali il proprio sistema amministrativo — per stentatezza e corruzione — non andava avanti. Questi "ebrei di corte" ricevevano in ricambio prima di tutto protezione e diritti che li distinguevano dai loro correligionari, e naturalmente partecipavano anche agli utili dei monopoli, delle forniture militari e delle transazioni monetarie effettuate per lo Stato. Dato che dal 1670 al 1710 l'Europa occidentale era stata teatro di un conti-nuo guerreggiare crebbe la forza costitutiva dei capitali delle forniture miliari e da qui è riconducibile la nascita dei numerosi grandi patrimoni dell'età moderna. La fornitura militare — similmente alle esperienze dell'Impero Turco nei secoli XV e XVI — divenne un "ramo d'affari" tipico degli ebrei. Secondo un assioma con-temporaneo: "Tutti gli ebrei commissari, e tutti i commissari ebrei."

Gli Absburgo, i quali da poco avevano nuovamente cacciato via gli ebrei da Vienna a volte con dei veri e propri pogrom, non si rassegnarono facilmente al fatto che, se volevano avere successi sui campi di battaglia, dovevano servirsi anche loro di questo sistema. Poiché il sistema amministrativo di Vienna rimane-va notevolmente al di sotto del livello medio europeo ed i fornitori militari cri-stiani si erano rivelati in parte inadatti e in parte troppo cari, la pressione esercita-ta dalla direzione militare, a partire dal 1670, diede la possibilità a due finanzieri ebrei, Samuel Oppenheimer e Simon Wertheimer, di stabilirsi a Vienna dopo il 1669.

Oppenheimer cominciò la propria attività sul campo di battaglia occidentale

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agli inizi del 1670. La sua "capacità" di allora, non cooperando con altri, non arrivava a 100.000 quintali viennesi di cereali annui e la ricchezza di capitali del consorzio, di cui egli stesso era membro, si aggirava intorno ai 200.000 fiorini. Benché Oppenheimer fosse già uscito dal carcere durante l'assedio di Vienna del 1683, la sua impresa si sviluppò con la guerra del 1683-1699 che terminò con la liberazione dell'Ungheria dal dominio turco. A volte riusciva a procurarsi tanto grano, quanto era necessario per l'alimentazione semestrale di una armata di 50-75.000 membri. (Nei periodi invernali l'alimentazione dei soldati doveva essere fornita dalla popolazione del campo di guerra). Ma oltre al grano e all'avena — i quali figurano in ogni contratto —, forniva tutto quello di cui un esercito poteva aver bisogno: cavalli, armi, attrezzature militari, uniformi, pezzi di ponte, cosi come indumenti, coperte e perfino anche grappa. Dopo lo scoppio della guerra di successione di Spagna (1701) Oppenheimer fu in grado anche di raddoppiare i volumi precedenti. (A riguardo si aggiungere che il mercato occidentale rappre-sentava maggiore offerta di quello ungherese).

La solidità della casa bancaria — a causa della sua proverbiale lealtà e preci-sione — è da dirsi illimitata: partendo da alcune decine di migliaia di fiorini all'i-nizio del 1670, già a cavallo del secolo, toccò la cifra di qualche milione fino ad arrivare nei primi anni del secolo XVIII ad un valore superiore ai 10 milioni. (Non c'è da meravigliarsi se alla morte di Samuel Oppenheimer, nella primavera del 1703, in molti temevano la bancarotta dello Stato). Era generalmente Oppenheimer ad acquistare anche i prestiti pubblici dello Stato austriaco, ed era in gran parte suo il compito di piazzare sul mercato il rame e il mercurio unghere-si, prodotti molto ricercati nelle borse dei Paesi Bassi. (A volte i suoi crediti ven-nero trascritti fra queste fonti di guadagno e così anch'egli divenne interessato allo sfruttamento economico delle miniere). Alla fine riuscì ad ottenere dei mono-poli — ma non per i succitati settori — bensì per il commercio del sale di Transilvania. Nel 1694 il palatino Pál Eszterházy fece l'offerta per il diritto esclu-sivo del trasporto in Ungheria di 300.000 cubi di sale per la tesoreria e più tardi si presentò con uguali pretese anche il consorzio aristocratico transilvano nato sotta la guida di Miklós Bethlen. Venne in seguito alla luce che dietro tutta la transa-zione c'era Oppenheimer: egli stava sempre volentieri a disposizione — della tesoreria, così come dei privati — con crediti e prestiti più o meno grandi. Summa summarum: al culmine della sua carriera Oppenheimer, accordandosi con Wertheimer, raggruppò tutti quei vantaggi nelle loro mani, divenendo entrambi grandi imprenditori ebrei dell'Impero Turco.

La sua attività subì vari attacchi da parte dell'amministrazione e delle persone private. I primi si rendevano conto a malincuore che il successo di Oppenheimer era dovuto in parte alla loro incapacità, ma questo non impediva loro di biasimar-lo là dove potevano. A seguito degli intrighi degli impiegati e dell'alto clero apri-rono più volte istruttorie a suo carico e lo imprigionarono. La lobby militare inve-ce gli veniva in soccorso ogni volta, perché, anche se il Consiglio Militare di Vienna non se ne accorgeva, dal campo di battaglia invece si poteva ben vedere che senza il concorso di Oppenheimer il rifornimento dell'armata austriaca sareb-

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be crollato molto presto. Io stesso penso che i suoi contributi possano essere valutati in un contesto storico. Quando — con diritto — esaltiamo gli eccellenti condottieri occidentali che hanno combattuto sui campi di battaglia ungheresi (Carlo principe di Lorena, Luigi marchese di Baden, Eugenio principe di Savoia ecc.), è consigliabile aggiungere che ai loro successi contribuì anche quest'im-prenditore militare ebreo, appena tollerato a Vienna e disprezzato a Corte.

Tutto questo si trova solo apparentemente al di fuori della storia della popola-zione ebraica d'Ungheria nel periodo turco. Le operazioni di Oppenheimer esige-vano un enorme apparato ausiliario — compratori, sbrigatori, fornitori —, e gran parte di questo veniva reclutato tra gli ebrei del luogo e proprio essi, sotto la dire-zione di Oppenheimer, acquistarono un nuovo profilo economico, più caratteristi-co di quello precedente. L'intero processo aveva anche un altro effetto, meno diretto, ma forse ancor più importante di quello precedente. Gli ebrei dell'Europa centro-orientale nel confronto turco-cristiano passarono a fianco di quest'ultimi liberandosi successivamente in questo modo dalla generale accusa di voler frater-nizzare con i turchi.

Bibliografia

Sulle conseguenze a Buda dell'arrivo dell'esercito turco nel 1526: Budapest története a későbbi középkorban és a török hódoltság idején (La storia di Budapest nell'Alto Medioevo e al tempo della dominazione turca), a cura di L. Gerevich e D. Kosáry, Budapest 1974 in Budapest története (Storia di Budapest) vol. II, p. 200 (lo scritto di A. Kubinyi); il compendio più recente sulla comunità ebraica d 'Ungheria nel Medioevo: A Kubinyi, Magyarországi zsidóság a középkorban (La comunità ebraica d 'Ungheria nel Medioevo), "Soproni Szemle", 48, 1(1995), pp. 2-27; F. Kováts, Adalékok a pozsonyi zsidóság késöközépkori gazdaságtörténetéhez (Contributi alla storia economica della comunità ebraica di Pozsony nell'Alto Medioevo) in Magyar-Zsidó Oklevéltár [MZsO] (Archivio magiaro-ebraico), vol. IV, Budapest 1938, V-CVIII.

Sulla comunità ebraica dell'Impero Turco in generale: B. Lewis, The Jews of Islam, Princeton, New Jersey 1984; cfr. A. Levy, The Sephardim in the Ottoman Empire, Princeton, New Jersey 1992 e M.A. Epstein, The Ottoman Jewish Communities and their Role in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, Freiburg im Breisgau 1980. (Islamkundliche Untersuchungen 56). Sugli ebrei di alto rango: F. Babinger, Yacqub Pasha, ein Lebarzt Mehmed's in "Rivista di Studi Orientali", 26(1951), pp. 82-113 e Ballin-Greenebaum, Joseph Nasi, Due de Naxos, Parigi 1968 (Etudes Juives, 13). Sulla medicina ebraica: A. Galanta, Médicine Juifs au service de la Turquie, Istanbul 1938; Sui rapporti in Ungheria della medicina ebraica: I. Csillag, Régi zsidó orvosok és kórházak Magyarországon (Dottori e ospedali ebraici del vecchio tempo in Ungheria), MZsO, XIII, Budapest 1970 (per il periodo turco: pp. 35-39). Sul ruolo economico ecc. degli ebrei: M.A. Epstein, op. cit., pp. 101-149. Sulle conseguenze delle persecuzioni ebraiche

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nell'Europa occidentale: H. Kamen, The Mediterranean! and the Expulsion of Spanich Jews in 1492 in "Past and Present", 119(1988), pp. 30-55.

Sulla questione della tolleranza: F. Gabrieli, La tolleranza nell'Islam in "La Cultura", 10(1972), Arabesci e Studi Islamici, Napoli 1973, pp. 25-36 e in parti-colare A. Khoury, Toleranz im Islam, Monaco 1980. Sulle spinte della politica turca: K. Hegyi, Török berendezkedés Magyarországon (Stabilizzazione turca in Ungheria), Budapest 1994, pp. 15-35. Sulla questione del livello culturale ebraico nell'impero turco: I. Zinsberg, History of Jewish Literature: The Jewish Center of Culture, New York 1974, ecc.

Abbiamo notizie dell'evacuazione degli ebrei di Buda nel 1526 dai privilegi dati a questi nella loro nuova patria: J.H. Mordtmann, Zur Kapitulation von Buda im Jahre 1526. Mitteilungen des Ungarischen Wissenschaftlichen lnstituts in "Kostantinopel", 3(1918), pp. 3-15, cfr. L. Fekete, Budapest a török korban (Budapest al tempo dei turchi), Budapest 1944 in Budapest története (Storia di Budapest), vol. Ill, pp. 148-149 e p. 166, nota 8. Sulla colonizzazione a Istanbul degli abitanti di Belgrado: J. Kalic-Mijuskovic, Beograd u srednjem veku, Belgrado 1967, (Srpska Knjizevna Zadruga) p. 238.

Sui censimenti turchi della comunità ebraica di Buda: Gy. Káldy-Nagy, A Budai zsidók négy törökkori összeírása (Quattro censimenti della comunità ebrai-ca di Buda nell'epoca turca) in MZsO, XVI Budapest 1974, pp. 7-10; cfr. L. Fekete, op. cit., pp. 150-152, 162-164, 174-176; L. Zolnay, Buda középkori zsidó-sága (La comunità ebraica di Buda nel Medioevo), Budapest 1968. Sulle sinago-ghe: pp. 46-56; Budapest története (Storia di Budapest), vol. II, op. cit., p. 386.

Sulla distribuzione degli ebrei: A. Kubinyi, Magyarországi zsidóság (La comunità ebraica d'Ungheria, op. cit.), sebbene dell'epoca turca non ci siano simili elaborati, sembra che la loro distribuzione nei secoli XVI e XVII non sia cambiata molto (a parte alcune località come il centro delle proprietà della fami-glia dei principi Esterházy, Kismarton). Sulla storia di alcune delle comunità più grandi: J. Kemény, Vázlatok a győri zsidóság történetéből (Cenni sulla storia della comunità ebraica di Győr), Győr 1930; M. Pollák, A zsidók története Sopronban a legrégibb időktől a mai napig (Storia degli ebrei di Sopron dai tempi antichi fino ai nostri giorni), Budapest 1896 (Edizioni della società lettera-ria israelita d'Ungheria); cfr. A. Schreiber, Jewish Inscriptions in Hungary. From the 3rd Century to 1686, Budapest-Leiden 1983, Juden im Grenzraum. Geschichte, Kultur und Lebenswelt der Juden im burgenlàndisch-westungari-schen Raum und die angrenzenden regionen vom Mittelalter bis zur Gegenwart ("Schlaininger-Gespàche" 1990), Eisentadt 1993, (Wissenschaftliche Arbeiten aus dem Burgenland, 92) p. 65.

Sulla situazione economica degli ebrei dell'Ungheria occidentale H. Prickler ha un'opinione diversa, Ebrei a Ruszt in "Soproni Szemle", 48(1994), pp. 28-35; L. Gecsényi, Nyugat-Magyarország kereskedelmi viszonyai egy harmincadvizsgá-lat tükrében (1668) (I rapporti commerciali dell'Ungheria occidentale alla luce di un esame di trentesimo) in "Győri Tanulmányok", 16(1995), pp. 63-66; Su un più ampio sviluppo dell'opinione antiviennese di S. Takáts: A magyar tőzsérek és

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kereskedők pusztulása (La rovina dei banchieri e dei commercianti ungheresi) in Szegény magyarok (Poveri ungheresi), pp. 129-247, dalla quale ha preso piede più tardi una tendenza che si è diffusa anche in periodi più recenti. Cfr. per esempio F. Eckhart, A bécsi udvar gazdaságpolitikája Magyaroszágon 1780-1815 (La politica economica della corte di Vienna in Ungheria), Budapest 1958.

Sugli ebrei di Vienna: D. Kaufmann, A zsidók utolsó kiűzése Bécsből és Alsó-Ausztriából, előzményei (1625-1670) és áldozatai (L'ultima espulsione da Vienna e dalla bassa Austria degli ebrei, precedenti e sacrifici), Budapest 1889; History of Habsburg Jews 1670-1918, a cura di W.O. McCagg, New York 1989.

I privilegi degli ebrei di Gyulafehérvár: MZsO, XVII, Budapest 1977, pp. 27-30, n. 11-14.

I trattati di pace tra Asburgo e turchi assicurarono libertà di movimento ai commercianti delle due parti nel territorio turco, mentre invece le autorità vienne-si la limitarono in parte con le lettere-patenti approvate dalla Camera per tenere lontani i commercianti slavi del sud e in parte con il divieto ufficiale di esportare ogni tipo di armi e ogni tipo di materiale bellico. Sulla questione a differenza di molti abbiamo fatto una digressione: Mezőváros és reformáció (Tanulmányok a korai magyar polgárosodás kérdéséhez) (Città di campagna e la Riforma, Studi sulla questione dell'urbanizzazione prematura dell'Ungheria), Budapest 1995 in "Humanizmus és reformáció", 23, passim, in particolare pp. 116-128 note e pp. 419-420. Sulla struttura del commercio estero dell 'Ungheria: Gy. Ember, Magyarország nyugati külkereskedelme a XVI század közepén (Il commercio estero verso occidente dell'Ungheria nella metà del XVI secolo), Budapest 1988 (edizioni dell'archivio nazionale ungherese). Fra i molti studi di L. Gecsényi sui più interessanti particolari logistici che hanno influenzato anche il commercio degli ebrei: Az Edlasperg-iigy. A magyar kereskedők bécsi kapcsolatai a XVI szá-zad első felében (L'affare Edlasperg. Le relazioni viennesi dei commercianti ungheresi nella prima metà del XVI secolo) in "Történelmi Szemle", 35(1993), pp. 279-296, Bécs és a hódoltság kereskedelmi összeköttetései a XVI században (Le relazioni commerciali fra Vienna e i territori sotto dominazione turca nel XVI secolo) in "Századok", 129(1995), pp. 767-790.

Gli ebrei nei registri doganali turchi a Buda negli anni 1571-1572, 1572, 1573-1574 e 1579-1580: Budai török számadáskönyvek 1550-1580 (I libri conta-bili turchi a Buda), pubblicato da L. Fekete e Gy. Kády-Nagy, Budapest 1962, pp. 13-276; per l'analisi: E. Vass, Zsidók a hódoltságkori török forrásokban (Gli ebrei nelle fonti turche all'epoca del dominio ottomano), MZsO, XVIII, Budapest 1980, pp. 11-30; Doganieri ebrei lungo il Danubio: M. Szilágyi, Társadalmi és gazdasági viszonyok a Duna mentén a török hódoltság korában (Relazioni sociali ed economiche lungo il Danubio a l l ' epoca della dominazione turca) in Tanulmányok Tolna megye történetéből (Studi sulla storia della provincia di Tolna), 8(1978), pp. 65-67. Sull'importanza degli affari legati al rame: F. Szakály, Mezőváros és reformáció (Le Città di campagna e la Riforma), op. cit. , passim, in particolare pp. 418-419.

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S. Takáts, A török és magyar raboskodás (Il carcere turco ed ungherese) in Rajzok a török világból (Immagini dal mondo turco), voli. I-III, Budapest 1915-1917, vol. I, p. 218. La citazione-Schulhof: I. Schulhof, La Meghillà di Buda (1686), Prefazione e traduzione di P. Agostini, postfazione di F. Szakály, Roma 1982. (Testimonianze sull'ebraismo, 13)

Sui circoli di lettura del talmud a Buda: I. Schulhof, op. cit. Dalla ricca letteratura riguardante i sabatismi transilvani: M.L. Pákozdy, Der

siebenbiirgische Sabbatismus, Stuttgart-Berlin 1973; R. Dán, Humanizmus, reformáció, antitrinitarizmus és a héber nyelv Magyarországon (Umanesimo, riforma, antitrinitarismo e la lingua ebraica in Ungheria), Budapest 1973 in Humanizmus és reformáció, (Humánizmus és reformáció, 2), Az erdélyi szomba-tosok és Péchi Simon (I sabatismi siculi e Simon Péchi), Budapest 1987 (.Humánizmus és reformáció, 13); cfr. A. Kovács, Vallomás a székely szombatosok perében (La confessione nei processi dei sabatismi siculi), Budapest 1983.

Sul fenomeno degli "ebrei di corte"-fornitori di armi: H. Schnee, Die Hoffinanz und der moderne Staat. Geschichte und System der Hoffaktoren an deutschen Fiirstenhöfen im Zeitalter des Absolutismus, voli. I-III, Berlino 1953-1959; S. Stern, The Court Jew. A contribution to the History of the Period of Absolutismus in Central Europe, Philadelphia 1950, e Der preufiische Staat und die Juden, voli. I-II, Tiibingen 1962, ecc.

Sull'attività di Oppenheimer: M. Grundwald, Oppenheimer und sein Kreis. Ein Kapitel aus der Finanzgeschichte Österreichs, Vienna-Leipzig 1913. (Quellen und Forschungen der Juden in Deutsch-Österreich V); F. Szakály, Oppenheimer Sámuel működése, különös tekintettel magyarországi kihatásaira (L'attività di Sámuel Oppenheimer, con particolare riferimento alla sua influenza in Ungheria) in MZsO, XIV, Budapest 1971, pp. 31-78. (È già pronta la versione in inglese che utilizza tutti quei materiali dell'archivio di Vienna che J. Házi ha messo a disposizione degli studiosi: MZsO, XVII, Budapest 1977, pp. 31-169, n. 20-273 e XVIII, pp. 80-213, n. 110-499).

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PAOLO AGOSTINI

L A M E G H I L L À D I I T Z H A Q S C H U L H O F TESTIMONE E VITTIMA DELLA CADUTA DELLA BUDA TURCA (1686)

Se oggi disponiamo del resoconto circostanziato della vita quotidiana e della situazione degli Ebrei in Ungheria durante il periodo della dominazione turca e se possiamo contare su una testimonianza oculare in merito ai fatti ed alle circostanze che condussero alla riconquista di Buda da parte degli eserciti della Lega Santa, lo dobbiamo a Dávid Kaufmann (1852-1906)1, uno studioso di grande ingegno, che pose le fondamenta di tutta una serie di discipline connesse all'ebraistica. Egli mise assieme una preziosissima e impareggiabile collezione di antichi libri e manoscritti ebraici, che alla sua morte vennero donati alla biblioteca dell 'Accademia

1 II 4 Ottobre 1877, per volontà dello stato ungherese, apriva i battenti a Budapest l'Istituto Nazionale Rabbinico. Accanto al direttore, l'anziano rabbino Mózes Bloch, vennero chiamati ad insegnarvi anche Vilmos Bacher, che in breve divenne uno dei più quotati esegeti biblici d'Europa, e l'allora venticinquenne Dávid Kaufmann, nato a Kojetein in Moravia nel 1852, che aveva ottenuto il dottorato a Lipsia e che aveva quindi completato i suoi studi rabbinici a Breslavia (chiamata Boroszló in ungherese e Prefòburg in tedesco). Quattro anni più tardi egli sposava Irma Gomperz, che descrisse con queste parole al suo maestro Zunz: «Sie hat das Herz und die Bildung, alien me inerì. Bestrebungen sich anzuschliefien» [Lei ha il cuore e la preparazione adatti per unirsi a me in tutti i miei intenti]. Grazie alla ricca dote della moglie, egli seppe porre le basi della sua agiatezza econo-mica, in virtù della quale potè acquistare, tra lo stupore di molti, antichi libri e manoscritti ebraici, non di rado per pochi spiccioli, dato che allora erano in pochi a saper apprezzare il vero valore di quei rari volumi. Ciò gli consentì di costituire una biblioteca privata di libri e manoscritti di argo-mento ebraico tra le più grandi e più ricche al mondo, poiché consta di 593 manoscritti ebraici (ven-ticinque dei quali sono codici riccamente illustrati) e circa 2000 libri rari. La parte più importante di questa collezione è rappresentata dai codici illustrati del rabbino mantovano Marco Mortara, che Kaufmann acquistò dai fratelli Trieste di Padova e dall'antiquario Rabinowitz. La collezione com-prende il primo dramma ebraico a noi noto, scritto nel XVI secolo dal mantovano Leone Sommo de Portaleone. Comprende inoltre il libro di preghiere copiato nel 1481 dal pesarese Abraham ben Matitia Treves, oltre a tutta una serie di documenti scoperti nel 1896 nella famosa genizà (ripostiglio segreto) della sinagoga della città vecchia di Fustat (Cairo).

Su ogni libro Kaufmann appose con la sua precisa calligrafia come ne era venuto in possesso e alcune di queste annotazioni valgono quanto un romanzo di avventure. Egli fu uno studioso geniale, che pose le basi di tutta una serie di discipline connesse all'ebraistica: egli fu ad esempio il primo ad occuparsi della storia dell'arte ebraica, il primo a studiare l'epigrafia ebraica, il primo a scrivere di genealogia ebraica. Le sue opere, considerate fondamentali, vengono tuttora utilizzate dagli studiosi Quali preziose fonti bibliografiche. Dávid Kaufmann morì improvvisamente a Karlsbad il 6 luglio '899 in seguito ad una caduta. La vedova continuò la sua meritoria opera di raccolta di libri e mano-scritti di carattere ebraico. Alla morte della vedova Kaufmann avvenuta nel 1905, la madre di questa donò la preziosissima collezione all'Accademia Ungherese delle Scienze. L'importanza di questa collezione apparve subito evidente, dato che un primo catalogo venne dato alle stampe già nel 1906.

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Ungherese delle Scienze2. Tra i volumi della collezione compare un breve mano-scritto, catalogato da Kaufmann stesso con il numero A 349, che porta il titolo ebraico di Megillath Ofen. In Ofen riconosciamo facilmente il nome tedesco di Buda3. La parola megilla (pronunciata "meghillà") è invece un derivato del verbo di origine aramaica gallai 'rotolare, arrotolare, girare' e indica il 'rotolo' di perga-mena su cui venivano scritti i libri4, esattamente come la parola latina volumen deriva dal verbo volvere. In particolare, col nome aramaico di megillà si è soliti indicare il Libro di Ester5 e, in conseguenza di ciò, la parola è passata ad indicare tutti quei libri o racconti che narrano grandi avvenimenti nella vità delle comunità o di singoli e che trattano di scampati pericoli. Pochi sanno che molte comunità e famiglie ebraiche, anch'esse minacciate da pericoli poi scampati, serbano memoria dell'anniversario: queste meghilloth vengono lette nell'ambito comunitario o fami-gliare nella ricorrenza dell'avvenimento stesso, come accade per il Libro di Ester, che viene letto nelle sinagoghe in occasione della festività di Purim6.

2 M. Weisz, Kata log der hebràischen Handschriften und Bücher in der Bibliotek des Prof. Dr. David Kaufmann s.A. Frankfurt a/Main, 1906. Ignác Goldziher, Akadémiai Értesítő. XVII, 1906, pp. 306-314. Idem, Microcard Catalogue of the ... Kaufmann Collection. Budapest, 1959, pp. 12-21. A Magyar Tudományos Akadémia könyvtára 1826-1976. Budapest, 1976, pp. 23-24.

3 II toponimo di Ofen, il cui significato originario di 'forno; caverna nella roccia' corrisponde esattamente all'antico slavo ecclesiastico pestò, è attestato sin dal 1235, v. MonBp. p. 26 - Cp. L. Kiss, Földrajzi nevek etimológiai szótára. (Abbr.: FNESz). Voli. I-II. Budapest, 1988. 6 è il simbolo "duro" del cirillico che va scritto come f>, ma può essere sostituito con il numerale 6 per semplicità.

4 Tra i libri della Bibbia che vengono scritti su rotoli, oltre al Pentateuco, vi sono anche il Cantico dei Cantici, il Libro di Ruth, le Lamentazioni di Geremia, l'Ecclesiaste (o Qohelet) e il Libro di Ester, che sono perciò noti col nome xamesh megilloth ovvero "i cinque rotoli".

5 Secondo la tradizione, nell'impero persiano viveva il primo ministro amalecita Haman, noto per il suo odio antiebraico poiché riteneva di essere stato offeso da un Ebreo di nome Mordechai. Egli pertanto mise in atto un suo piano per far giustiziare tutti gli Ebrei, lamentandosi con l'impera-tore Antaserse che essi non rispettavano la religione di stato e che causavano grandi danni all'impe-ro. Ma, mentre lo sterminio stava per abbattersi sugli Ebrei di Persia, la regina Ester, anch'essa di origine ebraica, assieme al fratello Mordechai che in una precedente occasione aveva salvato la vita all'imperatore, dimostrarono al sovrano la falsità degli argomenti addotti da Haman. Perciò l'impe-ratore emise un decreto a difesa degli Ebrei e fece impiccare il ministro Haman. La tradizione ebrai-ca festeggia questo avvenimento col nome di Purim, plurale della parola pur che significa 'fato, sorte': infatti Haman aveva tirato a sorte il giorno in cui avrebbe dovuto far uccidere gli Ebrei.

6 Una di queste è la meghillà del Cairo, che ricorda gli eventi dell'anno 1524, quando il gover-natore dell'Egitto incarcerò 12 Ebrei, tra cui il rabbino capo, minacciandoli di morte al fine di estor-cere denaro alla Comunità ebraica. Il governatore venne però accoltellato da un suo aiutante e gli Ebrei scamparono al massacro. Il Purim di Ancona viene celebrato in ricordo di una serie di terremo-ti che misero in serio pericolo la città e la comunità ebraica nel 1690. Nella meghillà di Rodi si ricor-da l'accusa di omicidio rituale di un bambino rivolta agli Ebrei di Rodi nel 1840, accusa che cadde quando il bambino venne ritrovato dove era stato nascosto da commercianti greci che temevano la concorrenza degli Ebrei e che avevano scelto questo sistema per screditarli. Il Purim Edom degli Ebrei algerini ricorda il tentativo fatto nel 1504 da Carlo V di Spagna di occupare Algeri, quando una tempesta distrusse la flotta spagnola salvando gli Ebrei. Ogni anno i discendenti del praghese Moshe Altschul sono chiamati a leggere la Meghillath ha-Kela'im ("Meghillà delle Cortine di Praga") nell'anniversario in cui egli fu liberato dal carcere: si racconta che delle cortine di damasco furono rubate dal palazzo del governatore e consegnate ad Altschul. Egli si rifiutò di dire da chi le

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Il 2 settembre 1686, dopo centoquarantacinque anni di dominio turco ed un assedio durato oltre due mesi, la città di Buda viene occupata dagli eserciti della Lega Santa, circa sessantunomila soldati, guidati da Carlo V di Lorena e da Massimiliano di Wittelsbach. È una grande festa per l'Europa cristiana, che vede in questo modo allontanarsi definitivamente la minaccia dell'espansionismo otto-mano. Ma è anche un giorno di lutto per la comunità ebraica di Buda, che viene in gran parte trucidata dai soldati della Lega, depredata dei propri beni e che vede i pochi superstiti fatti prigionieri per ottenere il riscatto dalle altre comunità ebraiche.

La Meghillath Ofen rappresenta un documento unico, scritto da Itzhaq Schulhof, nipote del rabbino di Praga e fra i membri più influenti della comunità di Buda, il quale fu allo stesso tempo testimone oculare e vittima di questi eventi. Egli così inizia il suo racconto: «Io abitavo allora nella santa comunità di Buda; la città era sotto il dominio turco e il nostro soggiorno colà era fiorente, rinver-dentesi come l'olivo, sicuro e calmo: potevamo invero dire che ciascuno viveva "sotto la sua vite e sotto al suo fico", e nel paese non vi era persecuzione f...]»1.

Nell'anno 1686 nella Buda turca vivevano circa mille Ebrei, in parte autoctoni e in parte immigrati dai Balcani. Probabilmente possedevano parecchi negozi nei quali vendevano le merci provenienti dall'Oriente non soltanto a quella parte dell'Ungheria soggetta al dominio turco ma anche all'Ungheria imperiale; aveva-no inoltre l'appalto del dazio e delle imposte. A testimonianza della vitalità di quella comunità vi erano in città ben tre sinagoghe. In quel momento però la città di Buda era qualcosa di più della capitale di una lontana provincia dell'Impero Ottomano: essa rappresentava il punto di scontro di due culture, da un lato quella mussulmana e dall 'altro quella cristiana. Le guerre turche per la conquista dell'Europa Centrale e Orientale, che rappresentarono l'ultima fase dell'espansio-ne dell'Impero Ottomano verso Occidente, durarono centinaia di anni. La poten-za turca, che nel corso della sua espansione aveva conquistato nel 1453 Costantinopoli, segnando così la fine dell'Impero Romano d'Oriente, iniziò ad esercitare una pressione crescente sui paesi confinanti, estendendo le sue conqui-

avesse ricevute e fu imprigionato, ma il presidente della congregazione rivelò il nome del vero ladro che fu imprigionato e che rivelò di aver comperato le tende da due soldati. Nella Meghillath di Gumelgina (presso Adrianopoli, oggi Edirne, in Turchia) si narra come nel 1786 il villaggio fosse attaccato da banditi che seminarono il terrore nel ghetto e tentarono di saccheggiare il paese. I bandi-ti furono sconfitti, gli abitanti liberati ma gli Ebrei vennero accusati di aver complottato coi banditi e solo dopo molte difficoltà riuscirono a provare la loro innocenza. La meghillà di Narbonne narra come nel 1236 in questa cittadina francese, a causa di un litigio scoppiato tra un Ebreo e un Cristiano, quest'ultimo morisse e a causa di ciò scoppiasse una sommossa antiebraica che venne sedata dal governatore. La meghillà della Marmellata di Prugne (meghillath avidi) narra il rilascio dalle prigioni boeme, avvenuto nel 1731, di un certo David Brandes accusato ingiustamente di avve-r a m e n t o . eccetera. Queste sono solo alcune delle meghillath esistenti (dati del Dr. Morton Teicher, North Carolina Chapel Hill University).

Izsák Schulhof, Budai krónika (1686). Traduzione dall'ebraico di László Jólesz, postfazione di Szakály Ferenc, Budapest, 1979. Izsák Schulhof, La Meghillà di Buda (1686). Prefazione e traduzio-n e di Paolo Agostini. Postfazione di Ferenc Szakály. Roma, 1982.

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ste. Dopo la morte del re ungherese Mattia Corvino nel 1490, il suo successore Ladislao II subì la disfatta di Mohács ad opera del sultano Sulimano II nel 1526 e nel 1541 il sultano occupava Buda, consolidando così il suo dominio in Ungheria. L'Ungheria fu pertanto smembrata in tre parti: la regione soggetta al dominio degli Asburgo, la Transilvania e la zona di influenza turca, nella quale si trovava - e non a caso - la maggior concentrazione di Ebrei. L'Europa, che nel medioevo era divenuta lo sfondo principale dello svolgimento della storia ebrai-ca, presentava all'inizio dell'evo moderno un quadro desolante di odio e intolle-ranza. Per centinaia di anni l'Ungheria era stata l'eccezione in tempi in cui, con T accusa di omicidio rituale, in tutta Europa gli Ebrei venivano arsi sul rogo e le loro proprietà erano saccheggiate. Dopo la morte del re umanista Mattia Corvino però, con l'indebolirsi del potere centrale, iniziarono subito le persecuzioni a Buda, ad Alba Regia (Székesfehérvár) e a Pozsony (Bratislava). Nel 1494 scom-parve un bambino a Nagyszombat: lo storico umanista di origine italiana Antonio Bonfini descrisse nelle sue "Rerum Hungaricarum Decades" quanto avvenne: «poiché non era stato trovato da nessuna parte ed essendo stato appurato che il giorno prima della sua scomparsa il bambino era stato visto nel Vico dei Giudei, si dette corso ad una indagine nei confronti degli Ebrei... Le donne sottoposte ad interrogatorio, spinte dal timore della tortura, confessarono nei dettagli lo scelle-rato delitto [...]». Il processo ebbe luogo nel mese di agosto del 1494 e fu condot-to dal conte palatino István Szapolyai. Gli Ebrei, catturati il 5 agosto 1494 venne-ro accusati di omicidio rituale e bruciati sul rogo il 22 di quello stesso mese: l'in-dagine era durata in tutto 17 giorni.

Ordinanze e decreti contro l'esercizio di attività commerciali ed artigiane da parte di Ebrei si susseguirono: a Ödenburg (oggi Sopron) si fa divieto agli Ebrei di commerciare tessuti fini; a PreBburg (oggi Bratislava) viene loro proi-bito di comprare e vendere cavalli e tessuti di qualunque tipo. Verso il 1520 diviene obbligatorio in tutte le città ungheresi il segno giallo distintivo per gli Ebrei e fanno la loro comparsa i primi ghetti. Nel 1526 viene lanciata contro gli Ebrei di Buda l'accusa di omicidio rituale e soltanto l'apertura mentale della corte evita una strage. Nel 1529 il conte Franz Wolf di Bazin, volendosi libera-re dei suoi creditori ebrei, li accusa di omicidio rituale; ha luogo la consueta tragica farsa: tortura, "confessione", rogo. La brace del rogo si è appena spenta che ricompare il bambino "sacrificato" dagli Ebrei: il conte l'aveva nascosto a Vienna per tutta la durata del processo. L'imperatore Ferdinando nel 1551 ordi-na che in tutti i territori dell 'impero asburgico gli Ebrei portino il marchio distintivo giallo; nel 1578 Rodolfo li colpisce con una doppia imposizione di tributi " a f f i n c h é se ne vadano al più presto"; a rincarare la dose, istituisce nel 1593 una tassa supplementare pro-capite e nel 1596 un ulteriore balzello per l'esenzione dal servizio militare. Nel 1598 il magistrato di Cassovia dichiara

8 A partire dal XV secolo e sino alla fine del XIX secolo fu in vigore l'infamante "giuramento degli Ebrei" col quale l'Ebreo era tenuto a dimostrare la propria innocenza. Redatto di pugno del conte palatino Verbőczi, lo "zsidó eskü" suonava così: Én XY zsidó, eszküszöm az élő Istenre, a

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che «gli Ebrei levano, estorcono, strappano il pane di bocca al popolo»8. Press'a poco nello stesso periodo, nei territori appartenenti alla corona imperia-le, fu emanato un decreto di immediata espulsione degli Ebrei9 (che non venne però ratificato da Ferdinando). Nel 1647 Ferdinando III toglie loro il diritto di ottenere l'appalto dei dazi e dichiara che «gli Ebrei non sono compartecipi dei diritti delpaese»[0.

Questi fatti senza dubbio contribuirono ad alimentare i timori della popolazio-ne di fede israelitica. Non stupisce dunque che gli Ebrei cercassero rifugio in massa nei territori soggetti al dominio turco, laddove non esistevano limitazioni ai loro danni nell'artigianato e nel commercio e dove non erano sottoposti ad azioni di tipo persecutorio.

Dal diario di un funzionario statale boemo del XVI secolo sappiamo che pres-so i Turchi gli Ebrei godevano di pace e prosperità: «In Turchia si possono trova-re in ogni città innumerevoli Ebrei di tutti i Paesi e di tutte le lingue... Da ogni Paese da cui sono stati espulsi, gli Ebrei se ne sono venuti in Turchia numerosi come mosche: parlano tedesco, italiano, spagnolo, portoghese, francese, ceco, polacco, turco, siriano, caldeo e altre lingue ancora... Gli Ebrei possono viaggia-re e commerciare dove preferiscono: in Turchia, Egitto, Cairo, Alessandria, Aleppo, Armenia, Tartaria, Babilonia e persino in Persia, Russia e Ungheria... Tra gli Ebrei ci sono tutti i tipi di artigiani, che vivono vendendo pubblicamente i loro prodotti, poiché in Turchia ognuno è libero di vendere la sua merce dove gli aggrada: in casa, nel suo negozio o per strada. Che questo artigiano sia bravo o

szent Istenre, aki az eget és földet és mindent, ami ezeken van, teremtette, hogy ebben az ügyben, melyben a keresztény vádol, ártatlan vagyok. És ha bűnös vagyok, nyeljen el a föld, mely Dátánt és Abiront elnyelte. És ha vétkes vagyok, szélhűdés és bélpokol lepjen meg, mely a szíriai Namant Elizeus esdeklésére elhagyta és Gehazit, Elizeus szolgáját megszállta. És ha vétkes vagyok, nya-valyatörés, vérfolyás és hirtelen gutaütés érjen és véletlen halál ragadjon el és vesszek el testestül és lelkestül és vagyonostul és Ábrahám kebelébe soha ne jussak. És ha vétkes vagyok, Mózesnek a Sinai hegyen nyert törvénye semmisítsen meg és mindazon írás, mely Mózes öt könyvében van írva, szégyenítsen meg. És ha ez az eskü nem való és nem igaz, törüljön el Adonáj és Istenségének hatal-ma" [«Io Tal elei Tali Ebreo, giuro sul Dio vero, sul Dio santo, che ha creato cielo e terra e tutto ciò che in questi si trova che in questa causa, per la quale il Cristiano mi accusa, sono innocente. E se fossi reo, mi inghiotta la terra che ha inghiottito Datan e Abiron. E se sono colpevole, che io sia preda di un colpo apoplettico e della lebbra, che dopo le implorazioni di Eliseo abbandonò il siria-no Naman per colpire il servo di Eliseo Gehazi. E se sono colpevole che io venga colpito dal mal caduco. da emorragia e da apoplessia fulminante e una morte improvvisa mi rapisca e sia il mio corpo che il mio spirito siano perduti e che io non possa mai riposare in grembo ad Àbramo. E se sono colpevole, la legge che Mosè ha ricevuto sul monte Sinai mi annichilisca e tutte le Scritture che sono scritte nei cinque libri di Mosè mi svergognino. E se questo giuramento non fosse vero e non fosse valido, la potenza di Adonai e della sua Divinità mi cancellino»].

9 I partigiani di Zápolya emanarono un decreto parlamentare di immediata espulsione degli Ebrei dal territorio ungherese: «Elhatároztatott az is, hogy a zsidók ezen ország minden vidékéről, szabad királyi városaiból és helyiségeiből rögtön kiűzessenek» [«Viene anche deciso che gli Ebrei vengano immediatamente espulsi da ogni regione, dalle reali città franche e da ogni luogo di questo paese»] (B. Szabolcsi, A zsidóság története Magyarországon, p. 345).

10 Simon Dubnov, A zsidóság története az ókortól napjainkig. Budapest, 1933. Lajos Venetianer, 4 magyar zsidóság története. Budapest, 1922.

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meno, esperto o no> nessuno può aver nulla da ridire purché egli paghi la tassa dovuta al sultano e Vaffitto della sua bottega».

La dominazione ottomana era più tollerante dato che non tendeva alla assimi-lazione linguistica o religiosa dei popoli ad essa soggetti. I Turchi non ponevano limitazioni e si limitavano a percepire dai non-musulmani una tassa, detta in turco haragu e in latino capitatio (in quanto si trattava di una tassa percepita pro-capite); in compenso gli "infedeli" godevano del vantaggio di commerciare su territori vastissimi. In uno dei momenti più tragici della storia ebraica, l'impero ottomano offrì asilo e speranza, diventando luogo di rifugio. Oltre ai profughi cacciati dalla Spagna e dal Portogallo, anche molti Ebrei sfuggiti alle guerre di religione, alle persecuzioni che infuriavano nell'Europa Centrale e al fanatismo della Riforma, scelsero la relativa libertà della dominazione turca.

Anche a Buda probabilmente vivevano molti Ebrei spagnoli, visto che una delle tre sinagoghe cittadine era di rito sefardita. Quando i Turchi occuparono Buda nel 1541, gli Ebrei accolsero come liberatori i soldati del Sultano e conse-gnarono loro le chiavi della città e quando, verso la fine del XVI secolo, le arma-te imperiali tentarono per ben due volte di prendere Buda, gli Ebrei difesero con le unghie e coi denti la città assieme ai Turchi, cosicché l'esercito imperiale riuscì soltanto a sfondare una delle porte della città12 senza purtuttavia riuscire nel suo intento. La popolazione dei territori sottoposti al dominio asburgico approfittò però di questa occasione per chiedere a gran voce che la già scarsa popolazione ebraica venisse espulsa. Rodolfo, il quale in altre occasioni aveva tenuto un com-portamento particolarmente antiebraico, in questo caso ritenne però che fosse lecito agli Ebrei il difendere le loro case e i loro averi.

Anche i Rumeni ebbero a manifestare un comportamento molto simile a quel-lo degli Ebrei dopo la sconfitta di Nicapoli del 1396, nel corso della quale le armate del sultano Bajasid sconfissero l'esercito del re ungherese Sigismondo di Lussemburgo. I voivodi rumeni, che sino ad allora erano stati sudditi della corona ungherese, preferirono schierarsi dalla parte dell'impero ottomano per ragioni religiose; i Turchi infatti non chiedevano agli ortodossi rumeni di abbracciare la fede dell'Islam, mentre al contrario il re magiaro offriva il suo appoggio e il suo aiuto solo se la controparte accettava di convertirsi al cattolicesimo. Secondo lo storico cattolico B. Bellér, i re ungheresi, a partire da Emerico I (1196-1204), si erano sempre prodigati per la conversione al Papato di Roma, tanto che agli occhi dei popoli dell'Europa orientale, e dei popoli balcanici in particolare, il cattolice-simo era divenuto la "religione magiara" per eccellenza13.

Nei primi anni del XVII secolo e sino al l ' indebolimento del l ' Impero Ottomano, la vita degli Ebrei nei territori soggetti al dominio turco trascorse

11 Ancora oggi in ungherese il verbo harácsol ha il significato di 'requisire, predare, arraffare, accaparrare'.

12 Anche in questo caso si trattava della Bécsi kapu o "porta di Vienna" che conduceva al quar-tiere ebraico.

13 Béla Bellér, Nagy Lajos és a pápaság. Vigilia, XXLIX. évf. 1. sz. 7. o.

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tranquilla mentre al contrario nei territori rimasti liberi lo spettro dell'antisemiti-smo medievale regnava indisturbato. Per questa ragione il numero di Ebrei pre-senti nei territori turchi continuò ad aumentare mentre nel resto dell'Ungheria era in costante diminuzione. Non erano soltanto gli Ebrei provenienti dalle zone soggette al dominio reale a cercare rifugio nella zona di influenza ottomana ma al contrario si assistette ad una vera e propria migrazione attraverso i Balcani. Verso la metà del XVII secolo nelle cittadine dell'Alföld vi era una notevolissi-ma presenza ebraica; in quelle zone e in quel periodo parve rinascere l'antica, amichevole collaborazione tra Ungheresi ed Ebrei che aveva caratterizzato i primi secoli della presenza magiara in Ungheria. Poiché sia gli Ebrei che i Magiari erano considerati dai Turchi sudditi di seconda categoria, entrambi i popoli necessitavano di azioni comuni di protezione nei confronti dei soprusi dei potenti. Fu forse questa la molla che in qualche modo ripristinò l'armonia socia-le tra questi gruppi, mostrando come l'antisemitismo fosse probabilmente un fenomeno imposto e al imentato dal l 'a l to . Anzi, dato che agli occhi dei Musulmani turchi gli Ebrei godevano di un credito leggermente maggiore rispet-to ai Cristiani, le conversioni alla fede israelitica erano un fatto molto frequente, soprattutto da parte di donne cristiane che erano state rese schiave dai Turchi. Durante il periodo della presenza turca sui territori ungheresi gli Ebrei godettero della protezione del sultano.

Verso la fine del XVII secolo, alcuni anni prima della presa di Buda, i Turchi facevano pervenire continue lagnanze ai sovrani magiari in quanto i soldati ungheresi rapivano, imprigionavano e maltrattavano i sudditi ebrei del sultano allo scopo di chiederne il riscatto. Secondo i carteggi diplomatici risalenti al periodo del dominio turco, il sultano era particolarmente incollerito se i soldati ungheresi delle fortezze di confine recavano danno o usavano violenza nei con-fronti di un Ebreo: in tal caso i soldati prigionieri dei Turchi ne subivano le con-seguenze. Nel 1527 l'ussaro Gergely Szőcs e il comandante in capo della fortezza di Eger, Simon Forgács (che divenne più tardi luogotenente reale), sottoscrissero un accordo formale che prevedeva il rapimento di Mosè Kaufmann, ricco Ebreo di Buda, e la spartizione del riscatto. I Turchi si indignarono enormemente per il rapimento avvenuto a Ráckeve per mano degli ùssari e avanzarono una protesta formale a Vienna. Si scoprì in seguito che il Forgács aveva preavvisato la corte viennese delle sue intenzioni. Mosè Kaufmann venne trasferito ad Eger e tenuto prigioniero per tre anni e mezzo, nonostante le vivaci proteste di Mustafà, pascià di Buda. Alla fine Kaufmann venne rilasciato contro pagamento di un riscatto di diecimila fiorini d'oro di cui 6500 andarono a Forgács, 2500 a Szőcs mentre mille fiorini vennero versati al consiglio di guerra a Vienna. Mustafà pascià reclamò invano il rimborso del riscatto, benché il rapimento fosse avvenuto in periodo di pace.

In un'altra occasione gli ussari di confine catturarono tre Ebrei di Buda che vennero imprigionati dal comandante della fortezza di Kassa. Per vendetta, il pascià di Buda - su ordine del sultano - fece impalare tre prigionieri cristiani e minacciò di farne giustiziare altri sei qualora gli Ebrei non fossero stati messi

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subito in libertà. Alla fine i tre Ebrei vennero scambiati contro duecento prigio-nieri cristiani14.

È dunque comprensibile che gli Ebrei procurassero di mostrarsi riconoscenti nei confronti dei Turchi che garantivano loro protezione, al contrario di quanto succedeva nei territori soggetti alla corona, dove l'insofferenza nei confronti degli Ebrei continuava ad aumentare. La devozione degli Ebrei nei confronti dei Turchi divenne talmente proverbiale che, quando nel 1684 si sparse per l'Europa la falsa notizia che Buda era caduta, le persecuzioni nei confronti degli Ebrei ripresero vigore e in molte città si dovette impiegare l'esercito per frenare le folle che mettevano a sacco i ghetti15.

Tra il XIV e il XVI secolo gli Europei lottarono per arrestare l'espansione del-l'impero turco ma, a partire dal 1683, dopo le guerre locali del XVII secolo, l'o-biettivo principale fu quello della cacciata dei Turchi e in questo panorama si inquadra la riconquista di Buda del 1686. Anche in quella occasione gli Ebrei difesero con tutte le loro forze la loro città contro la preponderanza delle armate imperiali. La guarnigione turca fece uso dell'aiuto offertole dagli Ebrei quando divenne chiaro che gli aiuti del sultano non sarebbero giunti in tempo. A partire da quel momento, gli Ebrei si prodigarono nei confronti dei difensori della città non soltanto con offerte in denaro, allo scopo di tener alto il loro morale, ma anche prendendo parte in prima persona al rafforzamento delle difese, alla costru-zione dei terrapieni e alle battaglie vere e proprie.

Itzhaq (Isacco) Schulhof fu testimone oculare e vittima di questi eventi che egli narra nella sua Meghillà. Il suo racconto inizia con prodigi nefasti. Su Buda svolazzano migliaia di uccelli dallo strano aspetto e dall'ancora più strano stridìo. Per un giorno e mezzo ogni fiume, ogni sorgente e persino il corso del Danubio vengono colpiti da una invasione di serpenti e scorpioni. Sono auspici di cui ci si ricorderà quando, il 20 giugno 1686, inizierà l'assedio.

«Innumerevoli bombe vennero lanciate all'interno della città di Buda — scri-ve Schulhof — e bruciarono di fuoco vivo una infinità di case, tanto che era pos-sibile vedere quel fuoco da molte miglia di distanza... E noi al mattino di ogni giorno pregavamo di poter arrivare vivi alla sera, e alla sera dicevamo: "se sol-tanto potessimo arrivare a vedere il mattino " /.../»l6.

L'assedio dura da oltre due mesi quando il lunedì 2 settembre 1686, tredicesi-mo giorno di Elul, come annota Schulhof, viene sferrato l'attacco finale e le armate della Lega Santa entrano in città. Esse riescono a penetrare attraverso una breccia aperta in prossimità del ghetto di Buda e in pochi istanti riducono in rovi-na il quartiere, composto da circa un centinaio di case.

Un centinaio di Ebrei cercò scampo nella sinagoga maggiore. Itzhaq Schulhof si trovava nella sinagoga maggiore assieme alla moglie e al figlio quando entra-rono i soldati della Lega Santa che trucidarono la maggior parte dei presenti. Così

14 Sándor Takács, A régi Magyarország jókedve. Budapest, s.d. 15 Particolarmente noto è il pogrom avvenuto a Padova in quello stesso anno. 16 I. Schulhof, op. c/7., p. 42.

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narra Schulhof: «[...] io passavo tutte le mie giornate nella sinagoga assieme al mio diletto figlio Shimshon - sia benedetto il suo ricordo - ed ero continuamente in piedi, pregando e servendo VEterno. Non sapevo nulla di nulla, finché non sopraggiunsero colà in molti per sfuggire al parapiglia delle armi... tutto il popo-lo s'era già riunito costì, uomini, donne, bambini affannati che si spingevano, accalcandosi, correndo a perdifiato dopo esser fuggiti dinanzi alle armi. Tutti si affannavano e piangevano, disperandosi, chiamando aiuto, £ /e grida giunsero sino al cielo [...] mentre io riunivo [mia moglie e mio figlio] in mezzo alla grande confusione, molti soldati fecero irruzione. Erano fanti che tenevano in mano i loro strumenti di morte, le spade sguainate; e tra loro vi erano anche ussari ungheresi che impugnavano le loro spade curve. E nella Casa di Dio essi immo-larono un sacrificio cruento, spargendo il sangue innocente dei figli di Israele. Poveri occhi e infelici orecchie... L'uno ruba, l'altro calpesta, questo assassina, quello depreda... quello schiamazzo non può essere narrato né espresso a parole [...]»".

Schulhof riuscì a scampare alla morte, ma così non fu per la moglie e il figlio. Il giorno successivo i cadaveri degli Ebrei trucidati bruciavano nel ghetto incen-diato. Quattrocento di loro, fatti prigionieri, vennero deportati con una nave. Gli scampati fuggirono assieme all'armata turca in ritirata. In Ungheria non rimase neppure una sola delle molte comunità di Ebrei sefarditi che vi si erano insediate durante il periodo della dominazione turca.

Da carteggi d'epoca apprendiamo i raccapriccianti particolari della presa di Buda. Il brano di una lettera inviata da ignoto ad ignoto e datata Vienna, 8 set-tembre 1686 dice: «[...] Dalla città di Buda occupata con le armi non vi è altra notizia se non che nel primo momento hanno ucciso tutti senza pietà, uomini, donne e bambini e fra loro molte centinaia di ebrei con le loro mogli e i loro figli / . . J » 1 8 .

Un giornale parigino del 26 settembre 1686 comunica nei seguenti termini gli ultimi avvenimenti relativi all'assedio ed alla successiva conquista di Buda: «[...] / Turchi si ritirarono in una grande moschea, nelle torri e nelle fortificazioni che si trovano attorno al castello ma subirono attacchi così violenti da ogni lato che in più luoghi comparvero bandiere bianche. Gli ufficiali fecero tutto il possibile per fermare i soldati ma la speranza di bottino era così forte che essi continuarono ad inseguire gli avversari fino a che questi non gettarono le armi e non li supplicaro-no in ginocchio di aver pietà. Questo atto di sottomissione però non ebbe alcun effetto sui soldati i quali continuarono il massacro. In seguito a ciò la maggioran-za dei Turchi, disperata, riprese le armi e iniziò a difendersi con rinnovato vigore e Incendiò la città in più punti. Si ebbe perciò uno spettacolo orribile che da lungo tempo non si era più visto in situazioni simili. Alla fine, dopo una carneficina gigantesca, fu possibile frenare la rabbia dei soldati a prezzo di non poche fatiche e circa duemila persone ebbero salva la vita. Ciò era necessario dato che questi

n I. Schulhof, op. cit., pp. 53-54. 8 Katalin Péter, Buda ostroma 1686, Magyar Levelestár, Budapest 1986, p. 159.

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avrebbero potuto continuare a difendersi ancora a lungo, mettendo in pericolo la vita di molti soldati e ufficiali [...] Durante il massacro la maggior parte delle donne turche ed ebree ed i loro bambini furono risparmiati All'incirca milledue-cento di essi vennero fatti prigionieri. Gli Ebrei più ricchi caddero nelle mani del-l'armata di Brandenburg. I cristiani di rito greco vennero uccisi quasi tutti Alcuni Ebrei e altri, che tentarono di traversare il Danubio su barche assieme alle loro mogli durante l'assedio vennero catturati dagli Ungheresi»19.

Lettera spedita da ignoto a ignoto, datata Vienna, 5 settembre 1686: «[...] da Buda è giunta notizia che gran parte della città sia stata incendiata dagli stessi Turchi e che sia bruciata. [...] Il pascià è morto, il vice pascià e il muftì sono pri-gionieri Gli Ebrei hanno offerto al generale brandenburghese Schöning ventimi-la ducati per il primo salvacondotto e hanno promesso anche di più pur di essere fatti salvi...»20.

Lettera inviata da ignoto a ignoto e datata Vienna, 8 settembre 1686: «[...] Il numero di prigionieri ebrei è di quattrocento, comprese le donne e i bambini. A questi ultimi è stato offerto di aver salva la vita purché consegnassero i tesori nascosti e pagassero l'altissimo riscatto. [...] Gli Ebrei possedevano tesori inde-scrivibilmente grandi: in un solo magazzino vennero trovate ventimila pezze di seta, che sono state prese in custodia dal generale Rabatta. [...] Adesso gli Ebrei devono buttare nel Danubio tutti i cadaveri dei Turchi Prima però i cadaveri vengono aperti e sono stati trovate molte migliaia di ducati che avevano inghiot-tito. Da parte nostra sembra vi siano quattrocento morti e duecento feriti [...]»2{.

Lettera inviata da ignoto a ignoto e datata Vienna, 8 settembre 1686: «[...] ai millecinquecento turchi rifugiatisi nel castello Sua Eccellenza il Principe Elettore di Baviera fece salva la vita ma li imprigionò e fra loro vi erano molte donne e bambini, come pure ottocento Ebrei. Più di duemilacinquecento persone (molti Armeni e Greci) vennero uccisi. Si calcola che il bottino ammonti a svariati milioni e alcuni moschettieri hanno saccheggiato due o tremila ducati, uno dei maggiordomi del principe Croy durante il saccheggio ha intascato novemila ducati oltre all'argento [,..]»22.

Nel 1986, in occasione del trecentesimo anniversario della conquista di Buda, sulla porta attraverso la quale le armate della Lega Santa riuscirono a penetrare nella fortezza venne posta una lapide in latino che, con grandi lettere d'oro, ricor-da gli "eroi cristiani" caduti per la riconquista della città.

Nel 1964, durante alcuni scavi effettuati a Buda, vennero ritrovati i resti della grande sinagoga contenente scheletri umani bruciati. Su uno di questi vi era ancora l'ornamento del manto da preghiera ebraico (taleth). Quei poveri resti sono stati sep-pelliti nel cimitero ebraico di Rákoskeresztúr, alla periferia orientale di Budapest, sotto a una lapide che, con caratteri ebraici medievali, ricorda il loro martirio.

19 K. Péter, op. t/7., p. 195. 2 0 K. Péter, op.cit., p. 151. 21 K. Péter, op. citp. 172. 22 K. Péter, op. cit., p. 164.

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GYÖRGY HARASZTI

T H E R E T U R N O F T H E J E W S T O H U N G A R Y I N T H E X V I I I C E N T U R Y

After the Turks had been expelled Hungary, more or less regaining its previous territory, became once again in practice judenrein, that is free from Jews, an expression that later acquired an unpleasant ring. Only near the western border, at the territory of the modern Burgenland, in the so-called "Seven Communities" and in a few more settlements were there living Ashkenazi Jews1, mainly the descendants of those expelled from Vienna and Lower Austria by the Emperor Leopold II in 1670. But even these communities were only a few decades old.

The Jews that lived in the central parts of the country, on former Turkish territories, such as the mixed 4Ashkenazi-Sfaradi kehila' of Buda, which was large even according to European standards, have disappeared in the storms of history2. Their hardships are vividly described in Isaac Schulhof s 'Chronicle of Buda' (Megillath. Ofen)3 already mentioned several times in the previous lectures In 1686 half of the approximately thousand Jewish residents of Buda were killed

1 Hugo Gold, (Hg.) Geclenkbuch der untergegangenen Judengemeinden des Burgenlandes, (Tel-Aviv: 1970); Josef Klampfer, Das Eisenstadter Ghetto (Burgenlandische Forschungen 51), (Eisenstadt: 1965); Fritz Peter Hodik, Beitrage zur Geschichte der Mattersdorfer Judengemeinden im IS. und in der ersten Halfte des 19. Jahrhunderts, (Burgenlandische Forschungen 65), (Eisenstadt: 1975); Gerhard Baumgartner, Geschichte der jüdischen Gemeinde z.u Schlaining (Stadtschlaining: Osten: Institut fiir Friedenforschung und Friedenserziehung, 1988); Ivan Hacker, 'Judengesetze im Burgenland von Stefan dem Heiligen bis Maria Theresia (1001-1780)' in: "Studia Judaica Austriaca Iir\ Eisenstadt: Edition Roetzer. 1976), pp. 7-15; Nikolaus Vielmetti, 'Das Schicksal der jüdischen Gemeinden des Burgenlandes' in: Burgenlandische Forschungen, Sonderheft III, 50 Jahre Burgenland" (Eisenstadt: 1971), pp. 196-214.; Wolfgang Hàusler, 'Probleme der Geschichte des westu ng ariseli es Juden turns in der Neuz.eit' (1 .Teil) in: Burgenlandische Heimatblatter, 42, Jg. Heft 1, (Eisenstadt: 1980), pp. 32-38.; Wolfgang Hàusler, 'Probleme der Geschichte des westungarisches Juden turns in der Neuzeit' (2.Teil) in: Burgenlandische Heimatblatter, 42, Jg. Heft 2 (Eisenstadt: '980), pp. 69-100, Harald Prickler, Beitrage zur Geschichte der burgenlandischen Judensiedlungen (so far unpublished manuscript) (Eisenstadt: 1991); Schiomo Spitzer (Hg.), Beitrage zur Geschichte der Juden im Burgenland, (Ramat-Gan: Massorah-Verlag, 1994).

' See the adequate chapters of Büchler Sándor, A zsidók története Budapesten a legrégibb idóktól J867-ig, (The History of the Jews in Budapest from the Begining to 1867) (Budapest: Izraelita Magyar Irodalmi Társaság/IMIT kiadása, 1901); and Komoróczy Géza et al., A zsidó Budapest (The Jewish Budapest) I-II, (Budapest: Városháza - MTA Judaisztikai Kutatócsoport, 1 9 9 5) , on the subject.

' David Kaufmann, Die Erstürmung Ofens und. ihre Vorgeschichte nach dem Berichte Isak Sduilhofs; (1650-1732) (Megillath Ofen), (Trier: 1895).

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by the mercenaries of the Emperor, while the rest fell into captivity and were later ransomed by Western European Jewry and then scattered in the West. Other Jewish inhabitants of the province left the country together with the Turks and were scattered in the Balkans4. Apparently the Jews invited by the Princes of Transylvania, the majority of whom were Sfarcidi, fled from Transylvania too, when the armies of the Emperor appeared around 1687. Forty years later, in 1727, only seven Jewish families lived in Gyulafehérvár on the former estates of the Princes of Transylvania. There were a few (Sfaradi) Jews in Temesvár, the largest city of the Temesköz still occupied by the Turks until 17185.

In this geopolitical environment the Jewish population of the country began to grow once again from the middle of the century, first slowly, then more and more rapidly. However surprising it may seem, the history of the later Hungarian Jewish community — and even the modern one, since its continuity did not stop despite the Holocaust — began only at the end of the 17th — begining of the 18th century. As mentioned above, it is generally unknown to the public that present-day Hungarian Jewry has no genealogical link whatever with the Jewry of the Árpád-era which was scattered in its entirety, vanishing in the storms of the 16th century.

In reality, the first ancestors of Hungarian Jewry were the immigrants, who during the course of the 18th century, mainly in its later half, immigrated into Hungary from Vienna, Lower Austria, Bohemia, Moravia, Silesia, Germany and, as yet in scattered fashion, from the Council of the Four Lands (Red Russia, Volhynia, Great and Little Poland) and Lithuania. But even these groups did not settle permanently, with the exemption of the so-called Seven Communities (iSheva Kehilot). They banded together, then scattered, then again tried to strike roots, till at last around 1750 the first centres finally crystallized6. For those who know Hungarian history this late settlement is not a big surprise. It is a most natural consequence of the Turkish conquest that the present population of Hungary should be a multi-national conglomerate whose every historical class — nobility, middle class, peasantry — settled mainly in the depopulated central territories after the Turkish era, under similar conditions and in the same period as the Jews.

The Jewish settlement in the 18th century in Hungary was already the fourth one, not taking into account the temporary banishment around 1360, during the reign of La jos the Great . The f i rs t one was the He l l eno -Roman ized Mediterranean Jewry in the era of the Roman Empire in the 2-4th centuries. The

4 Biichler, passim; Haraszti György, 'Szép új dal Budáról (A Fair New Song from Buda) in: Keletkutatás, 1987/1 (Budapest: Körösi Csorna Társaság, 1987), pp. 66-82.

5 Haraszti György, 'Szefárd zsidók Magyarországon a kezdeteiktől a török uralom megszűntéig' (Sephardic Jews in Hungary from the Beginning till the end of the Turkish Rule) in: Hetven év (Seventy years). Emlékkönyv Dr. Schweitzer József születésnapjára (József Schweitzer Jubilee Volume), (Budapest: a Budapesti Zsidó Hitközség kiadványa, 1992), pp. 80-93.

6 Ernst (Ernő) Marton, 'The Family tree of Hungarian Jewry ' in: R.L. Braham (Ed.) Hungarian-Jewish Studies Vol. I, (New York: World Federation of Hungarian Jews, 1966), pp. 1- 59, passim.

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second one lasted from the Hungarian conquest consisting of Kabars and Kazars who adopted the Jewish religion and arrived together with the conquerors and western Jews who immigrated as well during the Arpád-era and after, till 1526-1540 continuously. The third one was the Jewry of the Turkish era of a different type and origin once again7.

The 18th century history of the Hungarian Jews can be divided into four parts: the years following the recapturing of Buda and the Rákóczi-freedom fight, the period of the massive immigration, the period when the Jewish communities were established and strengthened in the middle of the century and finally the years when the influence of the enlightened absolutism and of the ideas of the Enlightenment began to show in the treatment of the Jews. (Since our time is limited, I will discuss in detail only the second and the third period).

The destiny of the few Jews still living in the territory of Royal Hungary and Transylvania and those who immigrated in the first 50-60 years of the century was determined by many, sometimes contradicting, factors. The medieval institution of Chamber Service had ceased by this time. Until 1840 it was the privilege of the nobilty to keep Jews, that is, whether the Jews received permission to settle or not depended entirely on the whim of the upper and middle nobility. The strengthening tendency to contra-reformation from the second half of the 17th century was, to put it mildly, disadvantageous to the children of Israel.

During the reign of monarchs who disapproved of Jews for religious reasons (e.g. Leopold I, or the "King" of Hungary, Maria Theresia) sometimes even the possibility of their settling was in danger. After expelling the Turks, a plan famous for its Germanizing intentions, the so-called 'Einrichtungs Werkh... \ was prepared in 1689 by the order of Cardinal Kollonich Lipót, bishop of Győr, in order to reorganize united Hungary. Besides other issues, this plan contained some original ideas concerning the prevention of the settlement of Jews.

According to Kollonich, the Jews could be gradually induced to leave the country by increasing their burdens, though at the moment they had to be tolerated as a necessary evil. In the newly reoccupied territories, however, their settlement was to be prevented. Probably as the result of this plan, Leopold I expelled the Jews under pain of death from the mining towns and the seven miles area around them in 1693. Moreover, both the remaining Jews and the immigrants were prohibited to settle in royal towns for about a hundred years (until Joseph II's decree, but in some towns, like Kassa or Nyíregyháza, until 1840) as a result of Leopold I's policy of backing up the anti-Jewish efforts of the free royal towns.8 It is a fact that in the 18th century the Hungarian Jewry had no roots in the towns. "Joseph II did indeed order that the Jews be allowed into the

7 Gonda László, A zsidóság Magyarországon (The Jewry in Hungary) 1526-1945, (Budapest: Századvég Kiadó, 1992), pp. 13-31.

See Gonda, passim and Gríinwald Fülöp A Zsidók története Magyarországon 1790-ig (The History of the Jews in Hungary till 1790); (Budapest: unpublished manusript kept in the Library of t,le Hungarian Rabbinical Seminary, s.d.).

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towns, but his will did not prevail. In 1787 Jews could dwell in only a few of the 64 royal and chartered cities, and this comprised 2.9% of all Hungarian Jewry at that time. Even around 1840 only 7.5% of the Jews dwelt in the cities, and half of these in Pest-Buda".9 (The decree that expelled the Jews from the mining towns remained valid till 1860, its repeal being the last step to giving the Jews unlimited rights to settle).

Though the leading government circles had anti-Jewish feeling, the Jewish bankers , army contractors and especial ly the so-cal led Court Jews or Hoffaktors10, who co-ordinated financial activities of the highest level, gained an increasingly important role in Baroque Europe. The Vienna court needed their services more and more. The great speakers (stadlonim in Hebrew), rich and influential Jews who used their relations with the court and the upper nobility for the good of their fellow Jews, were characteristic figures of the era of absolute monarchy. As a result of their activity, the slowly forming and growing Jewish communities were given several privileges.

Through Ferenc Szakály's lecture we already know about the two most famous court agents, Samuel Oppenheimer (1630-1703) and Samson Wertheimer (1658-1724), and their activities. Wertheimer, in addition to his successful economic activity, was well-versed in Jewish sciences as well. He founded a Talmud school and helped to found and finance 40 Jewish communities in Hungary. It was the result of his initiative and patronage that Meir ben Isaac Eisenstadt (Maharam Asch), a famous religious thinker of that time and an outstanding representative of early Hungarian Jewish science, became the rabbi of Kismarton. (His three volume response collection, Panim Meirot, is a valuable source to the history of that age. It contains his commentary of some Talmud tractates as well.) As a sign of appreciation of his endowments and charity, some of the Hungarian Jewish communities gave Wertheimer the title of national chief rabbi (Landesrabbiner) which was later recognised by the Emperor Charles VI (as Hungarian King Charles III) in 1717. It is still possible to see his famous private synagogue, a masterpiece of Baroque rel igious archi tecture, at Kismarton/Eisenstadt.

In addition to the two agents mentioned above, the government used and appreciated the services of many other less poweful Jewish army contractors and merchants. Though Oppenheimer and Wertheimer lived in Vienna, a considerable part of their activities concerned Hungary. Among the Jewish bankers who lived in Hungary, Mich(a)el Simon (died in 1718), a banker and merchant, the gold and silver supplier of the mint in Pozsony and the great-grandfather of Heinrich Heine, whose tomb is in the famous underground cemetery in Pozsony, is worth

9 Ernő László , 'Hungarian Jewry: Settlement and Demography 1735-38 to 1910' in: R.L. Braham (Ed.) Hungarian-Jewish Studies Vol. J, (New York: World Federation of Hungarian Jews 1966), p. 63.

10 Kurt Schubert, Die österreichischen Hofjuden und Hire Zeit (Studia Judaica Austriaca Bd. XII), (Eisenstadt: Österreichisches Jiidisches Museum in Eisenstadt, 1991).

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noting for the magnitude of his enterprises.11 Not only the central court in Vienna, but also the government organisations and the local authorities needed the services of the Jews both in minor and ma jo r cases . Gove rnmen t organisations such as the Court Chamber (Hofkammer) or the Council of War (Kriegsrat), sometimes even the big landowners, usually supported the economic activities of the Jews both as army contractors and in the trade and money circulation. They stood up for the Jews when the city or county authorities infringed or restricted their rights. For example, from the research of Sándor Btichler we know in detail the history of the Jews in Buda in the half century after the re-occupation of the city. Although the citizens of the free royal towns here, too, did everything possible to prevent the settlement of the Jews and they even prevailed during the reign of Maria Theresia, still a few families were able to settle down with the permission of the government. The reason given for this permission was that the Jewish merchants helped people and develop the city12.

The basic difference between the previous settlements and the new era is that previously there were only a few Jews in the country while in the era discussed now large parts of the country were being continuously peopled by Jews. The new era gained its real dimensions only from the fourth decade of the 19th century when emancipation and assimilation accelerated and the Jews became an integral part of Hungarian society. According to András Kubinyi13, there were only 37 Jewish communities in medieval Hungary during the whole period and there is no proof that 37 communities ever existed at the same time. Since the former patronage of the kings and princes had ceased to exist, this process occurred mainly through the support of the big landowner dynasties, first in the central estate, then spreading to other estates of the landlord as well frequently prevailed even against the opposing efforts of the free royal cities.

In the first half of the 18th century the Jews, whose number increased as a consequence of the immigration, found a new and effective way of forming their communities. Analogous to the — legal — relationship of the long forgotten chamber-servitude, the well-to-do landowners, not only in Western Hungary, began to settle the Jews or permitted them settle on their lands in order to increase their income. As a compensation for legal and actual defence, the Jews paid several taxes, rented lands and smaller regales, worked in crafts and stimulated trade intensively.

11 On Oppenheimer see Szakály Ferenc 'Oppenheimer Sámuel működése különös tekintettel lllagyarországi kihatásaira \ (The life and activity of Samuel Oppenheimer especially in Hungary) ln: Magyar-Zsidó Oklevéltár /MZsO (Hungarian Jewish Archives) - Monumenta Hungáriáé Judaica

(Budapest: Magyar Izraeliták Országos Képviselete/MIOK kiadása, 1971), pp. 31-78. On Oppenheimer, Wertheimer and Michel Simon see further Zsidó Lexikon (Hungarian Jewish Lexicon) and MZsO II (Budapest: izraelita Magyar Irodalmi Társaság/IMIT kiadása, 1937), XIV, XVII (Budapest: MIOK kiadása 1977), passim.

~ Biichler. passim ' Kubinyi András, 'A Zsidóság története a középkori Magyarországon' (History of the Jewry in

tllc nied.ieval Hungary) in: Gazda Anikó et al.. Magyarországi zsinagógák (Hungarian Synagogues) Budapest: Műszaki Könyvkiadó, 1989), p. 23.

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The ancestors of the present-day Hungarian Jews started their slow and protracted settlement in Hungary during the begining of the undivided rule of the Habsburg dynasty over Hungary. Around 1650, the first Jews settled in the northern part of Nyitra County, at the Moravian border, but larger groups first arrived in 1670-1671 when the Jews of Vienna were expelled14. Prince Miklós Eszterházy settled some of these refugees on his estates in Sopron and Moson Counties. Together with these refugees, some of the Jews of Kismarton who had been expelled four months earlier also returned. During the following few decades the so-cal led Seven Communities area, (Kismar ton/Eisens tad t , Nagy-in arton/Mattersburg, Kabold/Kobersdorf, Lakompak/Lackenbac, Köpcsény/Kittse, Boldogasszony/Frauekirchen, Németkeresztúr/Deutschkreutz) the first complex of communities in Hungary was formed with its own internal administration.

A similar process also took place at the same time in Vas and Zala counties, on the estates of the Counts Batthyány (Rohonc/Rechnitz, Szalonak/Schlaining, Nagykanizsa), and somewhat later (1680-1700) in the immediate vicinity of the Hungarian capital Pozsony/Pressburg-Bratislava; Vödric/Zuckermandl and Pozsonyváralja/Schlossberg on the lands of the Counts Pálffy. This center became the spiritual and economic headquarters of Hungarian Jewry and kept its leading role through one and a half centuries15. Between 1660 and 1670 the first families from the Rzespospolita Polska settled on the vast estates of the Rákóczi family in Northern Hungary and leased land there.16 Also, count Károlyi Sándor who signed the Szatmár peace treaty settled Jews on his estate in Eastern Hungary and even had a rabbi brought there17.

From these territories and from abroad, beginning mainly from the west, the Jews started to migrate to the internal territories of the country as well. Like in Western Hungary, the majority were received into the towns and villages on the estates of the big landowners. Many decrees of protection given to the Jewish communit ies in Western Hungary by the landowners still exist1 8 . These documents made the formation of independent Jewish communities possible. A model decree contains the names of the heads of family or the number of the houses given to the settler and determines the sum to be paid for the protection every year (Schutzgeld). This money was either paid individually by the families or by the whole community in one sum. According to the documents the Jews formed an independent political community. They selected their own judge and jury every year. These settled the legal suits initially. The Jews could found synagogues and schools as well as their own cemetery and public bath. They

14 About these events see David Kaufmann Die letzte Vertreibung der Juden cius Wien und Nieder-Österreich (Wien: 1889).

15 László, pp. 69-70. 16 Grünwald Fülöp, passim; László, p. 92. 17 Kovács Ágnes , Károlyi Sándor (Magyar História Életrajzok), (Budapest: Gondolat

Könyvkiadó, 1988), p. 218. 18 See e. g. Hodik, pp. 42-54.

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could employ rabbis, cantors, teachers, synagogue servants and grave diggers. They could trade on the territory of the whole estate. Strange Jewish merchants could do the same only on market days. In return for a certain sum the landowner permitted them to slaughter animals and sell wine for their own needs. They could accept a new member to their community only if the landowner agreed. Some decrees determined which crafts the Jews could pursue and it what number.

We only know the approximate number of the Jewish communities and that of their members in 18th century Hungary, because the data of the several censuses among the Jews is incomplete. (As a consequence of the tolerance tax imposed later, neither the Jews, nor the landowners were interested in giving the actual numbers. Apart from the inexact methods of data collection, this is the second reason of the unreliability of these censuses.) Consequently, the data concerning their number and financial situation cannot be accepted without doubts. Nevertheless, we are lucky enough to have three exact numbers concerning the early settlements in the 18th century.

Around 1700 Hungarian Jewry consisted of only 4.000 persons19. In the first decade of the 18th century the majority of the Hungarian Jews, together with their protectors, the landowners of Western Hungary who fought on the Habsburgs side, temporarily escaped from the kuruc freedom fighters to imperial territories. There is extent a list of the Jews from the left bank of the Danube who escaped from Rákóczi's army. The in 1709 in Pozsony written list contains about 200 names of heads of family (balbosz - baal habbajit)20. At the same time, the few Jews who lived on the Rákóczi estates remained loyal to their lord. Rákáczi's prefects contracted Jewish leaseholders during the fight for freedom. The Jews supplied kuruc soldiers with cloth and boots, obtained steel for gun barrels and pistols and supplied saltpeter for gunpowder. They sold abroad the copper mined at Nagybánya/Baia Mare. The Alboer brothers from Belgrade actively traded with the Turkish Empire on behalf of the Prince21.

When peace returned, the Helytartótanács (Statthalterrat - Regent Council) ordered a census in 1725 in order to restrict further immigration22. This decision shows that the number of Jews was quiet big already. The reluctant counties — some of them never even started it — took the census of the Jews on their

19 László, p. 70 (based on the estimation of Acsády - see below). 2(1 Büchler, p. 176, MZsO II, pp. 433-438 . About the Jews of other territories in the same period

see MZsO II, XIV, XVII, passim. See the unpublished manusript of the second volume of Samuel Kohn's magistral work on the

history of Hungarian Jewry (Kept in the Library of the Hungarian Rabbincal Seminary and the article of Büchler Sándor, 'Kurucz idők' (Kuruc-times) in: Magyar Zsidó Szemle/MZsSz (Hungarian Jwish Review), 1894, pp. 87-102.

~~ About the Jewish censuses in the first half of the 18th century see Grünwald Fülöp - Scheiber Sándor, 'Adalékok a magyar zsidóság településtörténetéhez a XVIII század első felében' (On the History of the Settlement of Hungarian Jewry in the First Half of the Eighteenth Century) in: MZsO

(Budapest: MIOK kiadása, 1963), pp. 5 -48 and Ember Gyözó', 'A magyarországi országos ^idóösszeírások a XVIII. század első felében' (The National Jewish Conscription in Hungary in the Fir*t Half of the Eighteenth Century) in: MZsO VII, pp. 49-77.

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territory between 1725 and 1728. According to the extremely incomplete lists, there were about 1700 heads of family. In more than 40 settlements there were more than ten families. In the majority of these places organized Jewish communities already existed or were under formation. According to our data, the Jews still lived mainly in the towns of the Western Hungarian estates in blocks of different sizes. Moreover, they lived in the Seven Communities already mentioned above, at Rohonc and Pozsonyváralja.

There were a few Jews scattered in other parts of the country, with a maximum of one or two families per town or village, especially in the northern and north-eastern counties. These Jews had contracts with the landowner, usually for brandy destination or innkeeping. Their number grew continuously, especially when King Charles III in his decree of 1726 forbade the Jews of the hereditary Austrian provinces to have more than one young man in a family set up his own household. Consequently many young men who wished to many immigrated to Hungary, especially from Bohemia and Moravia. They peopled the Jewish communities of Nyitra, Pozsony andTrencsén counties23.

According to a new census24 between 1735 and 1738, the famous Conscripto Judaeorum which provides us with more data, in ten years the number of heads of family increased to 2531 and that of the Jewish communities with more than 10 families to almost 60. The Conscripto Judaeorum was the first attempt to draw up a list of the whole Jewish population of Hungary (with the implicit aim of taxing them). This census was ordered by King Charles III and, due to the conditions of the time, was carried out at a slow pace. No census of the Jews was taken in Transylvania, the Bánság and Croatia-Slavonia. Even in reports that came to light later data for these three counties are missing. Data are available for 32 counties, while with regard to 13 counties either the census was negative or the areas involved were off limits to Jews. The actual number of the Jews must have been more than the reported 12.219, since apart from the free royal cities only 32 counties carried out the census. We have the results of these, while we have some data concerning the Jewish population of other counties, too.

The conscript shows in detail the professions of the Jews listed in it. Of the 2531 heads of family 883 were craftsmen, 143 of these tailors. There are quite a few butchers and glaziers. 230 of them were brandy distillers, 150 were innkeepers. Half of the heads of family, 1139, were merchants. Nine men were army contractors. The number of shopkeepers was 272, there were 814 peddlers. There were day labourers, a lot of poor men and beggars (in Nyitra county 26, in Trencsén 27). According to the census, there were Jews living in 536 settlements, but only 12 of these had a rabbi. There were 14 cantors, 26 ritual butchers and 25

23 Gonda László, pp. 39-40. 24 Acsády Ignác, 'A magyar zsidók 1735-38-ban' (The Hungarian Jews in J735-38) in: Évkönyv

(IMIT- Yearbook), (Budapest: IMIT kiadása, 1897), pp. 173-188. See further Varga László, 'Zsidó bevándorlás Magyarországon' (Jewish immigration into Hungary) in: Századok (Centuries) 1992/L (Budapest: Magyar Történelmi Társulat, 1993), pp. 59-79.

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synagogue servants. 143 teachers taught the children. At Kismarton a notary is mentioned as well. It should be noted that according to the census, 35% of the heads of family were born in Hungary25.

An additional individual census ordered in 1746 - 1748 due to the tolerance tax showed that the number of Jews in Hungary was 14.847, the largest Jewish populations living in Nyitra (2357), Pozsony (2117) and Sopron (1313) counties26. The actual Jewish population of the country — according to estate reports — could have been even twice as much.

The last large Jewish census of the 18th century in Hungary was a by-product of the famous census27 of Joseph II who played an extremely important role in the emancipation of the Jews of the Monarchy and Eastern and Central Europe in general. This census contains valuable data concerning both the number and the territorial distribution of the Jews28. As is well-known, the first nation-wide census ordered by Joseph II was taken in 1785 and repeated in 1787. The census covered Transylvania, the Bánság, and the Croatian-Slavonian counties. No census was held in the military frontier regions, but Jews were not permitted to reside there in any case.

According to the census of Joseph II, the number of Jews was over eighty thousand in the middle of the eight decade of the 18th century29. During the century, even by the most carefull estimates, the Jewish population had grown at least eight times its original size. The result is even more surprising if we compare it with that of the last peacetime census in 1910. At that time there were approximately 930.000 Jews in historic Hungary. While between 1787 and 1910 the population of the entire Hungarian Empire grew 125%, Hungarian Jewry grew 1.021%!30

A considerable part of this increase derived from the immigration from the west. As opposed to the 35% who were natives the majority of whom must have been only second generation, in 1735-38 38% of the heads of family were found to be from Moravia. It is characteristic that in 1735-38 on the Right Bank of the Danube 83% of the heads of family were born in Hungary, while on the Left Bank this number-showing the direction of the immigration was only 24.8%.

There are endless discussions among Hungarian (and Hungarian-Jewish) historians as to when the Jewish immigration started and ended. The theory of the continuous immigration in groups of hundreds of thousands cannot be sustained. It is hardly possible to talk about en masse immigration in the earlier historical

° The whole material is reproduced with a precision that extends to individual families in the above mentioned VII. volume of the Magyar-Zsidó Oklevéltár, pp. 219-689.

26 Ibid, pp. 723-850. ~ I ne tabulated summaries both for the Gentile and the Jewish population were published by

Hung Gusztáv, Magyarország népessége IL József korában (Hungary's Population in the Era of <>seph II), (Budapest: a Magyar Tudományos Akadémia kiadása, 1938).

~ Map of the rate of the Jews in Hungary' between the pages 52-53. ~ In Hungary (1787): 80.783 souls - Thirring, p. 49. ° U s z l ó , p. 62.

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periods, since before 1840 it was impossible to settle without the permission of the landowner, and later on it would have been possible to document such a major movement with statistical methods. Demographically it is a proven fact that according to the Eastern European Jewish reproduction rate about one hundred thousand immigrants will result in a population of six or seven hundred thousand in only 120 years. (The Jewish population increased six-fold throughout Eastern Europe — the so-called vagina Judaeorum — in the 19th century). This is enough to explain the increased Jewish population in Hungary31.

It can be proven that between 1726 and 1860, in almost one and a half centuries, Jews had been migrating in smaller or larger waves to the country. Up until the end of the 18th century they came mainly from the German states, the Austrian Alpine provinces and especially from Moravia, Bohemia and Silesia (about 70-80.000 people), then from the east. The number of the immigrants from east, the so-called Galizianers, was about 50 thousand, about two-third of that of the western immigrants. The proportion of the eastern and western Jewry — as a consequence of the much higher reproduction rates of the Orthodox eastern population — changed to about 50-50% by the last 50-60 years before World War I.

The western Jews settled in the northern and central parts of the country, while the eastern Jews preferred the north-eastern and eastern parts. The area of the mining towns is in the central part of Northern Hungary was closed to them (Szepes, Gömör, Zólyom, Bars, Hont countries), and the Jews were not permitted to live south of this area either in the Jászság, the Kis - and Nagykunság, Hajdúság, the former Outer-Szolnok county, the Heves county, a large part of Csongrád and Csanád countries and the villages of the southern part of Bács county where a military border zone had been organised and manned by the border-guard battalion of Titel (the so-called Csajkás-Körzet/Boatman-district). For a long time the Jewish population of the country was divided into two parts, which division corresponded to the double immigration as well. The Jews, using the terninology of the western immigrants of that time, called themselves Oberlanders (Western Hungary, the Northwest and Transdanubia) and Unterlanders (Eastern Hungary and Transylvania).

Transylvanian Jewry started forming only in the second half of the 18th century. During the rule of Joseph II a larger number of Jews lived only in the former Alsó-Fehér, Maros-Torda and Szolnok-Doboka counties. Twelve of the historical 15 counties were closed to the Jewry of that period. They were not even permitted to enter the villages where the Wallachian and Székely borderguard battalions were stationed, and they could not enter the vast area administered by the various Saxon and Székely autonomous communities. Along the southern boundary of Croatia-Slavonia there was a military border zone ranging from the Adriatic to the Bácska where Jews were not permitted to live until 1861. Only

31 Evyatar Fri esel (Ed.), Atlas of ModernJewish History, (Jerusalem: Carta, 1990), pp. 12-21.

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under Joseph II are the first Jews found (111 altogether) dispersed in about 10 localities in the civilian area of this province32.

There was a broad sociocultural difference between the western and eastern immigrants. The Galician Jewry belonged to a par excellence eastern type for they were not only Orthodox, but Chasidic to a considerable degree as well. The western Jewry had been open to the emancipation and assimilation process for a long time and in their religious habits they tended towards Neology. It is characteristic of the geographical distribution of the western immigrants that they settled mainly in German (Swabian) populated territories not only near the border, but also in the center of the country. The reason for this was not only the common language, but rather the fact that the Hungarian Germans were an already established class that made acclimatization possible for the western Jewish bourgeois element with its German culture.

When the data of the 18th century censuses concerning the Jews are compared with each other, the migration of the Jewish population from the border areas towards the central territories becomes obvious. Like the migration of the Jews from the villages to the cities, this process also gained its real dimensions only in the 19th century, but the tendency can already be clearly recognized. These are the extremes: in 1735 84% of the Jews listed lived in the 16 counties on the border or in counties not far from the border. On the other hand, while in 1780 only 9% of the Jews lived in the center of the country, in the territory that was later left to Hungary by the Trianon Peace Treaty, by 1910 this number increased to more than 60%33.

^ László, pp. 109-115. Gonda, Marton, Varga, passim. See further Kovács Alajos, A zsidóság térfoglalása

Magyarországon (The Expansion of the Jews in Hungary), (Budapest: 1922) and Walter Pietsch, le jiidische Einwanderung aus Galizien und das Judentum in Ungarn' in: Gotthold Rode (Hr).

en //7 Ostmitteleuropa. Von der Emanzipation bis zum ersten Weltkrieg, (Marburg an der Lahan: Jokim-Gottfried Herder Institute 1989), pp. 271-293.

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Table 1. The number of Hungarian Jewry in 1735-1738 and 1785-178734

Jewish population Province 1735/38 1785/87

On the right bank of the Danube 4.247 21.724 On the left bank of the Danube 4.918a 23.728 Between the Danube and the Tisza 677 6.823

On the right bank of the Tisza 1.631 18.584 On the left bank of the Tisza 587b 9.104 The corner between the Tisza and the Maros 97 1.430 Transylvania -c 1.477 Croatia-Slavonia - 111

Total 12.157d 82.896e

a The data of Nógrád County is not known b The data of Szabolcs County is missing; from Szatmár County we only have data

referring to the county seat c The data for this province is missing d 0.7% of the total population of Hungary e 1.3% of the total population of Hungary

* Since the modern county lines of the 63 Hungarian and 8 Croatian-Slavonian counties between 1876 and 1918 only evolved in 1876, the modern Hungarian statistical system divides the former area of Greater-Hungary into eight historical regions. Before 1876 the country was divided not only into counties, but also into independent regions (Partium), military frontier regions, Székely and Szász governmental seats, Hajdú, Kiskun and Nagykun districts, etc., in a very complex structure.

From the second third of the century there were certain changes in the distribution of the Jewish population. In addition to the Jewish communities in Western Hungary that remained populous, the communities of Bazin/Pezinok and Modor/Modra became important due to the counts Pálffy, and those of Tata and Pápa due to the counts Eszterházy. The importance of the Jewish communities in the central parts of the country, especially of the one on the Zichy estate in Obuda, increased. The Jewish population of Obuda, situated close to Pest-Buda, a forbidden city for the Jews that was becoming the cultural-economic center of the country, began to grow rapidly in the middle of the century. The big landowner Zichy family permitted the first Jews to settle there back in the first decade of the 18th century. In 1727: 25; in 1770: 208, and in 1785: already 285 heads of family

34 László, p. 68.

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were listed there. In the middle of the 18th century Óbuda became the second spiritual center of the country's Jewry. In 1785/87 there was a Jewish community of 1647 persons here which, with respect to numbers and importance, came very close to challenging the leadership of Pozsony35.

In this era the differences within the Hungarian Jewry could already be clearly recognised. After the Szcitmár peace treaty Charles III rewarded a few Jewish families, such as the Schlesingers, the Keppish brothers, the relatives of Simon Michel, the family of Izsák Hirschel, for their services by giving them privileges. These privileged families were more or less the aristocrats of the Jewish society. Due to the royal protection, they could live anywhere and go anywhere in the country excepting areas not permitted for Jews. They could also sell any kinds of goods in open shops. The privileged Jews did not have to wear distinctive Jewish signs and they paid the same amount of taxes as the Christians. They could practice their religion freely and their legal cases were settled not by the local authorities but by the Hungarian Royal Chamber that represented the king himself.

The second group of Hungarian Jewry consisted of the members of the communities. A Jew could obtain the right to become a member of a community (cheskat hakahal) only with the permission of the landowner and the local Jewish community itself and by paying a certain sum. The third group of the Jews consisted of poor homeless vagabonds who were temporarily taken care of by the communities, but they did not enjoy the advantages and the security of membership and they were constantly in danger of being expelled from the country36.

We have already mentioned when discussing the oldest register of Hungarian Jewry that the majority worked in trade. Most Jewish merchants were peddlers who went from village to village selling ribbons, scarves, stockings and so on to the peasants and buying rabbit — and sheepskiris, old clothes and scrap iron. One class higher were the shopkeepers who sold all kinds of goods such as silk and cloth that were considered valuable at that time. Some of them, the so-called Jewish stallholders, offered all kinds of goods from local crop to local and

Gonda, p. 38, Gál Éva, 'Az óbudai uradalom zsidósága a 18. Században' (The Jewry of Óbuda-estate in the 18th Century) In: Századok 1992/1. (Budapest: Magyar Történelmi Társulat, 1993), pp. 3-34. and Moess Alfréd, Pest megye és Pest-Buda zsidóságának demográfiája (The Demography of the Jewry in Pest county and Pest-Buda) J 749-I846, (A magyarországi zsidó hitközségek monográfiái 2), (Budapest: MIOK kiadása. 1968). See further Jacob Katz 'Chátám Szófer életrajzához: (Touches to the Biography of Chatam Sqfer) In: Századok 1992/1, (Budapest: Magyar Történél mi Társulat, 1993), pp. 80-112.

16 Büchler, Grünwald, Grtinwald-Scheiber, op. cit. passim. See further Venetianer Lajos; A magyar zsidóság története: A honfoglalástól a világháború kitöréséig, különös tekintettel gazdasági e s művelődési fejló'désére (The History of the Hungarian Jewry from the Hungarian conquest to the encl of the First World War), (Budapest; Fővárosi Nyomda Rt.A922). (reprint, Budapest: Könyvértékesítö Vállalat 1986) and Wolfdieter Biehl, 'Das Judentum Ungarns 1780-1914' In: Studia Judaica Austriaca III (Eisenstadt: Edition Roetzer, 1976), pp. 17-31.

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foreign manufacture at the markets. The highest and richest class pursued (long distance) wholesale trade. They were the lessees of the regales (inns, brandy distillation, landowner's taxes, ferry, mill), the household Jews of the aristocrats who sold the goods produced on the estates, bought foreign luxury goods for the estate, especially for the landowner and his family, and, if necessary, provided the big landowners or even the counties with credits and loans.

A smaller part of the Jewish population pursued craftsmanship. Tailoring was the most popular of the crafts, but there were many glaziers, goldsmiths, bookbinders, pipemakers, seal chisellers as well, professions that satisfied a need for a certain level of luxury. These professions were characteristic mainly of the more advanced western and central territories. The majority of Jews who lived in the northern and eastern counties rented the landowner's inn and/or distilled brandy.

The fact that the Jews paid taxes to the landowner did not influence the royal taxes. Chamber servitude was replaced by the tolerance tax as the special fee paid by the Jews in return for being tolerated in the country. The treasury struggled with financial difficulties and welcomed the possibility of an extra Jewish tax. In 1698 Leopold I already attempted to introduce a tax imposed on the Jews for tolerating them, the tolerantialis taxa (by the so-called Olbern committee), but his attempt failed as a result of the opposition of the counties37.

The idea of the tolerance tax was revived by Maria Theresia decades later, in 1743, though quite possibly this was also the secret reason for the census ordered by her father, Charles III in 1735-38. The tax was introduced and its sum was determined without the consent of the Estates and the Diet. Neither Maria Theresia nor her successors asked the consent of the nobility for the taxation of the Jews who were legally protected by the landlords, though the Estates protested several times against the tolerance tax on the basis of their general right to initiate taxes. The new tax imposed on the Jews coflicted not only with the legal interests of the nobility, but with the financial ones as well, since it influenced negatively the income they received from the Jews settled on their estates in return for protection.

After a few years of hard work Maria Theresia managed to break the opposition of the counties and the tax was accepted. The special tax originally paid occasionally in order to support the Austrian War of Succession was already considered by her an obligatory tax of the Jews. Beginning in 1743 it was to be paid by families (6 florins) and from 1746 by every person, without taking into account the age or the gender, women, children and servants as well (2 florins). The tolerance tax took the place of these. Its name openly expressed that the Jews had to pay it so that their presence would be tolerated. In 1749 its sum, twenty thousand florins a year, was fixed and the Jewish community as a whole was responsible for its payment. The Jews could decide themselves on the basis of what distribution, repartitio would they collect the money.

The distribution of the tax caused a lot of quarrels between the counties, the

37 Ember, pp. 49-50.

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communities and even the members of the same community. Finally, since unlike Bohemia and Moravia, in Hungary the Jews had no united organization, the tolerance tax was imposed on each county separately on the basis of the number of the Jews living there, and the local communities had to collect the money. Usually — it varied according to the time and the place — the Jews paid this tax in a combined form. One third of the tax was to be paid by every person and the rest was divided by the leaders of the community according to the financial situation of the members. As the number of the Jews and the treasury's need for money was growing, the tolerance tax continually increased too. In 1755 it was twenty five thousand florins a year, in 1760 thirty thousand, in 1772 fifty thousand, in 1778 eighty thousand and in 1813 a full hundred and sixty thousand florins38. The taxes paid by the Jewish merchants also provided the treasury with a significant income. Nevertheless, taxes for protection and other fees paid to the landlords considerably exceeded these state incomes.

The government conducted a contradictory policy. On the one hand it supported the settlement of the Jews for financial reasons. On the other hand however the monarchs periodically restricted the movement of the Jews both for religious reasons and because the citizens of the free royal cities, generally the guilds, demanded so. The non-Jewish merchants and craftsmen who comprised the guilds, did everything possible in order to prevent the settlement of the Jews or at least to restrict their activities.

I have already mentioned Leopold I's decree that prohibited the Jews from entering the mining towns. The monarch extended this order to the Transylvanian mining towns as well in 1700. In 1727 the Regent Council suggested without results the prevention of further Jewish immigration. In 1737 the same Regent Council reported to Vienna the steps it had taken in order to prevent the vagrancy of Jews in the country and requested that Jews coming from the Austrian hereditary provinces or Poland be prohibited for entering Hungary without a passport39.

In 1746 Maria Theresia who decidedly disliked Jews banned them from Buda. Some of them settled in neighbouring Obuda, but several families immigrated to Poland40. Only forty years later, during the reign of Joseph II did a few Jewish families again move to Buda, and only 40 Jews lived in Pest (1785/87). After 1686, for more than one hundred years, no Jews were permitted to settle in this town which had been promoted to the rank of Royal Town in 1703. (This explains the lesser known fact that at the end of the 18th century the predecessors of the modern Jewish community in Budapest moved from Óbuda that was under the landlord's supremacy to Pest-Buda, where previously they were not permitted to settle)41.

38 See Gonda, pp. 37, 40-41 and in particular Béla Bernstein, 'Die Toleranztaxe der Juden in Un gam In: Cedenbuch... David Kaufmann, (Breslau). 1900, pp. 599-628.

39 Gonda, pp. 40-41. 4 0 Büchler, pp. 256-257. 41 Haraszti György, 'Két világ határ an (On the border of two worlds) In: Múlt és Jövő (Past

and Future) (new series). 1993/2 (Budapest: Múlt és Jövő alapítvány, 1993), pp. 15-16

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From the middle of the century, simultaneously with the introduction and increase of the tolerance tax, the central policy became more moderate. In 1762 Maria Theresia forbade by decree the violent conversion of Jewish children. In 1763 she called the Catholic priests to stop collecting surplice-fee from the non-Catholic population. In 1764 the government ordered those Jews freed from Orkuta who, in 1764 in Sáros county had been cruelly tortured in an effort to make them confess in the first moder Hungarian ritual murder case. (The scene of the second ritual murder charge was Szilágypér in the province on the left bank of the Tisza in 1791)42.

During the ten years of Joseph II's reign43 (1780-1790) there were several changes that proved decisive in the long run in the relation of the government, society and Hungarian Jewry. Though in fact the measures taken by the monarch and the effect of these already belong to a new phase in the history of the Hungarian Jews as an ending to our survey of the 18th century I would like to briefly mention the most important orders of the hatted king. When the tolerance decree was announced in 1781, the regulation called "Systematica Gentis Judaicae Regulatio' was already drafted as well. As a result of a delay caused by Hungarian Chancellery and the counties that had to add their opinion to the draft, the famous decree was declared by the Regent Council on the 31st of March, 178344.

The decree permitted the Jews to settle freely wherever they chose except for the mining towns. In order to promote the usage of the German language, it ordered the Jews to stop using Hebrew and Yiddish and, so as to reach this goal, it decreed that Jewish schools under state supervision were to be opened and permitted Jewish children to attend Christian schools. (Within a few years more than twenty such so-called Normalschule-s were opened.)45 Likewise the decree permitted the Jews to attend some faculties of the universities.

Ten years after the decree was announced, no man without school education would be allowed to work as a craftsman or merchant or lease land. The monarch opened all the crafts till then stubbornly guarded by the guilds for the Jews. They were even permitted to lease a land, provided they worked on it themselves. He repealed the distinctive signs worn by the Jews on their clothing, in some cases even allowed Jews to wear a sword. His well-intentioned, characteristicaly anti-clerical decree that forbade the Jews to have beards provoked such an outrage that it had to be withdrawn after three months.

4 2 László, p. 100. 4 3 See in general Marczali Henrik, 'A magyarországi zsidók IL József korában' (The Jews of

Hungary in the Era of Joseph 11.) In: MZsSz 1 (Budapest: 1884), pp. 353-363. 4 4 Wolfdieter Bihl, 'Zur Entstehungsgeschichte des josephinischen Patent fiir die Juden Ungarns

vom 31. Mei it 1783' In: Heinrich Fichtenau-Erich Zöllner (Eds.), Beitrage zur neueren Geschichte Österreichs (Wien-Köln-Graz: 1974), pp. 282-298.

Mandi Bernát, 'A magyarhoni zsidók tanügye II. József alatt' (The School-system for Jews in Hungary during the Reign of Joseph II) In: Évkönyv (IMIT-Yearbook), (Budapest: IMIT kiadása, 1901), pp. 166-220.

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Though for financial reasons he could not afford to give up the tolerance tax, in 1785 he replaced the insulting name with a neutral one. In the same year, at the request of the Jews he repealed the so-called personal tax (Leibzoll Leibmaut), a humiliating one florin sum tax that was paid only by the Jews when crossing the border of the internal provinces or of the country. Afterwards it was only paid at the borders of the empire. In 1787 he ordered every Jew to choose a German family name from the 1st Jannuary of the following year46.

The death of Joseph II endangered the positive changes in the situation of the Jews, since on his death-bed he withdrew his decrees that concerned the Jews as well as his other orders. The cities demanded a new banishment of the Jews and the restoration of the economic restriction. This, however, was prevented by the court and the Hungarian Diet, since their interests in this case coincided. The 1790 law number XXXVIII called "The Judaeis" obliged the cities to maintain or restore the same situation of the Jews that existed on the 1st of January 179047. This law, extremely important and modern at that time, remained valid for half century, but in time it became an obstacle of the social-economic mobility of the Jews, an instrument restricting the efforts for emancipation and assimilation.

4 6 About the Jewish names in Hungary and the Decree of Joseph II see Schelberné Bernáth Lívia, A magyarországi zsidóság személy - és családnevei II. József névadó rendeletéig (Personal and Family Names of Hungarian Jews Until the Denominating Decree of Joseph the Second), (A magyarországi zsidó hitközségek monográfiái 10), (Budapest: MIOK kiadása, 1981).

47 Leopold Löw, Zur neueren Geschichte der Juden in Ungarn. Beitrag zur allgemeinen Rechts-Religions-und Kulturgeschichte, (Budapest: 1874), p. 46.

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TIBOR MELCZER

L A S T O R I A D E L L ' E M A N C I P A Z I O N E D E L L A P O P O L A Z I O N E E B R A I C A U N G H E R E S E E I S U O I P R E C E D E N T I

Gli inizi della convivenza ungaro-ebraica risalgono a tempi anteriori alla con-quista del territorio da parte del popolo magiaro, nell'anno 896. In seguito alla fondazione dello stato ungherese, le discriminazioni nei confronti degli ebrei non differirono sostanzialmente da quelle effettuate nell'Europa occidentale durante il Medioevo, anche se la situazione in Ungheria fu più favorevole al loro stanzia-mento. La prima normativa giuridica, modernamente intesa, a favore di una mag-giore indipendenza del popolo ebraico, fu promulgata nel 1782, con un editto da Giuseppe II, imperatore assolutista illuminato, che regnò dal 1780 al 1790. In virtù di tale legislazione, gli ebrei avrebbero potuto esercitare liberamente le atti-vità industriali e commerciali e, parzialmente, anche le professioni civili, fino ad allora rigorosamente proibitegli. L'auspicata equiparazione dei diritti civili, però, non potè attuarsi e lo stesso imperatore, prima di morire, costretto dagli eventi, ritrattò molti dei suoi decreti, tra cui anche l'editto di tolleranza a favore degli ebrei. Quest'ultimo, però, non perì col suo codificatore, visto che la dieta del 1790 attuò giuridicamente tale progetto, mediante un articolo della legge XXVIII, col quale veniva sancita la libertà di stanziamento per le popolazioni ebraiche su tutto il territorio nazionale, tranne le città minerarie.

Serie proposte si evidenziarono al tempo delle assemblee nazionali riformi-stiche tra il 1825 ed il 1848, nell'ambito delle quali si levarono, a favore di una regolamentazione civile ebraica, le voci di insigni scrittori e politici del tempo. Ferenc Kölcsey, autore dell'Inno nazionale ungherese, riformista liberal-radica-le, durante l'assemblea nazionale del 1833, concordemente al barone Miklós Wesselényi, avanzò proposte a favore dell'emancipazione degli ebrei. La que-stione venne dibattuta nuovamente qualche anno dopo, nell'assemblea del 1839-40, dietro sollecitazione del barone József Eötvös, illustre scrittore, politico ed attivo fautore della questione ebraica, da lui illustrata e discussa in un saggio del 1840, intitolato "L'emancipazione degli ebrei", pubblicato sulla Rivista "Rassegna Budapestina" (tradotto e pubblicato anche in italiano nel 1842 e nel 1848). Le sue idee trovarono attuazione nel 1867, quando egli era ministro del-l'istruzione del governo Andrássy. Nel sopraccitato saggio del '40, Eötvös descrive ed analizza minuziosamente la storia e le problematiche del popolo ebraico, disperso per il mondo e condannato da sempre all'esilio e alle peregri-nazioni. Tre sarebbero le cause del loro errare senza fine — sostiene Eötvös — la prima è consequenziale all'accusa di "deicidio", mossa loro in virtù di bibli-

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che reminiscenze; la seconda, condivisa da un'esigua minoranza, è connessa all'accusa di assassinio rituale; la terza è legata a questioni immanenti e concre-te, è cioè frutto di gelosie di mestiere e di rivalità economiche. Eötvös confuta, con sarcastica indignazione, tutte le tesi antiebraiche descritte e si accinge ad analizzare le motivazioni che si oppongono alla loro emancipazione. Le tesi degli oppositori, basate quasi tutte sul topos dell'ebreo corrotto, avaro, imbro-glione e nemico storico dei cristiani, restio al miglioramento ed alla modernità, vengono avversate da Eötvös, il quale sostiene che la libertà è un diritto di tutti gli uomini e non una ricompensa, che la presunta incorregibilità degli ebrei è scaturita dai nostri aberranti divieti e che la ragione-cardine della loro avarizia consiste nel fatto che il settore economico è l'unico in cui abbiano goduto di una certa autonomia di movimento. Se le suddette accuse, insieme a quella di odio verso i Cristiani, fossero veritiere — afferma Eötvös — non costituirebbero ugualmente un ostacolo insormontabile per la loro emancipazione, poiché né l'i-pocrisia può essere motivo di preclusione in un tempo in cui dominano i Machiavelli, né l'anti-cristianità è sinonimo di anti-legalità. Del resto tali difetti potrebbero esistere anche tra i Cristiani — sostiene l'autore — ma non per que-sto essi sono privati dei loro diritti civili, che anche un ebreo conquisterebbe, qualora si convertisse al Cristianesimo. A tali discussioni, fa eco una delle tesi fondamentali di Eötvös in favore dell'emancipazione: «ogni miglioramento avvenuto in pro' della vita civile degli ebrei è stato seguito da un proporzionale miglioramento morale», dunque sarebbe immorale — si chiede l'autore — un popolo che persiste nel sostenere la propria religione durante tutte le persecuzio-ni? La retoricità della domanda rafforza l'idea di Eötvös che vede in un popolo così perseverante le fondamenta per la costruzione di una vera patria ungherese. Molti suoi contemporanei avversavano l'emancipazione ebraica in quanto que-sta avrebbe costituito un serio pericolo per il popolo magiaro, ma — ribatte Eötvös — gli ebrei che vivono in parità di diritti, come in Olanda, in Belgio, in Francia ed in America, riescono con maggiore facilità ad adattarsi agli usi ed i costumi del posto e ad amare persino, come propria, la patria che li ospita.

Probabilmente anche Eötvös rimase sorpreso da quello spontaneo e fiero pro-cesso di magiarizzazione che ebbe inizio dopo il 1840, quando la popolazione ebraica auspicava ad entrare a far parte di una nazione e di una etnia reale.

Durante la seduta dell'assemblea nazionale del 1839-40, Eötvös riscosse solo un modesto successo, infatti venne promulgato l'articolo XXIX della legge del-l'estensione dei diritti del 1840, con il quale si retrocedeva alla situazione del 1790 e si imponevano agli ebrei gli stessi limiti angusti, in vigore al tempo di Giuseppe II. Nonostante la Camera fosse favorevole all'emancipazione, questa non avvenne a causa degli ostacoli mossi dall'opposizione e dalla Corte. Perfino il conte István Széchenyi, l'uomo politico liberal-conservatore più rilevante del-l'epoca della riforma ungherese, temeva un'eventuale emancipazione, poiché questa, più che in Inghilterra, avrebbe notevolmente rallentato il processo di indi-pendenza nazionale, vista l'elevata concentrazione di ebrei sul territorio unghere-se. Tale opinione era condivisa anche da Lajos Kossuth, il quale faceva anche

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un'ulteriore distinzione tra gli ebrei del paese, stabilmente insediati, e quelli immigrati, a vantaggio dei primi.

In ogni caso, la completa emancipazione della popolazione ebraica ungherese potè essere risolta solamente dalla rivoluzione borghese, che portò anche il popo-lo magiaro all'indipendenza nazionale ed ebbe inizio il 15 marzo 1848 con lo scoppio della rivoluzione di Pest e si protrasse fino alla capitolazione di Világos nell'agosto del 1849.

La schematica esposizione della situazione ebraica ai tempi della rivoluzione e della lotta per l'indipendenza può essere sintetizzata in due motivazioni tra loro interdipendenti. Da un lato, è necessario analizzare quale contributo abbiano dato gli ebrei alla patria in questo periodo, dall'altro che cosa la patria abbia offerto alla popolazione ebraica ungherese. Soprattutto le minoranze nazionali, come general-mente avviene in tali processi storici, si opposero alla rivoluzione ungherese ed alle tendenze egemoniche magiare, favorendo, invece, la tendenza all'imborghesi-mento. Il governo rivoluzionario ungherese, con una legge del 1848, riconobbe a tutte le popolazioni presenti sul territorio la parità dei diritti civili, indipendente-mente dalla religione di appartenenza. La normativa giuridica, però, non includeva gli ebrei, i quali, nonostante ciò considerarono l'Ungheria come terreno favorevole alla loro emancipazione, visto che era una nazione in via di imborghesimento. L'esistenza di un antisemitismo latente era noto sin dal 1848 e lo stesso Petőfi pro-nunziò celebri parole in difesa degli ebrei, riconoscendo loro una grande importan-za nella causa della rivoluzione, durante la quale la popolazione ebraica ungherese aveva concretamente dimostrato di considerare come patria propria il paese in cui viveva. Alcune minoranze nazionali, soprattutto i serbi, cercarono di spingere gli ebrei di Ungheria contro la loro patria, ma, fortunatamente, tale tentativo risultò vano. Molte furono le vittime di tali tensioni, tra questi il rabbino di Petrovoszelle, Weber, che durante un comizio popolare aveva espresso opinioni favorevoli alla rivoluzione ungherese, tanto da suscitare l'ira dei serbi. Il patriottismo degli ebrei ungheresi, oltre all'ingente somma di offerte devolute a favore della rivoluzione, è testimoniato dal fatto che ben 20.000 ebrei su 120.000 unità, impugnarono le armi in difesa della patria ungherese, costituendo una compagnia capeggiata da Mihály Táncsics, scrittore e politico rivoluzionario. Dopo l'attacco del bano di Croazia — Jelacic — venne concessa agli ebrei la possibili tà di aderire alla Guardia Nazionale e di dimostrare, così, a quale nazione, a quale etnia essi ritenessero di appartenere, pur senza la completa parità di diritti. In un articolo apparso sulle colonne del Pesti Hirlap, lo stesso Kossuth elogiò tale nuova disposizione, che egli auspicava da tempo. Successivamente egli attinse molti collaboratori fidati proprio tra la popolazione ebraica, che manifestò il suo valore con Ede Horn, insigne rap-presentante dei riformisti ebrei ungheresi, con Frigyes Szarvady, membro dell'e-migrazione di Kossuth a Torino, con Ignác Helfy, docente all 'Università di Mantova al tempo della guerra sardo-austriaca del 1859 e redattore della gazzetta '"Alleanza", strumento a favore dell 'emigrazione magiara, polacca, romana e veneziana nonché traduttore italiano del romanzo "Il notaio del villaggio" di József Eötvös e di varie opere di Mór Jókai.

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L'Ungheria rivoluzionaria cercò di essere equa nei confronti degli ebrei; il 18 luglio 1848, l'Assemblea nazionale sospese fino a nuovo ordine la taxa toleran-tialis, imposta agli ebrei da Maria Teresa in cambio della protezione regale in caso di atrocità. All'inizio del 1849, Kossuth abrogò definitivamente tale imposta che considerava antilegislativa e antiumanitaria.

La definitiva estensione dei diritti venne promulgata il 28 luglio 1849 e codi-ficata nel primo paragrafo della IX legge del medesimo anno, rendendo esecutiva così la proposta avanzata dal deputato Ödön Kállay sin dal 19 luglio 1848 e reite-rata in sede governativa il 24 maggio 1849. Anche i paragrafi successivi della suddetta IX Legge sancirono, seppur per soli sedici giorni, una totale liberalizza-zione della questione ebraica, che ottenne complèta parità di diritti: dal riconosci-mento giuridico del matrimonio misto, alla libertà di residenza su tutto il territo-rio nazionale, alla possibilità di convocare autonomamente assemblee. Tale van-taggiosa legislazione, emanata da Lajos Kossuth e controfirmata da Bertalan Szemere, presidente del Consiglio dei Ministri, ebbe breve vita, infatti nel luglio del 1849 il Feldmaresciallo Haynau impose alla comunità israelitica di Pest e di Óbuda, un'ingente tassazione, consistente in ben un milione di fiorini a titolo di taxa tolerantialis da devolvere a favore dell'istruzione scolastica ebraica. Dal 1850 fino al 1863, le scuole ebraiche vennero sottoposte al rigido controllo del-l'ecclesia cattolica e nel luglio del 1851, vennero sciolte le comunità religiose ebraiche, proibita loro ogni forma di autonomia e alla guida delle comunità reli-giose trasformate le autorità nominarono d'ufficio i preposti.

La popolazione ebraica conobbe un periodo più positivo negli anni successivi, ascesa che durò fino alla dissoluzione dell 'assemblea nazionale del 1861. Durante tale periodo venne concessa loro la libertà di professione o mestiere, venne sospeso il divieto di stanziamento nelle città minerarie e abolita ogni forma di discriminazione in sede processuale. Grazie anche a tali concessioni, la mag-gioranza degli ebrei si affiancò al movimento nazionale ungherese, in tale perio-do infatti si manifestarono in modo eclatante i sintomi dell'ultra ungarismo. La lingua ungherese divenne prima lingua ufficiale e, in campo liturgico, fu adottato l'ungherese accanto all'ebraico. Si ebbe una vasta magiarizzazione anche nella nomomastica e si formarono associazioni ebraiche a favore dello sviluppo e della divulgazione della cultura ungherese. Proprio in virtù di tale attivismo, gli ebrei riponevano grandi speranze nell'assemblea generale convocata per il 2 aprile 1861, durante la quale, però, le elezioni parlamentari si basarono sulla legge elet-torale del 1848 e gli ebrei rimasero così nuovamente esclusi dal diritto al voto. Nonostante le equivoche posizioni di alcuni uomini politici del paese, esistevano reali opportunità per la realizzazione dell'emancipazione; a favore di questa si unirono: il conte László Teleki (radicale), Ferenc Deák (moderato), lo scrittore Mór Jókai, Gyula Andrássy, futuro presidente del consiglio del 1867, Kálmán Tisza (liberale) ed altri. In conseguenza dello scioglimento dell'assemblea nazio-nale del 21 agosto 1861, la causa dell'emancipazione subì una battuta d'arresto, infatti i politici liberali ungheresi trattarono la tematica come necessità "dell'e-stinzione di un debito della nazione", che fu possibile attuare solo dopo la conci-

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liazione austriaco-ungherese del 1867, in seguito ad una nuova onda di dispoti-smo che si abbatté senza distinzioni sugli ebrei e sui cristiani ungheresi.

Il discorso pronunziato durante l'assemblea nazionale del 23 dicembre 1866 diede inizio ad un nuovo capitolo dell'emancipazione degli ebrei di Ungheria; capitolo che durò fino al 27 dicembre 1867, giorno in cui la legge sull'emancipa-zione divenne esecutiva.

In un articolo concernente l'insegnamento in lingua ungherese nelle scuole di confessione ebraica, pubblicato nella primavera del 1867 sulla rivista "Magyar Izraelita" (Israelita ungherese), si può leggere: «Noi, ebrei ungheresi (...) abbia-mo bisogno di maestri ebrei ungheresi (...) se vogliamo che nelle nostre scuole popolari i nostri figli possano imparare e venire educati in modo da diventare tanto degli israeliti religiosi quanto degli ungheresi dabbene». L'ideologia, reli-giosa e patriottica allo stesso tempo, espressa in tale articolo, costituiva da sé un programma, programma a cui aspirava la maggioranza degli ebrei ungheresi nel 1867, e per la cui realizzazione si batté a lungo. Riscosse grande successo in tal campo, l'attività svolta dall'Associazione Ungherese Israelitica, grazie alla quale il predicatore del tempio potè parlare in lingua ungherese e la rivista "Magyar Izraelita", dopo un breve periodo di interruzione, venne nuovamente pubblicata. Tale associazione cominciò a divulgarsi in molte città ungheresi, tra cui a Temesvár, nella Transilvania sud occidentale, ed ebbe come obiettivo fondamen-tale la divulgazione della lingua e della letteratura magiara, per la cui attuazione il famoso orientalista Ignác Goldziher fondò anche un club letterario studentesco. Sporadiche opposizioni vennero innalzate da parte della stampa ebraica, ma, in generale, l'ufficializzazione della lingua ungherese era divenuta una pronunciata esigenza. L'8 giugno 1867, in occasione dell ' incoronazione di Francesco Giuseppe, anche le sinagoghe del paese celebrarono l'evento come festa patriotti-ca e Mor Friedmann, capo cantore di Pest, sulla base del salmo XXI, compose un canto encomiastico per l'Imperatore. Quest ultimo contraccambiò la lealtà e la generosità economica degli ebrei, permettendo loro di ascendere al rango nobilia-re; già nel 1918, infatti, il numero degli ebrei nobili era notevolmente elevato e fra questi, molti raggiunsero la baronia.

La rivista "Magyar Izraelita", nuovamente pubblicata nell'aprile del 1867, si batté fin da principio per una regolamentazione della vita religiosa del paese, constatando le assurde norme a cui essa era sottoposta. Nello stesso mese, Eötvös sollecitò la comunità religiosa di Pest a presentare in un memorandum le proprie richieste circa la situazione degli israeliti ungheresi. Il suddetto memorandum si soffermava principalmente sulla posizione giuridica e culturale delle comunità religiose, tralasciando la tematica dell'emancipazione, considerata oramai que-stione nazionale.

La stessa comunità chiese ad Eötvös la convocazione di un congresso che potesse rappresentare Pinsieme delle comunità religiose ungheresi e che fosse in grado di organizzare una rappresentanza centrale. Dopo l 'annessione della Transilvania all'Ungheria, la comunità di Pest chiese che le comunità religiose di entrambi i paesi si unissero a favore di un obiettivo comune e che la conferenza

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su tale tema potesse essere convocata prima dell'emancipazione. Ciò però non avvenne, anzi il memorandum della comunità religiosa di Pest acuì i dissidi già esistenti tra ortodossi e neoioghi e suscitò le proteste della comunità di Pozsony (oggi Bratislava) che per prima criticò l'operato di Pest. Su tale scia, altre 120 comunità religiose firmarono un contromemorandum, indirizzato ad Eötvös, nel quale si affermava che egli aveva abusivamente proposto la convocazione del congresso. La difesa a favore di questo ultimo, fu intrapresa da Mór Mezei, sulle colonne del "Magyar Izraelita", ove si attribuivano al congresso compiti esclusi-vamente organizzativi e non religiosi.

L'obiettivo principale di Eötvös e Mezei era quello di fare accettare l'idea secondo cui «nei confronti dello stato e della legislazione statale, tutte quante le comunità ebraiche dell'Ungheria costituiscono una confessione religiosa unita-ria», ma tale intento fallì ed anche quando il congresso venne convocato, nel 1868, dopo la proclamazione dell'emancipazione, gli ortodossi lo abbandonaro-no, costituendo un'Associazione Guardiana della Fede, dinanzi alla quale i neoio-ghi o ebrei del congresso non poterono fare altro che avviarsi su strade diverse.

Il primo passo ufficiale e concreto circa l'equiparazione dei diritti politici e civili degli ebrei fu compiuto da Ferenc Deák con un discorso tenuto in parla-mento il 28 dicembre 1866. Egli sosteneva che il cittadino è l'abitante del paese, indipendentemente dal suo credo religioso, per tale motivo era necessario esten-dere la parità dei diritti anche alla popolazione ebraica. Tale proposta, analoga a quella avanzata da Kálmán Tisza, era totalmente innovativa e moderna visto che auspicava la proclamazione dell'indipendenza dei diritti dalle confessioni religio-se. Gli ebrei, però, protestarono violentemente anche contro tale progetto. Un'analoga richiesta era già stata avanzata nel 1848, ma allora essa includeva nel processo di emancipazione solamente gli adepti delle religioni legalmente ricono-sciute, considerando pertanto gli ebrei come fenomeno a se stante. Memore di tale esperienza, Deák chiese l'eliminazione del termine "emancipazione", consi-derato compromettente per la nazione, perché comunemente associato all'affran-camento dalla schiavitù. Il concetto di emancipazione per Deák, come per Eötvös nel 1840, aveva una valenza prettamente giuridica e, come tale, estensibile a qualsiasi individuo indipendentemente dalla sua formazione professionale. Dopo il discorso di Deák, era impossibile non discutere tale problematica come l'argo-mento del giorno ed infatti il 21 giugno 1867, il deputato Zsigmond Bernath pre-sentò in parlamento un progetto di legge che chiedeva l'equiparazione dei cittadi-ni israeliti ai diritti civili ungheresi.

Tale proposta divenne esecutiva alla fine del 1867 grazie all'allora presidente del consiglio, il conte Gyula Andrássy, il quale si impegnò non solo in ambito parlamentare, ma anche nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione, primo tra tutti la gazzetta "Magyar Izraelita", i cui arti-coli suscitarono grande eco tra la popolazione. L'entusiasmo e la soddisfazione degli ebrei si rafforzò negli anni successivi: nel 1894 con la legalizzazione del matrimonio civile misto e nel 1895 con il riconoscimento ufficiale della religione ebraica.

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Tali favorevoli condizioni rimasero inalterate fino alla caduta della Monar-chia, fino ad allora infatti gli ebrei usufruirono di molti privilegi e dell'appoggio della maggioranza cristiana. Dopo il crollo della Monarchia ebbe inizio una serie di procedimenti abietti e crudeli nei confronti della popolazione ebraica unghere-se già emancipata; nel 1920, infatti, fu istituito il numerus clausus nei confronti degli studenti universitari ebrei. Un grave colpo venne inferto all'emancipazione ebraica dalle tre leggi introdotte tra il 1938 ed il 1941, indipendentemente dall'i-deologia tedesca che andava divulgandosi in quegli anni anche sul territorio orientale. Le suddette leggi concernevano soprattutto il settore militaristico, visto che infliggevano gravi discriminazioni nei confronti degli ebrei soggetti al servi-zio militare.

La situazione degenerò catastroficamente in seguito all'occupazione tedesca dell'Ungheria, in conseguenza della quale si ebbe l'annientamento dei quattro quinti degli ebrei ungheresi.

L'importanza dei vari iter legislativi a favore dell'equiparazione della popola-zione ebraica è testimoniata dal fatto che, nonostante gli ostacoli e i veri e propri cataclismi a cui gli ebrei furono soggetti, ancora oggi è ben saldo in essi il senti-mento nazionale e l'appartenenza alla magiarità costituisce, anche per scienziati, scrittori ed artisti di fama mondiale, motivo di vanto.

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LÁSZLÓ KARSAI

D A L L ' E M A N C I P A Z I O N E F I N O A L L O S T E R M I N I O D E L L A G E N T E . Q U E S T I O N E E B R A I C A I N U N G H E R I A

T R A I L 1867 E I L 1 9 4 5

Il presente saggio, tratto da un intervento in una conferenza, vuole succinta-mente presentare i dati e le connessioni più rilevanti della questione ebraica ungherese.

Nell'arco di settantotto anni, la comunità ebraica ungherese divenne la più flori-da d'Europa e, contemporaneamente, la più oppressa dalle persecuzioni, infatti dei sei milioni di vittime dell'olocausto europeo, un ebreo su dieci era ungherese. Sarebbe metodologicamente impossibile comprendere ed interpretare la tragica fol-lia hitleriana e, conseguentemente, la "nebbia di fumo" dei forni crematori di Auschwitz, vista la condizione inumana a cui soggiaceva la maggioranza degli ebrei.

Volendo spiegare l'incremento demografico degli ebrei sul territorio unghere-se, bisogna retrocedere negli anni, almeno fino al XVIII secolo. Il primo e poco attendibile censimento nazionale, risalente al 1735-38, attestava la presenza di appena 12.000 ebrei, ma un secolo dopo il numero era già salito a 200.000 unità, per raggiungere, secondo il censimento del 1910, i 911.227 ebrei. La maggior parte di essi erano rifugiati galiziani fuggiti ai pogrom della Russia negli anni Ottanta del XIX secolo.

Il notevole e costante incremento della popolazione ebraica in Ungheria è riconducibile soprattutto a tre cause interdipendenti: 1) una natalità più elevata della media nazionale; 2) una vita media più lunga; 3) una diminuzione della mortalità infantile. L'elevato numero delle nascite potrebbe essere spiegato come ottemperamento del comandamento religioso "crescete e moltiplicatevi!", le altre due cause erano consequenziali ad un tenore di vita più agiato anche tra le classi medie e ad una condizione sanitaria più evoluta.

Il periodo più favorevole per gli ebrei fu quello della Monarchia Austro-Ungarica, infatti in quegli anni raggiunsero i 2.246.000, mentre nel 1914 viveva-no in Gran Bretagna 250.000 unità, in Francia 100.000 ed in Germania 617.000. La Monarchia Austro-Ungarica fu un impero in sviluppo dinamico e gli ebrei costituirono il motore principale dell'industrializzazione e del commercio, favori-ti anche dalla politica governativa ufficiale, che ben vedeva la progressiva magia-rizzazione ebraica ed il conseguente incremento economico. L'alleanza tra i governatori del paese, per lo più rappresentanti del ceto aristocratico, e i capitali-sti ebrei era anche motivata dall'avversione che entrambi provavano nei confronti dei movimenti autonomi dei contadini e degli operai.

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Nell'ultimo trentennio del XIX secolo, in tutta Europa si andò divulgando un antisemitismo latente, di tipo nazionalista, che veniva esternato con movimenti antidemocratici, anti-capitalisti ed anti-liberali soprattutto tra le masse popolari. Una simile situazione sarebbe stata, in un certo qual modo, comprensibile nel periodo pre-illuminista e non in un mondo moderno ove la libertà di culto era giuridicamente sancita. Purtroppo, però, in un paese per tradizione cristiano, l'e-breo, così come il musulmano o il buddista, non era considerato alla pari, soprat-tutto il primo, rappresentante della religione antagonista per eccellenza del Cristianesimo. Per tutto ciò il riconoscimento civico di uguaglianza fu per gli ebrei un processo lungo, doloroso e difficile. Mentre in alcuni paesi, come nella Francia alla fine del 1700, l'emancipazione compiva i suoi primi passi, in altri si diffondeva un movimento antisemita molto eterogeneo. Anche in Ungheria l'anti-semitismo trovò un terreno fertile sul quale svilupparsi, molti suoi seguaci, infat-ti, considerarono gli ebrei corruttori della società e degli antichi valori magiari. Il passato divenne quasi una mitica età dell'oro da contrapporre ai tempi presenti, angustiati dalla fame e dalla povertà, frutto di un cupido capitalismo generato dall'immigrazione ebraica. Plurime critiche si levarono contro l'amoralità, il las-sismo, l'inutile sperpero, il conservatorismo della popolazione ebraica, a cui veniva contrapposta la rettitudine del cittadino ungherese, unico depositario delle "vere" tradizioni nazionali.

Nell'ultimo decennio del secolo XIX, gli antisemiti camuffarono le loro aspi-razioni dietro lo slogan di "un'Ungheria cristiano-nazionale" che, in realtà, signi-ficava "sistemare" la questione giudaica a svantaggio degli ebrei. Nello stesso secolo venne giuridicamente legittimata la situazione di paria degli ebrei e fu loro imposta la sistemazione nei ghetti, così, proprio nell'ultimo trentennio, quando l'Europa riconosceva, almeno in teoria, l'uguaglianza giudaica dinanzi alla legge, l'argomentazione antisemita attecchì con sempre maggiore facilità ed, in virtù di questa, gli ebrei furono stimati indegni dell'uguaglianza e nocivi per la società. L'antisemitismo si estese fino a divenire movimento internazionale, soprattutto quando si intravide, in un eventuale riconoscimento dei diritti civili, la possibilità di una totale loro integrazione nel tessuto nazionale; per tal motivo, gli ebrei in Ungheria, come altrove, sopravvissero come gruppo sociale ben distanziato e fisicamente separato dai cittadini del posto. Salda, invece, rimase la loro coesione sociale interna, fortificata dalle tradizioni culturali e religiose in comune e tale rimase anche nei pochi casi di matrimoni misti con i cristiani, fenomeno svilup-patosi soprattutto nell'ambito dei ceti aristocratici e tra gli intellettuali illuminati. Il giudaismo ungherese fu, però, molto eterogeneo, le masse neologhe ebree infatti, si andarono magiarizzando nella lingua, nei costumi e nella cultura in toto, stanziandosi nelle grandi città o emigrando continuamente; i discendenti degli emigranti ortodossi, invece, vissero nelle periferie orientali e nord-orientali del paese e, rifiutando "il patto sociale d'assimilazione", continuarono a rispettare le tradizioni galiziane e a comunicare nella lingua yiddish. Entrambi, riformati ed ortodossi, però, concordarono sul rifiuto del sionismo, tanto che il movimento sionista ungherese fu giustamente designato da Theodor Herzl come "il ramo

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secco del sionismo nel mondo". Secondo le opinioni correnti, sionisti erano colo-ro che si professavano garanti del ritorno degli ebrei in Palestina.

Gli ebrei riformati accolsero favorevolmente la nuova politica ufficiale di governo, che si mostrò tanto palesemente filosemita da generare un incremento demografico di quasi cinque milioni di persone in soli 60 anni.

Nel periodo della Monarchia, gli ebrei godettero di una maggiore libertà, molti di essi infatti riuscirono a sfuggire le strettezze della povertà e dell'ortodossia fino a divenire il gruppo sociale più produttivo. Si verificò, infatti, una vera "invaden-za" ebraica: nel 1910 il 52,2% dei grandi capitalisti di Budapest ed il 64% dei capisaldi del settore commerciale e finanziario era ebreo e di loro proprietà era anche il 37,5% del territorio agricolo ungherese. Nel 1920 dei 721 proprietari di grandi imprese, 357 furono ebrei e alla religione giudaica appartenevano anche il 42,4% dei giornalisti, il 45,2% degli avvocati ed il 48,9% dei medici; l'occupazio-ne ebraica nel settore amministrativo rispecchiava fedelmente la proporzione demografica dell'intero territorio; non a caso, infatti, molti contemporanei parlaro-no di sovrarappresentanza ebraica ed esiguo fu il numero di coloro che riconobbe-ro agli ebrei il merito guadagnatosi e le capacità professionali per le quali spicca-vano in molti settori lavorativi. Solamente i conoscitori della realtà storico-socio-logica si fecero garanti della superiorità culturale ebraica e motivarono le loro capacità professionali con il fatto che la maggior parte di essi apparteneva ai ceti medi, già allo scorcio del secolo. Le statistiche e gli studi effettuati dalla società cattolica ungherese, invece, mostrarono un quadro differente da quello sopra descritto, compariva infatti elevato il numero dei contadini e minima l'erudizione ebraica all'interno della classe borghese. I successi scolastici dei giudei vennero motivati in base all'abitudine di educare i bambini a uno studio bilinguistico ed intensivo sin dall'età di tre-quattro anni e, per il fatto che, alla stessa età, si inse-gnavano loro i testi religiosi, premiandoli per ogni successo raggiunto. La loro cul-tura, dunque, non era frutto di una superiorità genetica, bensì del maggiore tempo dedicato allo studio, della rigidità del corpo docente ed anche dell'ambiente ester-no che, essendo spesso ostile e diffidente nei loro confronti, li spronava a un rendi-mento maggiore, al fine di esaudire le proprie aspirazioni sociali.

Gli ebrei assimilati criticarono le accuse mosse loro dagli antisemiti, appellan-dosi ai risultati raggiunti nel campo economico, artistico e scientifico, risultati di cui l'intero paese aveva beneficiato.

Sebbene la loro integrazione nei vari campi lavorativi non fosse perfetta, è necessario riconoscere che la situazione ungherese fu sostanzialmente più bene-vola nei loro confronti di qualsiasi altro paese dell'Europa orientale. Mentre, infatti, in Russia, gli ebrei sopportarono i pogrom, in Romania furono vittime di un antisemitismo popolare molto diffuso e anche nella liberale America non pote-rono accedere alle cariche più elevate, in Ungheria invece ebbero la possibilità di aspirare agli incarichi più alti; sedici deputati parlamentari furono di origine ebraica, così pure molti ministri delle finanze e del commercio, prima del 1914 ed ebreo fu anche il primo borgomastro di Budapest. Minore invece fu la loro presenza nell'amministrazione statale, nella gendarmeria e nella polizia.

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La Monarchia, con un gesto senza pari in tutta Europa, precorse i tempi inte-grando gli ebrei nell'esercito e anche tale avvenimento contribuì alla loro integra-zione economico-sociale, che altrimenti sarebbe stata più difficile. Mentre, ad esempio, tra il 1885 ed il 1914 nessuno dei trentamila ebrei che venne addestrato nell'esercito prussiano fu incorporato come ufficiale di complemento, nella Monarchia Austro-Ungarica, invece, nel 1897, erano presenti 1993 ufficiali di complemento ebrei e cioè il 18,7% degli effettivi.

Nell'ultimo trentennio del XIX secolo, fra l'elite feudale e le masse dei conta-dini indigenti, gli ebrei apparvero come i soli rappresentanti ed usufruttuari dello sviluppo capitalista estraneo, cittadino, nemico ed incomprensibile, tanto che avvertirono la loro posizione come incerta. A tal proposito un celebre scrittore ebreo ungherese, riflettendo sulle accuse storiche mosse agli ebrei, motivò la bra-mosia di denaro come consequenziale alla loro eterna insoddisfazione. «Con tutte queste cose — asseriva Aladár Komlós — l'ebreo spera di raggiungere la tran-quillità mancata dalla sua anima. È inutile: nessun patrimonio e nessuna carriera, l'avere di Rothschild, il successo mondano di Einstein o di Ferenc Molnár non possono dare la tranquillità insita dell'essere casalingo che cresce gratuitamente nell'anima di qualunque cittadino che vive nel proprio paese».

La politica ungherese ufficiale, dopo la prima guerra mondiale, divenne total-mente antisemita. Nel periodo post-Trianon, nel paese oramai diminuito di un terzo, gli ebrei rimasero, insieme ai tedeschi, la minoranza più numerosa, ma l'ambita magiarizzazione fu solamente un sogno di altri tempi, visto che vennero riconosciuti cittadini ungheresi per l'ultima volta nel 1919-1920. Nel 1944, gli appartenenti alla religione mosaica presenti sui territori del Terzo Reich, furono deportati ad Auschwitz come prigionieri.

La maggior parte degli ebrei magiari, dopo il 1919, sembrò non voler com-prendere la negatività insita nella loro condizione ed auspicò un ritorno ai tempi precedenti il 1918, fatto che venne frainteso e mal visto dai propagandisti antise-miti del sistema controrivoluzionario. Quando nell'autunno del 1920 il parlamen-to ungherese promulgò la prima legge antisemita, i deputati parlamentari liberali e gli ebrei cercarono inutilmente di controbatterla, appellandosi ai loro 10.000 caduti per la patria e ai 30.000 feriti. Ogni argomentazione difensiva fu vana, visto che venne immediatamente approvata la legge del "numerus clausus", con la quale si limitava drasticamente il numero degli ebrei ammessi alle università e alle scuole superiori di II grado, negando così ogni risultato raggiunto dalla poli-tica liberale monarchica. Il "numerus clausus" fu considerato dagli ebrei legge incomprensibile ed ingiusta e, oppressi dal sistema, rifiutarono anche l'aiuto offerto loro dalle associazioni ebraiche straniere, giudicando tutta la questione "un affare interno magiaro".

Il fallimento della politica di assimilazione si evidenziò concretamente quan-do gli appartenenti ai ceti medi magiari subentrarono ai posti prima occupati dagli ebrei. L'antisemitismo tra le due guerre contribuì anche alla diminuzione numerica degli adepti dell'ebraismo, infatti con l'emigrazione, le forzate conver-sioni e i matrimoni misti, si ebbe un calo del 10-15%. Tali ebrei furono costretti a

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riappropriarsi del loro credo e delle loro tradizioni solo conseguentemente alle leggi antisemite approvate tra il 1938 ed il 1941; le suddette ordinanze giustifica-rono ufficialmente i loro contenuti con il fatto che gli ebrei avevano invaso i set-tori agricoli ed industriali, sottraendo posti di lavoro alla popolazione nazionale. L'effetto immediato di tali disposizioni non generò il crollo economico degli ebrei, come si auspicava, bensì produsse dei sentimenti razzisti generalizzati nel-l'opinione pubblica e nel campo dell'informazione, camuffati da un'esposizione formale corretta e "garbata".

La stessa politica governativa, però, non desiderava realmente l'esecuzione delle nuove leggi giudaiche, né l'esclusione degli specialisti ebrei dai settori pro-fessionali e giustificò l'espansione "dell'azienda nera" con la scarsità di mano d'opera generata dalla guerra. Le normative antiebraiche infatti, secondo l'opi-nione di alcuni esperti, avrebbero danneggiato soprattutto coloro che erano in età pre-pensionistica e i giovani in attesa di lavoro e, solo in un secondo momento, avrebbero potuto colpire gli intellettuali, i giornalisti e gli attori salariati.

L'emanazione delle leggi antisemite fu deleteria non solo per gli ebrei ma anche per la società in generale, infatti molti appartenenti alla classe borghese e piccolo-borghese compresero che era possibile arricchirsi non solo con lo studio e il duro lavoro, ma anche ricercando gli ebrei, i loro famigliari e denunciandoli alla polizia, favorendo le deportazioni. Ebbe inizio così una vera "caccia all'uo-mo". Non tutti gli ungheresi ovviamente condivisero tale atteggiamento, perciò diedero voce ai sentimenti umanitari, inveendo contro l'antisemitismo sia in pub-blico che in privato.

Bisogna ricordare, però, che il parlamento ungherese approvò una vera legge razzista soltanto nel 1941, con la quale si proibì "il mescolamento di sangue inde-siderabile" e il matrimonio misto con la motivazione di difendere i quattro milio-ni di intellettuali ungheresi dai 600.000 professionisti ebrei.

La propaganda antisemita applicò alla società contemporanea la concezione manichea del mondo, in base alla quale l'ebreo avrebbe rappresentato il lato estraneo, maligno e nemico dell'umanità, degradandolo talmente da fargli perde-re le caratteristiche umane e acquisire quelle del mondo animale. L'uso continuo delle metafore biologiche e naturali (es.: bacillo, elemento contagioso, sanguisu-ga. pidocchio, ratto, ...) testimonia, infatti, il suddetto processo di disumanizza-zione a cui furono sottoposti gli ebrei del tempo.

La storia ebraica ungherese, durante la seconda guerra mondiale, consta di una serie di paradossi. Le leggi di privazione del diritto, il cui effetto economico fu assai selettivo, non influenzarono, come avrebbero voluto, le posizioni del grande capitale, ma colpirono soprattutto i giovani principianti e gli impiegati. Tali leggi di per sé antisemite non auspicavano però alle deportazioni e ai massa-cri. Nel periodo precedente il 19 marzo 1944, infatti, la vita dei ceti aristocratici ed intellettuali giudaici (circa 800.000 persone) non subì seri pericoli, visto che il reggente Miklós Horthy, tradizionalmente antisemita ed aristocratico, non appro-vava la politica tedesca e protestava contro le deportazioni ebraiche. Nel 1938, sulla scia di Mussolini, venne approvata in Ungheria la prima legge antisemita,

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vietando però, almeno fino al 1944, le deportazioni, nonostante l'incalzare dei tedeschi. L'unica eccezione a quanto detto, si verificò nell'estate del 1941, quan-do furono espulsi circa 18.000 ebrei apolidi o di dubbia nazionalità.

Tragica era la condizione degli ebrei in tutta Europa: nel gennaio del 1942 vennero massacrati a Novisad circa 1.000 ebrei, 40.000 morirono sui campi nevosi dell'Ucraina ed anche nella democratica Olanda, nell'estate del 1942, i nazisti, con la collaborazione delle autorità del luogo, deportarono circa 100.000 dei 140.000 ebrei olandesi, mentre i partigiani della resistenza scrivevano, ironia della storia, sul muro di una casa di Amsterdam la seguente frase: «Hitler, via con le tue mani sudicie dai nostri ebrei sudici»

Essendo la politica ungherese molto più liberale nei loro confronti, molti ebrei — dai 15.000 ai 20.000 secondo alcune fonti, 50.000 secondo altre — si rifugia-rono in terra magiara; tra questi 100 erano sfuggiti ai grandi ghetti della Polonia e, dai loro ricordi, emerge che ebbero quasi un effetto "choc" dinanzi alle masse ebraiche di Budapest vestite a festa e dinanzi allo zelo dei poliziotti nel difendere le sinagoghe.

Il primo ministro Miklós Kállay, nella primavera del 1942, promise pubblica-mente di allontanare gli ebrei dall'Ungheria, ma tale annuncio avrebbe dovuto solamente placare i nazisti e gli ungheresi crocefrecciati, poiché in realtà non fu realizzato. Nell'autunno dello stesso anno, Miklós Horthy negò categoricamente ai nazisti la possibilità di chiudere gli ebrei nei ghetti, di contrassegnarli con la stella gialla ed, ovviamente di deportarli.

L'esemplare e non comune atteggiamento di Horthy è altresì testimoniato dal protocollo pervenutoci del suo incontro con Hitler nel castello di Klessheim, avvenuto nell'estate del 1943. In esso emerge la totale avversione di Horthy nei confronti delle deportazioni e un'antipatia crescente verso la demagogia nazista, verso Szálasi e i suoi crocefrecciati magiari, definiti sdegnosamente "bolscevichi in camicia verde". Egli cercò di motivare le sue decisioni dinanzi ai tedeschi, appellandosi al fatto che nemmeno l'Italia, la Romania e la Bulgaria erano favo-revoli all'antisemitismo e alle sue disposizioni. D'altra parte, nell'inverno 1942-43, l'esempio di Horthy servì al governo di Bucarest per rifiutare le richieste tedesche e impedire le deportazioni degli ebrei rumeni, facendosi forte della poli-tica filosemita ungherese.

È probabile che Horthy credesse — idea oggi considerata infondata — che la sorte degli ebrei stesse a cuore alle varie associazioni antifasciste di tutta Europa.

Quando il 19 marzo 1944 i tedeschi occuparono l'Ungheria, Adolf Eichmann potè ritenersi particolarmente soddisfatto, visto che in nessun paese d'Europa aveva effettuato un "bottino" così sostanzioso, in un tempo così breve. Con la collaborazione delle autorità ungheresi, infatti, fino al 9 luglio 1944, più di 430.000 giudei vennero marchiati, chiusi nei ghetti e successivamente deportati nei campi di concentramento. Oltre 20 milioni tra carabinieri, poliziotti, pubblici funzionari, ingegneri, ferrovieri e medici "lavorarono" per rendere l'Ungheria "libera dagli ebrei" e, purtroppo, pochissimi furono coloro che cercarono di aiuta-re i perseguitati. L'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, fino a tutto il 1997, ha

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premiato 364 cittadini ungheresi per essersi impegnati, a costo della propria vita, nel salvataggio degli ebrei.

Il 6 luglio 1944 il governatore Miklós Horthy pose fine alle deportazioni. Alla realizzazione di tale risolutiva decisione contribuirono vari fattori: l'atteggiamen-to del pontefice Pio XII, la domanda del re svedese, la minaccia del presidente Roosevelt, le varie manifestazioni di protesta ungheresi ed internazionali. Horthy fu inoltre influenzato decisivamente, non solo dallo sbarco degli Alleati in Normandia, ma anche dalla grande offensiva dell'Esercito Rosso e dall'infondato pettegolezzo — abilmente propagandato dal Consiglio Ebraico di Budapest — che la capitale sarebbe stata sottoposta al bombardamento a tappeto dagli Alleati, qualora avesse allontanato da sé gli ebrei. Oggi sappiamo che, in realtà, gli Alleati non erano disposti nemmeno a bombardare le linee ferroviarie che condu-cevano ad Auschwitz. Tale menzogna però fu utile, perché il comando di Horthy impedì la deportazione di circa 250.000 ebrei della capitale e di oltre 100.000 militi del lavoro. I tedeschi, esasperati dalla situazione creatasi in Ungheria, non poterono fare altro che favorire l'ascesa al potere del partito crocefrecciato e del capo antisemita Szálasi, il quale rimase in carica per sei lunghi mesi.

Szálasi, come egli stesso si definì, non fu antisemita, ma asemita, poiché non intese respingere l'influenza economica e culturale ebraica, bensì aspirava ad un'Ungheria totalmente priva di ebrei. I crocefrecciati ungheresi furono degni compagni ideologici dei loro simili tedeschi e i loro giornalisti divulgarono con veemenza le idee naziste, osando scrivere, senza alcuno scrupolo, le seguenti righe: «I russi sono tutte bestie. I loro domatori sono tutti mostri ebrei. Sterminateli!».

Durante il governo Szálasi furono deportati circa 70.000 ebrei verso la fron-tiera ungaro-tedesca ove i più forti vennero destinati al lavoro forzato. Nel men-tre, a Budapest, i crocefrecciati massacravano e saccheggiavano gli ebrei, desi-gnando, quotidianamente, migliaia di essi ai campi di concentramento.

Molti uomini illustri si impegnarono per far cessare tale insostenibile situazio-ne, ma, purtroppo, i loro nomi rimangono ancora oggi avvolti dal nebuloso oblio della storia.

Se i manuali tacciono, però, spetterebbe a noi non dimenticare i nomi di Raoul Wallenberg, Carl Lutz, Friedrich Born, rappresentante della Croce Rossa Budapestina, Angelo Rotta, nunzio pontificio, tutti attivi fautori del salvataggio diplomatico internazionale degli ebrei, come spetterebbe a noi ricordare le 600.000 vittime ungheresi.

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CINZIA FRANCHI

C U L T U R A E B R A I C A D I L I N G U A U N G H E R E S E I N T R A N S I L V A N I A ( D A L L E O R I G I N I A L L ' O L O C A U S T O )

1. Le prime tracce di una presenza ebraica in questa regione, dal 1918 appar-tenente alla Romania, risalirebbero addirittura all'epoca di Traiano, nel cui eser-cito erano presenti, lo proverebbero alcune monete recentemente ritrovate, ebrei di Palestina. Esistono documenti scritti a partire dall'XI secolo d.C., quando il re magiaro László I emana decreti antiebraici (1092), nei quali vieta, tra l'altro, i matrimoni misti tra ebrei e cristiani e che dei cristiani possano servire degli ebrei. L'articolo XXIV della Bolla d'oro emessa da Andrea II impedisce agli ebrei (e ai "saraceni") di praticare professioni direttamente legate al denaro e al sale (teso-rieri, agenti delle tasse e "addetti alla conta" e al controllo della produzione e distribuzione del sale all'epoca).

Sia il re Andrea sia il figlio Béla IV, da lui nominato governatore della Tran-silvania, furono obbligati, mediante giuramento a prendere misure antiebraiche da papa Gregorio IX, che voleva estirpare alle radici qualunque tentativo di diffondere in quelle regioni la fede musulmana o quella ebraica. In seguito Béla IV riuscì a ottenere, sull'esempio del Portogallo, che gli ebrei potessero essere assunti come impiegati nell'amministrazione delle pubbliche entrate (1239). Nel 1251, sul modello dell'ordinanza del principe d'Austria Federico II (1244), venne emanato il suo "privilégium.", che prevedeva un trattamento "umano" nei con-fronti degli ebrei d'Ungheria. Questo documento favorì senz'altro la venuta e lo stanziamento di molti ebrei nel paese.

2. Di stanziamento in forma massiccia degli ebrei in Transilvania, tuttavia, parliamo a partire dal xiV-XV secolo. Ma nonostante il radicale mutamento ope-rato dalla politica di tolleranza del principe transilvano Gábor Bethlen, che nel suo privilégium aveva concesso ampie libertà alla comunità e alle professioni praticate da ebrei (commercio e medicina in primo luogo), ancora nel 1700 la situazione degli ebrei non è delle migliori, tranne che per la città Gyulafehérvár (Alba lulia), ove tra il 1637 e il 1656 si pongono le fondamenta della vita comu-nitaria: viene costruita una sinagoga e, per 4 fiorini, si compera il terreno destina-to al cimitero ebraico. Gli ebrei non avevano accesso alle città, né potevano abita-re nelle località circostanti le zone minerarie, come da espresso divieto di Leopoldo I. In diverse opere antisemite magiare, pubblicate nel secolo scorso, si considera l'aumento della popolazione avvenuto tra il XVII e il XVIII sec. (circa

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1.108 unità fino al 1736) come l'"espansione ebraica in Ungheria" (Transilvania inclusa). In questo periodo, oltre agli ebrei spagnoli (sefarditi), si stabiliscono in Transilvania ebrei provenienti da Polonia, Moravia, Germania, Ungheria e Moldavia (aschenaziti). Il diritto di stabilirsi in un luogo, per gli ebrei, dipendeva dai proprietari terrieri e dai comandanti militari. L'aumento demografico di una comunità che, nonostante potesse legalmente stabilirsi nella sola Gyulafehérvár, si era sparsa per tutta la Transilvania, viene segnalato con preoccupazione dal governatore della Transilvania Brukenthal (1780), che nel suo rapporto a Maria Teresa sottolinea l'estrema povertà nella quale vive la maggior parte della popo-lazione, propone una serie di restrizioni per la comunità ebraica e una sostanziale chiusura delle frontiere a nuovi arrivati, proposte da questa accettate: gli ebrei potranno stabilirsi solo a Gyulafehérvár, coloro che vivono in altre zone della Transilvania dovranno essere concentrati in questa città. Nel 1783 il suo succes-sore, il figlio Giuseppe II, emette la Systematica Gentis Judaicae Regulatio, per favorire l'integrazione, ovvero la totale assimilazione degli ebrei in Ungheria, che però non fu estesa alla Transilvania, mentre lo fu la disposizione sull'adozio-ne di nomi tedeschi. Leopoldo II stabilisce invece (1790-1792) che, fino a defini-tiva e dettagliata regolamentazione, per gli ebrei di Transilvania si mantenga lo status quo, anzi, che coloro che sono stati allontanati dai luoghi nei quali viveva-no possano farvi ritorno. È l'ultimo decennio del Settecento: in Transilvania vivono settemila ebrei. Nel 1867, quando il Parlamento magiaro adotta il progetto di legge del barone József Eötvös, che stabilisce la completa parità tra ebrei e cri-stiani che vivono in Ungheria per quel che riguarda l'esercizio dei loro diritti civili e politici, il loro numero è salito a 90mila.

Nel 1895 la religione ebraica viene equiparata a tutte le altre confessioni. All'inizio del nostro secolo nella Transilvania storica vivono quasi 150mila ebrei, che dal 1840 ha diritto di stabilirsi liberamente nelle città e in qualunque località della regione, e di praticare qualunque professione1.

3. L'emancipazione degli ebrei di Ungheria e della Transilvania, che ad essa apparteneva, all'alba del XX secolo appare dunque compiuta. Per quanto riguarda Vemancipazione culturale degli ebrei di Transilvania, essa ha inizio dalle sinago-ghe, passando poi per la scuola, la stampa (soprattutto poesia popolare, ma anche romanzi) e infine le riviste culturali. Seguiamo brevemente questo percorso.

Oltre alla già citata sinagoga di Gyulafehérvár, altre ne sorgono a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, quando ormai, in base allo Juden-Ordnung di Maria Teresa, la comunità sefardita e quella aschenazita di Transilvania (nonché del Partium e del Banato) si unificano. Kolozsvár (Cluj, Klausenburg), che diverrà nei primi quattro decenni del secolo il centro della cultura ebraica di lin-

1 I dati sono tratti dalle opere di M. Camilly-Weinberger citate nella bibliografia. György Gaál, a sua volta da me utilizzato come fonte, fornisce dati molto diversi: nel 1900, afferma, gli ebrei della Transilvania storica erano 53mila.

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gua ungherese, è inizialmente una delle città più "difficili" per gli ebrei, che vi si stabilirono alla fine del Settecento, restandone però ai margini, abitando quello che oggi è il quartiere-mostro dei palazzoni partoriti dalla follia ceausista, Monostor (MànàBtur), ma che all'epoca era zona di campagna fuori le mura. Non ci occuperemo qui di quante "divisioni" avesse il rabbino capo in Transilvania, di quante sinagoghe siano state fatte costruire dalle maggioranze riformata e orto-dossa, o dalla minoranza che non voleva appartenere a nessuna delle due. È inte-ressante sottolineare la peculiarità della comunità di Máramarossziget (Sighetul Marmatiei, nella regione del Maramaros, rom. MaramureB), sotto l'influenza spi-rituale hassidica della famiglia rabbinica Teitelbaum, che a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento dirige una famosa jeshiva e fa costruire cinque sinagoghe. Nel 1886 i riformati si separano e creano una loro comunità di tipo sefardita (l'hassidizzazione e la ri-sefardizzazione è comunque un fenomeno piuttosto dif-fuso in questi decenni). Questo contribuì a che Máramarossziget si conservasse, fino all'ultimo, come centro "puro" della spiritualità e della cultura ebraica tran-silvana, caratterizzata da un lato dal legame con le proprie origini, dall'altro dal-l'assorbimento di elementi delle culture circostanti: ungherese, romena, slava (in particolare ucraina: Lvov/Lemberg era il faro hassidico dell'est). Nel 1910 a Máramarossziget vivevano circa ottomila ebrei (oltre 65mila, secondo i dati di Carmilly, in tutto il Maramaros), la comunità ebraica più numerosa della Tran-silvania in relazione al resto della popolazione: il 34%. L'altra città sulla quale l'impronta culturale ebraica appare più netta è Nagyvárad (ted. GroBwardein, rom. Oradea, it. Varadino).

C'erano sinagoghe di rito ortodosso e riformato ovunque, in Transilvania e nel Partium: Marosvásárhely (Tírgu-Mures), Lipova, Karánsebes, Brassó (rom. BraBov, ted. Kronstadt), Szátmár (r. Satu Mare), Szalonta (r. Salonta), Fogaras (r. FágáraB), Kolozsvár, Nagyvárad, Nagykároly (r. Carei)... di questa grande ric-chezza oggi restano sinagoghe e cimiteri abbandonati.

Elek Fényes, autore alla metà del secolo scorso di due opere di carattere geo-grafico-sociologico-statistico2, riconosce agli ebrei, che pure in altri passi non tratta con i guanti, la «lodevole qualità di inviare, a costo di grandi sacrifici eco-nomici, i propri figli a scuola. Raramente si vede un ebreo, anche povero, che non sappia scrivere, leggere e, soprattutto, contare». Lo statista Fényes, che pure considera gli ebrei, insieme a greci, francesi e altri, una popolazione "di seconda categoria" dell'Ungheria (dal punto di vista panmagiaro, poco propensi a farsi assimilare, insomma), si rammarica di non poter elencare con precisione i dati riguardanti il numero di studenti ebrei perché la maggior parte di essi studia con un precettore e non in una scuola.

Quella del praeceptorb l'occupazione statisticamente maggioritaria nelle liste dei giovani ebrei chiamati alle armi. Sin dalla prima metà del Settecento le comu-nità ebraiche della Transilvania iniziarono ad assumere insegnanti per i loro figli.

~ Magyarországnak s a hozzá-kapcsolt tartományoknak mostani állapot ja statistikai és geo-S'aphiai tekintetben, I-V., Pest, 1836-1840; Magyarország statistikája, I-III., Pest, 1842-1843.

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La già citata Systematica Gentis Judaicae Regulatio di Giuseppe II (1783) per-metteva di scegliere tra scuole statali o scuole ebraiche sostenute economicamen-te dalle comunità. Lungo circa un secolo furono così fondate varie scuole ebrai-che, elementari e medie, in Transilvania (Marosvásárhely), nel Partium (Nagyvárad, Szalonta) e nel Banato (Arad, Lúgos, Temesvár). Alla fine del seco-lo scorso vi erano circa 60 scuole elementari ebraiche, nel 70% delle quali l'inse-gnamento si svolgeva in lingua ungherese (in quelle cattoliche la percentuale era del 56%, mentre nelle scuole luterane e in quelle greco cattoliche scendeva rispettivamente al 23% e al 6,5%). Dopo il 1919, quando la Transilvania ormai apparteneva alla Romania, oltre a nuovi asili e scuole elementari, vennero fondati un Liceo ebraico nel Banato, a Temesvár (rom. TimiBoara) nel 1919 (fu naziona-lizzato nel 1949) e due ginnasi, uno nel Partium, a Nagyvárad (di lingua unghere-se, sempre in lotta con il ministro della Pubblica Istruzione Anghelescu per que-sto motivo), e l'altro a Kolozsvár, il "Tarbuth " (1920), chiuso dalle autorità romene nel 1927 "a causa della non-idoneità tecnica dell'edificio". Nonostante l'applicazione delle leggi razziali ungheresi del 1938-1939 (e poi del 1941) fosse immediata quando, nel 1940, l'Ungheria riprese la Transilvania con il secondo Diktat di Vienna, chiusura delle scuole inclusa, grazie alle trattative avviate dalle comunità ebraiche di Kolozsvár, dove si trovava il ministro del Culto e della Pubblica Istruzione Bálint Homán, si riuscì a fondare un ginnasio ebraico nella città, diretto da un noto professore, Márk Antal, che accolse per quattro anni cen-tinaia di studenti da tutta la Transilvania. Altri ginnasi funzionavano a Szátmár, Brassó, Marosvásárhely. Nel maggio-giugno 1940 professori e studenti furono lì raccolti e portati direttamente nei campi di sterminio.

4. Lo studio e la diffusione della lingua ebraica furono inizialmente favoriti, anche in Transilvania, dall'interesse e dall'operato di ebraisti cristiani. Fra tutti ricordiamo János Apáczai Csere (1625-1659), profondo conoscitore della lingua ebraica: dell'importanza e della metodica del suo insegnamento si occupa infatti nell'introduzione alla sua opera Magyar Enciklopédia (Enciclopedia magiara; si veda anche Az iskolák fölöttébb szükséges voltáról, Sulla superiore necessità delle scuole). Presso la tipografia di Miklós Misztótfalusi Kiss, a Kolozsvár, vennero stampati, con caratteri ebraici, i primi quattro capitoli della Genesi, ritrovati nella biblioteca privata del medico calvinista di Nagyszeben (rom. Sibiu, ted. Hermannstadt) Sámuel Kereséri Köleséri e in quella di Mihály Apafi. Tra gli ebraisti transilvani troviamo tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo anche il grande scrittore romeno Ion Budai-Deleanu.

La lingua ebraica è fondamentale, lo sostiene per primo Apáczai, proprio perché la Bibbia è la fonte primaria della religione, e può essere compresa nella sua verità soltanto grazie a una profonda conoscenza della lingua ebraica. János Apáczai Csere, calvinista e filosofo, contemporaneo di Spinoza, simboleggia la doppia radi-ce di questo interesse per l'ebraismo da parte di uno specifico gruppo di non ebrei dell'epoca: religiosa (la lingua ebraica come "arma" dei protestanti) e di pensiero.

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Alla metà del XVII secolo risalgono le prime opere in lingua ebraica da noi conosciute: epitaffi scritti dal Rabbi Levi Jerusalmi (Gerusalemme, 1681 -Temesvár, 1752). Anche in seguito, la letteratura di lingua ebraica (e jiddish) sarà opera principalmente di rabbini e di argomento religioso, morale o storico (riguardante la comunità), esegesi biblica, glosse alle opere fondamentali di codi-ficatori come Maimonide etc. Nel XIX e XX secolo il profilo spirituale e la cultu-ra di lingua ebraica della comunità transilvana sono determinati in modo partico-lare dal "fronte della jeshivà" (espressione mia), i rabbini delle comunità ortodos-se. All'ortodossia aderiva infatti, dopo il Congresso del 1868, la maggior parte delle comunità ebraiche di Transilvania, Partium e Banato. Sotto la direzione dei discepoli del rabbino capo di Pozsony (oggi Bratislava), Moshe Sopher, si avver-sava lo studio delle scienze di questo mondo, e soprattutto si vietava l'uso della lingua ungherese o tedesca nei discorsi religiosi, divieto in seguito codificato dalle principali comunità di Transilvania. A Kolozsvár e Nagyvárad (Dr. Sándor Kohut, Dr. Lipót Kecskeméti), Marosvásárhely (Dr. Ferenc Löwy) e Brassó (Dr. Ernő Deutsch), Maramarossziget (e Kolozsvár, Jekutiel Jehuda Grünwald) si svi-luppano le scienze ebraiche e si scrive la storia degli ebrei di Transilvania. Il rab-bino di Nagyvárad, Lipót Kecskeméti, scrive opere e saggi "militanti" per l'ebrai-smo come religione contro il "sionismo politico", che andava diffondendosi anche in Transilvania e nel Banato (1920-1922), e traduce in ungherese opere di poeti ebrei medievali.

Opere poetiche in lingua ebraica e jiddish appaiono in Transilvania a partire dall'inizio dell'Ottocento. Si tratta di poesie di argomento religioso, didattico, filosofico, preghiere, che testimoniano comunque un interesse per la lingua e la cultura ebraica "vive".

Centri della cultura ebraica transilvana sono, ancora fino all'estate del 1944, Máramarossziget, Szátmár, Kolozsvár in Transilvania; Nagyvárad nel Partium; Temesvár nel Banato. Nel periodo interbellico, il fronte ortodosso pubblicava due importanti settimanali: Népünk-Unser Volk (Nagyvárad, 1929-1940, redatto da Sándor Wasserstorm e Zoltán Leitner, sotto la guida del rabbino capo Benjámin Fuchs) e Hoemesz- Az igazság (Torda, 1933-1940, diretto da Sándor Mózes).

5. Cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania nel periodo interbelli-co. Secondo il filosofo budapestino Sándor Rádnóti, nei tormentati tempi in cui viviamo, in Ungheria esisterebbero ebrei di origine ebraica e ungheresi di origine ebraica3. La cultura ungherese e quella ebraica di Transilvania, nel loro piccolo, ci forniscono tuttavia diversi esempi della complessità di questa scelta d'apparte-nenza, che spesso è meno intellettuale e molto più istintiva, o al contrario, dettata dalla tradizione, dalla storia di quanto non la si vorrebbe. Cominciamo dalla sto-

' La citazione è tratta dalla rivista di cultura ebraica pubblicata in lingua ungherese a Budapest "Szombat", novembre 1989, p. 5. Una dichiarazione di carattere identico è stata fatta da Radnóti air autrice di questo testo. Cfr. "il Manifesto", 20 luglio 1989.

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ria, ma brevemente stavolta, ricordando che, sin dalla metà del XVIII secolo, la maggioranza degli ebrei ha scritto e parlato in lingua ungherese. Carmilly sottoli-nea l'importanza di questo fatto: nel 1880, infatti, in Transilvania «di 630mila ungheresi solo 198 mila sapevano scrivere e leggere» (68,6% di analfabeti)4. Un fenomeno che, nei decenni a seguire, non si è attenuato, anzi. Nel 1910, il 73% della popolazione ebraica di Transilvania era di lingua ungherese; allo scoppiare della prima guerra mondiale la percentuale era salita all'80%. I rabbini delle comunità riformate di Transilvania (35) predicavano in ungherese, mentre molti dei rabbini ortodossi venivano dal Seminario di Budapest.

Per quanto riguarda la letteratura, distinguiamo tra bellettristica e poesia di lingua ungherese con tematiche ebraiche (inaugurate a partire dalla fine della prima guerra mondiale) e presenza di autori di orìgine ebraica nella cultura ungherese. Nel primo caso, come nel secondo, la lista di autori è piuttosto lunga. C'è chi ha iniziato l'attività letteraria e pubblicistica in Transilvania, proseguen-dola poi a Budapest (Sándor Bródy, Ernő Szép, Lajos Bíró), chi ha vissuto e descritto la vita culturale di una generazione di scrittori ungheresi, la prima a vivere nella condizione di minoranza nazionale (Ernő Ligeti), chi, come Benő Karácsony, all'anagrafe Dr. Bernát Klàrman, si è limitato a scrivere romanzi divenuti famosi in Ungheria grazie alla loro "transilvanità" e al loro umorismo, sono parole di Ligeti, romanzi che formano parte integrante della letteratura ungherese. Molto forte è la presenza ebraica nella stampa d'Ungheria: Andor Fekete dirige il giornale dei (székely) szekler, da lui fondato a Marosvásárhely ("Székely Napló"), così come József Grünfeld e suo genero Bernát Kahana ave-vano fondato "Brassói Lapok", pubblicato ancora oggi come settimanale.

L'elenco dei giornalisti, pubblicisti, editori ebrei è molto lungo, il loro ruolo spesso molto importante: il più noto rappresentante della cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania è Péter Újvári (1869-1931), autore anche di opere lette-rarie, che dopo una collaborazione alla rivista Új Kelet di Kolozsvár si recò in Slovacchia, dove lavorò presso diverse riviste ebraiche ("Szombat", "Júdea", "Új Judea"), e in seguito curò e pubblicò un imperfetto ma utile Lexicon ebraico. Imre Szabó compie il percorso inverso, dalla Slovacchia a Kolozsvár, dove divie-ne collaboratore di "Új Kelet" e pubblica moltissimi romanzi riguardanti temati-che ebraiche e, dopo la guerra, un Lexicon letterario ungherese a Budapest5.

Una differenziazione "logica", ma la linea di confine anche in questo caso è sottile: numerosi sono infatti gli autori "di mezzo", come Illés Kaczér (1887-1980), autore di romanzi in lingua ungherese, poi inglese, infine ebraica. Ancora più esplicito l'esempio di Sándor Forgács, László Gróf e György Kovács, ottimi attori del Teatro ungherese di Kolozsvár i quali, espulsi dalla compagnia dopo l'introduzione delle leggi razziali nel 1940, sull'esempio degli ebrei di Berlino e di Budapest fondano nella città transilvana un teatro ebraico, presso la "Casa

* Erdély története, III vol., pp. 1510, 1574-1575. 5 Chi desiderasse approfondire l'argomento può leggere la bibliografia delle riviste ebraiche di

lingua ungherese (1847-1954) curata da Sándor Scheiber e pubblicata a Budapest nel 1993.

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degli operai metallurgici", dove per tre anni mettono in scena opere di autori ungheresi ed europei (da Molnár a Ibsen) sotto la direzione di Forgács e poi di Mihály Fekete. La maggior parte degli attori finì nei campi di sterminio. I pittori ebrei transilvani come Móric Barát, Ernő Grünbaum, Leon (Löwinger) Alex, Ernő Tibor, Éva Lázár, Dávid Jándi, József Klein, Alfred Grünfeld, Martin Katz, nove artisti morti in un lager, nelle loro opere rappresentano una Transilvania (Partium incluso, con Nagyvárad) pre-Olocausto, della quale l'ebraismo è un ele-mento talvolta tormentato, ma comunque vivo, pulsante, nella quale si poteva esi-stere, lavorare, dentro-fuori le diverse culture.

L'essenza di una "cultura ebraica di lingua ungherese in Transilvania" si evi-denzia significativamente proprio nel periodo tra le due guerre: il collegarsi alla società magiara, o a una sua parte, considerata liberale, alla sua lingua, alla sua stampa, alla sua letteratura per realizzare ciò che la grande ombra della sinagoga rischiava di soffocare: faccio mia la metafora di un poeta transilvano, Sándor Kanyádi, che definisce le opere letterarie di lingua ebraica i «"funghetti" letterari nati accanto alla sinagoga». Si tratta dunque di entrare nell'altra cultura (che si trasforma nella cultura della "seconda lingua madre") per allargare i confini della propria, trovandovi spazi di espressione originali, peculiari. Ma i confini imper-cettibilmente si spostano, e ci si può ritrovare comodamente nei panni di Benő Karácsony come in quelli di Péter Ujváry. E un fenomeno noto nel centro ed est dell'Europa. Pochi hanno vinto la scommessa, e quei pochi dall'esilio (I. Singer).

7. E esistita in Transilvania anche una letteratura jiddish, i cui rappresentanti erano per la maggior parte di Máramarossziget, dove venivano editi il Jiddischer Zeitung e Jiddisches Blatt, che pubblicavano poesie in jiddish ed ebraico (il più noto fu József Holder, ucciso a Budapest nel 1945) traduzioni di opere ungheresi. La cultura jiddish degli ebrei che abitavano le zone del nord-est dei Carpazi è testimoniata nel volume curato e pubblicato dal poeta ungherese di Kolozsvár Sándor Kányádi: Erdélyi jiddis Népköltészet (Poesia popolare jiddish della Transilvania, Budapest 1989, cfr. recensione p. 122). Il padre di Kányádi parlava jiddish, e, racconta il poeta, è per mantenere fede a una promessa fattagli che ha donato nuova vita alla poesia popolare degli ebrei del Máramaros. Un mondo perduto, salvato sulla carta solo grazie al materiale pazientemente raccolto nel 1938 dal Bartók della cultura jiddish, Max Eisikovits, restituitoci da Kányádi in un ungherese che ne conserva la musicalità. Ed è la musica, insieme alla danza, la chiave che apre il cuore di questo mondo. La parola d'ordine è: sincretismo. Il folclore ebraico della regione transilvana del Máramaros, nella sua musica popo-lare vocale, crea da quegli elementi linguistico-musicali che più gli sono vicini (ungherese, romeno, slavo) una sua peculiare variante, caratterizzata da ritmi e motivi melodici "prestati", che dà vita a nuove forme, ma nel ritmo periodico, nelle caratteristiche dinamiche possiamo ritrovare i caratteri del canto religioso.

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MARIA TERESA CINANNI

L ' E S P E R I E N Z A D E L LAGER IN A L C U N I S C R I T T O R I E B R E I E U R O P E I

Il presente saggio ' si propone di analizzare, attraverso la vita e le opere di quat-tro scrittori apparentemente molto differenti tra loro, la caducità del concetto di "diverso" ed il suo superamento attraverso la cultura, unanimamente considerata dagli autori citati come liberatrice e riscattatrice, come unica possibilità di infran-gere qualsiasi barriera o confine, come efficace strumento di riscatto, che ha per-messo loro di resistere e superare l'angustia del filo spinato dal quale erano cir-condati, testimoniando all'esterno ciò che doveva essere taciuto, informando colo-ro che ignoravano o fingevano di ignorare la tragica realtà dei campi di sterminio.

Roth, Levi, Améry e Radnóti, un italiano, due tedeschi apolidi, un ungherese, hanno in comune due esperienze fondamentali, strettamente collegate tra loro ed ampiamente documentate nella tesi: l'appartenenza all'ebraismo, inteso non come credo fideistico, bensì come marchio imposto loro dalla società e la tragica espe-rienza del nazismo, preannunciato da Roth con la descrizione della confusione poli-tica degli anni pre-bellici, vissuto nel peggiore dei modi dagli altri tre, prigionieri nei lager nazisti. Ciò che emerge palesemente dalle loro dichiarazioni e dagli scritti è un ebraismo anomalo, particolare, vissuto come "puro fatto culturale", una reli-gione come "fardello e sostegno", a cui nessuno dei quattro sembrava aver mai badato prima dell'avvento del nazismo, che li bollò come vittime, come diversi, provocando per reazione la loro orgogliosa rivendicazione ed alimentando una ricerca ed una difesa costante delle proprie radici. Basti pensare a Primo Levi, che cresciuto in una realtà ebraica molto blanda e fortemente assimilazionistica, quale era quella italiana, divenne dopo la prigionia uno dei maggiori studiosi ed uno dei più importanti testimoni della cultura ebraica, radicata in lui più di quanto egli stes-so volesse ammettere. La conferma più evidente di ciò è il costante bisogno di testi-monianza, valore fondamentale del popolo giudaico ed avvio della scrittura leviana, che nella sua concreta precisione riflette un'ulteriore caratteristica della cultura yid-dish, con la quale venne a contatto proprio nel campo di concentramento.

L'intervista rilasciata da Levi a Giorgio De Rienzo, per "Famiglia Cristiana", conferma quanto detto:

Tratto dal libro Testimoni di voci sommerse. L'esperienza del nazismo in alcuni scrittori ebrei europei: J. Roth, P. Levi, J. Améry, M. Radnóti, testo in cui vengono messe in evidenza le analogie e le discordanze biografiche e letterarie di quattro grandi scrittori europei, vittime della barbarie nazi-sta e i suoi fondamentali testimoni. Cfr. Recensioni, p. 133.

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Sono diventato ebreo in Auschwitz, prima non mi sentivo tale. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata imposta. Qualcuno stabilì che ero diverso ed inferiore: per naturale reazione io mi sentii in quegli anni diverso e superiore... Auschwitz mi ha però dato qualcosa, che è rimasto. Facendomi sentire ebreo mi ha sollecita-to a recuperare, dopo, un patrimonio culturale che prima non possedevo.

A questa affermazione sembrano fare eco le parole di Améry, il quale, descri-vendo l'impossibilità e contemporaneamente l'obbligo di essere ebreo, esternò la sua totale incomprensione, il suo smarrimento dinanzi ai repentini mutamenti veri-ficatesi dopo la promulgazione delle leggi di Norimberga, che conobbe casualmen-te sfogliando un giornale in un caffè di Vienna. L'intransigente rigorismo del filo-sofo tedesco, però, trasformò la maschera impostagli in fonte di alienazione ed estraneità, originando perciò degli esiti molto diversi dalla scrittura di Levi, al quale lo accomuna lo stupore iniziale, la prigionia ad Auschwitz e l'appartenenza al ramo sefardita dell'ebraismo. Améry, infatti, non accettò mai l'etichetta di ebreo, che per lui significò soltanto mortificazione, tortura ed al massimo solidarietà con le nume-rose vittime dei campi nazisti. Non è possibile, egli sosteneva, riconoscere come propria una cultura che non ha fatto parte della nostra infanzia e perciò inveì sem-pre contro tale imposizione esterna, cercando la sua verità con un razionalismo estremo, che lo portò alle soglie del puro nulla ed alla morte. Nonostante tale scetti-co rigorismo, anche Améry, come già Levi, dichiarò grande ammirazione per i compagni religiosi, in quanto, egli scrisse, la fede aveva costituito nel lager un pre-zioso sostegno spirituale ed attribuito un senso ai sacrifici imposti.

Singolare appare anche la posizione di Roth e Radnóti, rappresentanti entram-bi del filone ashkenazita dell'ebraismo, quello più autentico e tradizionale, pro-prio dei paesi orientali, ove l'antisemitismo diffuso ed i continui attacchi del regi-me zarista avevano indotto gli ebrei ad isolarsi territorialmente e a mantenere così inalterate le loro tradizioni millenarie.

Roth, che delle problematiche ebraiche orientali è uno dei massimi esponenti, non ebbe una visione religiosa della vita, il suo essere ebreo si rivelò soprattutto nella smaniosa ricerca di pace interiore e sicurezza, sicurezza che sentiva sempre più lontana da sé, confinata nel suo shtetl, nella cittadina di Brody, ove nacque. E allo shtetl orientale Roth impresse un significato mitico, poiché esso divenne la rappresentazione dei valori umani autentici, la proiezione di ataviche certezze, infrantesi nel brusco impatto con il mondo a lui contemporaneo. Per l'autore lo shtetl fu dunque la casa, il porto, l'infanzia, un mezzo per contrastare la storia, «un'alternativa — scrive C. Magris — meramente ipotetica ed utopica, al disagio della società occidentale nella quale si trovava costretto a vivere». Il ritorno ad esso, pur se sospirato, era impossibile ed ai suoi personaggi non rimane che lo sradicamento in una società spersonalizzante ed estranea. La concezione ebraica di Roth ed il notevole influsso sul suo pensiero politico occupa molte pagine della tesi, ove viene costantemente evidenziata anche la precarietà della fede di questo scrittore, che approdò, come Radnóti, al cattolicesimo, per lenire la sua bramosia di infinito e spiritualità. In entrambi i casi, però la conversione si rivelò

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un palliativo transitorio e vanificò le loro aspettative. Roth trovò la sua ancora di salvezza dapprima nell'ironia e dopo nel regresso in un mondo mitico, preceden-te la creazione, il poeta ungherese invece fece della poesia il suo rifugio ed il suo strumento di lotta e di riscatto.

Ciò che colpisce in questi autori è la dichiarazione costante di non-ebreo e, contemporaneamente, il loro volere o dovere assolutamente appartenere a tale cultura, senza rinnegare le sue tradizioni, anzi sforzandosi nel descriverle o nel confutarle e, quindi, nel perpetuarle. Tutto questo non è, però, contraddittorio come potrebbe sembrare, è piuttosto una dichiarazione unanime di libertà, un voler gettare la maschera che la società nazista ha imposto loro, una difesa ad oltranza di questo popolo errabondo non in virtù dei suoi dogmi, bensì della sua umanità. Infatti, se in Roth, Levi, Améry e Radnóti vi è qualcosa di completa-mente identico, questo è proprio il desiderio di libertà, la possibilità di esprimere la propria soggettività, senza dover rendere conto a nessuno oltre se stessi, senza il timore di attendere un'assoluzione o una condanna, una libertà incondizionata, dunque, ove ognuno è giudice di se stesso, responsabile delle proprie azioni, di cui egli soltanto è l'esecutore ed il garante.

In una società dominata dall'automatismo più intransigente ed inconfutabile, gli autori considerati levarono la loro voce di protesta al sistema e di inno alla libertà ed alla diversità soggettiva, come fonte di vita e di continuità. Le utopiche evasioni di Roth in un mondo remoto ed inesistente, le lucide testimonianze di Levi, l'affannosa, intransigente quanto vana ricerca della verità di Améry, l'aneli-to costante e rabbioso di libertà del prigioniero Radnóti non sono che manifesta-zioni soggettive di un comune desiderio di pace e di un medesimo intento di denuncia delle aberrazioni naziste, alle quali, loro malgrado, erano costretti a soggiacere. Al di là delle diversità individuali, esiste nelle loro opere un senso di identità comune, un "noi" forte, fondato su immagini, stati d'animo, interpreta-zioni, da cui emerge una medesima concezione della testimonianza, intesa quale impegno morale capace di far superare i costi emotivi del ricordo e come trasmis-sione di messaggi importanti, ai quali non ci si può sottrarre. I quattro scrittori considerati trovarono tutti nella scrittura, dunque, una possibilità di riscatto ed evasione dalla tetra realtà contingente, condannando attraverso le opere qualsiasi forma di settorialità e facendo emergere un concetto di letteratura intesa come vita e come interpretazione dei bisogni umani autentici.

Credo poetico in Miklós Radnóti

Proprio il concetto di letteratura come vita e come simbolo estremo di libertà emerge dai versi di Radnóti, il poeta magiaro che ha lasciato ai posteri una testi-monianza indelebile sulla prigionia dei campi di concentramento e, allo stesso tempo, sul pregnante valore della poesia e della forza di volontà.

Radnóti nacque a Budapest nel 1909, da una famiglia ebraica. Alla sua nascita perse la madre ed il fratello gemello e, pochi anni dopo, anche il padre, rimanen-

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do così sotto la tutela di un certo Glatter, che gli diede il cognome tedesco, con cui risultò iscritto alle scuole di Budapest. Solamente grazie all'aiuto di alcuni parenti riuscì a concludere gli studi e ad iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Szeged, ove si laureò. Ebbe sempre, infatti, una vita durissima, sia a causa delle ristrettezze economiche, sia per il particolare periodo storico in cui visse, periodo che con i suoi ordini imperanti ed i suoi folli divieti, condizionò notevolmente la vita del poeta e limitò la divulgazione delle sue opere, troppo offensive e ribelli per la selettiva censura fascista. La sua poesia, infatti, fu poco conosciuta ed apprezzata dai contemporanei e giustamente rivalutata dai posteri, che, nella testimonianza oltre la vita del poeta, hanno individuato un esempio eccelso di libertà ed indipendenza, tanto che, sostiene Tibor Melczer, potrebbero essere attribuite alla poesia radnotiana le parole che egli stesso pronunciò in occasione della morte del poeta Attila József:

Dopo la morte dell'uomo ricco, ci resta una grande eredità. Il lascito del poeta non è che qualche poesia postuma, ancora non pubblicata... Ma la vera eredità è la sua opera, che diventa il vero tesoro della sua nazione. I poeti sprecano la loro vita e i contemporanei non li capiscono. Ma verranno nuovi tempi e nuove generazioni che custodiranno ed apprezzeranno questa ricca eredità1.

E il tempo gli diede ragione, poiché poco dopo la sua morte, alla fine della seconda guerra mondiale, egli fu l'unico ad essere citato come poeta classico nazionale, all'interno dz\Y Antologia degli scrittori martiri ungheresi, nell'ambito della quale i versi di Radnóti furono considerati come poesia ampiamente euro-pea e non pura cronaca concetrazionaria magiara.

Considero superfluo dilungarmi oltre sulle notizie biografiche di quest'autore, che i saggi di G. Tolnay e L. Pálinkás ed i più recenti di T. Melczer e P. Sárközy recensiscono brillantemente, rendendo accessibili i suoi versi anche al pubblico italiano e ritengo più opportuno, invece, nell'ambito di questo breve scritto, sof-fermarmi sul dichiarato anti-nazismo di Radnóti, sul suo orgoglio poetico e sulla particolare coscienza religiosa, caratterizzata da un bramoso e costante anelito verso il cielo e dalla conseguente impossibilità di raggiungerlo, dalla spasmodica ricerca di Dio e dalla constatazione della sua inesistenza. Una fede conflittuale, dunque, che non gli permise di raggiungere mai quel porto sicuro al quale anela-va, relegandolo nel limbo di una mistica incertezza che, nonostante gli sforzi effettuati ed i voluti cambiamenti, lo accompagnò tutta la vita.

Sebbene fosse di origine ebraica, Radnóti non possedette mai una radicata coscienza religiosa, ebbe semmai un afflato possente ed un intenso timore reve-renziale, che lo portò sia a cercare costantemente un Dio nel quale realmente non credeva, sia a formulare delle vere e proprie invettive contro di Lui, per aver per-messo all'ingiustizia di regnare sovrana nel mondo.

Tale atteggiamento trova la sua massima conferma e concretizzazione nelle

1 T. Melczer, "Miklós Radnóti, una testimonianza dal lager", in Italia e Ungheria (1920-1960), F. Guida - R. Tolomeo, Ed. Periferia, Cosenza 1991, p. 215.

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poesie dell 'autore, ove appaiono indistintamente i nomi di Maria, Giovan Battista, Giacobbe, Isacco e Juppiter, simboli tutti di un'esistenza noumenica confinata in un mondo di pace, immemore delle sofferenze umane, alle quali, invece, Radnóti rivolse la sua attenzione di uomo e di poeta. Ciò che maggior-mente lo interessava, infatti, era la libertà dell'uomo, il trionfo dell'ipseità sog-gettiva e la possibilità di esprimere senza remora alcuna, la propria nazionalità, a cui fu sempre fortemente legato sia affettivamente che culturalmente.

Il suo ebraismo, come quello di molti scrittori ed intellettuali del periodo, fu, dunque, solamente anagrafico, un'appartenenza puramente nominalistica, che si trasformò in pesante fardello dopo la proclamazione delle leggi antisemite, a causa delle quali egli non potè prestare servizio nell'esercito regolare, fino a sconfinare in sadica tragedia quando fu costretto a recarsi nei cosiddetti reparti di lavoro ed obbligato a marchiare il suo braccio con la Stella di Davide, che rifiutò sempre di portare, a costo di non dover mettere più piede fuori casa.

Tutto ciò generò in Radnóti un profondo senso di angoscia ed una rabbia costante, che lo fecero vivere con la continua paura della morte, intesa non in senso decadente o piccolo-borghese, bensì come consapevolezza della precarietà e dell'incertezza a cui soggiacevano in quegli anni tutti gli uomini e gli ebrei in particolare.

Dinanzi alla furia che imperversava nel mondo, Radnóti continuò a difendere senza sosta la sua nazionalità ed il suo ebraismo, non perché ci credesse veramente, bensì perché vide in esso il simbolo dell'emarginazione sociale, contro cui lottare per ottenere la vera indipendenza di tutti gli uomini e per garantire l'assoluta auto-nomia della letteratura e della poesia, che considerò sempre come concretizzazione assoluta di una verità, bandita oltre ogni confine temporale e spaziale. Scrivere significò per Radnóti, ribellarsi contro ogni limitazione imposta dall'uomo ad altri uomini, riacquistare la propria individualità, seriamente minacciata dal regime fascista, testimoniare al mondo ciò che esso fingeva o volutamente cercava di igno-rare. Furono soprattutto tali motivi che lo spinsero alla poesia, con la radicata con-vinzione che la sua identità non poteva essere stabilita da altri, fossero questi gli uomini delle SS o Hitler in persona, certo che nemmeno la morte, con la quale sentì sempre di convivere, avrebbe piegato o semplicemente alterato le sue idee. È alta-mente esplicativo a riguardo il frammento di una sua lettera, annotata in un diario:

Sono un poeta ungherese... quando sto guardando i miei volumi di poeti unghe-resi la mia nazione non urla giù dallo scaffale, avanti, marsch sporco ebreo. Si aprono davanti a me i paesaggi della mia patria, il cespuglio non mi lacera più di quanto non farebbe a un altro, l'albero non si mette in punta di piedi, per impedirmi di cogliere i suoi frutti. Se così fosse, mi ucciderei, perché non so vivere diversamente da come vivo, né credere ad altro o pensare in modo diver-so. È questo che provo ancora oggi, nel 1942, anche dopo tre mesi di lavori for-zati e due settimane di campo di punizione... E se mi uccidono? Neanche que-sto servirà a cambiare nulla2. 2 M. Radnóti, "Diario" in T. Melczer, op. cit., p. 211.

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La scrittura fu per il poeta magiaro la proiezione esteriore della propria volontà, la manifestazione tangibile e concreta della propria esistenza, la certezza dell'immortalità dell'uomo, intesa non in senso religioso, bensì come eternità della poesia e dell'arte, che sempre sopravvivono ai propri autori, immortalando nei secoli il loro pensiero. I versi della poesia Come un toro, composta nel 1933, costituiscono una tenace conferma dell'atteggiamento descritto:

Così ho vissuto finora; come un giovane toro che si annoia nel caldo mezzogiorno fra vacche pregne, correndo intorno per dire il suo potere, e, nel giuoco, scuote uno schiumante vessillo di saliva; e muove il capo, e gira con la tagliente densa aria sulle corna; [.»]

E vivo tuttora come un toro, ma come un toro che a un tratto si è bloccato coi grilli, in mezzo al prato, e annusa l'aria iS Il toro non fugge come il cervo, e pensa che quando verrà il suo tempo lotterà e cadrà, e le sue ossa saranno sparse dall'orda ai quattro venti, e muggisce mesto dentro l'aria.

Anch'io così combatterò quando sarà il mio tempo, e cadrò. Ma conserverà la terra le mie ossa per ammonire le età future3.

La stessa irruenza e lo stesso amore per la verità che emergono da questi versi, lo spinsero a poetare anche all'interno del filo spinato, affinché il mondo intero avesse potuto conoscere ciò che aveva visto e subito nell'universo sovver-tito e mortale del lager, affinché ai posteri non venisse taciuta la degradazione biologica a cui era sottoposto ogni prigioniero dei campi nazisti. Scrisse, quindi, senza sosta, scrisse di lui, dei compagni moribondi, del lager, di un'umanità morente e colpevole in preda a vuote ideologie senza ideali, con la speranza di un domani diverso ed il desiderio che nessuna morte fosse vanificata e nessuna lotta per la vita resa inutile. Compose i suoi versi, facendo emergere una nuda e dram-matica descrizione della realtà, privata di qualsiasi orpello falsificante e delineata

3 M. Radnóti, "Come un toro" in Poesie, traduzione italiana di Bruna dell'Agnese, in preparazione.

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con la spietata consapevolezza di chi sa e vuol far sapere, con l'angoscia e la paura di chi, suo malgrado, è protagonista di eventi e situazioni difficilmente cre-dibili nella loro assurdità. Da tale timore ebbe origine il monito rivolto all'uma-nità, con cui Radnóti concluse la poesia Dunque non hanno sopportato più, ove si legge:

Sta' attento, osserva bene il tuo mondo, questo era il tuo passato, questo il tuo feroce presente-portale nel tuo cuore. Vivilo tutto, questo pessimo mondo e sappi sempre che cosa devi fare per lui, perché sia differente4.

Questi versi sono simili all'ammonimento espresso da Primo Levi nella pre-fazione di Se questo è un uomo, le cui finalità, nonostante le notevoli diversità umane ed artistiche, non differiscono molto dalle intenzioni radnotiane, visto che entrambi gli autori concepirono la scrittura come una missione profetica e, allo stesso tempo, come l'unica ancora di salvezza a cui aggrapparsi. Credo sia opportuno evidenziare, inoltre, in tale accostamento autoriale, la comune e parti-colare appartenenza all'ebraismo, che per entrambi non significò cieca fede nel Dio di Israele, ma bisogno di riscatto e solidarietà con le innumerevoli sofferen-ze di un popolo da sempre costretto alla fuga. Sia Levi che Radnóti, dunque, sebbene scettici nei confronti del mondo trascendente, divennero portavoce involontari dei due valori più importanti per gli ebrei della diaspora: la testimo-nianza e la memoria.

Testimoniare fu, infatti, per Radnóti il primo avvio alla scrittura, perché i posteri non dimenticassero, perché il tempo e la lontananza non sbiadissero in lui i vivi ricordi dell'ameno paesaggio ungherese, perché la naturale alterazione mnemonica non inficiasse la veridicità dei ricordi di quanti sarebbero sopravvis-suti a quell'ignomia.

Il parallelismo con Primo Levi trova una sua ulteriore conferma nella quarta Razglednice, nata da un tragico episodio di percorso: la fucilazione da parte delle SS di un compagno che aveva rifiutato di abbandonare il suo violino. Lo stru-mento musicale, presente sia nella poesia di Radnóti che nei romanzi di Levi, assurge a metafora delle sofferenze patite durante la deportazione, esso simboleg-gia il lamento stesso dei prigionieri e, per tal motivo, non può essere scisso da loro, la separazione è sinonimo di perdita di se stessi e, dunque, di morte. Tale episodio ebbe per Radnóti un'importanza fondamentale, non solo come testimo-nianza della sadica follia del gesto, ma soprattutto perché «rappresentò l'insegna-mento che gli indicava il suo destino e la parabola del canto del cigno del poeta, che continua a creare fino alla fine»5.

4 M. Radnóti, Dunque non hanno sopportato più in Ero fiore sono diventato radice, Fahrenheit 451, Roma 1995, p. 111.

5 T. Melczer, op. cit., p. 214.

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Non ebbe, come si è detto, una visione trascendente della vita, né una salda fede religiosa, eppure "il suo canto ha risonanze bibliche nel vigore dell'anate-ma"6 ed i suoi versi risentono del carisma lungimirante dei profeti, in nome di un'assoluta fiducia nell'arte e, nonostante tutto, nelle capacità umane. Nell'arte, perché questa rappresentò per lui YHeimat più sicura ove rifugiarsi per poter libe-ramente denunciare le ingiustizie e, allo stesso tempo, sfuggire la triste realtà contingente, nell'uomo, perché dietro nomi e situazioni diversi, la storia dell'uo-mo è l'indiscussa protagonista di tutti i suoi scritti, ove la libertà interiore è sem-pre rabbiosamente ricercata e difesa.

Con lo stesso amore, con la stessa rabbia verso il mondo di un profeta, conse-gnò ai posteri un messaggio di lacerante bellezza, auspicando tempi più felici per il futuro, visto che per se stesso aveva oramai perduto ogni speranza, si sentiva costantemente in balia della morte e credeva che l'unico compito rimastogli fosse, appunto, la testimonianza poetica. Sapeva di dover morire, in Su, cammina, condannato a morte, presagì la sua fine con dieci anni di anticipo, ma non si ras-segnò, non si tolse la vita come Attila József, continuò a reagire alla follia del mondo con la stessa disperata veemenza del profeta Giona, protagonista dell'o-monimo libro di Babits, al quale Radnóti si accostò soprattutto per la presenza delle stesse figure di profeti, attinti dal mondo biblico della vendetta e della lotta. Appaiono, infatti, nei versi radnotiani i nomi di Habacuc, Nahum ed Isaia, la cui maledizione, si legge in Frammento, sembrava nuovamente necessaria per svelle-re dalle radici il male del mondo:

... Su questa terra ho vissuto in un'epoca in cui taceva anche il poeta aspettando di poter parlare ancora, forse perché nessuno qui degnamente potrebbe maledire se non il saggio dalla terribile parola, Isaia7.

Se costanti rimasero i suoi interessi di uomo e di poeta, diverso fu lo stile che adottò; i suoi primi versi, infatti, sono caratterizzati dalla ribellione e dall'invetti-va assidua contro il nazismo, espresse attraverso virtuosismi formali, immagini surreali, slogan politici dell'estrema sinistra socialista, nella cui ideologia vide in quel tempo confermato il suo credo, i successivi, invece, risentono di un modus scribendi più pacato e classico, derivato dalla scoperta della poesia virgiliana e dai cambiamenti storico-politici. L'incalzare del pensiero fascista, infatti, la limi-tazione della libertà e la falsità di intenti celata dietro le ideologie politiche, lo indussero a mutare il suo atteggiamento verso la vita e la poesia, della quale si servì non più come strumento reazionario di ribellione, bensì come rifugio appar-tato, da dove la sua voce potesse librarsi a cantare gli eterni ideali di pace, bellez-

6 N. Risi, "Introduzione" in Ora la morte è un fiore di pazienza, M. Radnóti, tr. it., L'Europa Letteraria, 1964, p. 4.

7 M. Radnóti, Frammento in Ero fiore..., cit., p. 75.

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za e razionalità in un mondo dominato dalla follia. Edificò perciò la sua oasi nel mondo remoto dell'antica Roma, decidendo di modulare i propri versi sulla ritmi-cità dell'esametro latino, rinnovando così il genere dell'ecloga classica, che assurse ad Heimat artistica, vagheggiata ma impossibile da ripristinare, se non nell'aspetto formale.

La sua grandezza si esplicò proprio in questa commistione di sentimenti ango-scianti e moderni, espressi nella serenità metrica dell'esametro, i cui versi costi-tuirono per lui la sola arma efficace contro "un mondo che uccide gli innocenti".

Nonostante temesse che i suoi esametri non fossero compresi in patria, riuscì a comporre anche nel lager tenere liriche per la moglie lontana e brevi idilli pae-saggistici e nostalgici che, per brevi istanti, lo allontanarono dalla realtà del filo spinato, immergendolo nel clima sicuro della sua Ungheria. Espresse la dolcezza e la crudeltà del sogno nella settima ecloga, che è caratterizzata da una lunga e costante alternanza di utopiche evasioni e consapevoli realtà, da un bivalente contrasto di illusioni e delusioni, da un primo sguardo che si libra nell'infinito aldilà del filo ed un secondo che lo riporta nel tetro orizzonte contingente. Così recitano i versi iniziali della settima ecloga, considerata un capolavoro della poe-sia d'amore magiara e, contemporaneamente, una delle migliori "rivelazioni sulla vita in prigionia":

Vedi, sta imbrunendo, e la sera già assorbe il rozzo steccato di quercia recintato di ferro con le spine e la svolazzante baracca. Lento lo sguardo lascia il quadro della prigionia e solo la mente conosce la tensione di quel filo. Vedi, cara, qui l'immaginazione, anche lei, solo in questo modo si libera, il sogno, il bel liberatore, così scioglie il nostro corpo martirizzato, e allora tutto il campo dei prigionieri s'incammina verso casa. Straccioni, rapati, russando volano via i prigionieri, dalla cieca cima di Serbia verso le discrete contrade di casa. Appartate contrade: esistono ancora quelle case?8.

L'evoluzione sintattico-formale dei suoi libri rappresenta la storia della sua vita, la proiezione esteriore dei mutamenti intimi, l'alternanza di stile avanguardi-stico e genere bucolico-pastorale, infatti, potrebbe apparire discordante, qualora non si interpretasse come il risultato dell'insofferenza e della ribellione del poeta verso quel mondo in cui fu costretto a vivere.

Nei componimenti "futuristi", Radnóti lasciò intravedere una tendenza alla classicità, nei versi pastorali si nota l'intromissione di motivi attinti dalla realtà bellica, nelle crude poesie del lager è presente un'insolita bramosia d'amore e d'infinito, che trascende la gretta materialità contingente. Non fu confusione o inesperienza la sua, bensì illimitata fiducia nell'opera d'arte che, indipendente-

8 M. Radnóti, Settima Ecloga in Scritto verso la morte, traduzione di Gianni Toti, Caltanissetta -Roma. 1964, p. 68.

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mente dal tempo e dallo stile, ha il potere di gridare le sue verità, anche ove regnano sovrane la violenza, la falsità e la menzogna ed è in grado di sancire la purezza di cuore anche tra uomini assetati di sangue e potere. Concepì dunque la poesia come scevra da ogni vincolo o limitazione, pura espressione dei sentimen-ti umani e si prodigò tutta la vita nell'attuare quello in cui credeva, con la stessa devozione tributata da un fedele sincero al proprio Dio. Fu proprio, infatti, la fede smisurata nella verità poetica che gli impedì di fuggire dall'Ungheria, poiché ciò avrebbe significato tradire la sua missione, celare alle generazioni future il suo dramma e quello della sua patria. Sono altamente esplicative a riguardo le parole di L. Pálinkás:

La sorte gli aveva riservato la parte di un diseredato, di un perseguitato, di un poeta costretto al silenzio: egli non accettò questa parte, non proruppe in grida di dolore, diventò l'ardito testimone del vero, ritrovò la voce dei poeti giusti, quell'elevatezza e quella forza che sono proprie dei profeti o dei martiri9.

Negli orrori del periodo bellico, Radnóti si rifugiò nell'arte, per poter conti-nuare a proclamare i grandi ideali dell'uomo di ogni tempo, per raggiungere idealmente la serenità del focolare domestico, a cui auspicava, per dimostrare a se stesso ed al mondo di essere ancora libero, nonostante le limitazioni ed i divie-ti del regime. Per tal motivo, non soggiacque mai ai compromessi ed alle minac-ce, né sottomise i suoi versi alle mode poetiche poco consone alla sua natura. Infatti, pur essendo un discepolo di Kassák e di Gyula Illyés, inveì contro i vir-tuosismi formali della generazione del "Nyugat", subordinando le immagini, i colori, le metafore delle sue poesie, all'organizzazione strutturale, all'architettura ed al disegno, desideroso di esternare al mondo la sua rabbia ed il suo dolore più che presentare una veste formale stilisticamente perfetta. Come tutti i veri poeti, Radnóti fu un ribelle, un rivoluzionario, un uomo dalla sensibilità eccelsa che non avrebbe mai accettato di rimanere inerte dinanzi allo sgretolamento di ogni valore umano, dinanzi allo svuotamento di senso e significato che il nazismo stava causando. Perciò si rifugiò nella poesia, che assurse per lui a vera fede, a significativa esperienza religiosa, in quanto gli permise di osservare il mondo, comunicare con esso, senza dover sottostare alla sua assurdità. Proprio in tale periodo di angosce e di lacerante insicurezza, il poeta ungherese conobbe anche la crisi religiosa, credette di trovare nel cattolicesimo al quale era legato da pura tradizione culturale, una soluzione ai suoi drammi, una sofferta via d'uscita, ma, in realtà, anche questo tentativo dimostrò successivamente la sua effimerità.

Avendo vissuto l'ebraismo non come comunione di idee e mistica partecipa-zione, bensì solo come appartenenza anagrafica e causa di oppressione, intravide nel cattolicesimo una possibilità di riscatto e soluzione ai suoi dissidi. Il cammino che lo portò a tale decisione fu sinceramente meditato e privo di finalità recondi-te, ma deluse le aspettative del poeta, il quale, forse, rivendicava più una propria

9 L. Pálinkás - U. Albini, Poesie scelte di M. Radnóti, Il Melagrano, Roma 1958, p. 12.

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stabilità, alla ricerca di una pienezza della personalità in una dimensione eterna al di fuori della storia, che non la certezza dell'esistenza di Dio. La sua fu una con-versione temporalmente breve, ma culturalmente intensa, visto che il cattolicesi-mo, insieme all'angoscia per la realtà bellica e all'amore per la moglie, assurse a motivo dominante nell'ultimo libro, quello stilisticamente più maturo e completo.

Più che di credo religioso, per Radnóti è opportuno parlare di problematicità spirituale, di ardente bramosia d'infinito e cocente constatazione di immanente e gretta contingenza, di esaurimento della fede ed anelito fideistico, di consapevo-lezza della presenza di un Fato, non più trascendente, ma terreno, gestore indi-scusso della vita umana. Radnóti cercò, dunque, nel mondo iperuranio la soluzio-ne dei suoi affanni, ma quel mondo gli apparve popolato da Dei lontani ed indif-ferenti al dolore degli uomini, ai quali era negato l'accesso. Preferì rifugiarsi nel-l'arte poiché aveva compreso che era impossibile stabilire un nesso dialettico fra la Legge divina e la Storia umana, l'una escludeva l'altra, senza alcuna soluzione di continuità.

Radnóti, ebreo per nascita e formazione, cattolico per "disperazione", scettico e ribelle verso il mondo e la politica a lui contemporanea, trovò la sua unica pos-sibilità di riscatto nel culto della poesia; una poesia ribelle e pacata, reale ed uto-pica, ambientata in un mondo trascendente popolato da uomini, con le qualità ed i difetti, le ingenuità e le debolezze proprie dell'uomo di tutti i tempi, poiché, al di là dei versi concetrazionari, emergono nei componimenti radnotiani degli ideali immutabili ed eterni, che sottraggono il poeta a qualsiasi etichetta riduttiva e con-tribuiscono a collocarlo su un piano astorico ed universale.

Scrisse giustamente di lui, Gábor Tolnai:

L'unica preghiera che Radnóti pronunciò nella sua poesia fu la preghiera rivol-ta verso il futuro, ai discendenti del dolore... Soltanto la verità della poesia, anche davanti alla morte, sembra ormai la sua sola preoccupazione: consegna-re un messaggio di dolorosa rastremata bellezza al futuro... non desiderava oramai altra cosa che di consegnare ai superstiti la sua poesia. Lo ha fatto10.

Proprio in virtù di questa totale dedizione all'arte, scrisse fino alla morte, lasciando ai posteri una grande e tragica testimonianza anche dei suoi ultimi gior-ni di prigionia, mirabilmente descritti nelle poesie che compongono la raccolta de Il taccuino di Bor, ritrovato nella fossa comune di Abda, accanto al suo cadavere. Questi versi, la cui prefazione era stata scritta in cinque lingue, simboleggiano la straordinaria forza di volontà e l'ultimo atto di libertà di un uomo morente, che riuscì a superare il reticolato del campo, librandosi in volo sulle ali della poesia.

10 G. Tolnay, "Introduzione" in Scritto verso..., cit., p. 22.

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DOCUMENTI

Bibliografia per lo studio sugli Ebrei in Ungheria

Main works (monographs, document-collections and revues) about the history of the Jews in Hungary:

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RASSEGNE

PÉTER SÁRKÖZY

A N T O L O G I A D I P O E T I U N G H E R E S I D I S E T T E S E C O L I *

Gli inizi della diffusione e della "fortuna" della letteratura ungherese in Italia sono strettamente legati alla città di Fiume, dove già negli anni Venti del secolo XIX la cultura e la civiltà ungherese venivano insegnate regolarmente agli stu-denti italiani della città, i cui abitanti ancora nel 1778 avevano chiesto e ottenuto il privilegio di appartenere direttamente al Regno d'Ungheria (invece che alla Croazia), come "Corpus Separatum della Sacra Corona Ungarica". Nelle scuole elementari, medie e superiori della città liburniana venne dunque regolarmente svolto nel corso dell'Ottocento — a eccezione di alcuni brevi periodi di domina-zione militare francese (1799-1809) e croata (1848-1868) — e sino al termine della prima guerra mondiale l'insegnamento della lingua e letteratura ungherese in lingua italiana. Fu per facilitare l'insegnamento e divulgare la letteratura ungherese tra gli italiani che vennero pubblicate le prime antologie letterarie ungheresi in italiano, per esempio il Breve prospetto della letteratura ungarica del XIX secolo di Ferenc Császár (1833), uno dei primi professori del Liceo-gin-nasio di Fiume dal 1830 al 1840, in seguito grande divulgatore della letteratura italiana in Ungheria.

La convivenza e talora addirittura la simbiosi tra la cultura italiana e quella ungherese a Fiume determinò la formazione dei primi "italianisti ungheresi", come Pietro e Luigi Zambra, e di una grande generazione di traduttori della lette-ratura ungherese in lingua italiana, così Silvino Gigante, Mario Brelich, Ignazio Balla, Francesco e Gino Sirola, Silvia e Luigi Rheo, Antonio Widmar, Nelly Vucetich fino a Paolo Santarcangeli, i quali consacrarono la loro vita alla diffusio-ne della poesia e della narrativa ungherese in Italia. Grazie alle loro traduzioni la letteratura ungherese riuscì a conquistare il pubblico italiano tanto che, tra le due guerre mondiali, essa divenne estremamente conosciuta, sia pure grazie in primis alla grande fortuna degli autori di letteratura di intrattenimento, come Ferenc Körmendi e Lajos Zilahy e del teatro borghese di Ferenc Molnár, autore del romanzo I ragazzi della via Pál Uno dei segreti di questa grande popolarità della letteratura ungherese in Italia consiste nel fatto che la maggioranza di tali tradutto-ri erano bilingui e conoscevano profondamente entrambe le culture: grazie perciò alla perfetta padronanza della lingua e, a un tempo, della cultura ungherese, essi seppero interpretare in buon italiano le opere degli autori che traducevano.

Prefazione all'Antologia bilingue A more e Libertà, Lithos, Roma 1997.

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La presenza delle opere letterarie ungheresi sul mercato librario italiano venne cancellata dalla seconda guerra mondiale e dalla guerra fredda degli anni Cinquanta. E solo dopo dieci anni di disinteresse quasi totale, gli editori italiani mostrarono rinnovata attenzione nei confronti della cultura dell'Ungheria in seguito alla gloriosa rivoluzione dell'Ottobre ungherese. È possibile infatti affer-mare che proprio la grande popolarità della rivoluzione ungherese del '56 favorì la riscoperta della letteratura ungherese tanto in Italia quanto in altri paesi dell'Europa occidentale. Accanto a opere sulla rivoluzione e sulla rivolta degli intellettuali ungheresi vennero pubblicate, una dopo l'altra, anche svariate antolo-gie poetiche. A sette anni di distanza dall'ultima edizione della sua antologia CLirici ungheresi, Vallecchi, Firenze 1950), Folco Tempesti riuscì infatti nel 1957 a dare alle stampe il volume Le più belle pagine della letteratura ungherese (La Nuova Accademia, Milano, pp. 315). Nel 1959 uscirono per i tipi delle Edizioni Avanti! di Milano le traduzioni di Marinka Dallos e di Gianni Toti, di poesie di Petőfi, Ady, József (Poeti ungheresi, pp. 188), nel 1960 Mario de Micheli ed Eva Rossi pubblicarono l 'antologia Poesia ungherese del Novecento (Schwarz, Milano, pp. 311), mentre risale al 1962 l'edizione delle traduzioni di poeti unghe-resi moderni di Paolo Santarcangeli (.Lirica ungherese del '900, Guanda, Parma, pp. 255). Vennero pubblicati inoltre anche vari volumi di opere dei più conosciuti poeti ungheresi, così le poesie di Endre Ady in due edizioni, sempre a cura di Paolo Santarcangeli (Lerici, Milano 1964; Accademia, Milano 1965), di Attila József nella mediazione di Umberto Albini (Fussi-Sansoni, Firenze 1952; Lerici, Milano 1957; Accademia, Milano 1962) e di Gilberto Finzi e Sandro Badiali (Gridiamo a Dio, Parma, 1963). Accanto ad Attila József vennero tradotte anche le opere di Gyula Illyés — Due mani, a cura di E. Bruck e N. Risi, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1966; Poesie, a cura di U. Albini, La via dell'ambra, Genova 1981; Europa, a cura di S. Albisani, Vallecchi, Firenze 1987 —, alle quali si aggiunge la pubblicazione della sua biografia Petőfi (a cura di N. Vucetich, Feltrinelli, Milano 1960).

Anche le poesie di Dezső Kosztolányi e di Miklós Radnóti ebbero due diverse interpretazioni. Le poesie di Kosztolányi vennero tradotte da Guglielmo Capacchi (Poesie, Guanda, Parma 1970) e da Luigi Rheo (Se ci coglie la notte, Cataldi, Putignano 1970), e quelle del poeta martire Miklós Radnóti da U. Albini (Poesie scelte, Fussi-Sansoni, Firenze 1958) e da Gianni Toti (Scritto verso la morte, d'Urso, Roma 1964; Ero fiore sono diventato radice, Fahrenheit 451, Roma 1995).

Alla ripresa della fortuna della letteratura ungherese ha giovato anche il con-solidamento dell'insegnamento universitario della lingua e letteratura ungherese presso le varie università italiane a partire dalla metà degli anni Sessanta. Attualmente l'insegnamento universitario della materia è attivato presso otto ate-nei (Bologna, Firenze, Napoli presso l'Istituto Universitario Orientale, Padova, Pavia, Roma, Torino e Udine) e, grazie all'attività dei titolari, la magiaristica ita-liana può vantare opere notevoli nel campo della critica letteraria ungherese a livello internazionale, nonché due manuali di storia della letteratura ungherese di

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Paolo Ruzicska (Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia, Milano 1963) e di Folco Tempesti (La letteratura ungherese, Sansoni-Accademia, Firenze 1969). Nello stesso tempo, però uno degli ostacoli all'insegnamento era costituito dalla mancanza di una antologia poetica delle opere più significative dei maggiori rappresentanti della storia plurisecolare della letteratura ungherese. Mancavano quasi del tutto in versione italiana, per esempio, le poesie più impor-tanti di Bálint Balassi, figura di grande importanza del petrarchismo cinquecente-sco a livello europeo, di Mihály Csokonai Vitéz, Ferenc Kazinczy, Dániel Berzsenyi, Ferenc Kölcsey, gradi innovatori della poesia moderna ungherese a cavallo dei secoli XVIII-XIX, o di Mihály Vörösmarty, uno dei principali poeti del Romanticismo risorgimentale ungherese, e alcuni classici della poesia moder-na e contemporanea, quali Árpád Tóth, Gyula Juhász, Lőrinc Szabó, Sándor Weöres e altri.

I titolari delle varie cattedre universitarie proprio per questo hanno tentato di colmare questa lacuna. Vanno menzionate in proposito due antologie per la Poesia Europea dell'Editore Lucarini, a cura del prof. Amedeo Di Francesco, dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, e l'antologia poetica redatta dal prof. Andrea Csillaghy, per gli studenti della Cattedra di Lingua e Letteratura ungherese dell'Università di Udine, nonché, recentemente, la breve antologia di poesie d'amore ungherese di Roberto Ruspanti (Lungo il Danubio e nel mio cuore, Rubbettino, Messina 1996), già autore di varie traduzioni di poesie di S. Petőfi e E. Ady, inserite nelle sue monografie (Petőfi, l'inconfondibile magiaro, Udine, 1989; Endre Ady e la coscienza inquieta dell'Ungheria, Rubbettino, Messina 1994), nonché di quelle di Lajos Kassák (Poesie, Rubbettino, Messina 1994). Nonostante questi tentativi è possibile affermare che fino ad oggi mancava completamente un'antologia più ampia, bilingue, destinata specificatamente agli studenti universitari, in grado di rendere loro possibile lo studio e l'approfondi-mento della poesia ungherese.

La presente antologia poetica è stata preparata esattamente con questo specifi-co obbiettivo didattico, per gli studenti della Cattedra di Lingua e letteratura ungherese dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza e naturalmente per gli studenti in genere che frequentano negli atenei italiani i corsi di lingua e letteratu-ra ungherese, nell'ambito di una ricerca scientifica di Facoltà (finanziamento MURST 60%: "La traduzione e la diffusione della poesia ungherese in Italia") condotta dai docenti e dagli studenti laureandi e laureati della Cattedra. Nell'ambito di questa ricerca sono stati organizzati due convegni internazionali sulla traduzione (Roma, 1987; Budapest, 1991) e numerose opere, quali le due dissertazioni del dott. Armando Nuzzo (La poesia petrarchesca di Bálint Balassi) e della dott.ssa Nicoletta Ferroni (La poesia d'amore di Attila József) con le quali essi hanno ottenuto il titolo di libero docente dell'Accademia Ungherese delle Scienze; come risultato delle loro ricerche sono state quindi pubblicate le prime traduzioni italiane di poesie di Bálint Balassi (Le canzoni per Julia. Informa di parole. Crocetti, Milano 1994) e di Attila József, il ciclo a Flóra, nella traduzione di Tomaso Kemény (A. József, Flóra, amore mio, a cura di N. Ferroni, Bulzoni,

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Roma 1995) e non pochi studi sulla fortuna della poesia ungherese in Italia, oltre a quelli del titolare della Cattedra pubblicati nei suoi volumi di saggi (Péter Sárközy, Letteratura ungherese-letteratura italiana, Carucci, Roma 1990; Da I Fiumi di Ungaretti al Danubio di Attila József, Sovera, Roma 1994; Roma, la patria comune, Lithos, Roma 1996) e a contributi sui problemi della traduzione pubblicati da vari studiosi partecipanti al progetto sulle colonne della Rivista di Studi Ungheresi , fondata e redatta dalla stessa Cattedra della Sapienza. Nell'ambito della ricerca è stato tradotto dal prof. Paolo Castruccio, in endecasil-labi sciolti, il dramma poetico di Imre Madách La tragedia dell'uomo (in corso di stampa presso l'editore La Palma di Palermo) e redatta la piccola antologia poeti-ca dei poeti ungheresi del Novecento di Márta Köszeghy, con le cure editoriali e i commenti del prof. Di Francesco, pubblicata dall'editore Lucarini.

Parallelamente allo studio critico delle traduzioni non si è tralasciato il proget-to di redigere un'antologia poetica bilingue per uso didattico universitario. In un primo momento si era pensato di operare una selezione delle migliori traduzioni, coinvolgendo i più noti poeti italiani viventi, alla maniera della magistrale antolo-gia francese curata da László Gara (La poésie hongroise, Gallimard, Paris 1963), ma il progetto è risultato irrealizzabile a causa di problemi editoriali e organizza-tivi. Ciononostante, benché non appieno attuato, ne sono derivati non pochi risul-tati di rilievo, come le traduzioni poetiche ungheresi del poeta bilingue Tomaso Kemény (pubblicate in vari numeri della Rivista di Studi Ungheresi e della rivista Trame, nonché all'interno del volume di Attila József, Flóra, amore mio, curato da N. Ferroni e pubblicato dall'editore Bulzoni con i contributi del finanziamento del progetto), inoltre, i due volumetti di traduzioni di Gianni Toti dei componi-menti di Janus Pannonius e di Miklós Radnóti, pubblicati nella collana I Taschinabili dell'editore Fahrenheit 451 con prefazioni di P. Sárközy, nonché recentemente le due antologie poetiche del dott. Stefano De Bartolo, ex studente della Cattedra di Roma, oggi professore presso l'Università di Szeged (Su questa terra desolata, Szeged, 1994; Trame, 1995/15).

Per attuare il progetto che ci si era prefissati si è deciso infine di redigere una antologia poetica, per uso didattico, con traduzioni nuove che, senza pretendere di raggiungere la perfezione poetica dei capolavori originali, si propongono come traduzioni fedeli e fruibili in lingua italiana con testo a fronte dei testi poetici ori-ginali, per consentirne la lettura e l'analisi anche agli studenti alle prime armi nello studio dell'ungherese. Per questo ingrato e faticoso lavoro si è offerta la dott.ssa Marta Dal Zuffo, già studentessa alla Sapienza, allieva del grande profes-sore e traduttore Angelo Maria Ripellino, poetessa bilingue, che ha pubblicato alcuni volumi di poesie in Italia. Il lavoro della Dal Zuffo è stato davvero arduo e ingrato, perché non è stato possibile consentirle di scegliere le poesie più adatte alla propria indole poetica e di traduttrice, in quanto la selezione era motivata in questo caso da esigenze didattiche. Sono nate così queste traduzioni, per le quali esprimiamo il più sincero ringraziamento alla poetessa, con il profondo convinci-mento che non poche delle sue traduzioni potranno essere in futuro inserite anche nelle antologie delle più riuscite traduzioni italiane di poeti ungheresi. La presen-

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te antologia non si propone dunque di produrre nuove opere artistiche, si offre bensì come manuale di poesia ungherese in forma bilingue, indispensabile per Tinsegnamento universitario, grazie alla quale lo studente potrà consultare — similmente agli studenti ungheresi — in uno stesso volume i maggiori capolavori dei più importanti poeti d'Ungheria, dalla prima composizione poetica in lingua ungherese (Ómagyar Mária Siralom, del 1300) fino al 1945, mentre è già avviato il progetto di un prossimo volume sulla poesia moderna e contemporanea, com-prese le opere dei maggiori poeti ungheresi delle minoranze.

Come tutte le antologie, anche la nostra può essere criticata, giustamente, per la scelta delle opere e degli autori. Occorre in proposito ribadire che la selezione, così come è stata operata, è stata determinata dalle specifiche esigenze didattiche dell'insegnamento universitario (e, in prima istanza, da quelle della Cattedra di Lingua e Letteratura ungherese dell'Università di Roma) e anche dalle possibilità (e dai limiti) editoriali. Mancano perciò nell'antologia non pochi poeti dei secoli XVI-XVIII, del Manierismo e del Barocco, da Tinódi a Gyöngyösi e a Bessenyei e vi figurano in quantità ridotta anche le opere di quei poeti che sono accessibili già in diverse edizioni, così Bálint Balassi — recentemente tradotto da A. Nuzzo — e i grandi classici come Petőfi, Ady, Kosztolányi, József, Illyés, Radnóti e Pilinszky: di questi compaiono solamente poesie assenti nelle altre antologie — come le poesie antifeudali e antimonarchiche di Petőfi, le grandi canzoni di Arany vecchio, i "medaglioni" di József o le canzoni tristi-felici di Kosztolányi. Similmente si sono dovute tralasciare le opere della narrativa-poetica della scuola romantica o nazional-popolare, come anche il capolavoro di I. Madách, nella spe-ranza della prossima pubblicazione della bellissima nuova traduzione in versi di P. Castruccio.

Nel presentare la nostra antologia, siamo perciò consapevoli delle mancanze e delle carenze, ma nello stesso tempo possiamo considerare questo lavoro come un invito e un incitamento ai "vecchi" e ai nuovi traduttori perché si accingano alla grande opera, ovvero a preparare una antologia non più per uso didattico, bensì per il grande pubblico, raccogliendo le migliori traduzioni dei poeti unghe-resi in un volume rappresentativo, mettendo dunque da parte le esigenze dello studio e dell'apprendimento e privilegiando invece ampiamente il diletto estetico, senza dimenticare la ben nota osservazione di Benedetto Croce: «Le traduzioni sono come le donne: ci sono quelle fedeli non sempre belle e quelle infedeli bel-lissime».

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NICOLETTA FERRONI

A Q U A T T R ' O C C H I C O N F L Ó R A

Il 14 maggio 1995 moriva la signora Illyés, la bella Flóra Kozmutza, colei che tanto ispirò il grande poeta Attila József nelle più suggestive poesie d'amore di tutti i tempi.

Ma la morte spesso rende ancor più vive le persone che hanno lasciato all'u-manità un segno indelebile. Così è stato per lui, quanto per lei, soprattutto nel mio caso, dopo aver avuto l'esclusiva (a chiunque categoricamente negata) di incontrarla nella sua villetta di Rózsadomb in József — ironia della sorte — hegyi út in un uggioso pomeriggio del 21 maggio del 1991.

Pochi giorni prima, mi ero permessa di scriverle una lettera per chiederle un incontro, spiegandole che ero — allora — semplicemente una giovane studentes-sa magiarista italiana da poco laureata con una tesi dal titolo La poesia d'amore di Attila József.

Scrittole un espresso da Budapest, dove vivevo da circa un anno, con riportato il mio recapito telefonico, un giorno, tornata a casa, trovai un biglietto con su scritto "Ha telefonato la signora Illyés, chiede di richiamarla a questo numero". Non credendo ai miei occhi, feci quanto chiestomi. Rispose dopo pochi squilli e, pregandomi subito di parlare a voce alta, a causa dei suoi disturbi all'udito, mi disse che ormai non usava più uscire e che pertanto sarebbe stato meglio che andassi io a trovarla. Ci accordammo di risentirci per fissare l'appuntamento, anzi, come sottolineò lei, per spiegarmi meglio quale autobus prendere per arriva-re a casa sua.

Arrivata al cancello mi colpirono i due nomi sul citofono: Illyés e Kozmutza. Fu infatti il fratello a venirmi ad aprire. Mi fece accomodare in una stanza del suo appartamento, dove non viveva da sola, credo, ma con la figlia Ika e il nipote di 12-13 anni. Entrai, mi sedetti nello studio del vecchio Gyula bácsi — come lei poi lo avrebbe chiamato nella nostra conversazione. Aspettai alcuni minuti guardando incredula la antica macchina da scrivere del poeta, la sua sedia a dondolo messa all'angolo vicino alla finestra, la sua scrivania, un'enorme foto del poeta sul muro. Lentamente vidi muoversi la maniglia della porta e comparire lei, Flóra, in tutto il suo splendore che la vecchiaia non porta via a chi è stata una bella donna. La mia reazione fu eccessiva. Mi alzai, la baciai, come se l'avessi conosciuta da sempre. In realtà avevo già terminato la traduzione del suo libro, contenente le lettere a lei scritte da Attila József e per me non era certo una sconosciuta.

F. - Posso darti del tu, credo, perché hai la stessa età che avevo io quando

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conobbi il tuo poeta preferito. In cosa posso esserti d'aiuto? Conosci anche le poesie di Gyula bácsi?

Non nascondo di essermi sentita assalita da una sorta di gelosia, ma non osai risponderle che preferivo di gran lunga quelle di A. József.

N. - Per me è un privilegio averLa incontrata. Mi è stato detto che Lei non ha mai concesso nessuna intervista a nessuno.

F. - Certo, tutto quello che avevo da dire l'ho scritto nel mio libro, che sono stata costretta a pubblicare per scagionare Gyula bácsi. Lui non mi ha mai strap-pata ad Attila József come tutti credono. Io conobbi Illyés prima di Attila József (In mia presenza non lo chiamò mai col nome di battesimo). Gyula mi piacque subito, ma era sposato e a quei tempi non si poteva neanche pensare a un uomo impegnato. Non amo parlare di Attila József ancora oggi dopo più di 50 anni, soffro se penso a lui.

N. - Come si sentiva quando lo andava a trovare a Siesta? F. - Era terribile perché in quel periodo era gravemente malato. Ma, attenzio-

ne, la sua malattia era psicosomatica. Se solo lo avessero curato meglio lì a Siesta... La calligrafia degli ultimi giorni ci dimostra quanto fosse peggiorato. A Siesta era completamente intorpidito dalle medicine e dalla cura con cui nessuno potrebbe guarire. Io sono psicologa e pedagoga e ho sempre voluto aiutare le per-sone. Tutt'oggi! Volevo, avrei voluto, salvarlo. Quando andavo a Siesta, andavo per aiutarlo. Ma me lo impedirono. Attila József non era malato di mente.

N. - Ma Lei pensa che se lo avesse sposato, sarebbe guarito? F. - Ci sono uomini che amano quando la donna è irraggiungibile. E quando

la raggiungono cadono di nuovo preda delle ansie e delle depressioni che sono proprie della loro persona. Se lo avessi sposato, dopo pochi mesi, avrebbe di nuovo accusato gli stessi sintomi. Anche Gyula bácsi era un uomo difficile. L'ho conosciuto nel 1936 (un anno prima di Attila József) e l'ho sposato nel 1939. Siamo stati molto felici — disse mostrandomi delle foto. Abbiamo anche viaggia-to. Ma vivere con Gyula bácsi non era facile. Soffriva di grandi depressioni, come la prima moglie. Ecco perché il primo matrimonio era fallito. Ho dovuto aiutarlo molto durante le sue crisi depressive e soprattutto mostrarmi sempre allegra e spensierata. Nella vita non bisogna mai perdere la speranza e soprat-tutto non far la perdere agli altri.

Capii quanto fosse importante avere al fianco un'amica, una donna come Flóra.

Mi chiese di me, della mia vita, dei miei progetti e mi seppe anche consiglia-re. "L'amore è importante, ma l'inserimento sociale è indispensabile" — mi sus-surrò.

Le promisi di mantenermi in contatto. Per il suo onomastico a novembre le mandai la mia recensione italiana al suo

libro. La richiamai nel gennaio del 1992, quando ritornai in Ungheria dopo essermi

fermata alcuni mesi a Roma. Il mio libro (Poesie e lettere d'amore di Attila József

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a Flóra Kozmutza, intitolato in suo onore Flóra, amore mio) ancora non era ulti-mato, ma le promisi di spedirglielo appena uscito.

Ricordo di essere tornata a trovarla in un freddo pomeriggio di gennaio con uno splendido mazzo di fiori. Dimenticando di avermi dato del tu durante il nostro primo incontro, le sue ultime parole furono: "La prossima volta non mi porti più fiori". La stessa frase detta ad Attila József nel maggio del 1937, quando il poeta andò a trovarla in ospedale durante la sua convalescenza; la stessa frase che il poeta scrisse nel frammento Átizzadt fekvő (Dal giaciglio...). Prima di andar via mi presentò la figlia e il nipote e sulla porta di casa, quando io ero già arrivata al cancello, mi gridò: "Jelentkezzen/".

Nei miei molteplici ritorni a Budapest, non mi sono più fatta viva. Sapevo che si era ammalata e non volevo importunarla.

In Italia le trafile editoriali sono lente e il mio libro è uscito solo nel luglio del 1995. Lei era già morta da due mesi, a maggio, lo stesso mese in cui la vidi la prima volta. Tuttora nel proseguimento dei miei studi ricordo ancora con emozio-ne la sua voce! Soprattutto quando riguardo la dedica che mi scrisse sulla prima pagina del suo libro che mi ero portata per chiederle di scrivermici qualche paro-la, qualche semplice parola, come quelle che lei mi scrisse: "Nicolettának, szere-tettel Flóra néni, 1991.V.21".

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DISPUTE

R I S P O S T A A D A N I L O G H E N O *

La mia biografia scientifica e il mio curriculum didattico pluridecennale par-lano per me.

Carla Corradi Musi

* Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera con la quale la Redazione intende porre termine a qualsiasi ulteriore dibattito sul tema.

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RECENSIONI

A A. VV., Storia dell'Ungheria, a cura di Péter Hanák, adattamento italiano a cura di Giovanna Motta e Rita Tolomeo, Franco Angeli editore, Milano 1996, pp. 288.

Una delle grandi mancanze della magiaristica italiana era rappresentata dall'assenza di un manuale di livello universitario della storia dell'Ungheria. Infatti, mentre dagli anni Venti, presso varie università italiane si svolge l'inse-gnamento della Lingua e della Letteratura Ungherese e della Storia dell'Europa Orientale, prima dell'edi-zione di quest'opera non esisteva in lin-gua italiana un'opera scientifica moder-na sulla storia millenaria del popolo ungherese, una storia legata a livello storico-culturale alla storia italiana. L'ultima opera di questo tipo fu pubbli-cata nel lontano 1928 da Carlo Antonio Ferraro, con il titolo Italia e Ungheria. Storia del Regno d'Ungheria in relazio-ne con la storia italiana. Da allora non è stata scritta nessun'opera sintetica, se non prendiamo in considerazione le opere divulgative di "storia illustrata" pubblicate in Ungheria da István Lázár (Corvina, 1993) e in Italia, recentemen-te, presso l'editore Fratelli Palombi, per opera del Consigliere dell'Ambasciata d'Ungheria György Réti (cfr. la recen-sione di Roberto Ruspanti in questo numero), solo opere monografiche su alcuni periodi e problemi specifici della storia magiara, come l'opera magistrale di Leo Valiani su La dissoluzione dell' Austria-Ungheria (1961, 1985) o l 'analisi della Storia dell' economia ungherese di Iván T. Berend, pubblicata in lingua italiana dagli Editori Riuniti nel lontano 1975. Tra queste monogra-

fie bisogna menzionare le opere di Pasquale Fornaro su La Repubblica dei Consigli di Béla Kun (1987) e su II Risorgimento italiano e la questione ungherese (Rubbettino, 1996), di Federigo Argentieri su L'ottobre unghe-rese (1986) e di A. Biagini-F. Guida su Mezzo secolo di socialismo reale (1994, 1997) tradotto già in polacco e in spa-gnolo.

Nella storiografia italiana è sempre stato vivo l'interesse per lo studio delle questioni storiche dell'Ungheria, che riguardano anche la storia medioevale e moderna dell'Italia. Basti pensare ai rapporti dinastici del Medio Evo (il secondo e ultimo re ungherese della stirpe degli Árpád furono due re vene-ziani, Pietro Orseolo e Andrea III), o all'epoca angioina del Trecento, alla comune storia adriatica dell'Ungheria e di Venezia, gli stessi interessi nella lotta contro il Turco, dalla gloriosa vittoria di Belgrado (1456), di Giovanni Hunyadi e di Giovanni da Capestrano, all'epoca dell'umanesimo ungherese di Mattia Corvino (1458-1490), alle relazioni diplomatico-culturali con l'Italia, alle guerre antiturche svoltesi lungo il Danubio per 150 anni, fino alla definiti-va liberazione di Buda (1686) per opera della Lega Santa costituita per volontà del papa Innocenzo XI. Dal 1748 fino alla creazione del l ' I ta l ia unita l'Ungheria e una gran parte dell'Italia Settentrionale facevano parte dello stes-so Impero Asburgico, e così il Risorgimento fu la lotta comune dei due popoli contro lo stesso nemico. La crea-zione del l ' I ta l ia unita e il crollo dell'Ungheria storica nel 1918 sono fatti storici comprensibili soltanto in una visione areale del Mediterraneo e

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dell'Europa Centrale, così anche la sto-ria moderna dei due paesi tra le due guerre mondiali è strettamente legata l'una all'altra, per non parlare dell'im-portante ruolo della rivoluzione unghe-rese del 1956 nella formazione dell'eu-rocomunismo e delle nuove linee della politica italiana contemporanea. Così si capisce che i migliori storici italiani, da Rodolfo Mosca a Raoul Manselli e ad Angelo Tamborra si sono sempre occu-pati dello studio delle questioni storiche ungheresi. I risultati di queste ricerche storiche si leggono nei dieci volumi degli Atti dei convegni italo-ungheresi organizzati nella collaborazione scienti-fica della Fondazione Cini di Venezia e del l 'Accademia Ungherese delle Scienze [in ordine di cronologia storica: Spiritualità e lettere nella cultura italia-na ed ungherese del Basso medioevo, a cura di S. Graciotti e C. Vasoli, L. S. Olschki, Firenze 1995; Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di V. Branca, Firenze, 1989; Rapporti veneto-ungheresi aWepoca del Rinascimento, a cura di T. Klaniczay e P. Sárközy, Akadémiai, Budapest 1975; Italia e Ungheria all'epoca dell'Umanesimo corviniano, a cura di S. Graciotti e C. Vasoli, Firenze, 1995; Venezia e Ungheria nel contesto del barocco europeo, a cura di V. Branca, Firenze, 1989; Venezia, Italia e Ungheria fra Arcadia e Illuminismo, a cura di B. Köpeczi e R Sárközy, Budapest, 1982; Popolo, nazione e storia nella cultura italiana ed ungherese dalla rivoluzione francese alla primavera dei popoli, a cura di V. Branca e S. Graciotti, Firenze, 1985; Venezia, Italia, Ungheria tra decadentismo e avanguardia, a cura di Zs. Kovács e R Sárközy, Budapest, 1990; Italia e Ungheria dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di Gy. Bodnár e R Sárközy, Budapest, 1988 (in corso di stampa)].

In questi volumi, accanto ai contri-

buti di letterati e di storici dell'arte, si leggono i contributi dei migliori storici italiani ed ungheresi, per menzionarne solo alcuni: R. Manselli, A. Tamborra, A. Carile, U. Tucci, C. Vasoli, T. Foffano, A. Tenenti, D. Caccamo, R. Gueze e i rappresentanti della nuova generazione: A. Biagini, M. Dogo, R Fornaro, F. Guida, G. Monsagrati, G. Petracchi, R. Tolomeo, sottolineano una verità: che non può esistere magiaristica italiana senza il coinvolgimento e la partecipazione attiva degli storici italia-ni nelle ricerche nel campo degli studi ungheresi. Sulla scia di questa "verità" è stato organizzato già nel 1981 il conve-gno di "storia dell'Università" (AA. VV, Roma e l'Italia nel contesto della storia delle Università ungheresi, a cura di G. Arnaldi, C. Frova e P. Sárközy), e poi fondato il Centro Interuniversitario per gli Studi Ungheresi in Italia nel 1985, con l'annuario "Rivista di Studi Ungheresi" (1986) che regolarmente offre spazio alla pubblicazione di saggi storici, e anche a "numeri speciali" (4/1990: Mattia Corvino 1490-1990; 10/1996: La Conquista della Patria 896-1996; 12/1997: La presenza della cultura ebraica in Ungheria dal Medioevo all'epoca moderna).

Il c i S U I , sotto la direzione di Antonello Biagini, nuovo titolare della Cattedra di Storia dell'Europa Orientale della Sapienza, ha organizzato una serie di convegni storici con la collaborazio-ne degli storici ungheresi e dell'Accademia d'Ungheria in Roma, i cui atti sono stati pubblicati nella colla-na del l 'Edi tore Periferia: Italia e Ungheria 1920-1960, a cura di F. Guida e R. Tolomeo, Cosenza, 1990; Ungheria — isola o ponte?, a cura di R. Tolomeo, ivi, 1992; Un istituto scientifico a Roma: L'Accademia d'Ungheria, 1894-1950, a cura di P. Sárközy e R. Tolomeo, ivi, 1993; Scritti di Lajos Kossuth sull'Italia, a cura di A. Ciaschi,

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M. Jászay e G. Platania, ivi, 1995. Fu il CISUI a pubblicare anche gli Atti del Convegno della Commissione mista di storici organizzata a Pécs dall 'Uni-versità Janus Pannonius nel 1993 (Dalla liberazione di Buda all'Ungheria del Trianon, a cura di F. Guida, Lithos, Roma 1996), mentre gli Atti del Convegno udinese del 1993 sono stati pubblicati dall'editore Rubbettino per le cure redazionali dell'organizzatore del convegno, prof. Roberto Ruspanti: // '56 ungherese. La cultura s'interroga, Messina, 1996. Il CISUI ha organizzato nel 1996 a Roma il grande Congresso mondiale sul tema La civiltà ungherese e il Cristianesimo, preceduto dal Seminario di Gazzada del 1990 i cui atti sono stati pubblicati nel volume Storia religiosa dell'Ungheria, a cura di A. Vaccaro, Varese, 1992.

In base a queste pubblicazioni pos-siamo affermare che gli studi storici sull 'Ungheria negli ultimi decenni anche in Italia hanno ottenuto dei veri risultati e hanno contribuito a una visio-ne moderna e complessa dei rapporti storici tra l'Italia e l'Ungheria. Proprio in questo contesto e da questo punto di vista si è manifestata sempre con mag-giore urgenza la necessità di un manuale sulla storia dell 'Ungheria per l 'uso didattico universitario. Dopo vari tenta-tivi che si sono arenati per mancanza di fondi e di tenacia degli studiosi, due storici italiani hanno deciso di adattare per il pubblico scientifico italiano un manuale ungherese il cui "volume" e contenuto potevano soddisfar le esigen-ze dell'insegnamento universitario e delle disponibilità editoriali. Così hanno scelto il manuale di Storia dell'Ungheria redatto da Péter Hanák, studioso dell'epoca del dualismo, recen-temente scomparso, che è già stato adot-tato per l'insegnamento universitario in traduzione francese, inglese, tedesca, nonché in Polonia e in Croazia. Si tratta

di un'opera non recente, la prima ver-sione ungherese è stata pubblicata nel 1981, ma gli autori dei singoli capitoli (László Makai, Kálmán Benda, Károly Vörös, Emil Niederhauser, Péter Hanák e Zsuzsa L. Nagy) hanno potuto offrire la garanzia che l'opera è rimasta abba-stanza indenne dall'influenza della sto-riografia dogmatico-marxista in voga nell'Ungheria degli anni Settanta.

Gli autori della versione italiana della Storia dell'Ungheria di Péter Hanák hanno reso un grande servizio per gli studi ungheresi in Italia. Dopo tanti studi particolari, finalmente gli stu-denti e gli studiosi hanno in mano non una "storia illustrata", di divulgazione culturale, ma un vero manuale di storia ungherese, che può servire come refe-rente per le conoscenze più generali della storia dell'Ungheria. Non un'ope-ra di dilettanti per dilettare, ma un vero manuale storico scritto da veri storici, esperti dei singoli periodi della storia millenaria ungherese, tradotto e adattato per le esigenze dell'insegnamento uni-versitario italiano da veri storici storici italiani, pubblicato presso un prestigioso editore nel campo degli studi storici, Franco Angeli di Milano, che potrà garantire la presenza dell'opera in ogni libreria specializzata in tutta Italia.

La versione italiana della storia dell'Ungheria è dovuta a due storici ita-liani, Giovanna Motta, ordinario di Storia Moderna della III Università di Roma, esperta di Storia del Mediterraneo, delle questioni di storia dell 'economia e della politica anti-turca; e Rita Tolomeo, docente di Storia dell'Europa Orientale della Sapienza, studiosa dei rapporti della Santa Sede con la zona del l 'Europa Centro-Orientale, curatrice dei volumi storici del CISUI, le quali, oltre alle loro cono-scenze e ai loro studi su questioni stori-che ungheresi, sono spécialiste delle ricerche areali del Mediterraneo e

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dell'Europa Centro-Orientale, e così nel corso del loro adattamento in lingua italiana dell'edizione francese dell'ope-ra, hanno potuto interpretare i lavori dei colleghi storici ungheresi in una visione più ampia della storia europea moder-na. In questo caso non si tratta di una semplice traduzione, ma di una tradu-zione scientifica, di translazione, di mediazione secondo le esigenze della storiografia e della didattica universita-ria italiana. Il risultato del loro lavoro è questo manuale italiano della Storia dell'Ungheria, una vera storia moderna sulla presenza millenaria del popolo ungherese nell'Europa centrale, scritta da cinque eccellenti storici ungheresi, tradotta da due storici italiani non meno eccellenti, un libro moderno, scientifi-camente preciso e corretto, linguistica-mente impeccabile, che utilizza la ter-minologia della più moderna storiogra-fia italiana. Un manuale utilizzabile per l'insegnamento della cultura ungherese presso le otto università italiane dove si svolge l'insegnamento della Lingua e Letteratura ungherese e presso tutte le cattedre di Storia del l 'Europa Orientale, pubblicato da una casa editri-ce che garantisce la presenza dell'opera in tutto il territorio nazionale italiano. Quest'importanza dell'opera degli edi-tori italiani della Storia dell'Ungheria è stata r iconosciuta dallo stesso Presidente dell'Accademia Ungherese delle Scienze a Budapest il 20 maggio del 1997 e dalla comunità scientifica italiana il 27 ottobre a Roma, in occa-sione della presentazione dell'edizione italiana. Con questo lavoro è stata col-mata una grande lacuna nel campo degli studi ungheresi in Italia. Naturalmente la pubblicazione italiana di quest'opera di autori ungheresi non rende invano e inutile il prossimo com-pito degli storici italiani: lavorare su una nuova storia dell'Ungheria, scritta ormai da autori italiani, dove la storia

ungherese sarà analizzata dal punto di vista della storiografia italiana. Ma que-sto sarà il compito della nuova genera-zione degli storici magiaristi italiani ai quali giunge il nostro augurio più since-ro.

PÉTER SÁRKÖZY

Dalla liberazione di Buda all'Ungheria del Trianon. Ungheria e Italia tra età moderna e contemporanea, a cura di Francesco Guida. Atti del Convegno storico italo-ungherese (Pécs 23-24 aprile 1993). Lithos edi-trice, Roma 1996, pp. 277.

Il presente volume è la raccolta degli atti del primo Convegno storico italo-ungherese tenutosi a Pécs il 23 e il 24 aprile 1993. Il ritardo con cui il testo è stato dato alle stampe (la pubblicazione è del 1996 per i tipi Lithos) — a disca-pito di quanto si sarebbe potuto imma-ginare — non ha avuto, fortunatamente, l 'effetto di porre nel dimenticatoio il lavoro svolto nelle due giornate di Pécs. Il volume curato da Francesco Guida e stampato con il contributo del CNR è uscito al pubblico proprio nel periodo in cui a Venezia si svolgeva il secondo Convegno storico italo-ungherese. La concomitanza dei due avvenimenti ha giovato al lavoro di quegli studiosi che, ormai da anni, si adoperano per dare nuova linfa alle ricerche scientifiche nel campo delle relazioni tra Ungheria e Italia.

Il testo contiene diciassette saggi, ciascuno dei quali è accompagnato da una breve summa in lingua ungherese. Agli studiosi non è stato imposto alcun vincolo né di tipo quantitativo, che, come ci riferisce Francesco Guida nella breve prefazione, «[...] avrebbe potuto pesare sulla validità del loro lavoro», né in riferimento agli argomenti da trattare.

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I l l

Il periodo storico preso in esame, infat-ti, va dal Seicento fino agli anni Trenta del nostro secolo e la materia trattata spazia dalla storia politica a quella eco-nomica, sociale e culturale.

I primi saggi sono dedicati all'epoca moderna, dalla liberazione di Buda dal dominio turco a tutto il XVIII secolo, con particolare riguardo all'aspetto eco-nomico e sociale dell'Ungheria in quel-la fase storica come dimostrano i contri-buti di Klára Merey, Péter Bán, János Barta e I. Gy. Tóth. Più specifico è il saggio di Péter Tóth che illustra alcuni dati relativi alla storia della scienza.

II XIX secolo è stato oggetto di stu-dio sia dal punto di vista politico che da quello della pubblicistica. Nel primo caso vanno annoverati il saggio di Petracchi sulla questione ungherese tra gli anni '40 e '60 e su come il mondo politico italiano guardava agli eventi che si svolgevano in Ungheria e il sag-gio di Bianca Valota Cavallotti sul con-cetto di Stato nazionale e nazionalismi nei due paesi. Nel secondo caso, invece, vanno annoverati i contributi di Francesco Guida, che è andato ad inda-gare sull'immagine che dell'Ungheria aveva l'Italia e l'Europa occidentale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, e di Gianluca Volpi sulla pubblicistica magiara a Fiume.

Gli studi di Ormos, Fornaro, Romsics; Nagy, Hanák e Diószegi sono dedicati al XX secolo ed in particolare alla stagione del Trianon. Mária Ormos analizza le vicende diplomatiche che portarono alla grave sconfit ta dell'Ungheria siglata con il trattato di pace, mentre Fornaro punta l'attenzione sui rapporti degli osservatori europei e statunitensi nell'Ungheria postbellica. Romsics e Nagy analizzano le relazioni italo-ungheresi del primo dopoguerra, mentre Hanák sottolinea gli effetti dal punto di vista economico e politico di un esageratamente severo trattato di

pace e Diószegi evidenzia le illusioni della politica revisionista magiara.

Concludono la raccolta i saggi di Sárközy e Ruspanti, il primo sull'Un-gheria degli anni Venti e Trenta vista attraverso gli occhi dei suoi scrittori e poeti, il secondo sulla questione transil-vana analizzata grazie alla pubblicistica italiana dell'epoca.

La mancanza di omogeneità tra i saggi pubblicati in questo volume non preclude la loro validità scientifica. Essi sono, inoltre, un esempio del lavoro svolto con l'intento di divulgare la sto-ria ungherese e di rendere proficui e durevoli nel tempo i rapporti tra studiosi magiari e studiosi italiani.

SIMONA NICOLOSI

Pasquale Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867). Marcello Cerruti e le intese politi-che italo-magiare, Rubbett ino Editore, Catanzaro 1995, pp. 290.

Dando una rapida occhiata ai contri-buti storiografici sull 'argomento, il lavoro di Fornaro potrebbe apparire superfluo. In tanti, sia tra gli studiosi italiani che fra quelli stranieri (Tamborra, Della Peruta e ancora Koltay Kastner, Pásztor, Hanák e Jászay per fare solo qualche nome), si sono occupati delle relazioni italo-ungheresi durante il Risorgimento pun-tando l'attenzione su quei personaggi, Kossuth da una parte, e Cavour, Mazzini e Garibaldi dall 'al tra, che hanno reso importante quel periodo di rivoluzioni ed insurrezioni. In realtà il contributo di Fornaro è di grande valore perché ha il pregio di rendere completo un quadro storico già precedentemente elaborato da altri studiosi. Le novità offerte in questo volume sono sostan-zialmente i documenti inediti del diplo-

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matico Marcello Cerruti, coinvolto in prima linea nella questione ungherese. Nell 'archivio privato della famiglia Cerruti a Palermo l'autore ha avuto modo di raccogliere ed esaminare materiale tanto importante da permet-tergli di fornire un elemento in più, un tassello che va ad aggiungersi alla rico-struzione storiografica di un periodo che ha segnato l ' in iz io nel l 'epoca moderna di un'intesa di fondo tra desti-no storico ungherese e destino storico italiano.

Ripercorrendo la carriera diplomati-ca di Cerruti, Fornaro è stato in grado di focalizzare due temi principali: l'evolu-zione dei rapporti italo-magiari condi-zionati dagli eventi che scossero l 'Europa nella seconda metà degli Ottocento e, puntando sul particolare, l'analisi del ruolo politico svolto dagli esuli ungheresi in Italia. La ricostruzione storica dei fatti, resa possibile dalla copiosa ed interessante eredità lasciata dal diplomatico genovese, è stata inca-nalata in tre periodi (1848-49; 1859-61; 1861-67) che corrispondono ai tre capi-toli in cui è suddiviso il libro e durante i quali si dipanò quel progetto, a lungo sostenuto ma mai realizzato, di potenzia-re la presenza politico-diplomatica del Regno di Sardegna nell'area danubiano-balcanica sfruttando la questione unghe-rese e, più in generale, la questione d'Oriente in funzione anti-absburgica. Questa direttiva aveva avuto come sostenitori della prima ora Balbo, Mazzini, Tommaseo e Gioberti, ma fu con Cavour che sembrò approdare a qualcosa di concreto. Lo statista torine-se, interessato ad imprimere un certo dinamismo alla politica estera del suo Piemonte, approfittò del lavorìo diplo-matico di Marcello Cerruti, allora Console del Regno di Sardegna a Belgrado, e del capo della legione italia-na in Ungheria, Vincenzo Monti. I primi contatti italo-magiari, infatti, si realizza-

rono proprio grazie all'attività di questi due personaggi che arrivarono a mono-polizzare i rapporti fra i due paesi a tal punto da non poter parlare più di una «mediazione italiana», ma di una «mediazione di italiani», vale a dire di un tentativo di intesa italo-ungherese affidato più al buon proposito dei singoli che non a una direttiva governativa uffi-ciale.

Fu la morte di Cavour e la successi-va politica di Ricasoli ad infrangere le speranze di un accordo italo-ungherese ed a portare all'inevitabile scontro ideo-logico tra il desiderio insurrezionale dei singoli legati ancora alla prima fase del Risorgimento e la volontà restauratrice dello status quo ante del Piemonte sabaudo. La promozione-rimozione di Cerruti, che nel '63 venne trasferito da Costantinopoli, dove aveva avuto la carica di Ministro residente con il com-pito di svolgere un'importante missione di collegamento tra il governo torinese e l'area danubiano-balcanica, proprio a Torino in veste di Segretario generale del Ministero degli Affari Esteri, segnò la fine del coordinamento tra emigrazio-ne magiara e Stato italiano di cui lo stesso Cerruti era stato l'anello di con-giunzione.

Nel '66 la guerra contro l'Austria riaccese le speranze d ' intesa italo-magiara in funzione anti-absburgica, ma la sconfitta politica dell'Italia annullò quei progetti che, non essendo mai giunti ad un accordo organico, erano serviti più come «utile deterrente psico-logico contro l'Austria» che come reale pericolo per la Monarchia.

Le carte di Cerruti, inoltre, sono pre-ziose perché gettano un interessante sguardo sul mondo del movimento nazionale ungherese in Italia, rivelando mancanza di coordinamento e pericolo-se rivalità tra i suoi capi. Con la nuova politica estera impressa dai successori di Cavour il fronte nazionale magiaro si

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sfaldò e si venne a creare una lacerazio-ne tale da dividere in due campi con-trapposti da una parte chi, come Kossuth e Klapka, continuava a soste-nere una posizione di acquiescenza alla linea politica del governo di Torino, e dall'altra i volontari che, ormai a livello individuale, combattevano a fianco di Garibaldi. L'episodio in Aspromonte, in particolare, segnò la crisi del "Comitato Nazionale Magiaro". Neppure negli anni successivi l'intesa italo-ungherese ebbe la speranza di essere tradotta in qualcosa di reale e di concreto: il gover-no di Torino continuava a garantire alla causa magiara un certo impegno mora-le. ma mai né economico né militare. La sconfitta italiana del '66 e VAusgleich austro-ungarico avrebbero siglato la fine del sogno kossuthiano.

SIMONA NICOLOSI

György Réti, Italia e Ungheria -Cronaca illustrata di storia comune (.Itália és Magyarország - kapcsola-taink képes krónikája), Fratelli Palombi, Roma-Budapest 1997, pp. 158.

Mi è molto gradito parlare del lavo-ro di György Réti, lavoro che'ho visto realizzare — posso dirlo per esserne stato testimone — con grande passione e dedizione giorno dopo giorno; lavoro che ha richiesto un impegno non comu-ne per la scelta delle fonti bibliografiche e di quelle iconografiche. Queste ulti-me, in particolare, sono un elemento indispensabile del volume: eh, sì! Perché la grande peculiarità di quest'o-pera è che essa costituisce — come reci-ta il titolo — una cronaca illustrata della storia comune di Italia e Ungheria. Ecl è proprio su questo aspetto di crona-ca illustrata che vorrei richiamare l'at-tenzione dei lettori.

Nella dedica, che György Réti ha voluto scrivere di suo pugno sulla copia del suo volume datami in omaggio, egli si firma e si definisce "cronista". Ed in effetti, come un cronista delle cronache medioevali, egli conduce per mano il lettore in questo viaggio affascinante di storia e di cultura italo-magiare, dall'ap-parizione delle tribù nomadi magiare nel bacino danubiano-carpatico (1100 anni or sono) fino ai nostri giorni. (Per la verità, il parallelismo fra la storia d'Italia e quella d'Ungheria viene fatto partire da Réti già dall'epoca precedente l'arrivo dei Magiari nell'area danubia-na: difatti l'autore ricorda ai suoi lettori come nella regione, dove si estende l'at-tuale parte occidentale dell'Ungheria, l'antica Pannónia, la civiltà e la cultura romane avevano posto ben prima salde e fruttuose radici). Ma Réti è fin troppo modesto quando afferma che «questo libro non è un lavoro scientifico, ma è destinato a diventare una sorta di crona-ca illustrata delle relazioni italo-unghe-resi» (pag. 6). In realtà, Réti è un vero cronista storico navigato — come si suole dire — e il suo puntuale e preciso viaggio parallelo nella storia dei nostri due Paesi non avrebbe potuto avere luogo, se alla base di esso non vi fosse una precisa e dettagliata conoscenza delle fonti scientifiche storiche docu-mentata dalla vasta bibliografia allegata alla fine del volume, la quale testimonia l'impegno di ricerca da vero certosino profuso da Réti nel realizzare il suo lavoro. Impegno riconosciuto e apprez-zato perfino dal Presidente della Repubblica d'Ungheria, Árpád Göncz, che ha voluto pubblicamente testimo-niarlo scrivendo di suo pugno la presen-tazione del volume.

Dicevo: cronista storico, ma non solo. Nella prima delle due sezioni in cui è suddiviso il volume — quella più vasta dedicata alle relazioni storico-culturali italo-ungheresi — la precisa

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ricostruzione degli avvenimenti storici in parallelo — per la verità, se non rischiassi di venir frainteso, dovrei usare il termine tangenti (cioè: che si toccano, si sfiorano, s'incontrano e tal-volta persino s'intersecano fra loro: penso al breve regno comune degli Angiò sui troni d'Ungheria e di Napoli nel Trecento) — va di pari passo con la narrazione degli intensi scambi cultura-li che da sempre hanno caratterizzato, e in alcuni periodi in modo molto signifi-cativo e impregnante, le relazioni italo-magiare. Anzi, direi che la precisa rico-struzione degli avvenimenti storici viene da Réti non semplicemente corre-data dal ricordo dei grandi e meno grandi avvenimenti culturali che accompagnarono quegli avvenimenti, ma il fatto culturale acquista nella rico-struzione storica del Réti un posto di grande rilievo, talvolta persino di primo piano: e ciò è testimoniato dal notevole apparato di citazioni dotte, che vanno dal semplice ma puntuale riferimento bibliografico alla citazione per esteso di passi e brani letterari, che Réti mostra di conoscere a puntino e di saper usare al momento e nel posto giusti.

Ma tutto questo lavoro di ricerca e di ricostruzione, di valore anche scienti-fico, delle relazioni storico-culturali italo-magiare, nell'ottica con cui è stato concepito il libro, non poteva restare privo di immagini, anzi doveva essere qualificato dalle immagini. Come dice-vo all'inizio, parafrasando lo stesso Réti, questo libro è una cronaca illu-strata. E qui mi corre subito l'obbligo di elogiare la grande fatica e, allo stesso tempo, la grande abilità con cui Réti ha reperito il vasto materiale iconografico. Pensate! Ho contato ben 224 illustrazio-ni (di cui 104 a colori, compresa quella, splendida e molto simbolica — per il tema del libro — della copertina ripro-ducente una pittura di Marinka Dallos che raffigura, in una visione naiv, l'isola

Tiberina di Roma con, in primo piano, donna in costume magiaro): alcune sono di altissimo valore documentario, altre di bella ed elegante fattura, altre ancora fissano nella nostra memoria visiva importanti avvenimenti o personaggi della comune storia culturale italo-ungherese. Con un vero lavoro da segu-gio Réti ha saputo scovare foto e imma-gini, alcune delle quali di non facile reperimento, perché facenti parte di col-lezioni private o appartenenti a singoli enti o persone. E tutte queste immagini, raccolta in questo unico volume, sono oggi — grazie a Réti — a disposizione degli studiosi e di tutti quei lettori inte-ressati alle vicende comuni di Italia e Ungheria. Gliene siamo veramente grati.

Un altro aspetto tecnico del volume di Réti niente affatto secondario e, a mio avviso, di portata emblematica è che l'opera si rivolge sia ad un pubbli-co italiano sia ad un pubblico unghere-se di potenziali lettori, essendo stata concepita e realizzata interamente in forma bilingue, idea veramente geniale non solo dal punto di vista pratico, ma anche dal punto di vista squisitamente ideale. Avvicinare contemporaneamente i lettori ungheresi e quelli italiani a questa storia comune — come recita il titolo — costituisce uno dei meriti più rilevanti di questo volume e del suo autore. Réti ha fortemente voluto tra-smettere ai lettori con un 'edizione bilingue (assai più difficile, più costosa e anche più rischiosa) lo stato d'animo con cui aveva concepito e poi ha realiz-zato l 'opera. Un 'opera che egli — coniando simpaticamente un nuovo ter-mine della lingua italiana (e da me invano ripreso)— definisce "bicuore": se con questo neologismo Réti intende dire che il libro è stato da lui scritto immedesimandosi contemporaneamen-te con lo spirito ungherese e con quello italiano e pensando ai tanti estimatori

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delle culture dei rispettivi Paesi — devo dire che c'è perfettamente riusci-to. Sì, questo libro è veramente "bicuo-re"!

Il volume, che ha un'interessante e utile sezione dedicata alle relazioni economiche italo-ungheresi (aspetto non secondario, soprattutto ai nostri giorni, del più vasto campo di relazioni socio-culturali italo-magiare), con una piccola parte dedicata agli avvenimenti e ai protagonisti sportivi di Italia e Ungheria, si legge — e mi si consenta il termine — si vede tutto d'un fiato nelle sue eleganti e in certi punti son-tuose 158 pagine, un libro che non può mancare nella biblioteca dello studioso o nello scaffale di casa di chi, per un motivo o un altro, è interessato alle cose italiane e ungheresi, o ha soltanto una semplice simpatia per i nostri due bei Paesi, oggi più che mai amici e avviati nel futuro comune cammino europeo che già li ha visti insieme da oltre mille e cento anni. Grazie, Gyuri, a nome di tutti noi.

ROBERTO RUSPANTI

Marcello Flores, 1956, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 147.

Il 1956 è stato un anno cruciale nella storia della guerra fredda, la crisi di Suez e la rivolta ungherese hanno san-zionato de facto quello che undici anni prima venne stabilito de iure dalle gran-di potenze vincitrici negli incontri di Yalta e Postdam. La divisione del mondo in zone di influenza e la nascita del bipolarismo portarono ad una pro-gressiva perdita di peso politico da parte dell'Europa che diventò semplicemente luogo di confronto dei nuovi maitres du monde, da attrice quale era stata fino all'inizio della seconda guerra mondiale a semplice comparsa.

Agli accadimenti di quell'anno di crisi e di mutamenti profondi è dedicato l 'agi le saggio di Marcello Flores. L'intento dell 'autore per sua stessa ammissione è di dare una sintesi di carattere internazionale alle crisi che scoppiarono in Medio Oriente e nell'Europa centrale.

Nei primi due capitoli Flores intro-duce il contesto geopolitico degli anni precedenti al '56 e mette soprattutto in rilievo la fase di distensione fra i due blocchi iniziata nel '53 con la morte di Stalin. Distensione non priva di con-traddizioni in quanto, accanto a princìpi come quello della coesistenza pacifica e della distensione, i due blocchi non smi-sero di rafforzarsi : da una parte l'Occidente con la ratifica degli accordi europei sulla UEO — Unione Europea Occidentale — ed il r iarmo della Germania, dall'altra il blocco sovietico con il Patto di Varsavia.

Ma non mancano in questo periodo i contrasti anche all'interno dei rispettivi campi. Le tensioni interne al blocco occidentale sono da ricollegarsi alla progressiva perdita di importanza di Francia e Inghilterra come potenze mondiali a vantaggio degli Stati Uniti. Lo stesso Flores afferma come «(...) la fedeltà al sistema delle alleanze non poteva comportare per Francia e Inghilterra un'accettazione globale della strategia statunitense ed un'acritica subordinazione all'egemonia america-na» (pag. 14).

Nel blocco sovietico i contrasti si verificarono all'indomani della morte di Stalin, non tanto nei rapporti tra i paesi satelliti e l'Urss, in quanto non si osava mettere in discussione il potere sovieti-co, ma piuttosto all'interno della stessa direzione sovietica dove ebbe inizio lo scontro tra la corrente liberale fautrice di un nuovo rapporto sia con l'Occidente che con i paesi del campo socialista, rappresentata da Chruscév, ed

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una conservatrice legata allo stalinismo, il cui massimo rappresentante era Molotov.

E delineato in questo modo il conte-sto in cui si collocano gli avvenimenti del '56: da una parte la volontà di Francia e Inghilterra di essere ancora protagoniste sulla scena mondiale, volontà che le porterà ad intraprendere l'avventura di Suez trattata nel quinto capitolo, dall'altra una nuova imposta-zione dei rapporti fra Urss e paesi satel-liti con il tentativo di creare "(...) all'in-terno del movimento comunista lo spa-zio per tentativi autonomi ed esperienze indipendenti" (pag. 86), tentativo che porterà agli accadimenti polacchi e ungheresi.

Al XX Congresso del Pcus e soprat-tutto al rapporto segreto sui crimini di Stalin, vero motore immobile delle rivolte del '56, Flores dedica il terzo capitolo. Durante il congresso Chruscèv lancerà la teoria della coesistenza paci-fica fra i due blocchi, ma fu soprattutto la conoscenza del rapporto segreto ad avere un effetto dirompente nelle demo-crazie popolari: era il segnale concreto dell'inizio della destalinizzazione e la possibilità per i sostenitori del comuni-smo nazionale di alzare la testa. Furono così gettate le premesse delle solleva-zioni polacca e ungherese, trattate nei capitoli seguenti, il cui denominatore comune, almeno nella fase iniziale della protesta, era rappresentato dalla volontà di affermare una via nazionale al comu-nismo. Le accuse a Stalin, contenute nel rapporto, rimanevano però superficiali ed approssimative e non veniva mai messa in discussione la funzione guida del partito comunista dell'Urss. In alcu-ni milieux politici delle democrazie popolari il rapporto venne invece inter-pretato in maniera più ampia, non solo come condanna al culto della persona-lità, ma anche come condanna della politica di satellizzazione posta in esse-

re da Stalin a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Questa diffe-renza interpretativa del rapporto sta alla base dei comportamenti successivi dei vari attori nella crisi dell'Europa centra-le. Gli effetti del rapporto segreto furo-no dirompenti e portarono ai noti fatti di Polonia e Ungheria che Flores prende in considerazione nei due capitoli succes-sivi.

Alla questione ungherese è dedicato il sesto capitolo che riporta in maniera essenziale gli avvenimenti dal 6 ottobre al 4 novembre. L'autore si sofferma soprattutto sulla figura di Nagy: dalla sua esitazione a schierarsi apertamente con gli insorti nella fase iniziale della rivolta, Nagy divenne successivamente l'eroe della rivoluzione grazie al corag-gio ed alla coerenza mostrati dopo il secondo intervento armato sovietico, tanto che «i sovietici e i comunisti ungheresi (...) tentarono in ogni modo di piegarlo riuscendovi solo con la con-danna a morte» (pag. 110). La rivolta ungherese diventò una vera lotta di indi-pendenza nazionale, era il nazionalismo l'elemento unificante dei partecipanti alla rivolta.

Dopo aver parlato singolarmente, nei capitoli precedenti, dei vari momen-ti del '56, Flores nel capitolo conclusi-vo, dà quella sintesi che, come si è detto, è il vero scopo del saggio. Pone inizialmente a confronto la rivolta ungherese e quella polacca anche attra-verso l'analisi dei due leader della rivol-ta, Gomulka portatore di una politica nazionale, e Nagy sostenitore di una politica di riforma. Per l'autore il moti-vo del diverso esito delle due proteste è senz'altro dovuto al fatto che «(...) la rivolta ungherese fu radicalizzata sul versante della lotta contro gli occupanti sovietici, mentre in Polonia venne cana-lizzata ed assorbita dal regime di Gomulka (...)» (pag. 124). Ma risulta importante anche la percezione sovieti-

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ca dei due avvenimenti: in Polonia si aspettavano una risposta militare orga-nizzata e compatta, mentre in Ungheria furono gli stessi comunisti , fedeli a i rUrss , a chiedere l 'intervento dei carri armati sovietici.

Le pagine seguenti sono dedicate ad un confronto tra la crisi di Suez e la concomitante rivolta di Budapest . Questo confronto dà l 'idea di come l 'Ungheria sia stata ostaggio di un gioco più grande di lei e di come l'esito della rivolta si decise a Suez. L'A. ricorda come lo stesso Chruscév nelle riunioni del Presidium per discutere della questione ungherese fece riferi-mento alla simultanea crisi di Suez e si sentì più libero di muoversi anche per il disinteresse dimostrato dagli Usa nei confronti della questione ungherese. L'intervento anglo-francese a Suez age-volò la decisione russa di porre fine all'esperienza di Imre Nagy, in quanto offriva lo scudo contro la propaganda occidentale sull'uso della violenza. Ma secondo Flores la decisione di interve-nire sarebbe stata presa comunque, visto che la situazione era ormai sfuggi-ta di mano al Cremlino e per i sovietici era inaccettabile una Ungheria libera ed indipendente.

R E M O SAVOIA

Rita Tolomeo, La Santa Sede e il mondo danubiano-balcanico (Problemi nazionali e religiosi, 1875-1921), La Fenice Edizioni, Roma 1996, pp. 131.

Rita Tolomeo, docente di Storia dell'Europa Orientale della Sapienza, è uno degli studiosi più preparati sulla questione dei rapporti tra la Santa Sede ed il mondo danubiano-balcanico. I suoi studi su Ruggiero Boscovich, le sue edi-zioni storico-critiche di fonti rappresen-

tano un punto sicuro per tutti gli studio-si dell'Europa Centrale, perché in que-sta zona geopolitica la presenza politica e spirituale della Chiesa Cattolica dal Medioevo fino ad oggi è una questione fondamentale e perché gli Archivi della Propaganda de Fide (Sacra Congre-gazione per l 'Evangelizzazione dei Popoli) e del Vaticano contengono dei documenti preziosissimi senza i quali ogni analisi storica può diventare sba-gliata. Per noi magiaristi è particolar-mente preziosa l 'attività scientifica della Professoressa Tolomeo, perché attualmente risulta l'unica studiosa della questione per quello che riguarda gli ultimi due secoli. Così oltre ai suoi saggi dedicati più specificamente alla storia moderna dell'Ungheria (pensiamo al suo contributo prezioso alla storia delle relazioni politiche fra l'Ungheria e la Santa Sede durante i pontificati di Leone XIII e Benedetto XV nel volume degli Atti del VI Convegno di studi italo-ungheresi della Fondazione Cini e del l 'Accademia Ungherese delle Scienze pubblicato a Budapest nel 1990: Venezia, Italia e Ungheria tra decaden-tismo e avanguardia), dobbiamo alla Collega Tolomeo la cura editoriale di numerosi volumi di saggi italo-unghere-si della Collana "Studi e Ricerche" dell'Editore Periferia; come l'edizione della monografia di István Eördögh sul-l'annessione della Transilvania nello stato rumeno, e gli atti dei vari convegni del CISUI: Italia e Ungheria 1020-1960; Ungheria: Isola o Ponte?; Un istituto scientifico a Roma: l'Accademia d'Ungheria, 1895-1950, per non parlare della mediazione italiana insieme alla Professoressa Giovanna Motta della Storia dell'Ungheria di Péter Hanák presso l'Editore Franco Angeli. In base a questi lavori possiamo confermare che la Professoressa Tolomeo, oltre ad esse-re un'eccellente studiosa della storia moderna della zona balcanica, può esse-

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re annoverata nello stesso tempo tra i migliori "magiaristi" italiani.

Anche nel suo nuovo lavoro scritto su "La Santa Sede e il mondo danubia-no-balcanico" dedicato ai problemi nazionali e religiosi dell'Europa Centro-meridionale del periodo tra l'insurrezio-ne e poi l'occupazione della Bosnia-Erzegovina ed i Trattati di Versailles (1875-1921) non vengono trascurati i problemi riguardanti la storia dei rap-porti diplomatici tra l'Ungheria e la Santa Sede. In seguito ai capitoli su II Vaticano e la crisi d'Oriente, La Romania indipendente e l'istituzione della gerarchia cattolica; / Cattolici in Albania sotto l'Impero Ottomano, la parte finale (conclusiva) della monogra-fia (pp. 71-119) analizza appunto le varie fasi delle relazioni vaticano-ungheresi tra il Dualismo Austro-Ungarico ed il crollo del Regno plurina-zionale d'Ungheria, quando la Chiesa Cattolica ungherese dovette rinunciare non solo alle sue posizioni storico-poli-tiche, ma anche alla rappresentanza dei cattolici ungheresi dei territori unghere-si annessi ai nuovi stati dell'Europa Centrale, come la Repubblica Cecoslo-vacca, la Jugoslavia e il Regno della Romania. L'autore prima di tutto analiz-za acutamente la questione dell'"auto-nomia" della Chiesa Cattolica unghere-se nella nuova formazione dello stato dualistico dell'Austria Ungheria creata dopo Yausgleich (compromesso storico) del 1867, ed i conflitti tra Chiesa e Stato causati dalla politica liberale della nuova Ungheria, dalle leggi sull'eman-cipazione ebraica e dalla piena libertà religiosa (1871-1895). Leggiamo nel volume un'acuta analisi sui conflitti religiosi della Transilvania di fine seco-lo e sulla costituzione della nuova dio-cesi greco-cattolica di Hajdudorog. Ma le questioni più complesse seguirono dopo il grande conflitto mondiale che non solo mutilò lo stato storico millena-

rio del Regno di Santo Stefano ma allo stesso tempo anche la stessa struttura della Chiesa Cattolica millenaria d'Ungheria, guidata in questo periodo dall 'arcivescovo Csernoch, grande patriota ungherese di origine slovacca, uno dei sostenitori dell'irredentismo politico ungherese del primo dopoguer-ra. L'analisi della Professoressa Tolomeo è sempre fondata sui dati archivistici originali, da lei identificati che hanno un carattere molto oggettivo di uno storico senza parte. Allo stesso tempo il lettore ungherese della sua monografia non può liberarsi dai pen-sieri sulle conseguenze di questi fatti analizzati nel libro. Le guerre "religio-se" della zona danubiano-balcanica non cessarono nemmeno alla fine del nostro secolo e i cattolici ungheresi della Slovacchia, della Transilvania (per non parlare dei csángó ungheresi della Bucovina in Moldavia) nella maggio-ranza dei casi sono stati privati delle messe e della possibilità della confes-sione in lingua madre, e si trovano nelle condizioni di quei cattolici dei confini orientali dell'Ungheria, i quali nei XVI-XVII secoli implorarorono i Papi di mandare tra di loro dei preti che capiva-no le loro preghiere ungheresi. Semplicemente perché la lingua delle minoranze viene custodita dalla Chiesa e dalla Scuola. Così ogni movimento nazionalistico assimilatore vuole toglie-re alle minoranze — come succede pure ai nostri tempi — la loro scuola e la loro preghiera in lingua madre.

PÉTER SÁRKÖZY

Da San Pietroburgo a Mosca. La diplo-mazia italiana in Russia J861/1941, Giorgio Petracchi, Bonacci Editorem, Roma 1993, pp. 544.

Chi si occupa di storia moderna non

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dovrebbe trascurare il presente volume di Giorgio Petracchi. Il lavoro ha due qualità fondamentali: da una parte la sua impeccabile e rigorosa scientificità storica e dall 'altra l 'apertura verso nuovi orizzonti per la storia delle rela-zioni internazionali.

Servendosi di un'ampia documenta-zione bibliografica, nonché di fonti a stampa ed archivistiche italiane ed euro-pee, l'autore compie un'analisi detta-gliata delle relazioni storico-politiche intercorse fra Italia e Russia (poi Unione Sovietica) tra il 1861 e il 1941. Prive di legami economici e prive di interessi derivati dall'essere Stati confi-nanti (come è avvenuto, al contrario, tra la Russia e gli Stati dell'Europa centro-orientale), Roma e Mosca sono rimaste così lontane che è mancato fra loro anche quel rapporto che nasce fra due Stati quando si dichiarano nemici. La mancanza sia di interessi comuni sia di vere e proprie divergenze politiche generò, alla fine del secolo scorso, un'incomprensione tale da far divenire Pietroburgo addirittura una delle amba-sciate europee più rifiutate. Essere asse-gnati in Russia era diventato per i diplo-matici italiani motivo di declassamento: il "pianeta-Russia", di cui erano incom-prensibili lingua e cultura, veniva consi-derato un mondo al di fuori della vera civiltà europea.

Solo negli anni Venti si registrò tra i due paesi un parziale avvicinamento. I progetti per una grande espansione eco-nomica coinvolsero anche Mosca durante quella che è stata definita la "stagione dei grandi affari" e nel 1924 venne siglato tra i due paesi un trattato di commercio. Il momentaneo interesse italiano nei confronti della Russia, però, si infranse ben presto di fronte alla que-stione del panslavismo che obbligò i due paesi a schierarsi in campi contrap-posti. Al momento del crollo dell'Im-pero austro-ungarico Mosca non aveva

celato l'interesse di voler ridurre sotto la sua sfera di influenza gli Stati succes-sori e di voler creare un'unione fra popoli slavi in cui la Russia avrebbe svolto, autocandidandosi, il ruolo di nazione-guida. Su posizioni diametral-mente opposte l 'Italia di Mussolini aveva maturato l'idea di contrapporre al blocco slavo l 'alleanza con le altre etnìe, in primis con quella ungherese, al fine di arginare la penetrazione russa in Occidente e, assurgendo al ruolo di baluardo contro l'espansionismo slavo, mettere le basi per la sua penetrazione nell'Europa centro-orientale. Questa divergenza di progetti politici contribuì ulteriormente a separare i destini storici dei due popoli, alimentando una distan-za divenuta già da tempo insormontabi-le. La radicata lontananza tra i due paesi, infatti , è testimoniata dalla povertà di trattati, accordi o di semplici intese, che caratterizza la storia delle relazioni politiche di Roma con la Russia, più che con qulasiasi altro paese europeo.

E proprio la mancanza di intese uffi-ciali a fare della storia dei rapporti italo-russi il terreno più favorevole per quello che Petracchi identifica con il nuovo modo di studiare la storia delle relazioni internazionali: la diplomazia non deve essere intesa solo come esercizio delle funzioni di rappresentanza e di negozia-zione di uno Stato nei confronti di un altro Stato, ma come [...] espressione di un talento conoscitivo, [e] di una media-zione culturale. Il diplomatico ha il compito di osservare il paese in cui risiede e questa sua funzione non può essere svolta a pieno senza conoscere profondamente condizioni storiche e politiche, nonché lingua, cultura, etnìa e religione del paese osservato. Di conse-guenza chi si occupa di storia ed, in par-ticolare, lo storico delle relazioni inter-nazionali si trova ad operare su un terre-no più ampio, che si allarga fino ad

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abbracciare non solo il campo diploma-tico, ma soprattutto quello culturale inteso nella sua accezione più ampia. Così facendo si riesce non solo a valuta-re meglio la storia dei rapporti fra paesi, ma anche lo spessore dei documenti diplomatici presi in esame come fonte storica. I materiali degli ambienti diplo-matici, infatti, come qualsiasi altra fonte cartacea, non contengono la verità asso-luta perché sono redatti da funzionari dello Stato e come tali sono lo specchio dei giudizi e delle opinioni di quest'ulti-mi. Muovendo da questi presupposti uno studioso attento non dovrebbe sot-tovalutare il fatto che il suo compito principale è quello di valutare a pieno non solo l'autenticità, ma anche il valo-re storico del documento diplomatico preso in esame.

SIMONA NICOLOSI

Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn (giù per il Danubio), Péter Esterházy, Garzanti, Roma 1995, pp. 221.

Ecco ancora il grande Esterházy con Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn ovvero un viaggio lungo il Danubio alla ricerca del fiume "europeo". Ma questa volta a scontrarsi con la prosa inconsue-ta dello scrittore ungherese non è più la penna della D'Alessandro, bensì della sorprendente traduttrice Mariarosaria Sciglitano, giovane talento della magia-ristica italiana. Sorprendente nel senso più benevolo del termine, chiaramente, dovendo smentire una mia passata recensione al l 'u l t imo romanzo di Esterházy, La costruzione del nulla, a proposito del quale ritenevo "inimitabi-le" ("RSU", 9) l'abilità di traduttrice della D'Alessandro.

Infatti le difficoltà, egregiamente affrontate dalla Sciglitano, possono essere sorte, a mio parere, nel l'aver reso

il più possibile scorrevole il filo del discorso, che si riesce facilmente a per-dere, ormai, negli ultimi lavori di Esterházy. Ne sono testimonianza a questo proposito le critiche dei giovani studenti che hanno scelto questo roman-zo come lettura personale per gli esami universitari, al termine del quale, si sono sentiti in dovere di confessare che una pre o post-fazione gli avrebbe faci-litato la ricerca del filo del romanzo. Una osservazione ineccepibile se si pensa che siamo ormai ben lontani dai vecchi libri come I verbi ausiliari del cuore o II libro di Hrabal, i quali, sep-pur lievemente più scorrevoli delle opere più recenti, godevano di un sag-gio, benché esile, del traduttore che aiu-tava indubbiamente a "condurre" il let-tore o quantomeno a riconfortarlo nel segnalargli i diversi registri intessuti di citazioni tipiche e divertenti, ma talvolta fuorviami, del romanziere ungherese.

La sensazione di perdersi non si avverte tanto nei primi due capitoli, dove l'io del narratore ci illude di aver iniziato un romanzo in cui partecipere-mo a una sorta di viaggio iniziatico di un ragazzo di 13 anni (l'autore) con lo scaltro zio (parente acquisito). Ma già alle prime righe del terzo capitolo veniamo assaliti da r iferimenti a Wittengenstein, Marx e Heine per arri-vare ad essere assorbiti dalla disputa sull'esistenza del Danubio e sul valore storico rispetto al Reno. Unica esistenza appurata: l 'Europa (centrale), e non orientale (!), come gli accadrà di scrive-re più avanti (p. 174). Allorché lo zio e il nipote decidono di andare alle fonti del Danubio, sono ancora ignari della successiva decisione dell 'autore del libro di rivolgersi poi, e inutilmente, a Magris, per sapere come finire decoro-samente un libro sul Danubio, quando si scoprirà che non esistono solo i tre rami noti del delta ma molti di più. A tale proposito l'autore triestino di Danubio,

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ospite a Budapest per una conferenza sul suo libro all 'Istituto Italiano di Cultura, non potrà essergli d'aiuto nel dare una fine decorosa né al fiume (la cui foce resterà avvolta nel caos quanto la sua origine) né a un libro su questo fiume, se non suggerendogli: «Bisogna pompare l'acqua del Danubio» (p. 210). Anche se detto inter nos, il libro dell'i-taliano gli è stato molto più che utile!

Arrivati al capitolo 6 (Roberto rac-conta) ci accorgiamo di quanto l'opera sia un alternarsi di piani di narrazione, soprattutto quando veniamo introdotti alla figura di un Viaggiatore di profes-sione su Commissione (sostituto del pro-tagonista) incaricato di un viaggio lungo il Danubio da un ricco Committente (Noleggiatore), puntualmente informato con resoconti e telegrammi riguardo l'andamento del viaggio. Il tutto, si badi bene, sempre rigorosamente "farcito" dei più svariati e inimmaginabili interro-gativi, citazioni ed esclamazioni. Risultato: cucire insieme con una invi-diabile disinvoltura riflessioni sull'esi-stenza, scene del quotidiano in tutta la loro concretezza, massime "da quattro soldi" che, però, dette da Esterházy, hanno sempre un certo fascino. Quando ci si accorge che insieme al Viaggiatore il lettore sta viaggiando su due livelli, forse è troppo tardi per confessare che si era già capito all'inizio del romanzo; bisognerà riprendere il libro dalle prime pagine o almeno riscorrerlo per capaci-tarsi che esistono due livelli di narrazio-ne: il primo, del Viaggiatore e del Committente alle prese dell'Ungheria dei giorni nostri; il secondo, dei ricordi dell'infanzia del protagonista, la cui memoria si dilata a tal punto da condur-lo a pensare all'Impero austro-ungarico.

Capolavoro dell'intero libro rimane indiscutibilmente il capitolo 19, intitola-to Le città invisibili, opera omonima del 1972 di Calvino, che ricorda Esterházy a p. 137, «è appena necessario presenta-

re al lettore ungherese». Il libro di Calvino consiste in un dialogo fra Marco Polo e Kubilay Khan al pari del rapporto di corrispondenza tra il Viaggiatore e il Committente, ma, men-tre nello scrittore italiano ogni capitolo parla di cinque città, in Esterházy il capitolo 19, è interamente dedicato alla capitale ungherese e presenta una com-plicata suddivisione: IX sottocapitoli, a loro volta divisi in sottocapitoli dei sot-tocapitoli, intitolati Le città e la memo-ria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, ecc. presentati separatamente in ulteriori suddivisioni numerate più o meno dall'uno al cinque, ma mai suc-cessive l'una all'altra, bensì inframezza-te dalle suddivisioni dei corrispettivi sottocapitoli dei sottocapitoli. Un vero caos sta a testimoniare quanta concen-trazione richieda il romanzo, e in parti-colare il capitolo 19, dove a dire il vero, ci si comincia ad accorgere che il viag-gio lungo il Danubio non è altro che un pretesto indispensabile al "la rivelazio-ne" dell'autore, in qualità di cinquan-tenne uomo ungherese con il suo passa-to, il suo presente e il suo futuro. E infatti in questo capitolo che emerge più che altrove la magiarità del romanziere, il quale, nolente o volente, nell'affettuo-so, ma sarcastico, modo di descrivere la sua Budapest, riesce a esprimere pregi e difetti del suo popolo e, conseguente-mente, di se stesso, come se lo guardas-se dal di fuori in una posizione della massima e pungente obiettività. «È l'u-more di chi la guarda che dà alla città di Budapest la sua forma.» (p. 138) e il suo umore è spietatamente buono.

A rendere ancor più caotiche le rimanenti pagine sono i titoli dei suc-cessivi capitoli 21: Continuazione della verità, 22: Continuazione della conti-nuazione della verità, 23: Continua-zione della continuazione della conti-nuazione della verità: un velato invito a procedere nella lettura, anzi ad accele-

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rari a, quantomeno per sapere se arrive-remo a conoscere La verità, titolo del capitolo 24. La fine, per chi riesce a tro-varla, è meglio ometterla in questa sede o forse se la dovrà inventare il lettore. La morale, come di consueto, si nascon-de "tra le righe" pungenti dello scrittore ungherese, sebbene, mi sia permesso, l'ironia di Esterházy cominci ad essere un po' troppo ripetitiva. Esattamente come ne La costruzione del nulla ritor-nano a) Kundéra che nella sua solitudi-ne a Parigi si è inventato l'Europa cen-trale, non potendo fare a meno di pensa-re a Praga (p. 118-119); b) la "stranezza della natura" della lingua ungherese, che se nel romanzo precedente veniva definita "strana e aliena" (p. 58) ora addirittura «è come una puttana, fa tutto quello che le si chiede (...)» (p. 129); c) lo strano temperamento degli ungheresi (p. 152); d) allusioni a Jalta (p. 143); e) e se non più all'AVH, questa è la volta dell'AVO (p. 103).

Nuove e geniali le battute sui cechi: «Lo sa, signore, quando è stata inguaia-ta l'Europa centrale? Quando non hanno coinvolto nel l 'a f fare del l ' Impero i cechi!» (p. 122). Curiosi i riferimenti storici del passato come se il lettore ungherese non ricordasse, o peggio ancor non sapesse, che fece di tanto importante Andrássy o a quando risale l'invasione tartara. Innumerevoli i nomi dei più grandi rappresentanti della lette-ratura ungherese riportati con data di nascita e di morte tra parentesi, come in un compendio letterario. Ridanciane le battute sul tasso d'inquinamento di Budapest, «avvolta in una nuvola di fuliggine e d'unto» (p. 136) per non parlare di quando (p. 147) definisce «La via più puzzolente d'Europa, come tale un unicum» via dei Martiri — attual-mente via Margerita — (strana la svista, considerato che altrove si è ben guarda-to dal sottolineare come siano cambiati nel 1991 i nomi delle strade!).

Solo un'ultima citazione da p. 154 per gustarci la raffinatissima prosa con cui la Sciglitano si è proposta al pubbli-co italiano «Una città è quello che immagina di essere. Quello che fantasti-ca. Quello che vaneggia. Quello che finge. Racconta frottole, dice fandonie. Quello che travisa, s'inventa, s'atteggia da smargiassa. Una città è la stella di cui lei stessa nega l'evidenza». Che siano i traduttori magiaristi italiani a giudicare quanta ricercatezza si celi die-tro la scelta di certe parole!

NICOLETTA FERRONI

József Attila, Tanulmányok és cikkek: Szövegek-Magyarázatok, Osiris, Budapest 1995, pp. 326; pp. 286.

Due volumi con la copertina dal colore "riposante" con su scritto a carat-teri capitali il nome del poeta: uno, gial-lo-paglierino, contenente i testi (Szövegek), l'altro, verde-acqua con le spiegazioni (Magyarázatok) ai testi rac-colti.

E di testi non c'è che l'imbarazzo della scelta. Si tratta, infatti, di írások, pubblicati tra il 1923 e il 28, sui più svariati giornali dell'epoca, dal "Makói Friss Újság" (1923) a "Nyugat" (1928), a "Századunk" (1928), alcuni firmati dal poeta, altri anonimi, ma a lui attri-buibili. Tutti già contenuti nella raccolta del 1958 di opere complete JAÖM (József Attila összes müvei), volume III. Il pezzo forte è costituito da Ihlet és Nemzet, ovvero, brevi estratti, non più di 6 saggi (anch'essi reperibili in JAOM III, oltre alla copia trascritta a mano conservata nel PIM) su temi di estetica e filosofia di non facile lettura: compo-sizione e intuizione, realtà e verità, opera d'arte, uomo e artista. Il tutto invidiabilmente curato con tanto di note a piè di pagina, in cui vengono segnala-

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te quante e quali parole collimano nella fonte o nel testo principale, laddove essendo state scritte a mano, la decifra-zione è stata difficile o quanto meno suscettibile di cambiamento, oppure modificata dal poeta stesso nelle succes-sive revisioni del testo iniziale.

Di nuovo Scritti — ma questa volta risalenti al biennio 1928-30 — ossia quelli più compromettenti — come l'arti-colo pubblicato in "A Toll" nel 1930 Gli dei muoiono, gli uomini vivono, audace critica all'omonimo volume di poesie di Babits, che lo isolò dai circoli letterari e da Babits stesso con cui si riconciliò solo nel 1932. Ma se questo articolo non tro-vava Attila József d'accordo con la con-cezione dell'artista e dell'opera d'arte del grande fondatore di "Nyugat", non è da sottovalutare l'altro scritto pubblicato ancora in "A Toll" nel 1929 dal titolo Ady vizio, dove altrettanto meritevole di attenzione è il discorso di critica lettera-ria che non si sofferma unicamente sul titanismo di Ady, ma spazia con estrema disinvoltura per arrivare a toccare grandi come Kosztolányi, Kassák ed altri più o meno degni di gloria.

Anche in questa sezione i curatori del volume sotto la direzione di Iván Horváth, con un encomiabile eccesso di zelo, alla fine di ogni articolo, hanno riportato l'anno, il mese, il giorno e il luogo della pubblicazione dello scritto, con rispettive pagine e tutte le eventuali informazioni quali la firma o la veste di anonimato con cui fu pubblicato, in quale volume di opere di A.J. è raccolto, se ci furono successive correzioni a mano o a macchina apportate dall'autore e dove sono eventualmente conservate.

Di uguale portata le rimanenti pagine, contenenti articoli "più o meno impegnati-vi del 1930, alcuni "drammaticamente" rimasti incompiuti, altri pervicacemente approfonditi dal poeta. Riguardo il loro contenuto lasciamo al lettore interessato la curiosità di scoprirlo.

Ma se alla cura di questo volume ha contribuito il grande Miklós Szabolcsi — già curatore del volume JAÖM — in collaborazione con László Vadai, all'al-tro, scritto da Tverdota, ovvero quello intitolato Spiegazioni, si è dedicato con chissà quale meticolezza il solo Szabolcsi.

E soltanto sfogliando le pagine dal carattere più piccolo e più fitto del soli-to si potrà giudicare quante ricerche e quale accuratezza si celino dietro tante pagine gremite di informazioni biblio-grafiche, biografiche, storiche e politi-che che solo un esperto sul tema quale Tverdota può permettersi di riempire.

Giustificando sin dall'introduzione (p. 5) la scelta di pubblicare scritti di Attila József già reperibili nella raccolta del 1958: «Nel corso della preparazione delle note ci siamo attenuti in grande misura alle note della precedente edizio-ne critica. (...) Ma non ci siamo attenuti solo al volume della Raccolta di opere complete III», cita le fonti a cui ha attin-to, anche se, diciamolo, ne esistono altre, non tantissime, da lui non contem-plate, non per distrazione, ma forse semplicemente perché non avrebbero contribuito a rendere efficace la giustifi-cazione delle tesi da lui sostenute.

In un secondo momento si sente in dovere di spiegare l'utilità di confronta-re i due volumi ovvero i testi e le rispet-tive spiegazioni, seppure non li defini-sca "simili", nella misura in cui si accet-ti di voler cogliere la differenza della loro struttura: il volume dei testi per-mette una lettura libera da riferimenti cronologici in cui il lettore possa, volen-do, anche non sentirsi ancorato all'idea e alla ricostruzione impostagli, invece, dalle note contenute nell'altro volume, in cui tanto le notizie quanto le specula-zioni di Tverdota gli impongono un pro-cesso di apprendimento senza dubbio più impegnativo, se non talvolta gravo-so.

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Ma allora i due volumi si differen-ziano per "amenità" di lettura nel caso in cui il volume di Testi possa definirsi più "leggero" dell'altro? La risposta è quanto mai personale, ma è altrettanto innegabile che il volume delle Spiegazioni, oltre a contenere una quan-tità inesauribile di notizie utili per com-pletare l'assimilazione dei Testi, facilita una disinvolta comparazione di più testi, al punto da sviluppare nell'univer-so immaginario del lettore un tale intreccio di eventi da dargli l'impressio-ne che il volume dei "testi", senza que-ste "spiegazioni", non avrebbe ragione di esistere.

E alle soglie del 2000 — quando ormai gli studi su Attila József si sono spinti al di là dei limiti ideologici impo-sti dal regime agli intellettuali che hanno condotto le loro ricerche nel cin-quantennio successivo alla morte del poeta — prescindendo dalle posizioni politiche dei vari esperti in materia, questa opera non deluderà neanche le più pretensiose aspettative di chi ha avuto la fortuna di conoscere Tverdota e la dovizia di particolari con cui conduce le sue ricerche, degne di essere "revisio-nate" da un grande come Szabolcsi. Figuriamoci l'effetto che può sortire il loro lavoro se a leggerlo sia chi tale for-tuna non ha mai avuto!

NICOLETTA FERRONI

Attila József. Flóra, amore mio. Poesie e lettere d'amore di Attila József a Flóra Kozmutza. Introduzione, cura e note di Nicoletta Ferroni. Prefazione di Tomaso Kemeny. "Quaderni di Storia della Critica e delle Poetiche", Bulzoni, Roma 1995, pp. 130.

Il volume si inserisce in maniera esemplare nella serie delle pubblicazio-

ni in italiano degli scritti di Attila József. Il lettore italiano può conoscere così non soltanto alcune nuove traduzio-ni dell'opera poetica del Nostro, nell'in-terpetazione di uno dei più rinomati poeti-traduttori, Tomaso Kemeny, ma può avere anche un'idea più approfon-dita della psiche, della costruzione di un amore e della progressione della malat-tia di un poeta suicida, per il quale l'a-more era in senso stretto la vita.

Siamo nei mesi primaverili del 1937, l'inverno dello stesso anno vede il suo suicidio: il poeta muore insieme alla natura, come si suicidò il Werther di Goethe o come A. Rimbaud, per il quale, seguendo il ritmo della natura, da diciassette a diciannove anni, le quattro primavere di creazione erano sempre seguite, anzi "ossessionate" dalle stagioni del profondo silenzio del-l'inverno. Per Attila József questi mesi erano pieni di contraddizioni, mesi in cui la depressione diventava sempre più grave ed insopportabile. Eppure all'om-bra dell'annientamento nascono grandi poesie.

Citiamo i suoi ultimissimi versi tratti dalla poesia trovata sulla sua scrivania dopo le ore 7 del venerdì sera del 3 dicembre 1937, gli ultimi versi che dimostrano la sua cocreazione con la natura stessa (.infine ho ritrovato la mia patria):

Bella è la primavera e bella è anche l 'estate ma ancora più bello è l'autunno e l 'inverno è la stagione più bella per chi solo per gli altri sogna una famiglia, un focolare.

Le lettere d'amore raccolte in questo volume, scritte a Flóra Kozmutza (1914-1995), futura moglie di Gyula Illyés e autrice di numerosi libri di pedagogia riabilitativa, sono state tra-

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dotte da Nicoletta Ferroni, che ha avuto occasione di parlare a lungo con la pro-fessoressa Kozmutza e di chiederle informazioni di carattere filologico sulla corrispondenza. Pertanto le ricerche della Ferroni, contenute nelle 109 note a piè di pagina, sono "approvate" dal destinatario delle lettere, dal più autenti-co testimone.

Quando N. Ferroni ha discusso la tesi Poesia d'amore di Attila József presso l'Accademia Ungherese delle Scienze, ottenendo, con i massimi voti, il secondo grado scientifico (equivalen-te al Phd) in Scienze letterarie, espone-va più a lungo la sua interessantissima e valida concezione della vicenda vitale e poetica di Attila József nel Novecento ungherese. Il lettore di questo libro, invece, deve accontentarsi soltanto di una breve introduzione scritta dalla curatrice, ma per capire meglio la sua posizione nei confronti della poetica di A. József, riteniamo importante citare una frase tratta dalla sua tesi: «La posi-zione poetica di Attila József fu, dun-que, l'abbandono del mondo metaforico della mitologia nazionale e del mondo folcloristico di Petőfi e il superamento del simbolismo francese e di Ady, arri-vando a una sorta di realismo per descrivere gli eventi quotidiani più comuni dell'umanità intera, creando un suo repertorio metaforico diretto e immediato» (p.45). Questa constatazio-ne in sostanza giusta, anche se un po' sommaria, trova conferma nell'analisi dell' Ode — proposta dalla Ferroni nel numero 7 di RSU nel 1992 — capolavo-ro tradotto in italiano da Antonello La Vergata.

Il volume, pur nel suo piccolo for-mato, è un nuovo e significativo risulta-to degli studi józsefiani in Italia. Il recensore non può non ricordare il lon-tano 11 aprile 1980, quando alcuni pro-fessori venuti dall'Ungheria come bor-sisti festeggiarono a Roma "la giornata

della poesia ungherese" (essendo I ' l l aprile la data di nascita del poeta) insie-me ad alcuni studenti italiani magiaristi, parlando dei diversi aspetti della sua poesia e recitando le sue opere. Fu quel-la l'occasione in cui La Vergata pre-sentò la sua traduzione italiana dell' Ode, forse la più bella poesia d'a-more ungherese. Da allora esiste all'Università di Roma, intorno al Prof. Sárközy, un vero "centro di studi su Attila József'.

Il 17° numero della Collana minor. "Testi di poesia e Narrativa. Traduzioni. Prove di lettura" fondata da Mario Costanzo e diretta da Rocco Paternostro, edita da Bulzoni, contiene documenti importanti della formazione e dello sviluppo di un amore che ha pro-dotto alcune tra le più belle poesie nella storia letteraria, il loro grande valore estetico creato anche dalla coscienza dell'immediata e triste fine dell'autore: intensità emotivo-artistica della vita all'ombra della morte.

JÓZSEF PÁL

Péter Sárközy, "Kiterítenek úgyis", József Attila, Argumentum, Budapest 1996, pp. 220.

Péter Sárközy, da tre lustri alla testa della cattedra di Lingua e letteratura ungherese dell'Università "La Sapien-za", noto comparatista italo-ungherese e storico della letteratura, si è dedicato per anni con passione alla ricerca stori-ca e filologica dell 'opera di Attila József. Dopo la pubblicazione di alcuni saggi, ha infine saltato il muro delle pagine e si è deciso ad offrirci un'anali-si obiettiva ed equilibrata del lavoro del poeta magiaro, ponendovi al centro alcuni segmenti della sua opera, attra-verso la revisione di una serie di dogmi che ostinatamente accompagnano la cri-

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tica józsefiana, finendo per apparire quasi come le sue inestirpabili radici (e di radicamento ideologico talvolta si tratta), di equivoci, di lacune consape-voli e di deformazioni dettate da cattiva intenzione.

Il modo di procedere di Péter Sárközy ci appare motivato, e sono per-lomeno due i punti di vista o principi fondamentali a suo favore:

1.1 lettori, e soprattutto i giovani let-tori colti ed esigenti, scoprono di solito con gran sorpresa quanto insormontabile sia la contraddizione tra le esperienze molto spesso rivelatrici che seguono alla lettura delle poesie di Attila József e l'a-nalisi della sua opera (a livello di manuali scolastici, letteratura popolare, monografie di uso corrente).

2. La stessa ricerca critica riguardan-te Attila József ha portato in determinati ambiti a risultati parziali, scoperte signi-ficative tali da giustificare e anzi richie-dere un passo in avanti verso nuove sin-tesi.

Questo passo in avanti tuttavia non può esser fatto senza sciogliere la neb-bia di leggende che avvolge la vita e l'opera di Attila József. Péter Sárkozy fa proprio questo: prende in considerazio-ne uno per uno i miti negativi, le leg-gende. Chi legge le Note del volume "Kiterítenek úgyis" può rendersi conto del severo giudizio col quale egli elenca le tre leggende fondamentali il cui siste-ma di interdipendenze finisce per dise-gnare i nodi principali della vita di Attila József, che sono anche "grovigli" nel senso psicologico del termine. La logica di Sárközy è sorprendente: questi grovigli, costruiti l'uno nell'altro, di per se stessi motivano la tragica fine del più significativo poeta socialista del XX secolo, al di là di ogni motivazione patologica.

Dobbiamo qui sottolineare che il lavoro di Péter Sárközy è polemico solo lì dove ciò sia assolutamente richiesto:

in accordo con quanto richiede l'obietti-vità storico-letteraria, sostituisce una tesi con un'altra, che assai frequente-mente è frutto delle sue proprie ricer-che, utilizzando una logica argomentati-va adeguata, confrontando i punti di vista sulla base di una piena conoscenza della letteratura sull'argomento. Il suo libro ha senza dubbio qualità monogra-fiche, senza dimenticarsi neppure per un momento che l'obiettivo sostanziale è quello di favorire la "giusta" lettura della poesia (il volume originariamente era stato concepito come parte della col-lana ungherese Matura, ausilio prezioso innanzitutto, ma non solo, per i diplo-mandi magiari).

Lo scopo è raggiunto: il lettore, sulla base del confronto tra pregiudizi e giu-dizi corretti, è ormai egli stesso molto più capace di seguire le orme lasciate da questo poeta e pensatore fragilissimo che sempre più profondamente andava intristendosi nella malattia, dell'uomo pubblico traballante fra i caffè letterari ungheresi e il Movimento, dell'amante solo anche accanto alle sue donne, sem-pre colpevole, volente o nolente.

Grazie alla pervicace ricerca di Péter Sárközy, "Kiterítenek úgyis " rappresen-ta dunque un evento davvero significati-vo per la filologia józsefiana, per la sto-riografia letteraria ungherese e per la recezione poetica.

PÉTER EGYED

Gianpiero Cavaglià, L'Ungheria e VEuropa, a cura di Katie Roggero, Péter Sárközy e Gianni Vattimo, Bulzoni, Roma 1996, pp. XII-440.

Questo volume presenta una raccolta di scritti sparsi del magiarista e compa-ratista prematuramente scomparso nel 1993, ordinati secondo quelle che furo-no le sue principali aree di interesse ed

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accompagnati dal ricordo di quanti gli furono vicini nella sua esperienza scien-tifica ed umana presso l'università di Torino. La definizione di scritti sparsi fa riferimento al carattere talvolta episodi-co od occasionale di una parte del mate-riale contenuto nel libro, nel quale figu-rano tra l'altro lezioni precedentemente inedite, interventi in occasione di con-gressi e recensioni e schede pubblicate sull'Indice e sulla Rivista di estetica. Questi scritti costituiscono tuttavia un insieme coerente e chiaramente ricono-scibile nei suoi lineamenti essenziali. Ognuno di essi si presenta come un passo consapevole lungo un percorso che disegna pur nella varietà dei temi un progetto rimasto purtroppo incompiuto, ma non per questo meno interessante e suggestivo.

Ci si può certo chiedere se e quanto debba ritenersi legittima una lettura volta a vedere un intento comune dietro testi non composti originariamente in vista di un'unica pubblicazione; è del resto lo stesso Cavaglià a mettere in guardia il lettore, ogni lettore, dagli eccessi cui il fascino dell'interpretazio-ne può dare spazio ed occasione (si veda a proposito il breve articolo su S. Sontag compreso nel volume a chiusura della seconda sezione, per certi versi fuori dal pur largo orizzonte cronologi-co e geografico degli altri saggi ma per-ciò stesso tanto più fortemente indicati-vo di un interesse tematico costante). Non si può tuttavia ignorare la serietà e l'ampiezza dell'orizzonte nel quale il critico colloca la propria attenzione per l'Ungheria e per la sua letteratura, lon-tano dal facile compiacimento per una materia riservata allo specialismo del cultore di discipline insolite o strava-ganti; si riconosce in essa una via non meno diretta, e forse anche più ricca di tante altre, alla conoscenza della nostra stessa storia culturale, intendendo qui per "nostro" quel patrimonio comune

del Vecchio continente i cui confini non possono essere ristretti soltanto a tre o quattro tradizioni linguistiche, la cui stessa precisa delimitazione appare già impresa di difficile soluzione. Ecco allora emergere dalla lettura di questi "scritti sparsi" una linea interpretativa che segue dentro e fuori dai confini della Mitteleuropa gli aspetti consape-volmente fantastici della letteratura, alla ricerca di una rivalutazione "seria" di tutto quanto potrebbe apparire semplice deriva estetica agli occhi di chi assegni invece alla parola una funzione esclusi-vamente o eminentemente pedagogica (e su questo punto si veda l'analisi criti-ca dei programmi culturali di due figure inscindibilmente ungheresi ed europee quali furono Béla Balázs e György Lukács). Cavaglià sa presentare con accenti assai chiari e convincenti la let-teratura come una "casa" che l'uomo si costruisce dall'interno, come l'ascolto di una voce nella quale il senso ed il posto del soggetto nel mondo non viene conosciuto ma creato senza sosta (ad esempio negli scritti sul problema del-l'identità nella narrativa ungherese degli ultimi due secoli, oppure in quelli sul rapporto tra mito e creazione artistica a proposito di Hofmannsthal e Kerényi).

Al di là dei singoli contributi, pro-prio in questa prospettiva comune con-siste il punto di più vivo interesse che questi scritti offrono al lettore, e non soltanto ad un lettore "specialista". Se infatti per il magiarista le pagine di Cavaglià contengono spunti e conside-razioni imprescindibili per la ricerca e per il dibattito critico e scientifico, è forse soprattutto al lettore non stretta-mente specializzato che quelle stesse pagine possono offrire l'esperienza più ricca ed affascinante, quella che nasce da un incontro inatteso ed illumina inso-spettati momenti di bellezza e di valore.

MATTEO MASINI

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Péter Sárközy, Roma. La Patria comune. Saggi italo-ungheresi. "Gaia. Studi di Letteratura Comparata", a cura di Armando Gnisci e Franca Sinopoli, Lithos, Roma 1996, pp. 214.

Fin dall'inizio degli anni '60 i gran-di centri dello studio delle Letterature Comparate si sono formati in due pro-spettive, e anche, se tacitamente, in base a due diverse concezioni o presupposti. Da un canto gli studiosi delle cosiddette "grandi" letterature cercavano la fortuna di un Dante, di un Rousseau o di un Goethe in altre letterature. Oltre alla ormai classica "Revue de Littérature Comparée" le riviste e i dipartimenti universitari di Letteratura Comparata sono stati fondati in Francia, in Germania e negli Stati Uniti. D'altro canto ci sono le "piccole" letterature, per le quali è quasi una questione di vita la presenza al livello internazionale e la collocazione di un'opera in un contesto universale; per cui i letterati e gli stu-diosi lavorano in questa direzione nelle organizzazioni internazionali.

Alla seconda categoria appartengo-no — sempre rimanendo nel tema dei grandi centri della comparatisitca — gli olandesi, i portoghesi e gli ungheresi. Ed è estremamente significativo che questa disciplina veniva studiata soltan-to in pochissime università italiane (seb-bene ci siano molte cattedre di "lettera-tura comparata" le quali però non utiliz-zano i metodi generalmente conosciuti e accettati della comparatistica). Dal punto di vista mondiale — se conside-riamo i congressi e le pubblicazioni dell 'Associazione Internazionale di Letteratura Comparata — solo il Dipartimento del Prof. Caramaschi a Firenze ha avuto grande importanza per lunghi decenni.

Anche per questa circostanza rite-niamo molto notevole la pubblicazione della collana editoriale "Gaia" curata

dal prof. Gnisci e dalla dott.ssa Franca Sinopoli: da alcuni anni esiste finalmen-te alla "Sapienza" di Roma un vero cen-tro di comparatistica con moltissimi stu-denti, con visiting professors di tutto il mondo, e con la pubblicazione di vari libri nuovi e tradotti da molteplici lin-gue straniere. Questo dipartimento ha ottimi rapporti con la "scuola unghere-se" della comparatistica: accanto al prof. Gnisci, anche Péter Sárközy è incaricato all ' insegnamento di tale disciplina. Non per caso il numero del 1997 della collana è dedicato ai rapporti italo-ungheresi.

Péter Sárközy, portatore e innovatore nella sua attività scientifica della grande scuola francese, parte sempre dai fatti storici e letterari e raramente si occupa dei problemi di carattere esclusivametne teorico. Oserei dire che rimane sempre fedele all'approccio "latino", poiché non utilizza i veri o falsi risultati del teoreti-cismo anglo-sassone. Il nostro autore ama e rispetta i fatti. Dopo la scomparsa della "grande generazione" (Tibor Kardos, József Szauder, Jenő Koltay-Kastner e Tibor Klaniczay) egli è uno dei migliori conoscitori dei rapporti itlao-ungheresi e non soltanto di un certo periodo, ma di un mezzo millennio. La grande varietà dei temi di questo libro, dalla fondazione dei primi collegi ungheresi in Italia (Roma, Bologna), fino al nuovo governo della neonata Repubblica d'Ungheria del 1990.

Con il fattualismo, con lo studio minuzioso dei documenti, Sárközy ha anche un altro fine, al di là del santuario della filologia. Quasi ogni suo articolo si nutre non soltanto dei fatti, ma è anch'esso un fatto. Vuole dimostrare al pubblico italiano il vero ruolo e la vera importanza dei ricordi storici e spiritua-li, vale a dire, vuole "ripulire" questa presenza ungherese in Italia dalle innu-merevoli menzogne e falsificazioni, e lo fa sempre in base alla severissima stori-

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cita e al documentarismo. In questa pro-spettiva aveva, e ha tuttora, un ruolo d'estrema importanza Roma, la Mater gentium o communis Patria.

I vari scritti raccolti nel volume si articolano in alcuni gruppi principali nella loro tematica. Menzioniamo per primi quelli che trattano dei rapporti strettamente storici e che abbracciano un tempo di quattro secoli dalla fondazione del Collegio Ungaro-illirico di Bologna ( 1553 o 1557) al nostalgico-polemico Un Istituto scientifico a Roma: l'Accademia d'Ungheria in Roma (1895-1950). Da questi articoli si vede chiaramente l'intenzione dell'autore: far vedere il passato per migliorare il pre-sente. La sua concezione basilare: dalla fondazione di uno stato cristiano della Conca dei Carpazi, nel corso di lunghi secoli, i rapporti delle due nazioni furo-no estremamente ricchi e buoni, e il maggior accento cadeva, ovviamente a Roma. Nel dopoguerra invece, grazie alla politica ufficiale dell'Ungheria, tutto andava declinando. Ma anche gli anni '50 e '60 hanno portato grandi risultati grazie ai professori e studiosi ungheresi che vivevano (vivono) in Italia, tra cui viene analizzata l'attività scientifica molto complessa (anche contraddittoria) dello storico-archivista Florio Banfi.

Un altro gruppo dei saggi si occupa dei rapporti strettamente letterari. Il capi-tolo intitolato LArcadia ungherese pre-senta nuovi risultati dei suoi lunghi studi sul Settecento letterario (la sua tesi di dottorato di ricerca discussa presso l'Accademia Ungherese delle Scienze nel 1979 trattava le poetiche dell'Arcadia e del Preromanticismo). Gli studi sul Romanticismo sono rappresentati da due scritti: L'intellettuale e la rivoluzione: Sándor Petőfi e Montagna e pianura: simboli della poesia ungherese. Gli arti-coli sul Novecento mostrano una grande varietà partendo dalla ricezione di Dante nella letteratura ungherese, dall'analisi

della traduzione di Babits e della presen-za degli elementi della poesia dantesca nella rivoluzione letteraria degli scrittori della rivista "Nyugat"; fino ai problemi fondamentali della letteratura delle mino-ranze. Quest'ultimo è un tema particolar-mente importante nella coscienza unghe-rese, tenendo presente la spartizione del paese nel Trattato di Trianon. «La patria di questi scrittori non è l'Ungheria, ma le loro opere non appartengono solo alla vita culturale della comunità di minoran-za di cui essi stessi fanno parte, bensì anche alla grande famiglia della nazione ungherese e, dunque, fanno parte del tesoro della letteratura nazionale unghe-rese, come l'opera di un Manzoni e di un Verdi, cittadini austriaci al loro tempo, apparteneva e appartiene senza dubbio alla cultura nazionale italiana» (p. 199, La letteratura ungherese delle minoranze nella nuova realtà europea). Sárközy, un vero comparatista, che prende sempre in considerazione tutta l'area storio-geogra-fica, cioè, le altre piccole letterature cen-tro-europee, slovacca, croata, ecc.

Il titolo del libro: Roma. La Patria comune, si riferisce all'iscrizione sulla lastra sepolcrale di un prete penitenziere nato a Gyulafehérvár (Alba Iulia in Transilvania) nel 1448. Il sepolcro con l 'epitaffio si trova nella Basilica di Santo Stefano Rotondo sul Monte Celio, adesso riportato al suo posto ori-ginario al centro dell'edificio, un vero locus sacralis per tutti i pellegrini o viaggiatori ungheresi.

JÓZSEF PÁL

Erdélyi Jiddish Népköltészet (Poesia popolare yiddish di Transilvania) Europa, Budapest 1994, pp. 160.

«Allora, quando nelle nostre città e nei nostri villaggi, nella regione di Máramaros o nella zona di Dés, viveva-

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no numerose comunità ebraiche, una volta capitò che il rabbino, interrompen-do all'alba lo studio delle sacre scrittu-re, andò a passeggio verso il limitare del villaggio. E si accorge che nel negozio del piccolo calzolaio brilla ancora la luce. Entra per riprenderlo.

- Ehi Mojshe, perché hai ancora la luce accesa, non vedi che sta spuntando il sole?

Il piccolo calzolaio sollevò lo sguar-do dal banco e rispose:

- Rebe, finché la fiamma brucia, si può ancora riparare tutto».

Con questa breve ma allo stesso tempo intensa e poetica storiella dal gusto chassid del piccolo calzolaio ebreo, Sándor Kányádi, curatore e tra-duttore del volume, inizia la postfazione al libro Erdélyi Jiddish Népköltészet (Poesia popolare yiddish di Transilva-nia) edito in edizione bilingue yiddish e ungherese dalla casa editrice Europa di Budapest nel 1994.

Le poesie e i canti presenti nel volu-me sono quasi tutti tratti da antologie yiddish, tra cui la più importante che viene citata è Éneklő haszidok közt pub-blicata a Kolozsvár nel 1948. La maggior parte dei testi è anonima, con due ecce-zioni: una è la ninnananna Shluf majn kind, majn trajst, majn shejner (Tente kincsem aludj szépen, Dormi bene tesoro) opera di uno dei più famosi scrit-tori yiddish, Sholem Alechem; l'altra è la canzone intitolata 'J brent briderleh 's brent (Eg testvérek, Brucia, fratelli bru-cia) e scritta dal falegname di Cracovia Mordechaj Gebirtig, membro del movi-mento di resistenza antinazista e assassi-nato nel 1942 da soldati tedeschi.

Questa di Mordechaj Gebirtig è una tipica canzone da ghetto, così come la lingua yiddish è la lingua del ghetto, delle "shtetl". Gli ebrei fuggiti dalle persecuzioni nel Medioevo e rifugiatisi nei territori di lingua tedesca hanno

creato questa lingua utilizzando come base la variante del medio-alto tedesco. In seguito nello yiddish sono penetrati molti termini ed espressioni dalle varie lingue slave, dall'ebraico e dall' aramai-co e in questa forma è diventata la lin-gua della popolazione ebraica dell'Europa centro-orientale. Accanto all'ebraico, usato soprattutto come lin-gua sacra nelle preghiere e nelle funzio-ni religiose nelle sinagoghe, lo yiddish si è elevato al rango di lingua e ha avuto uno sviluppo autonomo in letteratura ed essendo una lingua d'uso popolare e quotidiano ha creato la propria poesia popolare: fiabe, leggende, canti, ballate, canzoni di scherno.

In Ungheria molti ebrei vivevano come musicisti di vocazione. Questo fatto è suffragato anche da numerosi documenti scritti, ma il loro repertorio non è conosciuto poiché non sono stati conservati né spartiti, né annotazioni, né registrazioni delle musiche e delle danze ebraiche ungheresi. Contrariamente alla situazione ungherese, degli ebrei che vivevano in Lituania, Russia, Ucraina e Moldavia sono rimaste molte registra-zioni e documentazioni musicali e scritte delle loro opere.

Nella regione di Máramaros, che al giorno d'oggi si trova in Romania vici-no al confine ucraino, dalla quale pro-vengono i testi raccolti in questo libro, prima dello scoppio della seconda guer-ra mondiale vivevano più di 5000 fami-glie ebraiche, molte delle quali si dedi-cavano alla musica. L'olocausto ha pra-ticamente annientato la presenza ebraica in queste zone, distruggendo insieme alle persone anche il patrimonio di musiche, canti e danze da esse creato.

Forse adesso la fiammella del picco-lo calzolaio ebreo non brilla più, forse gli avvenimenti successi sono davvero irreparabili.

STEFANO D E BARTOLO

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AA.VV., Voci dalla Shoah, Nuova Italia Editrice, Firenze 1996, pp. 134.

Questo libro ripercorre momenti drammatici della nostra storia, attraver-so le testimonianze di Goti Bauer, Nedo Fiano e Liliana Segre, reduci dei campi di concentramento nazisti.

Le testimonianze, prive di qualsiasi ambizione letteraria, si propongono di ricordare la tragicità di quegli anni, il conseguente senso di annientamento dell'uomo, la follia di un sistema di meticolosa crudeltà, scardinando così, attraverso il doloroso ricordo dei prota-gonisti, le aberranti teorie storiche revi-sionistiche o negazionistiche degli ulti-mi anni, risvegliando noi tutti dall'indif-ferente torpore nel quale spesso vessia-mo, scettici ed inerti, dinanzi al ripetersi di quegli orrori anche ai nostri giorni, in altre parti del mondo: in Bosnia, in Ruanda, nei Paesi Arabi.

È proprio per evitare la dimentican-za e l'indifferenza che questi uomini hanno deciso di raccontare le loro vicis-situdini, di parlare dinanzi alle scolare-sche, di scrivere questo volume, nono-stante l'interna lacerazione che ogni testimonianza comporta.

Goti Bauer, che per una sorta di pudore personale ha taciuto la sua espe-rienza fino al 1992, narra la propria dolorosa storia di ebrea italiana di Fiume, le peregrinazioni sue e della famiglia per l'Italia e la conseguente cattura, soffermandosi a lungo sul perio-do di prigionia nel lager di Birkenau, ove persero la vita tutti i suoi familiari e sul dominante senso di impotenza e nul-lità che accomunava tutti i prigionieri. Punto questo su cui insiste anche Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni ed ivi privata degli affetti più cari e della propria adolescen-za. Nella sua testimonianza predomina-no il dolore per le continue umiliazioni subite come prigioniere e come donne e

la difficoltà del reinserimento sociale dopo Auschwitz.

Nedo Fiano, invece, nel suo raccon-to doloroso e concitato, si rivolge ai giovani, esortandoli con passionale vee-menza a difendere sempre la libertà, a lottare per essa, a non dimenticare la storia, parte integrante della vita di cia-scuno di noi.

Un libro questo, come affermano anche Alessandro Galante Garrone nella lunga prefazione e Claudio Facchinelli nella meditata introduzione, scritto per non dimenticare ciò che il nazismo significò, non solo per le innumerevoli vittime del sistema, ma per l'umanità in generale che, dopo Auschwitz, ha visto mutare il corso della propria storia, al punto da poter fare assurgere, come scrive Alessandro Garante Garrone, Auschwitz ed Hiroshima a simboli della nostra epoca.

Simboli dell'estrema follia umana, della bramosa sete di dominio, della discriminazione più esasperata, dell'i-pocrisia e dell'indifferenza più abiette; simboli che, purtroppo, continuano ancora oggi ad opprimere milioni di uomini di questo nostro mondo "civile", in nome di un'uniformità politica, reli-giosa, razziale, fortunatamente irrag-giungibile, ma stoltamente e ferocemen-te perseguita da molti governi del mondo.

Un libro, dunque, di denunzie, che con la sua cruda esposizione degli even-ti, ci induce a riflettere sul comporta-mento dell 'uomo, non solo nel suo ruolo di oppressore, ma anche in quello più complesso di vittima ed aguzzino allo stesso tempo, proprio di tutti quei deportati che, per salvarsi la vita, diven-nero nei campi di concentramento car-nefici dei loro compagni, contribuendo così a rendere sempre più violento ed inumano l'universo dei lager. Compor-tamenti che Primo Levi confinava in una fittizia zona grigia, comportamenti

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folli ma non giudicabili in condizioni di vita normali, perché il lager non posse-deva nulla di umano, era il regno dell'i-stinto e della bestialità, un luogo che il linguaggio degli uomini, scrive Goti Bauer, rifacendosi a Primo Levi, non potrà mai descrivere nella sua interezza.

Il libro si conclude con il "Dizio-nario del lager" di Oliver Lusting, uno sconosciuto ebreo ungherese prigioniero nel lager di Auschwitz, che ha lasciato un vero e proprio dizionario della realtà concentrazionaria, centoventi parole che confermano quanto detto sull'incomuni-cabilità linguistica e che uniscono, inve-ce, tutti i tragici ricordi dei reduci. Non è un caso, infatti, che Goti Bauer abbia curato la traduzione italiana del testo, del quale nel libro è pubblicato solo un quinto.

MARIA TERESA CINANNI

M A R I A TERESA CINANNI , Testimoni di voci sommerse. L'esperienza del nazismo in alcuni scrittori ebrei europei: Joseph Roth, Primo Levi, Jean Améry, Miklós Radnóti, Periferia, Cosenza 1997.

Quando, al decennario dalla sua morte, il mondo della cultura e i mas-smedia tornano a interessarsi dell'opera e della figura umana di Primo Levi, facendo con questa riemergere in un baleno e per poco tempo eventi storici come il nazismo e la persecuzione degli ebrei, che sempre di più appaiono soprattutto ai giovani come spettacolar-mente atroci ma oramai ben lontani, ciò che rimane è il desiderio di un confron-to più serio, sensibile e duraturo con tali fenomeni, capace di porsi all'altezza di scrittori come Levi o altri che ne furono i testimoni. Il libro tratto dalla tesi di laurea della giovane Maria Teresa Cinanni, articolato come comparazione

originale tra l'opera e la testimonianza di Roth, Levi, Améry e Radnóti, che ne mette in luce sia le differenze che le tematiche e idee convergenti, viene incontro a tale desiderio. Compara-zione, la sua, che arricchisce il discorso critico, oltreché su Levi, sull'altrettanto noto Joseph Roth, ma che ha soprattutto il merito di far conoscere meglio al pub-blico italiano lo scrittore, il filosofo e critico letterario di origini austriache Jean Améry (Hans Mayer) e il poeta ungherese Miklós Radnóti.

In apertura, l'autrice affronta il pro-blema dell'ebraismo da un punto di vista storico-culturale, passando poi al rilievo e alle cadenze che esso assunse nell'opera degli scrittori in questione. Vanno brevemente ricordati a questo proposito, per quanto riguarda Roth, il tema dell'ebreo errante, sradicato dopo la perdita dello Shtetl, il suo luogo d'o-rigine, e il confronto spesso tormentato con tematiche trascendentali; per Levi, spinto dall'esperienza del lager che lo accomunò ma che contemporaneamente evidenziò la sua diversità dagli ebrei provenienti dall'Europa orientale, l'esi-genza di ricuperare alla memoria il patrimonio culturale ebraico, patrimo-nio sentito come proprio a prescindere da un agnosticismo da lui molte volte dichiarato; per Améry, cresciuto in una famiglia interamente "assimilata" all'ambiente cattolico, l'assoluta inca-pacità e il rifiuto di identificarsi con il popolo ebraico e, infine, per Radnóti il trasferimento di una fede trascendentale alla poesia, sua compagna fino alla sua uccisione da parte delle SS nel lager di Heidenau. Maria Teresa Cinanni proce-de poi mostrando i riscontri letterari delle esperienze vissute degli scrittori considerati, dei quali il solo Roth non subì l'internamento in un campo di con-centramento, rivelando tuttavia fin dagli anni Venti una sensibilità premonitrice, esplicata del resto nei suoi romanzi

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"politici", di fronte alle manifestazioni del nazismo nascente. Interessante anche a questo riguardo la messa in rilievo delle differenze intercorrenti tra questi scrittori, come ad esempio la diversa concezione che ebbero dell'in-tellettuale (e della sua conseguente posi-zione all'interno del lager) Améry e Levi: a quella elitaria e strettamente umanista del primo si contrappone, infatti, quella più aperta di Levi, esem-pio egli stesso di un intellettuale "cen-tauro" per via della formazione scienti-fica e della professione di chimico ben conciliata con quella del letterato. Affrontando in seguito la tematica lette-raria e il problema umano del ritorno, ritorno che sia nel caso di Améry, che nel 1978 pose fine alla sua vita, sia in quello inizialmente più sereno e fiducio-so di Levi, fu soltanto la "tregua" dal-l 'esper ienza infernale che rimase inscritta nelle coscienze di entrambi, l'autrice fa dialogare lo scrittore austria-co e quello italiano sulla base dell'idea di libertà che «avvicina il pensiero di Levi a ciò che Améry scrisse nel suo ultimo saggio, ove la mors voluntaria assurge ad emblema estremo di libertà, non comprensibile e non valutabile da chi si trova fuori da tale situazione» (p. 225). Nel capitolo conclusivo, invece, nel quale si discute del rapporto che i

quattro scrittori ebbero con la moder-nità, spicca la figura di Radnóti, poeta poliedrico e capace di conciliare un classicismo aulico con le tendenze della lirica moderna sulla base di una conce-zione della poesia come espressione del sentire più intimo e dell'espressione della più scoperta umanità.

Traspare dalla sistematicità e dalla sicurezza delle valutazioni critiche che caratterizzano positivamente lo studio di Maria Teresa Cinanni una nota più coperta ma altrettanto essenziale, la quale ne costituisce un ulteriore merito che va al di la di quello scientifico. Intendo dire, una nota di indignazione, presente come filo rosso nel suo discor-so che per questo non perde di obietti-vità, ma che anzi si arricchisce di una dimensione etica la cui importanza viene ribadita soprattutto dalla recente compa-ratistica letteraria aperta alla sfera politi-co-sociale. In questa maniera, la giovane studiosa ci dà la conferma che, di fronte all'orrore di eventi storici troppo spesso rimossi o allontati nel tempo, proprio la letteratura - unico modo per i quattro autori considerati di conferire un senso al proprio "tempo dilazionato", per dirla con Ingeborg Bachmann - non faccia perdere l'indignazione.

N O R A M O L L

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CRONACHE E CONVEGNI

IL CONVEGNO ITALO-UNGHERESE DI STUDI STORICI. VENEZIA, 23-24 GENNAIO 1997

Il 23 e 24 gennaio 1997 si è svolto a Venezia il II Convegno italo-ungherese di studi storici. Organizzato dal dipartimento di Studi storici della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell 'Università Ca' Foscari di Venezia e dal Centro Interuniversitario per gli Studi ungheresi in Italia il convegno ha avuto come unico tema l'epoca di Horthy, ovvero l'Ungheria tra le due guerre mondiali. A differenza del primo convegno svoltosi in Ungheria nell'aprile 1993, e di cui sono stati recenter-nente pubblicati gli atti per le edizioni Lithos, per l'incontro di Venezia si è voluta sperimentare una nuova formula. Mentre a Pécs numerosi e, per la varietà dei temi trattati, per nulla omogenei erano stati gli interventi degli studiosi, a Venezia l'obietti-vo principale è stato quello di focalizzare l'attenzione su un solo argomento, l'epoca di Horthy appunto.

Cinque sono stati gli interventi ufficiali. La prima giornata è stata dedicata alla politica interna ungherese grazie ai contributi di Ignác Romsics sul regime di Horthy e di Zsuzsa Nagy, la quale, malgrado la sua assenza, ha fatto pervenire ugualmente il suo lavoro riguardante un altro aspetto della politica interna ungherese, i partiti di opposizione. La seconda giornata, invece, ha visto la partecipazione, in ordine, di Mária Ormos con un saggio sulla politica estera ungherese tra le due guerre mondiali; di Zoltán Kaposi il cui lavoro è stato improntato sulla politica economica del Regno d'Ungheria; e, per concludere, di Péter Sárközy il quale, offrendo un contributo che esula dal tema storico vero e proprio, è intervenuto su cultura e società nell'Ungheria tra le due guerre mondiali.

A conclusione di ogni relazione si è voluto lasciare il più ampio spazio possibile ai presenti in modo da dar loro la possibilità, con domande ed interventi sul tema di prendere parte attiva al convegno. L'ottima organizzazione e la viva partecipazione degli studiosi, a cui purtroppo (e questa è stata l'unica nota stonata) non ha fatto seguito l'interesse del pubblico in genere e degli studenti dell'Uni velsità di Venezia in particolare, hanno suggellato l'avvenimento. La speranza è che si continui su que-sta strada per poter divulgare la storia magiara e per poter instaurare proficui confron-ti tra studiosi di Italia e Ungheria.

SIMONA NICOLOSI

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CONVEGNO SCIENTIFICO IN OCCASIONE DEL 125 ANNIVER-SARIO DELLA FONDAZIONE DELLA PRIMA CATTEDRA DI

FILOLOGIA UGRO-FINNICA ALL'UNIVERSITÀ DI B U D A P E S T

125 anni fa, nella primavera del 1872 fu fondata all'Università degli Studi di Budapest la Cattedra di Linguistica Comparata di Altaistica, la prima officina scienti-fica di filologia ugro-finnica, fondata dal professore József Budenz, oriundo di Germania, socio-corrispondente dell'Accademia Ungherese delle Scienze e dell'Associazione Letteraria Finlandese. I suoi successori alla direzione della Cattedra, ormai chiamata di Filologia Ugro-finnica, erano József Szinnyei, (dal 1893), poi Miklós Zsirai, György Lakó e più recentemente Gábor Bereczki e Péter Hajdú, questi ultimi anche oggi, dopo il loro congedo, sono attivi studiosi nelle ricerche del Dipartimento. Tutti questi personaggi e la loro opera scientifica è stata analizzata ed onorata nel corso di quel Convegno internazionale organizzato all'Università di Budapest Eötvös Loránd, nei giorni 23-24 settembre 1997, dagli attuali docenti e stu-diosi della "Finnugor Tanszék".

In presenza di un foltissimo pubblico, davanti ai rappresentanti delle più impor-tanti università del Mondo (l'Italia è stata rappresentata dai docenti di Roma, La Sapienza ed Udine) il Convegno è stato inaugurato dal Magnifico Rettore Miklós Szabó, nell'Aula Magna dell'Università di Budapest. Gli indirizzi di saluto del Magnifico Rettore sono stati seguiti da tre relazioni plenarie. Péter Domokos, Direttore in carica del Dipartimento, ha parlato sulla storia della disciplina, rammen-tando le critiche rivolte dai suoi contemporanei, a Sajnovics per la sua scoperta per-ché «ha messo il popolo ungherese sotto il giogo di una parentela di puzza di pesce». Il relatore ha sottolineato che questo "giogo", cioè la parentela linguistica, ugro-finni-ca, rappresentava allora e rappresenta tuttora la liberazione della ricerca filologica dal voluntarismo e dalle teorie pseudo-scientifiche. Infatti all'Università di Budapest, nel corso di questi 125 anni si sono formati migliaia e migliaia di professori e studiosi coscienti dell'identità della loro lingua e della loro cultura nazionale. Tra gli ex stu-denti della Cattedra si trovano i più eccellenti studiosi della filologia ugro-finnica, conosciuti e riconosciuti in tutto il mondo. A questi appartiene anche il secondo rela-tore del Convegno, Prof. László Honti, il quale dopo un tirocinio all'Università di Groningen quest'anno è stato chiamato come professore emerito alla Cattedra di Filologia ugro-finnica dell'Università di Udine. Il nuovo cattedratico dell'Ateneo friulano nella sua relazione, intitolata "Resoconto", ha analizzato la figura scientifica del fondatore, József Budenz, ed ha chiamato l'attenzione alla pericolosità delle nuove teorie fantasmagoriche sulle affinità della lingua ungherese. La terza relazione della seduta inaugurale è stata pronunciata dal Professore Jean-Luc Moreau della Sorbonna sul tema "Finnugricità ed europeismo" — Il professore francese ha parlato in lingua ungherese con grande sfogo sentimentale sulla profondità culturale ed umana delle culture dei popoli ugro-finnici, la quale può sembrare a primo avviso "esoterica", ma che appartiene al grande patrimonio comune della civiltà europea. Il

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relatore ha citato i grandi poeti finnici ed ungheresi, da lui tradotti in francese. Le relazioni plenarie sono state seguite dai saluti dei rappresentanti delle varie Università d'Austria, Finlandia, Germania, Norvegia e Svezia e dai Colleghi delle altre università ungheresi le cui cattedre di filologia ugro-finnica sono sorte sulla scia di quella di Budapest.

I lavori del Convegno sono proseguiti in tre sedute nella sala delle conferenze della Facoltà di lettere. Nella seduta pomeridiana i relatori hanno analizzato i legami tra gli studiosi ungheresi e della ex-Unione Sovietica (Ariadna Kuzniezova da Mosca, Jevdokija Niomisova e Agrafena Sopocina da Chanti-Mansijsk, Leonid Suvizenko, Daria Gerasimova e Marija Barnic da San Pietroburgo, Jevgenij Iguscev da Siktivkar), sottolineando il fatto che le ricerche degli studiosi ungheresi hanno avuto la forza di influenzare anche le loro ricerche inserendosi inoltre nella loro cultura.

Durante la seduta mattutina del 24 settembre i professori Péter Hajdú, János Kodolányi, Edit Vértes, Henrietta F. Mészáros hanno ricordato la loro opera e delle loro ricerche al Dipartimento, rivelando molti momenti importanti per la storia della disciplina. Alle loro confessioni personali si è riallacciata anche la relazione del Prof. Gyula Décsy (Un ricordo di Ras do rf su József Budenz) nonché il contributo di Valéria Révay (L'ungherese come lingua straniera nell'opera di József Szinnyei). Altre cinque relazioni (Hans Hermann Bartens, Margherita Kuzniezova, Antonina Guskova, Seppo Suhonen e Tőnu Seilenthal) hanno analizzato i rapporti scientifici e le collaborazioni con Budapest nella ricerca di ugro-finnica. Il pubblico presente che gremiva la sala ha potuto rendersi conto che tra gli studiosi di questa disciplina la lin-gua ungherese ha la stima di lingua internazionale, poiché tutti i relatori hanno tenuto il loro discorso in ungherese.

La seduta plenaria è stata riservata alle conferenze dei docenti attuali del Dipartimento di Budapest (András Bereczki, László Klima, Enikő Szij e Márta Csepregi), i quali hanno parlato delle loro ricerche in corso. Gli Atti del Convegno conterranno anche gli altri contributi di molti studiosi, i quali, per mancanza di tempo, non hanno potuto presentare il loro lavoro. In occasione dell'anniversario sono usciti due nuovi numeri dei Quaderni Finnugristici di Budapest (Budapesti Finnugor Füzetek), l'opera di Tamás Janurik sulle origini della lingua dei seluppi e la monografia di Katalin Nagy sulla poesia di Juvan Sesztalov, famoso poeta vogulo (Kellenek a szárnyak, míg tart az. út).

In occasione del Convegno internazionale è stata organizzata una seduta comune delle tre famose associazioni (l'Associazione Ungaro-Finnica, l'Associazione Ungaro-Estone e l'Associazione Reguly) il 21 settembre Domenica, dove sono pre-sentate le opere premiate del concorso di traduzioni di opere ugro-finniche. In que-st'occasione è stato festeggiato il famoso poeta vogulo (mansi), Juvan Sestalov al suo 60° compleanno. La serata si è conclusa con la rappresentazione del gruppo folclori-stico di ballo "Csillagszemű", e del complesso musicale "Revontulet" — luce del Nord — degli studenti estoni e finlandesi. Alla chiusura del Convegno i partecipanti hanno potuto assistere al Concerto del Coro Béla Bartók dell'Università di Budapest.

Márta Csepregi

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NOTIZIE CISUI - A N N O 1997

L'anno 1997 è stato l'anno del "recupero" e delle "conclusioni" per il CISUI dopo i lavori indefessi di due-tre anni di preparazione e dell'organizzazione del Congresso Internazionale "La cultura ungherese e il Cristianesimo" da parte dei due titolari delle Cattedre di Lingua e Letteratura Ungherese, i quali si sono assunti — su richiesta del loro compianto amico Tibor Klaniczay — gli onori e gli oneri di una manifestazione scientifica e culturale alla quale hanno partecipato più di mille persone, tra queste i 550 iscritti provenienti da 36 Paesi del mondo. Così le manifestazioni del CISUI nel corso del 1997 sono state meno vistose e frequenti, anzi si è manifestata sempre più quella linea strategica, approvata dal Consiglio Scientifico organizzato a Venezia il 24 gennaio, che bisogna realizzare una divisione dei compiti tra il CISUI e l'Accademia d'Ungheria in Roma. Il CISUI deve divenire prima di tutto il punto d'incontro della ricerca scientifica degli studiosi interessati agli studi ungheresi in Italia, mentre l'Accademia d'Ungheria dovrebbe assumere il compito della divulga-zione scientifica e dell'organizzazione delle manifestazioni culturali e dei convegni, che rappresentano in Italia i nuovi risultati della magiaristica ungherese ed internazio-nale. Naturalmente questi compiti ben divisi non escludono, anzi, rafforzeranno i legami amichevoli e la collaborazione tra gli studiosi del CISUI e i rappresentanti dell'Accademia d'Ungheria, ospiti graditi del CISUI al Convegno Veneziano.

Infatti, contemporaneamente al Consiglio Scientifico del CISUI, l'Università degli Studi di Venezia Ca' Foscari, ha organizzato all'inizio dell'anno l'incontro tra-dizionale della commissione mista italo-ungherese degli storici. Il Convegno, svoltosi nei giorni 23-24 gennaio nell'Aula Magna "Silvio Trentin" dell'Università degli Studi di Venezia è stata la continuazione dell'incontro di Pécs del 1993, i cui Atti, Dalla liberazione di Buda all'Ungheria di Trianon, curati dal Prof. Francesco Guida, sono stati pubblicati in occasione del IV Congresso Mondiale di Ungarologia, nel 1966. Il Congresso di Venezia ha avuto come tema centrale l'epoca di Horthy (.L'epoca Horthy: l'Ungheria tra le due guerre mondiali). Il Convegno è stato inau-gurato dal Preside della Facoltà di Lingue dell'Università di Venezia, dal Prof. Mario Sabbatini e dal Prof. Antonello Biagini, Direttore del CISUI, in presenza del Console Onorario della Repubblica Ungherese a Venezia, Enrico Zoppas. Il Seminario di studi ha avuto una struttura speciale; erano presenti gli ospiti ungheresi a tenere delle con-ferenze su vari aspetti storico-economici e culturali dell'epoca horthysta, dopo le quali gli studiosi storici italiani (oltre ai colleghi veneziani, rappresentanti delle Università di Padova, Milano, Roma-La Sapienza e Roma-III, Udine, Trieste e Viterbo hanno fatto i loro interventi e le loro co-relazioni). Le relazioni del convegno (Ignác Romsics dell'Università di Budapest: La politica interna del regime; Zsuzsa L. Nagy dell'Università di Debrecen: La politica interna e l'opposizione; Mária Ormos dell'Università di Pécs: La politica estera ungherese tra le due guerre mon-diali:; Péter Sárközy dell'Università di Roma La Sapienza: La cultura ungherese tra le due guerre mondiali) saranno pubblicate in ungherese e in traduzione italiana da

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parte ungherese della Commissione mista degli storici, la quale si è assunta il compi-to di organizzare il prossimo incontro all'Università di Szeged nel 1998.

In occasione del Convegno scientifico è stato convocato il 24 gennaio il Consiglio Scientifico del CISUI che ha valutato — positivamente — l'organizzazione e i risul-tati scientifici del IV Congresso Internazionale di Studi Ungheresi e l'eco politico-culturale in Italia di questa grandiosa manifestazione organizzata dal CISUI in colla-borazione con l'IUO di Napoli e con l'Università di Roma, La Sapienza, al-quale hanno partecipato Presidenti della Repubblica, cardinali e ministri, tante autorità accademiche di tutto il mondo, e i partecipanti hanno avuto l'onore di essere ricevuti dal Santo Padre in un'udienza speciale a Castelgandolfo alla chiusura dei lavori. Al Consiglio Scientifico è stato discusso anche il Programma Thesaurus, nel corso del quale, con i fondi del MURST, vengono raccolti in schedatura elettronica i fondi ungheresi delle varie università italiane. In tal modo, fino all'estate, sono stati catalo-gati su computer i fondi ungheresi delle biblioteche universitare di Firenze, Udine, Venezia, dell TUO di Napoli e le due biblioteche specializzate di Roma (quella di Villa Mirafiori e della Biblioteca Alessandrina). I registri saranno unificati dopo la consegna delle sezioni ancora in corso di elaborazione (Torino, Bologna, Padova, Pavia) nel corso dell'anno accademico e messi a disposizione di tutte le Unità di ricerca del CISUI.

Il 25 marzo ha avuto luogo alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino la presentazione del volume dei saggi del compianto collega Gianpiero Cavaglià, raccolti e curati da Péter Sárközy e Gianni Vattimo, pubblicati nel volume L'Ungheria e l'Europa dell'Editore Bulzoni, in occasione del IV Congresso Internazionale. Alla presentazione del volume il CISUI è stato rappresentato dal Prof. Péter Sárközy.

Nell'ambito del programma scientifico del Dipartimento di Studi Slavi e dell'Europa Centro-Orientale dell'Università di Roma La Sapienza, il 13 maggio è stato organizzato un Seminario di Studi sul sonetto ungherese presso la Cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese della Sapienza con la partecipazione di Paolo Agostini (Padova), Armando Nuzzo (Firenze), József Pál (Accademia d'Ungheria in Roma), Péter Sárközy (Roma) e Gábor Ujváry (Collegium Hungaricum di Vienna). In occasione del seminario è stato presentato il numero 11 della "Rivista di Studi Ungheresi", dedicato alla "Questione uralica", redatta dalla Professoressa Angela Marcantonio, docente di filologia ugro-finnica della Sapienza. Il numero speciale della RSU è stato presentato con successo anche al Congresso Internazionale di Linguistica di Parigi nel mese di lugio, e la Prof.ssa Marcantonio è stata eletta nel gruppo di ricerca finno-ugristica dell'Università della Sorbona Nuova, Paris III.

Il 20 maggio nella sede dell'Accademia Ungherese delle Scienze a Budapest ha avuto lugo la presentazione delle pubblicazioni di argomento storico del CISUI, in occasione della recente pubblicazione della Storia d'Ungheria, volume redatto da Péter Hanák, tradotta e adottata per il pubblico italiano da Giovanna Motta e Rita Tolomeo presso l'Editore Franco Angeli. Al Seminario di Studi di Budapest hanno preso parte i professori Ferenc Glatz, Presidente dell'Accademia Ungherese, nonché Péter Hanák, Mária Ormos, Ferenc Szakály, Zoltán Szász; da parte italiana i Professori Giovanna Motta, Antonello Biagini, Giancarlo Giordano, Armando Gnisci e Péter Sárközy.

Dal 29 al 31 maggio è stato organizzato presso l'Università di Budapest un incon-tro scientifico dei Centri di ricerca "Studi sul Rinascimento". L'Italia è stata rappre-

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sentata dai Centri Nazionali di Ferrara e Firenze, mentre l'attività del CISUI nel campo di studi sul Rinascimento è stato illustrato dal Prof. P. Sárközy.

Il 25 agosto è stato convocato a Budapest il Consiglio Esecutivo dell'Associazine Internazionale di Studi Ungheresi (Nemzetközi Magyar Filológiai Társaság) in presen-za del nuovo presidente dell'Associazione, Prof. Amedeo Di Francesco dell'IUO di Napoli. Tra i membri di presidenza che rappresentano l'Italia (Proff. Carla Corradi Musi, Marinella D'Alessandro, János S. Petőfi) è stato presente il Prof. Petőfi dell'Università di Macerata. In occasione della seduta è stata letta e approvata la rela-zione del Prof. Péter Sárközy, Presidente del Comitato organizzativo del IV Congresso internazionale, ed il Consiglio scientifico ha espresso i suoi riconoscimenti nei con-fronti degli organizzatori. In seguito alla seduta del UNMFL" il Prof. Di Francesco ha partecipato come relatore al Convegno Internazionale di storia del teatro ungherese del XVIII secolo, organizzato ad Eger tra il 28 ed il 31 agosto. Al Convegno ha partecipa-to in rappresentanza dell'Unità di ricerca di letteratura ungherese di Roma la Dott.ssa Cecilia Pilo Boyl con una relazione sulle traduzioni teatrali di Ferenc Faludi, nonché la Dott.ssa Cinzia Franchi, la quale I ' l l febbraio 1997 ha ottenuto l'abilitazione scientifi-ca dell'Accademia ungherese delle Scienze. Così già tre giovani studiosi laureati in ungherese presso l'Università di Roma, La Sapienza (Armando Nuzzo, Nicoletta Ferroni, Cinzia Franchi) hanno ottenuto il titolo scientifico ungherese kandidátus (Ph.D), che abilita all'insegnamento universitario in Ungheria.

Dal 1 al 9 settembre si è svolto a Kolozsvár (Cluj-Napoca) il Congresso interna-zionale sulla figura di György Enyedi e sull'antitrinitarismo ungherese con la parteci-pazione di studiosi italiani: Claudio Madonia, Valerio Marchetti dell'Università di Bologna e Péter Sárközy, il quale in seguito ha tenuto un ciclo di lezioni come Professore Universitario a titolo privato (egyetemi magántanár) all'Università degli Studi di Budapest ELTE sui modelli poetici italiani della letteratura ungherese del Settecento.

Il 27 ottobre all'Accademia d'Ungheria di Roma è stato presentato il volume di Storia dell'Ungheria redatto da Péter Hanák adattato per il pubblico italiano da Giovanna Motta e Rita Tolomeo. Alla presentazione hanno partecipato i Professori Paolo Preto dell'Università di Padova, Bianca Valota Cavalotti dell'Università di Milano, Ferenc Szakály dell'Accademia Ungherese delle Scienze. La tavola rotonda è stata presieduta dal Prof. P. Sárközy, e ad essa hanno partecipato i due Ambasciatori, S.E. Attila Gecse e S.E. József Bratinka, Ambasciatori della Repubblica ungherese presso il Quirinale e presso la Santa Sede. In occasione della presentazione il Prof. József Pál, Direttore Scientifico dell'Accademia d'Ungheria, ha commemorato i colleghi storici ungheresi recentemente scomparsi, Péter Hanák e Lajos Pásztor, la cui opera è stata presentata nel numero 10 di "RSU".

Il 4 novembre all'Accademia d'Ungheria e il 26 novembre all'Associazione degli Scrittori Ungheresi a Budapest è stata presentata la nuova antologia bilingue di "poeti ungheresi di sette secoli", pubblicata nell'ambito del programma scientifico della Cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese della Sapienza, tradotta dalla poetessa Marta Dal Zuffo, curata da Péter Sárközy, pubblicata dall'Editore Lithos di Roma (Amore e Libertà, Roma 1997, pp. 314). Alla presentazione romana hanno partecipa-to, oltre ai curatori del volume, il Prof. Amedeo di Francesco, József Pál e Pino Amatiello, Direttore del Nuovo Giornale dei Poeti, mentre a Budapest il volume è stato presentato da Béla Pomogáts, Presidente dell'Associazione degli Scrittori Ungheresi e dai critici letterari László Lator e György Szabó.

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L'anno 1997 è stato concluso con un'altra presentazione di un'opera nuova della magiaristica italiana. Il 18 dicembre è stato presentato all'Accademia d'Ungheria in Roma il volume di saggi del Prof. Roberto Ruspanti dell'Università di Udine Dal Tevere al Danubio (Rubbettino, 1997). Il volume è stato presentato dai Professori Armando Gnisci e József Pál.

In occasione della presentazione è stato convocato il 19 dicembre il Consiglio Scientifico del CISUI. In occasione del Consiglio Scientifico il Prof. Péter Sárközy ha presentato il nuovo Comitato redazionale del CISUI, formato da giovani studiosi, laureati in magiaristica, in letterature comparate e in storia: Maria Teresa Cinanni, Nicoletta Ferroni, Cinzia Franchi, Matteo Masini, Simona Nicolosi. Il cambiamento della redazione è già stato approvato dal Consiglio Scientifico di gennaio. Inoltre il Prof. Sárközy ha illustrato le cause e le ragioni del cambiamento. Dopo 10 anni di lavoro (scelta dei contributi, corrispondenza, corretture e redazione, spedizione dei numeri etc., per non parlare delle richieste di contributi al CNR, che hanno reso impossibili altri contributi per la sua ricerca personale), non incontrando la compren-sione dei colleghi, il Prof. Sárközy ha espresso la sua volontà di far cessare la pubbli-cazione dell'unico periodico scientifico di filologia ungherese, allorché gli è giunta la richiesta di alcuni giovani studiosi, per i quali è fondamentale la possibilità della pub-blicazione dei risultati delle loro ricerche. Così il Prof. Sárközy ha rinviato le sue dimissioni, mantenendo solamente il ruolo di Direttore scientifico, ma consegnando tutto il lavoro (l'onore e l'onere) della redazione al nuovo comitato redazionale. Il Comitato redazionale ha confermato la nomina del Direttore Responsabile del Prof. Sante Graciotti.

Alla fine della nostra cronaca dobbiamo riportare la notizia importante dal punto di vista della presenza della cultura ungherese in Italia. Nel corso del mese di luglio — per iniziativa del Direttore del CISUI, il Prof. Antonello Biagini — il Direttore Generale dei Beni Ambientali ed Architettonici, Dott. Mario Serio, ha fatto eseguire la risistemazione della tomba sepolcrale del penitenziere ungherese Johannes Lazo (1523) al suo posto originale, nel centro della Chiesa di Santo Stefano Rotondo sul Monte Celio. (Gli Atti del Convegno scientifico sulla storia della Chiesa sono in corso di stampa a cura dell'Accademia d'Ungheria). Così i visitatori della Chiesa paleocristiana possono di nuovo ammirare, al suo posto tradizionale, il bellissimo monumento sepolcrale, simbolo della plurisecolare presenza ungherese nella città eterna sul quale si leggono i versi latini dell'epitaffio dell'umanista ungherese di Alba Julia: «Roma est patria omnium fuitque».

P.S.

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RIVISTA DI STUDI UNGHERESI OLASZ HUNGAROLÓGIAI SZEMLE

Az Olaszországi Hungarológiai Központ folyóirata. Kiadja a Római "La Sapienza" Tudományegyetem. Szerkesztőség: Magyar Nyelv és Irodalomtörténeti tanszék Cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese Università di Roma La Sapienza, Roma, 00161, via Nomentana 118 Tel.: 00-39-6-49917252 Fax.: 00-39-6-49917250 Edizioni SO VERA, Roma 1997.- 12.SZ. "Zsidó lakosság és zsidó kultúra Magyarországon a középkortól a XX. század közepéig"

Bevezető: Sárközy Péter

Tanulmányok: Kovács Péter, Dokumentumok a zsidóság magyarországi letelepedéséről a középkor-ban Marianna D. Birnbaum, A zsidóság helyzete Ferrarában a XVI. században Szakály Ferenc, A zsidóság helyzete a török hódoltság idején Paolo Agostini, Schulhof Izsák Budai Meghillá-ja Haraszti György, The Return of the Jews to Hungary in the XVIII century Melczer Tibor, A magyarországi zsidó emancipáció és előzményei Karsai László, Az emancipációtól a Holocaustig. A zsidó-kérdés Magyarországon 1867-1945 között Cinzia Franchi, Az erdélyi magyar nyelvű zsidó kultura Maria Teresa Cinanni, Roth, Améry, Radnóti, - XX századi értelmiségiek láger-élményei

Dokumentumok A magyarországi zsidóság történeténetére vonatkozó fontosabb művek jegyzéke (Haraszti György)

Szemle Sárközy Péter, Hét évszázad magyar költészete olaszul Nicoletta Ferroni, Négyszemközt Kozmutza Flóraval

Vita

Carla Corradi Musi, Válasz Danilo Ghenonak

Recenziók AA.VV.. Storia dell'Ungheria (Sárközy Péter) - AA.VV., Dalla liberazione di Buda all'Ungheria del Trianon. Ungheria e Italia tra età moderna e contemporanea (Simona Nicolosi) - P. Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese. Marcello Cerruti e le intese politiche italo-magiare (Simona Nicolosi) - Réti Gy., Itália és Magyarország képes krónikája (Roberto Ruspanti) - M. Flores, 1956 (Remo Savoia) - R. Tolomeo, La Santa Sede e il mondo danubiano-balcanico (Problemi nazionali e religiosi, 1875-1921) (Péter Sárközy) - G. Petracchi, Da San Pietroburgo

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a Mosca. La diplomazia italiana in Russia 1861/1941 (Simona Nicolosi) - P. Esterházy, Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn (giù per il Danubio) (Nicoletta Ferroni) - József Attila, Tanulmányok és cikkek: Szövegek-Magyarázatok (Nicoletta Ferroni) - Attila József, Flóra, amore mio, a cura di N. Ferroni (Pál József) - Sárközy P., "Kiterítenek űgyis" - József Attila kései költészete (Egyed Péter) - G. Cavaglià, L'Ungheria e l'Europa (Matteo Masini) - Péter Sárközy, Roma. La Patria comune (Pál József) - Erdélyi Jiddish Népköltészet (Stefano De Bartolo) - AA.VV., Voci dalla Shoah (Maria Teresa Cinanni) - M.T. Cinanni, Testimoni di voci sommerse. L'esperienza del nazismo in alcuni scrittori ebrei europei: Roth-Améry-Levi-Radnóti (Nora Moli)

Konferenciák Magyar-olasz történész konferencia Velencében (Simona Nicolosi) - A 125 éves budapesti Finnougor Tanszék emlékünnepsége (Csepregi Márta) - Az Olaszországi Hungarológiai központ 1997 évi tevékenysége (Sárközy Péter)

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Finito di stampare nel mese di marzo 1998 Tipolitografia CSR - Via di Pietralata, 157 - 00158 Roma

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Autori del numero:

PAOLO AGOSTINI, Università di Padova MÁRTA CSEPREGI, Università di Budapest MARIANNA D. BIRNBAUM, University of California, UCLA MARIA TERESA CINANNI, Università di Roma, La Sapienza STEFANO DE BARTOLO, Università di Szeged PÉTER EGYED, Università di Kolozsvár (Cluj) NICOLETTA FERRONI, Università di Roma, La Sapienza CINZIA FRANCHI, Università di Roma, La Sapienza GYÖRGY HARASZTI, Istituto di Studi Storici dell'Accademia Ungherese delle Scienze LÁSZLÓ KARSAI, Università di Szeged PÉTER KOVÁCS, Accademia d'Ungheria in Roma MATTEO MASINI, Università di Roma, La Sapienza TIBOR MELCZER, Biblioteca nazionale Széchényi di Budapest NORA MOLL, Università di Roma, La Sapienza SIMONA NICOLOSI, Università di Roma, La Sapienza JÓZSEF PÁL, Accademia d'Ungheria in Roma JÓZSEF PÁL, Accademia d'Ungheria in Roma PÉTER SÁRKÖZY, Università di Roma, La Sapienza FERENC SZAKÁLY, Istituto di Studi Storici dell'Accademia Ungherese-delle Scienze