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Paola Volpini Storia moderna Ceti sociali in età moderna: dibattito sulla nobiltà. Possevino

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Paola Volpini Storia moderna Ceti sociali in età moderna: dibattito sulla nobiltà. Possevino

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Ceti sociali in età moderna: dibattito sulla nobiltà. Tiraqueau

         

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Il Sacco di Roma Ludovico Dolce Vita dell’imperatore Carlo V, 1566

         

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Poggio Bracciolini, Epistole, a Niccolò Niccoli I, XIII, ed. Tonelli, I, Firenze, 1832, p. 62”

“Io tuttavia, caro Niccolò, sono un po’ stanco di questa affannosa ricerca di nuovi libri.Sarebbe ormai tempo che mi svegliassi e che facessi in modo che mi servissero in qualcosa, per la mia vita, quei costumi di cui quotidianamente leggiamo. Infatti raccogliere ogni giorno pezzi di legno,pietre e cemento,potrebbe sembrare molto sciocco se non edificherai nulla con tutto ciò. Ma questo edificio che dobbiamo costruire per ben vivere è così arduo, difficile, faticoso, che a stento potrà essere compiuto, anche se cominciamo in età giovanile. Io, però per parlare di me, ne ho il proposito...”.

       

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Testi  su  Scoperte  geografiche      

Raccolta  completa  degli  scritti  di  Cristoforo  Colombo  Dalle  Lettere  (trascritte  da  Bartolomé  de  las  Casas)  

   Venerdì  12  ottobre    Approdai   ad   una   piccola   isola,   detta   nella   lingua   degli   Indiani   Guanahani.   Tosto   vedemmo  gente  affatto  nuda.  Scesi  a  terra  […]  Io  presi  in  mano  lo  stendardo  reale,  e  i  due  capitani  [che  lo  accompagnavano]   le  bandiere  della  Croce  Verde,   che   faccio  alzare   in  ogni  nave  per   segnale,  sulel  quali   trovasi  una  F.  ed  una  I  sormontatid  a  un  corona,  ed  in  mezzo  la  croce.  […]  E   loro  dissi:   fate   fede   e   testimonianza,   siccome   in   presenza   di   tutti   voi   piglio,   come   di   fatto   presi,  possesso  di  quest’isola  in  nome  del  re  e  della  regina  miei  padroni,  e  feci  le  proteste  dovute  […]  Onde   conciliarci   l’amicizia   loro,   e   perché   m’avvidi   essere   tal   gente   che   meglio   con   dolci  maniere  e  colla  persuasione  che  per   la  violenza  alla   fede  nostra  si  convertirebbero,  diedi  ad  alcuni  di  loro  de’  berretti  di  colore  e  perle  di  vetro,  che  si  appendevano  al  collo,  e  altre  siffatte  cosuccie,   che   loro   tornarono   sommamente   gradite,   e   a   noi   li   strinsero   d’una   maravigliosa  amicizia.   […]   In   una   parola   pigliavano   quanto   si   offriva   loro,   e   assai   volentieri   donavano  quanto  si  avessero  […].    Sabato  13  ottobre    […]  Portarono  gomitoli  di  cotone  filato,  pappagalli,  zagaglie  ed  altre  coserelle,  che  recherebbe  fastidio  noverare  per  minuto,  e  tutto  donavano  per  ogni  bagatella  data  lor  in  iscambio.  Attento  li   esaminai  e  vidi  di   scoprire   se  possedessero  oro.  Scorsi  alcuni  di  essi  portarne  un  picciolo  pezzo   appiccato   tra’   fori   del   naso   e   venni   ad   apprendere   […]   siccome   volgendo   intorno  all’isola  […]  troverei  una  terra  il  cui  re  possiede  grandi  vasi  d’oro  e  quantità  di  siffatto  metallo.              

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Amerigo Vespucci Mundus novus Amerigo Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici. Brani Ai giorni passati pienamente diedi aviso alla S.V. del mio ritorno. E, se ben mi ricordo, le raccontai di tutte queste parti del mondo nuovo alle quali io era andato con le caravelle del Serenissimo Re di Portogallo, e se diligentemente saranno considerate parrà veramente che facciano un altro mondo. Sì che non senza cagione l'abbiamo chiamato mondo nuovo, perché gli antichi tutti non n'ebbero cognizione alcuna e le cose che sono state nuovamente da noi ritrovate trapassano la loro openione. Pensorono essi oltre la linea equinoziale verso mezzogiorno niente altro esservi che un mare larghissimo e alcune isole arse e sterili. Il mare lo chiamarono Atlantico; e, se talvolta confessarono che vi fusse punto di terra, contendevano quella esser sterile e non potervisi abitare. La openione de' quali la presente navigazione rifiuta, e apertamente a tutti dimostra esser falsa e lontana da ogni verità, percioché oltra l'equinoziale io ho trovato paesi più fertili e più pieni di abitatori che giamai altrove io abbia ritrovato, se ben V.S. anche voglia intender dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa, come più ampiamente qui di sotto seguitando sarà manifesto. Percioché, poste da parte le cose picciole, racontaremo solamente le grandi che siano degne di esser intese e quelle che da noi personalmente avemo vedute, over abbiamo udite per relazione di uomini degni di fede. Di queste parti adunque nuovamente ritrovate ora ne diremo più cose diligentemente e senza alcuna bugia. Con felice augurio, adunque, alli 13 di maggio 1501, per comandamento del Re, ci partimmo da Lisbona con tre caravelle armate e andammo a cercare il mondo nuovo; e, facendo il viaggio verso ostro, navigammo venti mesi, della qual navigazione narreremo primamente l'ordine che navigando tenemmo in questa maniera. Andammo alle Isole Fortunate, che oggi si chiamano le Gran Canarie; elle sono nel terzo clima, nell'ultima parte del ponente abitato. Dipoi, navigando per l'Oceano, scorremmo la costa d'Africa e del paese dei negri insino al promontorio che da Tolomeo è chiamato Etiopo, i nostri lo chiamano Capo Verde, dai negri è detto Biseneghe, gli abitatori lo chiamano Madangan: il qual paese è drento la zona calda per quattordici gradi verso tramontana, abitato dai negri. Quivi rinfrescati e riposati e fornitici di ogni sorte di vettovaglia, facemmo vela drizzando il nostro viaggio verso il Polo Antartico; nondimeno tenevamo alquanto verso ponente, percioché era vento di levante, né mai vedemmo terra se non dopo che avessimo navigato tre mesi di continuo e tre giorni. Nella qual navigazione in quanti travagli e pericoli di vita ci ritrovassimo, quanti affanni e quante perturbazioni e fortune patissimo e quante volte ci venisse a noia di esser vivi, la lascierò giudicare a quei che hanno l'esperienza di molte cose, e principalmente a coloro che conoscono chiaramente quanto sia difficile il cercar le cose incerte e l'andare in luoghi dove uomo più non sia stato. Ma quei che di ciò non hanno esperienza non vorrei che di questo fussero giudici. E, per ridur le molte parole in una, sappia V. S. che noi navigammo sessantasette giorni nei quali avemmo aspra e crudel fortuna; percioché nei quarantaquattro giorni, facendo il cielo grandissimo romore e strepito, non avemmo mai altro che baleni, tuoni, saette e pioggie grandissime, e una oscura nebbia aveva coperto il cielo di maniera che di dì e di notte non vedevamo altramente che quando la luna non luce e la notte è di oscurissime tenebre offuscata. E perciò il timor della morte ci sopravenne di modo che già ci pareva quasi aver perduta la vita. Dopo queste cose sì gravi e sì crudeli, finalmente piacendo a Dio per la sua clemenzia di aver compassione della nostra vita, subito ci apparve la terra; la qual veduta, gli animi e le forze, che erano già cadute e diventate deboli, subitamente si rilevorono e si riebbero, sì

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come suole avenire a coloro che hanno trapassate grandissime aversità e massimamente a quei che sono campati dalla rabbia della cattiva fortuna. Noi adunque alli 7 di agosto del 1501 sorgemmo nel lito di quel paese, e, rendendo a Iddio massimo quelle maggior grazie che potevamo, facemmo secondo il costume cristiano solennemente celebrar la messa. La terra ritrovata ci parve non isola ma terraferma, percioché si estendeva larghissimamente e non si vedeva termine alcuno, ed era molto fertile e molto piena di diversi abitatori. E quivi tutte le sorte degli animali sono selvatiche, i quali nelle nostre parti sono del tutto incogniti. Ritrovammo quivi anche alcune altre cose delle quali studiosamente non ne abbiamo voluto far menzione accioché l'opera non divenga grande oltre misura. Questo solamente giudico che non si debba lasciare adrieto, che, aiutati dalla benignità di Dio, a tempo e secondo il bisogno vedemmo terra, percioché non potevamo più astenerci, mancandoci tutte le vettovaglie, cioè legne, acqua, biscotto, carne salata, cacio, vino, olio, e — quel che è più — il vigor dell'animo [...]. Eravamo venuti in luogo che, se io non avessi avuto notizia della cosmografia, per negligenzia del nocchiero già avevamo finito il corso della nostra vita, percioché non ci era pilotto alcuno che sapesse insino a 50 leghe dove noi fussimo. E andavamo errando vagabondi senza saper dove ci andassimo, se io non avessi a punto veduto alla salute mia e de' compagni con l'astrolabio e col quadrante instrumenti astrologici, e per questa cagione mi acquistai non picciola gloria: di modo che, d'allora innanzi appresso di loro fui tenuto in quel luogo che i dotti sono avuti appresso gli uomini da bene, percioché insegnai loro la carta da navigare e feci che confessassero che i nocchieri ordinarii, ignoranti della cosmografia, a mia comparazione non avessero saputo niente.

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Bernal  Díaz  del  Castillo  Historia  verdadera  de  la  conquista  de  la  Nueva  España    

(Storia  veritiera...)    

in  A.Albònico  –  G.  Bellini   (eds.),  Nuovo  Mondo.  Gli  spagnoli,   Torino,    Einaudi,  1992,  pp.  137-­‐141)    Come   giungemmo  nella   grande   piazza,   chiamata   Tatelulco,   siccome  non   avevamo  mai   visto  nulla  di  simile,  rimanemmo  stupefatti  nel  vedere  la  massa  di  gente  e  di  mercanzie  che  c’erano  e   del   grande   ordine   che   regnava   dappertutto.   E   i   notabili   che   ci   scortavano   via   via   di  indicavano   il   tutto:ogni   tipo   di  mercanzia   era   separata   dalle   altre   ed   erano   indicati   i   posti  prestabiliti.   Cominciamo   con   i  mercanti   d’oro,   argento,   pietre   preziose,   piume,   indumenti   e  oggetti  lavorati  e  schiave  e  schiavi  da  vendere.  E  ce  n’erano  tanti  in  quella  grande  piazza  come  quanto  i  portoghesi  portano  a  vendere  i  negri  della  Guinea  e  li  tenevano  legati  a  lunghe  sbarre  con  un  collare  al  collo  in  modo  che  non  potessero  fuggire.  Poi  c’erano  mercanti  che  vendevano  indumenti   più   correnti,   e   cotone   e   altre   cose  di   filo   ritorto   e   venditori   di   cacao   e   in   questo  modo   era   in   mostra   ogni   genere   di   merci   che   si   trovava   nella   Nuova   Spagna,   messe   in  bell’ordine   come   si   fa   nella  mia   terra   che   è  Medina   del   CAmpo   [...]   Ci   recammo   dunque   al  grande  CU  (tempio);  mentre  ci  avviavamo  verso  i  grandi  cortili  e  prima  di  uscire  dalla  piazza,  notammo  molti   altri  mercanti   che,   a   quanto   dicevano,   erano   quelli   che   andavano   a   vendre  l’oro   in   grani   [...].   Lasciammo   così   la   grande   piazza   senza   soffermarci   oltre   a   guardarla   e  giungemmo  ai  grandi  cortili  e  recinti  in  cui  si  trova  il  gran  cu.  Prima  di  giungere  a  esso  c’era  una  serie  concentrica  di  cortili  che,  a  mio  parere,  erano  più  grandi  della  piazza  che  si  trova  a  Salamanca,   e   con   due   recinzioni   intorno   fatte   di  muri   di   pietra   e   lo   stesso   cortile   era   tutto  lastricato   con   grandi   pietre   bianche   e  molto   lisce   e   dove   non   c’erano   pietre   era   coperto   di  calce  e  lucidato  e  tutto  [era]  talmente  publito  che  non  si  sarebbe  potuto  trovare  una  pagliuzza  o   un   granello   di   polvere.   E   come   arrivammo   dinanzi   al   grande   Cu,   prima   ancora   che  mettessimo  piede   su  un   solo  gradino,   il   grande  Montezuma,  dalla   cima   in   cui   stava   facendo  sacrifici,   ci   mandò   incontro   sei   sacerdoti   e   due   nobili,   affinchè   accompagnassero   il   nostro  capitano  Cortés,  [ma  lui  volle  salire  da  solo  i  114  scalini]...  Quindi  raggiungemmo  la  cima  del  gran  cu,  che  era  una  piazzola  dove  c’era  uno  spazio  come  per  una  tribuna,  e  su  di  esso  erano  collocate  delle  grandi  pietre,  dove  mettevano  i  poveri  Indi  per  sacrificarli.  Lì  c’era  una  grande  statua  simile  a  un  drago,  e  altre  brutte  statue  e  molto  sangue  sparso  quel  giorno  stesso.    ...  Poi  [Montezuma]  lo  prese  per  mano  [Cortés]  e  gli  disse  di  guardare  la  sua  grande  città  e  tutte  le  altre   città   che   c’erano   dentro   la   laguna   e   molti   altri   paesi   sparsi   intorno   alla   laguna   sulla  terraferma,  e  che,  se  non  aveva  visto  bene  la  sua  grande  piazza,  da  lì  psopra  la  poteva  vedere  meglio.  E  così  rimanemmo  a  guardare,  poiché  quel  grande  e  maledetto   tempio  era   talmente  alto  che  dominava  tutto....”      

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Michel  de  Montaigne  Saggi  

Prima  ed.  1580    

Capitolo  XXXI,  Dei  cannibali  […]  Ho  avuto  a  lungo  presso  di  me  un  uomo  che  aveva  vissuto  dieci  o  didici  anni  in  quell’altro  mondo  che  è  stato  scoperto  nel  nostro  secolo  […]  Questa  scoperta  di  un  paese  infinito  sembra  sia  di  molta   importanza.  Non   so   se  posso   affermare   che  non   se  ne   farà   in   avvenite  qualche  altra,  tanti  essendo  i  personaggi  più  grandi  di  noi  che  si  sono  ingannati  a  proposito  di  questa.  Ho  paura  che  abbiamo  […]  più  curiosità  che  capacità.  Abbracciamo  tutto,  ma  non  stringiamo  che  vento.  […].  Quell’uomo  che  era  con  me  era  un  uomo  semplice  e  rozzo,  condizione  adatta  a  rendere  una  testimonianza   veritiera;   poiché   le   persone   d’ingegno   fino   osservano,   sì,   con  molta  maggior  cura,   e  più   cose,  ma   le   commentano;   e  per   far   valere   la   loro   interpretazione   e  persuaderne  altri,  non  possono  trattenersi  dall’alterare  un  po’  la  storia;  non  vi  raccontano  mai  le  cose  come  sono,  le  modificano  e  le  mascherano  secondo  l’aspetto  che  ne  hanno  veduto;  e  per  dar  credito  alla   loro  opinione  e   convincercene,   aggiungono  volentieri  qualcosa   in   tal   senso  alla  materia  originale,   l’allungano  e   la  ampliano.  Ci  vuole  un  uomo  o  molto  veritiero  o   tanto  semplice  da  non  avere  di  che  costruire  false  invenzioni  e  dar  loro  verosimiglianza,  e  che  non  vi  abbia  alcun  interesse.   Così   era   il   mio;   e,   oltre   a   questo,   mi   ha   mostrato   in   diverse   occasioni   parecchi  marinai   e   mercanti   che   aveva   conosciuto   in   quel   viaggio.   Mi   accontento,   quindi,   di   queste  informazioni,  senza  occuparmi  di  quel  che  ne  dicono  i  cosmografi.  […]  Ora  mi  sembra,  per  tornare  al  mio  discorso,  che  in  quel  popolo  non  vi  sia  nulla  di  barbaro  e  di  selvaggio,  a  quanto  me  ne  hanno  riferito,  se  non  che  ognuno  chiama  barbarie  quello  che  non  è  nei  suoi  usi;  sembra  infatti  che  noi  non  abbiamo  altro  punto  di  riferimento  per  la  verità  e  la  ragione  che  l’esempio  e  l’idea  delle  opinioni  e  degli  usi  del  paese  in  cui  siamo.  Ivi  è  sempre  la  perfetta   religoine,   il   perfetto   governo,   l’uso   perfetto   e   compiuto   di   ogni   cosa.   Essi   sono  selvaggi  allo  stesso  modo  che  noi  chiamiamo  selvatici  i  frutti  che  la  natura  ha  prodotto  da  sé  nel   suo   naturale   sviluppo;   laddove,   in   vernità,   sono   quelli   che   col   nostro   artificio   abbiamo  alterati  e  distorti  dall’ordine  generale  che  dovremmo  piuttosto  chiamare  selvatici.  […]  Essi  fanno  la  guerra  contro  i  popoli  chesono  al  di   lù  delle  loro  montagne,  più  addentro  nella  terraferma,  e  vanno  in  guerra  tutti  nudi,  senza  altre  armi  che  arhi  o  spade  di  legno,  appuntite  da  un  capo,  come  le  punte  dei  nostri  spiedi.  Straordinaria  è  la  loro  tenaca  nei  combattimenti,  che  non   finiscono  altro   che   con   strage  e   spargimento  di   sangue;  poiché   fughe  e  panico  non  sanno   che   siano.   Ognuno   riporta   come   proprio   trofeo   la   testa   del   nemico   che   ha   ucciso,   e    l’appende  all’ingresso  della  propria  casa.  Per  molto  tempo  trattano  bene   i   loro  prigionieri,  e  con   tutte   le   comodità   che   possono   immaginare,   poi   quello   che   ne   è   il   capo   riunisce   in   una  grande  assemblea  i  suoi  conoscenti;  attacca  una  corda  a  un  braccio  del  prigioniero  e  lo  tiene  per  un  capo  si  essa,  lontano  di  qualche  passo  per  paura  di  esserne  colpito,  e  dà  da  tenere  alla  stessa   maniera   l’altro   braccio   al   suo   più   caro   amico;   e   tutti   e   due,   alla   presenza   di   tutta  l’assemblea,   l’ammazzano   a   colpi   di   spada.   Fatto   ciò,   lo   arrostiscono   e   lo   mangiano   tutti  insieme,  e  ne  mandano  dei  pezzi  ai  loro  amici  assenti.  Non  lo  fanno,  come  si  puù  pensare,  per  nutrirsene  […],  ma  per  esprimere  una  suprema  vendetta.  […]  Non   mi   rammarico   che   noi   rileviamo   il   barbarico   orrore   che   c’è   in   tale   modo   di   fare,   ma  piuttosto  del   fatto  che,  pur  giudicando   le   loro  colpe,  siamo  tanto  ciechi  riguardo  alle  nostro.  

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Penso  che  ci  sia  più  barbarie  nel  mangiare  un  uomo  vivo  che  nel  mangiarlo  morto,  nel  lacerare  con  supplizi  e  martìri  un  corpo  ancora  sensibile,  farlo  arrostire  a  poco  a  poco,  farlo  mordere  e  dilaniare  dai  cani  e  dai  porci   (come  abbiamo  non  solo   letto,  ma  visto  recentemente,  non   fra  antichi   nemici,  ma   fra   vicini   e   concittadini   e,   quel   che   è  peggio,   sotto   il   pretesto  della  pietà  religiosa),  che  nell’arrostirlo  e  mangiarlo  dopo  che  è  morto.  […]      

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Le 95 tesi sulle indulgenze affisse da Martin Lutero

sulla porta della chiesa di Ognisanti a Wittenberg il 31 ottobre 1517.

Estratti

Tesi intese alla determinazione dell'efficacia delle indulgenze.

Le tesi che seguono, il cui fine è quello di chiarire la verità, formeranno oggetto di un dibattito a Wittenberg, condotto dal R. P. Martin Lutero, Maestro di Arti e di sacra Teologia, nonché lettore ordinario di questa stessa disciplina in questa città. Egli invita tutti coloro che si troveranno nell'impossibilità di parteciparvi, di inviare le loro osservazioni per iscritto. Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

[…]

21. Sbagliano, […] quei predicatori che affermano che "per opera delle indulgenze papali l'uomo è liberato da ogni pena e salvato".

22. Anzi, il papa non rimette alle anime del purgatorio nemmeno quelle pene che esse avrebbero dovuto scontare in questa vita.

[…]

24. Ne consegue inevitabilmente che la maggior parte del popolo resta ingannata dalla …

27. Esprimono [dottrine prive di fondamento] quelli che dicono: "Appena un soldino ha tintinnato nella cassa, un'anima se ne vola via".

28. Quel che è certo, è che mentre il tintinnio della moneta nella cassa incrementa il guadagno e l'avarizia, … ma [la grazia] dipende dalla sola volontà di Dio.

[…]

32. Saranno dannati eternamente coloro che pensano di essere stati salvati grazie [alle indulgenze]

[…]

36. Qualunque cristiano, qualora sia veramente pentito, gode della remissione plenaria della colpa e della conseguente pena, anche senza lettere di indulgenza.

37. Qualunque vero cristiano in quanto tale, vivo o morto, partecipa a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, che vengono concessi da Dio anche senza lettere di indulgenza.

[…]

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75. Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da assolvere un uomo, anche nel caso pur impossibile, che esso avesse violato la Madre di Dio, significa essere fuori di senno.

76. Al contrario, quanto alla colpa, sosteniamo che le indulgenze papali non possono cancellare, nemmeno il più piccolo dei peccati veniali.

[…]

81. Questa scandalosa predicazione delle indulgenze rende difficile anche ai dotti impegnati nel salvaguardare il rispetto dovuto al papa, difenderlo dalle calunnie e dalle sottili insinuazioni dei laici.

82. Ad esempio: perché il papa non vuota il purgatorio ispirandosi alla santissima carità e alla somma necessità delle anime, che costituisce il motivo più giusto, dal momento che libera un infinito numero di anime in cambio del dannosissimo danaro destinato alla costruzione della basilica, che rappresenta, invece, un motivo di trascurabile importanza?

[…]

86. Così ancora: perché mai il papa, le cui ricchezze sono oggi [enormi] … non costruisce la basilica di San Pietro utilizzando il suo danaro, invece di quello dei poveri fedeli?

[…]

90. Soffocare queste pericolosissime argomentazioni dei laici con la sola forza e senza addurre ragioni significa esporre la Chiesa e il papa alle beffe dei nemici e rendere infelici i cristiani.

[…]

94. Si devono esortare i cristiani a seguire con zelo il loro capo, Cristo, attraverso le pene, le mortificazioni, e le tribolazioni.

95. Sicché confidino piuttosto di "entrare in cielo attraverso molte tribolazioni", che per la sicurezza [data dall’acquisto delle indulgenze].

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Calvino  e  la  vocazione    Dobbiamo  anche  prestare  attenzione  al  fatto  che  Dio  ordina  a  ciascuno  di  noi  di  tenere   a   mente   la   sua   vocazione   in   ogni   atto   della   vita.   Poiché   sa   quanto  l’intelletto  dell’uomo  bruci  di  inquietudine,  quale  leggerezza  lo  trasporti  qua  e  là,  quali   ambizione   e   cupidigia   lo   solleciti   ad   abbracciare   contemporaneamente  parecchie  cose  diverse.  ….   Dio…   ha   ordinato   a   ognuno   il   da   farsi.   Affinché   nessuno   oltrepassi   con  leggerezza  i  suoi  limiti,  ha  chiamato  tali  modi  di  vivere  “vocazione”.  Ognuno,  per  proprio  conto,  deve  considerare  che  il  suo  stato  è  per  lui  come  un  punto  fermo  assegnato  da  Dio,  perché  non  volteggi  e  svolazzi  sconsideratamente  per  tutto  il  corso  della  sua  vita.    …  Non  mi  voglio  sofefrmare  ad  annoverare  tutti  gli  esempi  che  sipotrebbero  citare:  basti   sapere   che   la   vocazione   di   Dio   è   per   noi   principio   e   fondamento   per  dirigerci  rettamente  in  ogni  frangente,  e  che  colui  che  non  vi  si  sarà  attenuto  non  seguirà  mai  la  retta  via  per  compiere  il  suo  dovere.  Potrà  sì  fare  talvolta  qualche  atto  esteriormente   lodevole,  ma  non  sarà  accetto  al  giudizio  di  Dio,  per  quanto  stimato  dinanzi  agli  uomini.      [da  G.  Calvino,  Istituzione  della  religione  cristiana,  ed.  a  c.  di  G.  Tourn,  To,  1971,  vol.  i,  pp.  870-­‐72]    

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Calvino  e  la  predestinazione      Chiunque   vorrà   considerarsi   uomo   timorato   di   Dio,   non   oserà   negare   la  predestinazione,  per  mezzo  della  quale  Dio  ha  assegnato  gli  uni  a  salvezza  e  gli  altri  a  condanna  eterna  […].  Definiamo   predestinazione   il   decreto   eterno   di   Dio,   per   mezzo   del   quale   ha  stabilito   quel   che   voleva   fare   di   ogni   uomo.   Infatti   non   li   crea   tutti   nella  medesima   condizione,   ma   ordina   gli   uni   a   vita   eterna,   gli   altri   all’eterna  condanna.  Così   in  base  al   fine  per   il  quale   l’uomo  è   stato   creato  diciamo  che  è  predestinato  alla  vita  o  alla  morte  […].    Affermiamo   dunque,   come   dimostra   chiaramente   la   Scrittura,   che   Dio   ha  inizialmente   decretato,   con   la   sua   decisione   eterna   e   immutabile,   quali   voleva  scegliere  a  salvezza  e  quali  voleva  votare  alla  perdizione.  Affermiamo  che  una  tal  determinazione,   quanto   agli   eletti,   è   fondata   sulla   misericordia   senza   alcun  riguardo  alla  dignità  umana1;  che,  al  contrario,   l’entrata  nella  vita2  è  preclusa  a  tutti  coloro  che  vuole  condannare;  ciò  avviene  secondo  il  suo  giudizio  occulto  ed  incomprensibile,   ma   giusto.   Insegniamo   inoltre   che   la   chiamata   degli   eletti   è  come  un   indice   e   una   testimonianza  della   loro   elezione.   Parimenti,   che   la   loro  giustificazione  ne  è  un  altro  segno,  fino  a  che  giureranno  alla  gloria  in  cui  risiede  il  compimento  di  questa  chiamata.  Ora,  come  il  Signore  mette  un  segno  su  coloro  che  ha  scelti,  chiamandoli  e  giustificandoli,  al  contrario  privando  i  reprobi  della  conoscenza  della  sua  Parola  o  della  santificazione  data  dal  suo  Spirito,  indica  in  tal  modo  quale  sarà  la  loro  fine  e  qual  giudizio  è  loro  preparato.    [da  G.  Calvino,  Istituzione  della  religione  cristiana,  ed.  a  c.  di  G.  Tourn,  To,  1971,  vol.  ii,  pp.  1100-­‐7]  

                                                                                                               1  Alla  dignità  umana:  alla  condizione  sociale  2  nella  vita:  nella  salvezza  eterna  

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REGOLE DA OSSERVARE PER AVERE L'AUTENTICO SENTIRE NELLA CHIESA

MILITANTE

Da: Ignazio da Loyola, Esercizi spirituali, 1548

Prima regola. Messo da parte ogni giudizio proprio, dobbiamo avere l'animo disposto e pronto a

obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa

gerarchica.

[...] Quarta regola. Si lodino molto gli ordini religiosi, il celibato e la castità, e il matrimonio non tanto

come questi.

Sesta regola. Si lodino le reliquie dei santi, venerando quelle e pregando questi; si lodino le

celebrazioni stazionali, i pellegrinaggi, le indulgenze, i giubilei, le crociate e le candele che si

accendono nelle chiese.

Decima regola. Dobbiamo essere sempre pronti ad approvare e a lodare, sia le disposizioni e le

raccomandazioni, sia i comportamenti dei superiori. Infatti, anche se alcuni di questi non fossero

buoni, o non lo fossero stati, il criticarli, predicando in pubblico o discorrendo con persone

semplici, susciterebbe mormorazione e scandalo piuttosto che vantaggio; e così la gente si

sdegnerebbe contro i superiori civili o religiosi. Tuttavia, come è dannoso criticare i superiori in

loro assenza davanti alla gente semplice, così può essere vantaggioso parlare dei loro cattivi

comportamenti alle persone che possono portarvi rimedio.

[...]

Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io

vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito

che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo

sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo

stesso Spirito e signore nostro che diede i dieci comandamenti.

Quattordicesima regola. È verissimo che nessuno si può salvare senza essere predestinato e senza

avere la fede e la grazia; tuttavia bisogna fare molta attenzione nel modo di parlare e di discutere di

tutti questi argomenti.

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Quindicesima regola. Abitualmente non si deve parlare molto della predestinazione; ma se in

qualche modo e qualche volta se ne parla, se ne deve parlare in modo che le persone semplici non

cadano in alcun errore, come quando uno dice: è già stabilito se io dovrò essere salvo o dannato;

perciò, sia che agisca bene sia che agisca male, non potrà accadere diversamente. Così si diventa

pigri e si trascurano le opere che conducono alla salvezza e al vantaggio spirituale dell'anima.

Sedicesima regola. Così pure bisogna fare attenzione che, parlando molto e con grande fervore

della fede, senza alcuna distinzione o spiegazione, non si dia occasione alla gente di essere

indolente e pigra nell'operare, sia prima che la fede sia congiunta con la carità, sia dopo.

Diciassettesima regola. Allo stesso modo non si deve parlare troppo diffusamente della grazia,

insistendovi tanto da favorire quell'errore che nega la libertà. Perciò si può parlare della fede e della

grazia, per quanto ci è possibile con l'aiuto divino, per la maggior lode della divina Maestà; ma,

particolarmente in questi tempi così pericolosi, non in maniera e in termini tali, che le opere […] ne

ricevano danno o non si tengano in alcun conto.

Diciottesima regola. Si deve stimare più di tutto il servizio di Dio nostro Signore per puro amore;

tuttavia si deve lodare molto anche il timore della sua divina Maestà. Infatti, non solo il timore

filiale è cosa buona e santissima, ma, se non si arriva ad altro di meglio o di più utile, anche il

timore servile aiuta molto ad uscire dal peccato mortale; poi, una volta usciti, si arriva facilmente al

timore filiale, che è pienamente accetto e gradito a Dio nostro Signore, essendo un tutt'uno con

l'amore divino.

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Paola Volpini Storia moderna

   

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Paola Volpini Storia moderna a.a.: 2012/2013 Settore M-STO/02 - CFU 6 - Semestre II - Codice 1023477 Cdl associati: L-1 Studi storico-artistici - 15936 ( L )

Fonte: Petition of right 1628 (estratti)

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I dibattiti di Putney, 1647

Estratti

Vi fu chi difese il voto per censo:

“Penso che nessuna persona abbia diritto a una partecipazione nell’ordinamento degli affari del Paese, a determinare o scegliere coloro che determineranno da quali leggi dobbiamo essere governati in questo Paese – nessuna persona ha diritto a ciò, la quale non abbia un interesse permanente fisso in questo paese. Solo quelle persone, riunite insieme, sono propriamente i rappresentanti di questo paese, e per conseguenza anche coloro che devono creare i rappresentati del paese. …”

e chi, più radicale, sostenne:

“Nulla di quello che ho sentito può convincermi del perché un uomo nato in Inghilterra non dovrebbe avere il voto nell’elezione dei deputati. … non trovo nessun passo nella legge di Dio che afferma che un lord debba scegliere venti deputati e un gentiluomo soltanto due e un povero nessuno: …. Ma trovo che tutti gli inglesi devono esser soggetti alle leggi inglesi, e credo sinceramente non vi sia persona che neghi che il fondamento di ogni legge risiede nel popolo e, se risiede nel popolo, bisogna che ad esso sia attribuito il diritto di voto. Inoltre ho pensato a un’altra cosa: in quale condizione miserabile verrebbe a trovarsi un uomo che ha combattuto in questa guerra per il Parlamento, ove si ritrovasse privo del diritto di voto! Perciò io penso … che ogni uomo nato in Inghilterra non può e non deve, né per la legge di Natura, né per quella di Dio, essere escluso dalla scelta di quelli incaricati di fare le leggi sotto le quali egli deve vivere, e per quel che io sappia, perdere altresì la vita…”

Discorso diverso per gli apprendisti, i servitori e i poveri, che “dipendono dalla volontà di altri uomini, e avrebbero paura di contrariarli … Ma sarebbe bene che si stabilisse una regola generale che attribuisce il diritto di voto a tutti quelli che non sono legati alla volontà di altri uomini”.

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Fonte: Bill of Rights 1689 (estratti)

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