L'ultima corsa

124
1

description

Il rimbombo di uno sparo in un’aula vuota, un corpo fumante ancora a terra ed un biglietto. Questo è tutto ciò di cui la detective Alessandra dispone per indagare sulla morte del prof. Montecchi. L’aiuteranno nell'indagine il suo nuovo partner Manuel ed Elena, studentessa ed aspirante scrittrice, che si trovava a poche aule di distanza la mattina dell’omicidio. Lucia Rizzo ci parla di amore e di morte in un romanzo che unisce la detection poliziesca all'introspezione psicologia, i meandri dell’anima e i turbamenti del cuore. Anche perché, come dice Elena, una delle protagoniste della vicenda: “...si uccide sempre per amore, per amore dei soldi, per gelosia. Forse si uccide sempre per amore perché l’amore è l’unica forza capace di farci impazzire”. Per questo L’ultima corsa è molto più che un romanzo thriller, ma una splendida indagine dell’interiorità umana, l’analisi dolorosa, angosciante, malinconica ed autunnale dei sentimenti che scandiscono le nostre giornate, delle frasi che lace

Transcript of L'ultima corsa

Page 1: L'ultima corsa

1

Page 2: L'ultima corsa

2

© 2015 Bibliotheka Edizioni di Eureka3 S.r.l. I edizione, Dicembre 2015 Stampato da Eureka3, Roma ISBN 978-88-6934-114-4 www.bibliotheka.it Impaginazione e disegno di copertina: Riccardo Brozzolo per Eureka3 S.r.l www.eureka3.it

Page 3: L'ultima corsa

3

LUCIA RIZZO

L’ULTIMA CORSA

Thriller

Bibliotheka Edizioni

Page 4: L'ultima corsa

4

Page 5: L'ultima corsa

5

A te, per quando vorrai cercarti tra le pagine ingiallite di una storia che non esiste.

Page 6: L'ultima corsa

6

Page 7: L'ultima corsa

7

GIOVEDÌ 1 OTTOBRE 2015

Page 8: L'ultima corsa

8

Page 9: L'ultima corsa

9

CAPITOLO 1

Il Professor Montecchi sedeva svogliatamente in un banco qualunque di un’aula vuota. Si era accomodato lì poiché quella settimana non si era presentato nessun studente a ricevimento. Forse perché i corsi universitari erano appena ripresi. Bisognava dare tempo ai giovani, di questo era fermamente convinto. Estrasse dalla borsa dei fogli stropicciati ed iniziò ad appuntare su questi numeri privi di senso. Dopo un’intera ora spesa ad eseguire quel monotono lavoro, si alzò per guardare fuori dalla finestra. Di colpo la vetrata di quella si colorò di rosso, il suo stesso sangue fu l’ultima cosa che vide. Ripensò a sua madre. Lorenzo Montecchi aveva quindici anni quando, spegnendo l’unica candelina che la madre poteva permettersi di mettergli sulla torta, espresse il desiderio di trovare la sua Giulietta. Lorenzo sapeva che i desideri sta a noi realizzarli, ma non avendo abbastanza soldi per iniziare la sua ricerca in giro per il mondo, e conscio del fatto che la madre, col suo misero stipendio da cameriera, non avrebbe potuto fornirglieli, e che non avrebbe avuto abbastanza denaro neanche se a quei ipotetici soldi avesse aggiunto la sua stessa paga da garzone, decise, come fanno tutti i figli in difficoltà, quasi sentissero un richiamo nel sangue, di chiedere aiuto al padre. Così il ragazzo aspettò, pazientemente, che arrivasse il giorno del suo sedicesimo compleanno per ricevere dei soldi che il padre gli inviava annualmente. Aggiunse a quella somma dei suoi risparmi, salutò la madre e partì per l’America, promettendole che avrebbe avuto abbastanza denaro anche per un viaggio di ritorno. Ma quella sapeva che non sarebbe andata così, che sarebbe stata abbandonata dall’unico uomo che avesse mai amato in vita sua, che il figlio, che aveva cresciuto per sedici anni, la stava lasciando. Mr. Paul avrebbe voluto cacciarlo, abbandonandolo di nuovo come aveva fatto sedici anni prima per continuare a condurre la sua vita da libertino. Quando però lo vide sulla soglia del suo costoso

Page 10: L'ultima corsa

10

appartamento, e guardò in quegli occhi azzurri che erano uguali ai suoi, non poté fare che altro che farlo entrare attraverso quella porta nella sua vita. Mr. Paul, all’anagrafe Paolo Guerra, aveva allora quarantasette anni, era fuggito in America durante la Grande Guerra. Quando Lorenzo bussò alla sua porta, si guadagnava il pane esibendosi in piccoli locali e teatri della città, vivendo della fama guadagnatasi mentre l’Europa si autodistruggeva. Dopo la guerra tornò in Italia per vedere cosa restasse della sua casa e della sua famiglia: un bel niente, soltanto macerie e polvere. Prima di tornarsene nella sua America, si lasciò andare ad un paio di bicchierini di troppo, ad una conversazione un po’ troppo lunga con una avvenente cameriera, per poi ritrovarsi, qualche chilometro più in là, nella stanza di questa. Appena Cristina si rese conto di essere incinta, scrisse a Paolo nella speranza che lui tornasse da lei. A tale speranza Mr. Paul rispose, dopo qualche settimana, con una busta contenente del denaro ed una lettera su cui vi era la promessa di inviarne tante quanti anni avesse vissuto il bambino, in cambio, però, chiedeva di essere messo a corrente del giorno in cui la sua prole avesse visto la luce e di conservare la sua libertà di scapolo. «Parli l’italiano?» «Certo.» «Meno male», a quelle parole Lorenzo abbinò un mezzo sorriso intriso di nervosismo, «Lo sai, non ti ho mai chiamato, non ti ho mai chiesto niente. Ma questa è una questione di vita o di morte…» «The same old story!», disse con un po’ di mestiere Mr. Paul. «Cosa?», chiese Lorenzo, che non masticava neanche una parola di inglese. «Nulla.», fu soltanto pronunciando quella parola, che Mr. Paul si rese conto di star parlando per la prima volta a suo figlio, «Dimmi pure di cosa hai bisogno.» «Soldi, per un viaggio, devo trovare una persona.» «Chi?» «Non lo so.» «Come non lo sai?» «Devo trovare l’Amore.»

Page 11: L'ultima corsa

11

«Ah, l’Amore! Ancora con questa sciocchezza? Di questi tempi? L’Amore!» ripeté Mr. Paul ridendo, «Ma quando capirete che l’amore è qualcosa di effimero che non conta un bel niente? Tutto ciò che conta è la fama, quella sì che è eterna. I soldi, il successo, le donne. Solo se sei un uomo di successo le donne faranno la fila per te.» «Come l’ha fatta mia madre?» «Senti», tentò di giustificarsi con un tono quasi dispiaciuto, «Avevo più o meno la tua età, forse più più che meno, il punto è che...» «No, no, capisco.», tagliò corto Lorenzo che di quelle parole poteva farsene ben poco, e sarebbe tornato a testa bassa a casa sua se il padre non l’avesse fermato: «Perché non resti con me?» «Cosa?» «Sei mio figlio! Voglio che resti con me! Voglio insegnarti la mia arte.» «Ah, lo swing… No grazie, a me piace il rock.» «No, voglio insegnarti a stare su un palco, voglio insegnarti i trucchi del mestiere, voglio farti provare cosa vuol dire guardare una platea che impazzisce per te e ti inonda di applausi. Voglio, voglio… Non voglio morire da solo, lontano dal mio unico figlio.» «E l’hai deciso adesso?» «Sì, l’ho capito guardandoti. Voglio che rimanga qualcosa di me quando non ci sarò più, voglio che rimanga tu e che porti avanti tutto il mio successo.» «Senti, non so nemmeno come dovrei chiamarti… il punto è che io non sono bravo in queste cose. Sono stonato, provai anche a ballare una volta, e a quella povera ragazza sono stati pestati i piedi più volte di quanto sia possibile immaginare!» «Almeno era carina?» «Per niente.» «Poco male allora.» «Tu sei proprio uno stronzo.» «Hai ragione, ma lascia che ti insegni.» «A essere stronzo?» «Ad essere immortale.»

Page 12: L'ultima corsa

12

Mr. Paul gliel’ho insegnò così bene che in pochi mesi suo figlio divenne più famoso di lui, soltanto portandoselo appresso. Annusando l’odore dei soldi, Lorenzo dimenticò il profumo della madre: le sue telefonate si fecero sempre più sporadiche, fino a scomparire del tutto. Una notte in cui non riusciva a dormire, continuamente pungolato dai sensi di colpa per la sua infelice condotta, decise di chiamarla, ma dal vecchio mondo non rispose nessuno. Preoccupato ed oramai straricco decise di farle una sorpresa tornando casa. Bussò alla sua porta, con l’entusiasmo di un bambino che esce dall’asilo solo per abbracciare la mamma che gli è mancata tanto, ma non aprì nessuno. Con una preoccupazione ancora maggiore di quella che gli aveva fatto attraversare l’oceano, andò nel locale dove lavorava la madre. Non appena varcò la soglia di quel posto, gli venne all’orecchio un mormorio indistinto di sospiri, a cui pose fine un’amica della madre che gli si avvicinò e, tra le lacrime, gli disse che l’avevano trovata pochi giorni prima in una pozza di sangue. Lorenzo, impietrito, non sapeva come reagire alla notizia. Pochi giorni prima? In una pozza di sangue? Cosa significava? Che stava dicendo quella donna? Si gettò fuori da quel locale che gli stava togliendo l’aria, e si ritrovò su una strada che oramai non riconosceva più; chiamò il padre e soltanto quando ne udì la voce realizzò cosa fosse accaduto. «Ehi, che succede? Lorenzo? Pronto?» Fissando il vuoto, Lorenzo non trovava le parole per rispondere, “Mia madre è morta”, pensò, e trascinato a fondo da quel pensiero, annegò in un mare di lacrime. Trascorse le ore successive vagando per le strade di una città che non gli diceva niente, chiedendo bruscamente a chiunque incontrasse cosa fosse successo alla madre; ma non appena lo scoprì, dannò se stesso per averlo voluto sapere. Perché quando le loro parole ti spingono verso basso, opprimendoti, soffocandoti, vorresti solo smettere di ascoltarle; faresti di tutto per fermare quelle voci. Eppure non riesci a zittirle, e inizi a piangere, a gridare ma quelle voci non se ne vanno, ti tormentano. E quando non sei abbastanza forte da ignorarle o conviverci, diventano parte di te al punto tale che non riesci più a

Page 13: L'ultima corsa

13

distinguere la tua voce dalla loro. Inizi ad avere paura, pensi che nulla sia rimediabile, ma ti fai forza poiché sei ancora abbastanza lucida per ragionare, ma poi succede di nuovo, e continua a ripetersi un giorno dopo l’altro. Pessime giornate non fanno altro che rincorrersi e cerchi un qualche conforto ma non c’è più il suo volto, non c’è più il suo odore per casa, non c’è più lui, e tu hai davvero bisogno di una bella giornata, ma non incontri più il suo sorriso; allora inizi a chiederti a cosa serva resistere se l’unica cosa per cui valesse la pena continuare a vivere se ne è andata, è scomparsa, si è dimentica di te, ti ha abbandona. Perché continuare ad aspettare una chiamata che sai già che non arriverà? Tanto lo sai che le persone sono cattive e tuo figlio non è da meno; lo sai che le persone non fanno altro che abbandonarti e lo fanno perché tu sei sbagliata. Tutti sanno controllare quelle voci, le sopportano, ne alzano il volume, lo abbassano, in pratica ci giocano, ma tu no, tu sei diversa, non funzioni e niente ti aggiusterà mai, per questo non hai più nessuno. «Caro Lorenzo, ti ho amato più di quanto mi fosse possibile fare. Lo sai, la mattina in cui ricevetti la lettera di tuo padre in cielo mi sembrò di scorgere ancora una stella che era rientrata tardi la sera prima, lo presi come un buon auspicio. Lessi quella lettera pervasa dall’emozione perché quello che volevo stava finalmente accadendo: un uomo che mi amava stava per dirmi che mi avrebbe sposata e si sarebbe preso cura di me e di mio figlio, non sarei più stata sola, la mia vita sarebbe cambiata. Poi lessi e mi svegliai da un sogno per ritrovarmi in un incubo. Furono mesi difficili, pensai di non farcela, ma ce la feci e dal primo momento che ti vidi capii che saresti stato per me il calore del primo sole dopo un inverno senza fine. Eri tu il mio sogno, tu eri mio ed eri meraviglioso. Non dormire, lavorare fino a tardi, dolori e sacrifici su sacrifici non mi pesavano perché mi bastava guardare il tuo faccino per trovare un senso a quelle fatiche. Ma poi tu te ne sei andato e hai promesso di tornare, ma non sei più tornato e io non ce la faccio più a vivere così. Cosa deve fare tua madre per ricevere la tua attenzione? Uccidersi? È quello che farò. Tu per me sei già morto, e da morto mi hai ucciso. Ho sempre pensato che fossi la cosa più bella della mia vita, ma me l’hai rovinata, sei uguale a tuo padre, sei uguale a tutti gli uomini.» Le parole successive, macchiate di sangue, si leggevano a malapena. Lorenzo per fortuna non trovò mai quella lettera, né tantomeno vide la madre in una pozza di sangue, con le vene aperte e una

Page 14: L'ultima corsa

14

lametta in mano. La morte per dissanguamento di Cristina fu lenta, e lei non fece altro che piangere desiderando che tutto finisse il prima possibile. Quando capì che non sarebbe finita così presto, si alzò a fatica, e reggendosi a malapena in piedi, si accostò tremando alla cucina; intravide il suo riflesso sul fondo di una pentola posata lì per caso, poi senza la minima esitazione aprì un cassetto, estrasse un coltello e si trafisse. Il dolore fu atroce, nei suoi ultimi momenti di vita continuava a piangere, ma nessuno la sentì. Era certa che se qualcuno l’avesse sentita lamentarsi, avrebbe iniziato ad incolparla. La colpa di Cristina fu quella di riversare la sua intera esistenza nel figlio. Colpa che identifica i genitori come gruppo sociale. Nei giorni che seguirono il direttore del locale la chiamò più volte a casa; nella terza telefonata le annunciò che se non si sarebbe presentata, l’avrebbe licenziata. Stanco, decise di andare in persona a casa sua, almeno per riprendersi il grembiule che era solito far portare alle sue detenute a casa per lavarlo. Bussò alla porta, ma non rispose nessuno, adirato la buttò giù: la vide, e capì che c’era molto più di un grembiule da lavare. Fu il suo sangue l’ultimo pensiero del Professor Montecchi.

Page 15: L'ultima corsa

15

Page 16: L'ultima corsa

16

CAPITOLO 2 Gli anni passano, e i mesi ritornano. Accasciati su un foglio, su un ricordo, s’una preoccupazione. Un chiacchiericcio indistinto di voci intorno coprivano l’attesa. Si faceva a gara a chi era più strano in quell’università, la ragazza nella felpa accanto china sul telefono o lei piegata su un’illusione? Il sapore amaro del caffè che aveva appena bevuto le lasciò addosso la sensazione del fallimento; voleva studiare il significato che si nascondeva dentro al destino altrui perché non riusciva a comprenderne il proprio. “Sei mesi” recitava l’annuncio della casa editrice che stava leggendo. “Sei mesi e se il vostro lavoro risulterà degno di interesse, riceverete risposta.” Sei mesi, centottanta miseri giorni, che Elena Rossi iniziò a contare ad uno ad uno. Non riusciva a capacitarsi di aver inviato il suo manoscritto ad un muto indirizzo di posta elettronica. Sei mesi erano troppi per aspettare una risposta che forse non sarebbe neanche arrivata. Aspettare era la parte difficile. Scrivere un libro, invece, non lo era stato. Ad Elena bastò scrivere ciò che tutti volevano sentirsi dire: l’amore esiste, Dio pure; non siete soli, la vostra vita ha un senso. La ragazza sapeva che le bugie si vendevano meglio delle verità e che erano anche più brevi da appuntare. Avrebbe voluto essere come la protagonista del suo libro, ma la distanza tra le due era così grande che finì per rendere quella simile a lei. Elena le sembrava un bel nome da dare ad un personaggio di finizione. Per scrivere quel suo romanzo iniziò ad osservare la gente per strada, e camminando, appuntava fatti e personaggi nella sua testa. Ma le sfuggiva sempre qualcosa, il suo occhio non sembrava in grado di fermare nulla. Al punto tale che se da un semaforo fosse spuntata una luce blu, avrebbe continuato a camminare con la testa tra le nuvole e il cuore all’inferno, dannata per un peccato che non aveva nemmeno commesso. Camminava perdendosi, in esilio dalla

Page 17: L'ultima corsa

17

sue certezze. È così facile lasciarsi, pensava, mandare a puttane tutti quei progetti, cancellare di colpo tutti quei disegni di una sbiadita felicità; tenersi è difficile, aggrapparsi ad un sorriso, reggersi ad una corda che non sopporta più il tuo peso; rinunciare è impossibile, ma era tutto ciò che avrebbe dovuto fare. Avrebbe dovuto continuare a scrivere soltanto per se stessa e non avere la presunzione di pensare che a qualcuno potesse piacere ciò che lei aveva scritto. Non avrebbe dovuto sottrarre il ragazzo alla protagonista; se la immaginava così arrabbiata da uscire dalla pagina per prenderla a pugni. Ma la morte del ragazzo che amava era stata l’unica cosa realistica nel mare di sciocchezze in cui galleggiavano le parole di quello stupido romanzo. Le storie finiscono male Elena, le avrebbe detto, non puoi pretendere di abitare il paradiso se dentro hai l’inferno. La pioggia si infrangeva rumorosamente contro la finestra dell'aula in cui si era accomodata. La testa china sul telefono, le dita che accarezzavano con incertezza lo schermo per paura di alterale il numero di parole che stava fissando. Le consumò tutte prima di averci capito qualcosa. Per quel vizio di dare un nome a ciò che non si conosce, la ragazza definì quello un brutto periodo. Era un brutto periodo perché non riusciva a tenersi occupata in quell’attesa infernale. Al cadere dell'ora della lezione di Letterature Comparate, l’aula venne assalita da quella che Elena chiamava ‘la generazione dal pollice piegato’. Aveva coniato questa formula osservando il comportamento dei suoi giovani colleghi: stavano tutti attaccati al telefono, come se stessero aspettando la risposta ad una domanda che non avevano il coraggio di fare, quella scena, quella giovinezza che si faceva vecchia a forza di aspettare le straziava il cuore. Era fermamente convinta che le generazioni future sarebbero nate con il pollice piegato a causa di quell’assurda abitudine dei padri. Dopo mezz’ora di attesa, tutti si convinsero che il professor Montecchi avesse dato buca, e l’aula iniziò a svuotarsi lentamente; Elena, dal canto suo, si convinse che non avrebbe mai ricevuto

Page 18: L'ultima corsa

18

risposta dalla casa editrice che aveva contattato. Che cosa stupida pensare che un po’ di inchiostro macchiando della carta strappata alla natura potesse dare un senso alla sua esistenza. Quante ore sprecate, buone a non far nulla di diverso. Quante speranze distorte, quante carezze all’unica cosa che le era cara in quei momenti: una pagina, chiara, silenziosa. Non sapeva più che dirsi, e non capiva per quale motivo dovesse continuare a dirsi qualcosa. Ogni giorno a cui sopravviveva, era un giorno in più che allungava la sua agonia. Andare alla ricerca di parole che potessero piacere a qualcuno, e non trovare niente. Scriveva mezza pagina e ne era contenta, solo ed esclusivamente perché la sua vita era così povera di felicità, che amava illudersi che qualche rigo in più potesse aiutarla a dispiegare pian piano il disegno della sua esistenza. E con che coraggio si sarebbe detta che una volta svelato quello sarebbe svanita anche lei con esso? Voleva semplicemente smetterla di aggiungere pezzi; voleva strappare tutte quelle pagine e cancellare se stessa insieme a loro. Iniziò ad arredare il tunnel in cui si trovava usando la luce che vedeva in fondo a questo per leggere meglio le parole con cui si stava stordendo. La sua mano si rifiutò di scrivere parole che non avrebbe letto mai nessuno; e perse l’unica cosa che le era rimasta. Non era mai riuscita a portare a compimento nulla, senza mai a lasciarsi la soddisfazione di riempirsi la bocca con frasi di senso compiuto. Capì che la letteratura avrebbe fatto per sempre parte della sua vita quando le fu raccontato di un tale che si era perso perdendo la donna che amava, e che passando per l’inferno alla fine la ritrovò in paradiso più bella e più radiosa che mai. Stupide altre materie che le sottraevano tempo per leggere. Stupidi rumori, stupide chiamate e stupidi caffè. Le uniche persone che valeva la pena di incontrare stavano incollate nelle pagine dei libri. Emma Bovary esisteva, il signor Heathcliff era fatto di carne ed ossa e Zeno Cosini se ne stava ancora a fumare la sua ultima sigaretta.

Page 19: L'ultima corsa

19

Di colpo, fuori la porta, si udì infrangersi qualcosa in un gran trambusto di grida ed esasperazione. Elena non si mosse, il virus che aveva nella testa le impediva di agire. Qualcuno però si era mosso ed era andato a cercare il professore, e del professore aveva trovato ben poco. L’università fu evacuata ed arrivarono degli agenti del dipartimento di polizia più vicino.

Page 20: L'ultima corsa

20

Page 21: L'ultima corsa

21

CAPITOLO 3

L’unica condizione peggiore dell’assenza, era quella dell’attesa. Ne era convinta. Alta, mora, spalla larghe, sguardo travagliato. Si trascinava dietro il peso della propria esistenza, e nel farlo, sembrava che si affaticasse ad ogni passo un po’ di più. Un passo maledetto, come se qualche stregone l’avesse indotta a bere un infuso promettendole invincibilità, e credergli le avesse avvelenato l’anima. L’estate era ufficialmente finita, e di tempo non se ne poteva più sprecare così apertamente, bisognava tornare a farlo in segreto, tra uno sbadiglio e l’altro, tra un domani ed un mai. Con gli anni le estati si allungano. Ventott'estati, una più lunga dell’altra, trascorse dentro ad un completo a sudare, mentre gli altri se ne stavano stesi al sole a contare i propri errori. Chissà su quale spiaggia caraibica a godersi qualcosa che Alessandra non aveva mai conosciuto. Ventott’estati e una bugia troppo difficile da ricordare. Non aveva mai capito il senso della sua esistenza, ma era convinta che dovesse essere qualcosa di diverso dal contare le ore che le mancavano e decidere come sprecarle. Altro dall’essere un disco rotto, un torpore strascinato, una parola che non prendeva senso. Soffriva nel fingere sorrisi sorseggiando un caffè, o interesse aspettando il momento giusto per riattaccare il telefono, anche per questo motivo scelse quel tipo di lavoro, convinta che le risposte si cercassero soltanto in compagnia di se stessi. «Cosa abbiamo qui?», chiese un giovane uomo ben vestito, insofferente alla cravatta che non era abituato ad indossare. «Lorenzo Montecchi, quarantatré anni, scapolo. Professore di Letterature Comparate, ben voluto dai suoi studenti.», rispose puntualmente il medico legale. «Chi l’ha trovato?» «Il custode del piano. L'avevano sollecitato a cercare il professore dopo che non si era presentato a lezione.» «Ho bisogno di parlarci.» «Faccia pure.»

Page 22: L'ultima corsa

22

«Ah, un'altra domanda», aggiunse Manuel, «Da quante ore è morto? «Approssimativamente da due ore.» «Quindi tra le 9 e le 11?» Il medico fece un cenno poco convinto con il capo. «E nessuno ha sentito niente?», insisteva Manuel. Il medico aprì le braccia nascondendo uno sbuffo in un sospiro. L'aspirante Detective si avvicinò al custode del piano, richiedendogli le generalità. «Quindi ci sono telecamere soltanto all'ingresso?» «Certo, ma…» «Ma cosa?» «Questa facoltà è frequentata da centinaia di studenti, per non parlare degli addetti ai lavori, delle persone esterne… », il custode iniziò a sospirare come se stesse per confessare una colpa, «Potrebbe essere stato chiunque.» «Controllate il corpo», ordinò Manuel, «Cercate tracce di DNA, forse c'è stata una colluttazione.» «A me, sembra una esecuzione. Guardate il sangue sul vetro e la postura del cadavere, scommetto che è stato sparato dalla porta, un colpo preciso…», e si abbassò ad osservare il foro. «Buongiorno detective!» «E tu chi saresti?», chiese Alessandra non allontanandosi dal corpo ancora fumante. «Manuel piacere», e tese la mano ottenendo in risposta soltanto una guardataccia, «E’ il mio primo giorno di servizio, sono la sua nuova recluta.» «Perché l'altra che fine ha fatto?» «Come che fine ha fatto? È stata promossa.», disse euforico. Capelli corti, ben curati e chiari come sembrava essere il suo umore, lineamenti perfetti, pettorali pronunciati, addome piatto in un completo blu con una stupida cravatta viola un po’ allentata. Tutto sommato poteva andare. «Chiedi in giro se qualcuno ha visto qualcosa e torna a farmi rapporto.»

Page 23: L'ultima corsa

23

Manuel obbedì volando via in un battito di ciglia. «Grazie, adesso ce ne occupiamo noi.», disse Alessandra alla scientifica. «Cosa? Avete bisogno di noi per analizzare il corpo.» «Io non ho bisogno di un bel niente, siete liberi di andare.» Il team di medici non se lo fece dire due volte. Ad Alessandra non serviva un'autopsia, aveva ben chiare le dinamiche dell'omicidio. Le serviva un movente, l'arma del delitto e l'assassino; tutte cose non presenti in quella stanza. Curiosò nella borsa del Professore: mancava il cellulare e non c'era traccia neanche di un portatile; c'erano soltanto alcuni compiti corretti per metà; degli appunti di una lezione che avrebbe dovuto tenere in mattinata e un elenco di trenta studenti iscritti al corso. Il ragazzo della scientifica tornò nello studio affannando: «Ah dimenticavo», disse col fiato corto alla Detective, «Abbiamo trovato questo sul corpo.» Alessandra avvicinò quel foglietto intriso di sangue agli occhi e lesse: «Ah, se questa mia troppo solida carne potesse sciogliersi in rugiada! O se Dio non si fosse opposto al suicidio… Morto appena da due mesi... E di lei così innamorato da non permettere nemmeno al vento di sfiorarle troppo violentemente il viso. E lei che s’appoggiava a lui e più e più ne voleva. Un mese… oh, donna come sei debole! Un mese! Prima ancora che si consumassero le suola delle scarpe con cui ella aveva seguito il funerale del mio povero padre! Perfino una bestia avrebbe pianto più a lungo! Un mese, prima ancora che il sale di quelle lacrime abbia cessato di gonfiarle gli occhi s’è risposata con mio zio. Maledetta fretta di correre tra incestuose lenzuola. Ma io devo tener a freno la lingua!» Alzò lo sguardo attonita, pensando a cosa mai potessero significare quelle parole; guardò quella finestra sporca di sangue; ne sarebbe battuta di pioggia a lavarle prima che ne fosse venuta a capo. Diede l'ordine a Manuel di visionare le riprese di quella mattina e divise con il ragazzo gli studenti da interrogare citati su quel foglio.

Page 24: L'ultima corsa

24

Page 25: L'ultima corsa

25

CAPITOLO 4

La fresca aria autunnale, quella che stava avvelenando i polmoni ad Elena, lo rifocillava. Sorrideva, di un sorriso senz’altro più luminoso di quel cielo che guardava distratto quelle anime dall’alto, troppo impegnato a farsi scuro, a confonderci i sensi con piogge fuori luogo. Eppure lui sorrideva, e il bel tempo lo trovava finalmente nel cuore, al punto tale che quando una raffica di vento lo colpiva all’improvviso aveva come unico effetto quello di spingerlo più in alto. Corpi destinati a morire, felici di essere sbattuti di qua e di là da un soffio instabile purché spinti verso altri corpi. Quel pomeriggio continuò a piovere, non faceva altro da un po’, se un bambino fosse nato in quei giorni avrebbe creduto che non fosse mai esistito il sole. E Federico, con il suo sorriso più chiaro del giorno, tornò a casa dopo una notte spesa nel letto di qualcun altro. Quel lavoro notturno gli pesava sulle gambe, ma gli alleggeriva il cuore. Sereno, leggero, Botticelli avrebbe cambiato il titolo del suo quadro a vederlo. Eppure com’era stonata quella felicità, quel sorriso in mezzo al niente. E come era avido di parole afferrate per caso, se ne è appropriava come se fossero destinate soltanto a lui, per renderlo più bello, per farlo restare stampato sulla faccia di chi era di nuovo felice dopo anni troppo lunghi per essere contati. Ma a volte, nell’afferrarle, le parole si stringono troppo, si finisce per soffocarle, per spezzarle. Sarebbe meglio lasciarle vibrare per aria o farle scivolare al suolo senza chinarci poi a raccoglierle, perché le parole che salviamo, quelle che compongono le frasi che ci ripetiamo tutto il giorno, per tutta la vita, quelle parole che non scorderemmo nemmeno se fossimo costretti a rinascere di nuovo, ci uccidono. «Hey!», con sua sorpresa Federico trovò Elena già a casa, «Che ci fai qui?»

Page 26: L'ultima corsa

26

La ragazza alzò la testa agli addominali del ragazzo, aspettò che l'amico si sedesse per guardarlo in faccia. «M’hanno ammazzato il professore.» «Cosa?» «Hanno ucciso il mio professore.» «Ma dici sul serio?» Fuori, la pioggia, col suo sordo rumore, rattristiva il verde che colpiva. L’intero sistema era stato inventato da qualcuno che voleva soltanto farle perdere tempo. Anni ed anni a studiare, a recensirsi la vita per farla sembrare un po’ più bella, ed ora non era altro che una causa persa; persa dietro ad uno scrittoio ad imbrattar pagine che non erano piaciute a nessuno. Elena aveva la testa completamente da un’altra parte in quel periodo. Il peso del tempo, la sua insufficienza. La voglia di vivere, il dolore per non riuscirci. Il dovere di stare bene, l’impossibilità di farlo. La speranza che moriva asfissiata, il cuore avvelenato dal presentimento dell’insuccesso, l’addio soffocato d’un senso. La ragazza smise di fare l’analisi logica ai suoi pensieri soltanto quando si accorse che il campanello del suo appartamento suonava da un po’. Alessandra notò dapprima quegli occhi di un marrone così intenso da sembrare impregnati di sangue; poi i capelli dello stesso colore. Doveva essere una stregoneria perché quel sangue stava facendo ribollire il suo. La guardò. Cos’è uno sguardo per il cuore dell’uomo? Il più delle volte non è altro che una rima sbagliata che suona bene all’interno di un componimento perfetto; altre, un violino che stride in un’orchestra malandata; una relazione tenuta insieme con la colla. «Salve», esordì la Detective, «Sto cercando Elena Rossi.»

Page 27: L'ultima corsa

27

Un profilo degno di un applauso, pensò Elena guardandola. Ed il grigio della sua anima iniziò a schiarirsi, schizzando spruzzi di celeste sulla tavolozza delle sue emozioni; piccoli raggi di sole filtravano attraverso le nuvole e si andavano a posare su quella che stava guardando. Vi è mai successo di guardare qualcosa senza riuscire a mettere a fuoco ciò che avete davanti, e poi, all’improvviso, riuscire a focalizzarvi su un punto preciso e tranquillizzarvi, consapevoli di non star perdendo la vista? Ecco, questo è ciò che successe ad Elena. All’improvviso tutto divenne chiaro e lei, ovviamente, non capì più niente. «Sono io.» «Bene, dovrei farle alcune domande sul professor Montecchi.» «Si accomodi.», e con lo stesso sospiro con il quale pronunciò quelle parole chiuse la porta alle sue spalle. «Lei chi è?», chiese la Detective a Federico. «Federico Rossi, per servirla.» Alessandra ingoiò una grassa risata. «Siete fratelli?» «No», rispose il ragazzo, «Siamo cresciuti nello stesso orfanotrofio.» «Ah capisco», e si accomodò sul divano, «E vivete da soli?» «Sì, cioè no, c’è anche un'altra nostra amica Maria Rossi.» Dopo aver impaurito il ragazzo, Alessandra desiderava venire al dunque, ma Elena se ne stava all'in piedi con le braccia conserte appoggiata al tavolo. La guardò una seconda volta per sollecitarla a sedersi. «Posso offrirle qualcosa?», continuò in tono servizievole Federico. «Un caffè, magari.», poi guardando Elena: «Guarda che neanche i colpevoli si mostrano così poco collaborativi.» Elena avrebbe voluto un foglio per ragionarci su, per stillare una lista di reazioni possibili e poi scegliere quella più appropriata alla situazione. Ma non lo aveva, e sulla superficie sabbiosa della sua mente non riusciva a scrivere una frase allineandola correttamente:

Page 28: L'ultima corsa

28

si collocavano tutte in maniera sinusoidale su quelle che registravano il battito del suo cuore. Prese un respiro profondo, ma non le bastò; ne prese un altro, e con un terzo si andò a sedere di fronte all'investigatrice: «Abbiamo trovato il suo nome e quello di altri ventinove studenti su una lista tra i documenti del professore.» «La lista degli iscritti al corso?» «Sì… mi potrebbe dire perché ha scelto proprio il corso del professore?» «Beh, si dice in giro che sia uno tranquillo… che fosse uno tranquillo. Poi il programma è davvero bello, era. "Shakespeare e il teatro."» Ad Alessandra gelò il sangue. «Come mai quest'argomento, non è inerente alla Letteratura Inglese?» «No, il corso prevedeva l'analisi comparatistica di alcuni drammi di Shakespeare con altri, soprattutto spagnoli.» «E ricorda qualcuno di questi drammi?» «Beh, i più noti, il Macbeth, l'Amleto...» Alessandra questa proprio non se l'aspettava. «Va tutto bene?», chiese Elena mentre Federico posava sul tavolo due tazze fumanti di un caffè nero come il cielo in cui si rispecchiavano i pensieri dell’investigatrice, la quale iniziò a sorseggiarlo soltanto per fingere indifferenza. «C'è qualcosa che dovrei sapere?», chiese Elena alla quale quel caffè parve un poco più amaro del solito. «Nulla», rispose Alessandra freddandosi come quella tazza che reggeva. Ringraziò politicamente i due ragazzi e lasciò loro il suo numero con la preghiera di chiamarla se gli venisse in mente qualcosa di utile.

Page 29: L'ultima corsa

29

Diede loro le spalle, mostrandogli i lunghi capelli scuri che le cadevano sulle spalle. Erano mossi, come lo era stata tutta la sua vita. «Però!», commentò Federico non appena ebbe chiuso la porta. Elena abbozzò un sorriso, ma in quel momento nello stomaco, al posto delle solite farfalle, le volava uno pterodattilo, che sentiva estinguersi man mano che lo stomaco si restringeva. Ali che si aprivano ogni volta più grandi in uno spazio sempre più piccolo.

Page 30: L'ultima corsa

30

Page 31: L'ultima corsa

31

CAPITOLO 5

Una solo giro di chiave era quanto Elena Rossi reputasse necessario a salvaguardare il suo appartamento e tutti i beni in esso contenuti; di fronte alla porta di casa però, si accorse che qualche ora prima aveva dimenticato di compiere quel gesto abituale, ragion per cui le bastò infilare la chiave nella serratura per ritrovarsi di nuovo, tutta da sola, immersa nel tanto agognato silenzio. Rientrata da una serata di intenso lavoro, buttò la borsa sul tavolo e il giubbotto di pelle sul divano; si levò a volo le scarpe e analogamente alla borsa e al giubbotto buttò se stessa sul letto. Quella notte la ragazza provò tutta l’angoscia di un sonno che non viene a chiuderti gli occhi. La prima volta che li aprì, il cellulare indicava le tre, era rincasata poco dopo l’una, possibile che fossero passate soltanto due ore? Respirò, si disse che avrebbe dovuto spogliarsi e mettersi comoda per riuscire a dormire, lo fece ed iniziò a respirare ad intervalli regolari. La seconda volta che riaprì gli occhi erano le cinque, “E’ impossibile svegliarsi precisamente ogni due ore”, pensò; andò in cucina a prendersi un goccetto di rum per conciliare il sonno, le piaceva darsi arie da pirata, ma neanche quello le fu d’aiuto. All’angoscia subentrò il peso di una giornata che non finiva. Alle cinque e mezzo, disperata, con i nervi eccitati come se avesse appena bevuto tre caffè e non mezza bottiglia di Rum, decise, per intrattenersi e per evitare di pensare alla voragine in cui stava precipitando la sua vita, di mettersi a leggere. Accese la lampada posta sullo scrittoio della sua camera, scelse a caso uno dei volumi ammassati sulla scrivania, “Santo cielo,” pensò, “sono le cinque e mezzo, dovrei leggere la bibbia per riuscire a prendere sonno.” La scelta cadde, casualmente, su un volume datato 2002 che Elena aveva comprato in un mercatino, non ricordava precisamente dove; oltre alla provenienza, aveva dimenticato anche di leggerlo. Il volume, ben rilegato, forse per questo acquistato dalla ragazza, portava sulla copertina il titolo Recita; in sostanza era un romanzetto da quattro lire, che presentava il solito schema trito e ritrito della coppia di amanti infelici, separati dal destino, che dopo varie peripezie riusciva a ricongiungersi. Ma oramai nemmeno più nei libri

Page 32: L'ultima corsa

32

che leggeva c’era un lieto fine; da qualche anno questi si chiudevano quasi tutti con un finale sospeso che non faceva capire nulla al lettore, il quale giustamente s’arrabbiava pensando a quanto tempo aveva sprecato, quante energie, rivelatesi poi futili, aveva speso per gioire delle vicende, avventure o disavventure, dei protagonisti, per poi essere privato, all’apice dell’aspettative, di quel momento in cui, ritrovandosi alla fine di una storia, alla fine di un’esperienza che poteva essergli piaciuta o meno, non gli veniva permesso di ‘salutare’ il romanzo con un sorriso, ma con un’espressione da imbecille, con l’espressione di un idiota che non ha capito nulla, insoddisfatto, esterrefatto, come deve essere l’espressione di una persona nel momento in cui sta morendo. Ma quale favilla al Sole sarebbe andata a dire, se avesse potuto, a Foscolo. Elena si stancò velocemente di quella lettura; ma come spesso accade quando leggiamo, anche dal prodotto più scadente, riusciamo, quasi sempre, ad estrapolare qualcosa di piacevole. La ragazza fu colpita da alcune frasi di François, lo sfortunato amante-attore, il protagonista insomma, che poteva vedere la sua bella Marie soltanto sulla scena, in quanto già promessa ad un altro uomo. «Farsi conoscere da qualcuno è seriamente pericoloso, per quanto siamo realmente imperfetti e imperfettamente reali. Gettare via la maschera che ci affligge, contando quanti personaggi abbiamo impersonato. La stanchezza che ti porta la scena…» “Ma perché comprai questo libro? Chi è l’autore? Dove mi trovavo? E se non fosse mio?” Il mistero non si risolse, e lei si stufò di assillarsi con altre domande; erano quasi le sette meno venti, oramai la giornata poteva iniziare, e lei poteva farsi la doccia, bere il primo caffè del mattino ed uscire.

Page 33: L'ultima corsa

33

Page 34: L'ultima corsa

34

VENERDÌ 2 OTTOBRE 2015

Page 35: L'ultima corsa

35

Page 36: L'ultima corsa

36

CAPITOLO 1

L’arrivo del mese di Ottobre è considerato da molti un sollievo: il caldo scompare e fa posto all’odore della pioggia che s’intreccia a quello della pelle che può finalmente nascondersi dopo mesi passati in bella vista. Ma a guardarlo bene in faccia, questo mese, non serve a nulla. Ottobre si ritrova lì, con le sue incertezze, a metà strada tra l'estate e l’inverno non sapendo da che parte andare. È un mese insignificante. Deve essere terribile nascere ad Ottobre; sposarsi ad Ottobre; morire ad Ottobre. Alle otto di mattina Maria Rossi, una barista senza peli sulla lingua con un diploma in ragioneria, era sveglia già da trenta minuti. Strano, era solita dormire fino a tardi visto che il suo turno a volte si allungava anche fino alle quattro. Guidò prudentemente fino al supermercato, scansandosi i pedoni che cercavano di investirla. Si mimetizzò bene tra la massa di casalinghe disperate in tuta che, correndo da uno scaffale all’altro, cercavano di accaparrarsi l’ultimo prodotto in offerta. Notò che i limoni costavano un occhio della testa; e non riuscì a spiegarsi come qualcosa di così amaro costasse così tanto. Il giubbotto di pelle lo lasciò slacciato, scelta stupida. Se solo fosse andata verso qualcosa. Come si fa a rimanere fermi per tutta la vita? Di ventiquattro anni si era allungata la sua e di questi quanti ne aveva vissuti? Elena fermò la moto in una strada a cui lato si ergeva uno spesso muro; ne percorse tutto il perimetro ed entrò per un cancello mezzo arrugginito. L’erba che calpestava era interrotta da lastre di marmo quadrate sopra le quali erano incisi nomi di persone ormai dimenticate; in quel labirinto di lapidi e cappelle, con cui si facevano lucrosi affari, alla ragazza non serviva il filo di una sciatta Arianna per orientarsi: conosceva la strada a memoria. Poche volte in vita sua era riuscita ad ascoltare il rumore dei suoi stivali sull’asfalto; in quel sovraumano silenzio si avvicinò ad una tomba davanti alla quale sedeva una figura di ragazza che con quei suoi

Page 37: L'ultima corsa

37

capelli chiari vivacizzava il pallido scenario in cui quelle superflue controfigure si sarebbero esibite per sempre. «Hey.» «Hey.» Elena prese posto accanto a lei. Le due ragazze restarono in silenzio per un po’. «Federico mi ha detto che ieri sono venuti gli sbirri a casa.» «No, ma che! Una Detective sta investigando sull'omicidio di un professore. E io come un'idiota mi ero iscritta la suo corso.» Elena rivolse lo sguardo che fino a quel momento aveva fissato del cemento al profilo di Maria: quella mattina la ragazza le sembrò un cumulo di ossa simile a quelle che giacevano sotto di loro. «Ogni volta che la guardavo», confessò all'improvviso, «Mi chiedevo sempre come mai non m’avesse ancora lasciato… lo sai, non ci ho mai creduto in realtà.» «A cosa?» «Al fatto che potessi essere felice.» Elena prese un lungo respiro pensando a cosa dire. «E adesso cosa penseresti a guardarla?», si decise a chiederle. «Riuscirei solo a chiederle perché l’ha fatto.» Le parole non servivano a nulla e Elena questo lo sapeva bene. «Secondo te è colpa mia?» Erano tre anni che Elena stava aspettando quella domanda e non aveva ancora deciso cosa rispondere. «No», disse non essendone sicura, «Non possiamo salvare chi non vuole essere salvato.», e dicendolo se ne convinse. Federico camminava lungo quel muro senza toccarlo.

Page 38: L'ultima corsa

38

Si sentiva attaccato da quello stesso muro, che secoli prima era stata innalzato da qualcuno per difendersi; un freddo insieme di cemento e rimpianti lo separavano dalle sue coinquiline. Quelle due non avevo i pensieri che aveva Federico ad ingombrare loro la mente. Fu contro il muro di un convento, gelido come il ghiaccio, che si ritrovò ad otto anni, spinto dalla cattiveria di un parroco, che gli abbassava i pantaloni con la stessa mano con cui la domenica distribuiva l’ostia ai fedeli. La piccola Elena, di qualche mese più grande di lui, lo vedeva spesso aggirarsi con aria imbronciata per il giardino dell’orfanotrofio di Santa Maria delle Vedove dove erano rinchiusi. Quando gli si avvicinò, con la leggerezza con la quale i bambini fanno amicizia, questo le disse subito di stare lontana dagli uomini che le facevano male; Elena non capì, allora Federico le spiegò cosa facevano i grandi ai bambini, spaventandola a morte. Ogni pomeriggio tornava sempre a giocare con il bel bambino dai capelli scuri e dal volto triste. E questo le raccontava cosa gli succedeva la sera prima. Poi ognuno tornava nel proprio dormitorio. Un giorno le mostrò dei lividi sulle braccia e sui fianchi, Elena spaventata andò a riferire tutto ad una suora. Questa con un accanimento maggiore di quello che avrebbe avuto un diavolo, fece di tutto per scoprire chi fosse il responsabile di quelle violenze; ma l’omertà dei fedeli che giuravano di non aver visto nulla di strano nel comportamento dei frati che abitavano quel luogo, e che anzi si dimostravano così misericordiosi nell’accogliere bambini in fasce lasciati sulla soglia del convento, le legò le mani. La suora non si arrese, e trovò il modo di far intrufolare Federico nel dormitorio femminile per tenerlo a sicuro. A Federico bastò qualche cioccolata calda e qualche giocattolo per capire che il mondo fosse abitato anche da persone buone e che quella donna ne facesse parte. La suora riuscì a nascondere il ragazzo ogni notte nella sua cella per cinque lunghi anni.

Page 39: L'ultima corsa

39

Poi tentò di spiegare a Federico come accettare serenamente l’accaduto; un’accettazione cristiana, perché la suora credeva più in Dio che in Freud, la quale avrebbe avuto come tappa finale il perdono concesso al prete. Federico le disse di non capire cosa stesse dicendo; la suora allora fu felice di intuire che il ragazzo avesse rimosso il trauma subìto e continuò a tenerselo ogni notte fra le braccia finché il ragazzo non compì diciotto anni. Prima di abbandonare il convento, Federico decise di recarsi nel luogo in cui mancava da dieci anni, dopo i Vespri per essere sicuro di trovare il parroco. Il prete, sedeva, leggendo la bibbia, quieto, chiuso nel suo scrittoio; alla vista di Elena e Federico che si tenevano per mano rispose con parole gentili, invitandoli a confessarsi, ripetendo parole d’elogio per il santo sacramento del matrimonio e di disprezzo per la peccaminosa moda della “fuitina”. Nell’invitarli, pose la mano sulla spalla di Federico. Quella mano che l’aveva toccato con forza tante di quelle volte, e al tocco della quale, soltanto ora, dopo anni, Federico sentì tutto il dolore che gli aveva arrecato. Lasciò la mano di Elena ed afferrò quella del sacerdote, girandogli il polso. Lo sbattete contro la scrivania, colpendolo ripetutamente. Si accanì contro quelle mani chiudendole nei cassetti e negli armadietti che erano lì vicino. Poi passò alle parti intime. Non si distinguevano gli sputi dai calci. L’anziano uomo non sarebbe riuscito a contrastare l’ira di Federico nemmeno se l’avesse sentita arrivare dieci anni prima. Il ragazzo lo guardava contorcersi per terra mentre perdeva sangue, completamente in balia delle sue di mani adesso, ma non lo sfiorò nemmeno per un secondo l’idea di fargli patire quello che aveva subìto lui. Elena se ne stava a guardare compiaciuta il pestaggio; non voleva e non avrebbe potuto fermare il ragazzo. Quando capì che questo non si sarebbe fermato da solo, gli si gettò addosso, conscia del fatto che se Federico non si fosse appropriato di se stesso in quel momento, si sarebbe perso per sempre. Gli asciugò la fronte con un fazzoletto e con lo stesso le mani che gli fece lavare nel contenitore dell’acqua santa posto all’ingresso

Page 40: L'ultima corsa

40

della sacrestia. Rimase con lui tutta la notte, e gli asciugò anche le lacrime con un fazzoletto diverso. Il sacerdote non riuscì ad alzarsi se non con l’aiuto di altri frati; decise di non recarsi in ospedale, né di sporgere denuncia, e ai fedeli che gli chiedevano cosa fosse successo, rispondeva che la sera prima era venuto il diavolo in persona a visitarlo. Camminando lungo quel muro, Federico si domandò cosa ne sarebbe stato di lui se non avesse incontrato Elena. Andò a sedersi vicino a loro con grossi occhiali scuri già poggiati sul naso. Maria non era mai riuscita a capire come la parola ‘futuro’ pronunciata da Giulia sembrasse più bella. Sorrise. Spense quel sorriso nelle lacrime quando capì che lei a Giulia non glielo aveva potuto dare un futuro. Lacrime lievi, come quella pioggia che non smetteva di cadere; costante come il ricordo di chi non c’era più. Negli ultimi tre anni aveva scelto con cura la sequenza delle scene da visualizzare nella sua testa, si iniziava sempre dalla prima volta che l’aveva vista: erano su una spiaggia, la sabbia alleggerisce i cuori, Maria non ricordava bene cosa ci facesse lì, tutto ciò che ricordava era il sorriso di quella ragazza così strafatta da reggersi a malapena in piedi. Di Giulia a lungo vide solo il sorriso, ne toccò solo le spalle in abbracci frettolosi; desiderò per un’infinità di tempo vedere e toccare altro. Forse se la ride il destino a realizzare i nostri sogni soltanto per distruggerli. Maria realizzò il suo di desiderio in una notte perfetta, la luce era perfetta, e l’aria, e la pelle di lei nonostante tutti quei vuoti dovuti ai piercing che portava. Maria credeva che sarebbe riuscita a riempire il vuoto che Giulia aveva al posto del cuore, e che la ragazza che amava fosse in grado di mantenere le promesse che faceva quando pronunciava quella parola che in bocca a lei pareva così bella. “Non puntare più in alto dell’altezza da cui sei disposto a cadere”, lesse una volta da qualche parte. Poi, una sera, ai vuoti che era abituata a vedere ed ad amare, ne vide altri, sulle braccia. Non sarebbe bastato un esercito a fermarla, e tra le urla, oggetti che volavano portandosi appresso parole singhiozzanti, Giulia le disse che era colpa sua: Maria le mancava tanto, e lei ci era

Page 41: L'ultima corsa

41

caduta soltanto una volta, gliel’avevano offerta, era pulita da anni, una volta sola non significava nulla! Maria lasciò quella camera d’albergo e Giulia dopo quasi mezzo anno trascorso a non reggere nient’altro. Avrebbe preferito essere tradita, lasciata, dimenticata; avrebbe sopportato l’idea di essersi illusa, di essere stata ingannata, ma non quella di non essere abbastanza. Drogarsi la faceva sentire meglio di quanto riuscisse a farlo lei. Non riusciva a sopportarlo; Giulia avrebbe dovuto scegliere, ma lo aveva già fatto! E Maria glielo rinfacciava ogni volta che Giulia tornava da lei. Glielo ricordava sempre di mattina, dopo una notte passata ad ispezionare ogni centimetro della sua pelle. Solo per assicurarsi che Giulia non le mentisse, sia chiaro. La mattina dopo Maria passava ad ispezionare l’interno della sua borsa e le tasche del giubbotto. Non trovava mai nulla, quindi continuò a farsi trovare nella loro camera d’albergo ogni volta che Giulia le diceva che si sarebbero potute incontrare. Poi, una notte che non aveva nulla di perfetto, bagnò con lacrime silenziose il cuscino sul quale non riusciva a riposare; si rese conto che quella parola che Giulia pronunciava così bene non sarebbe mai esistita per loro e decise di dirglielo. Si fece trovare nel solito luogo e come un romanzo che si scrive da solo, come un murale dipinto da un cieco, le disse quello che doveva dirle, senza guardarla, nemmeno per un attimo. Trascorse la notte seguente aspettando che si facesse giorno per tornare in quella camera d’albergo e dille che si rimangiava tutto, che anche se le cose non andavano, voleva stare soltanto con lei, se ne era accorta rinunciando a lei. Come un bambino che regge un aquilone finché la mamma non gli compra un gelato, ne piange l’assenza dopo aver placato la sua fame. Maria aspettò che si facesse giorno. Fu quello il suo errore: da quel momento non sarebbe stata altro che l’insieme del tempo che avrebbe perso. La cosa che le mancava di più era la possibilità di poter realizzare quella parola che pronunciata da lei sembrava così bella.

Page 42: L'ultima corsa

42

Page 43: L'ultima corsa

43

CAPITOLO 2 «Siamo ad un punto morto!», urlò Alessandra sbattendo la borsa sulla scrivania, «Non abbiamo un telefono, non abbiamo familiari, non abbiamo prove!» «Inoltre tutti gli studenti sembrano non sapere niente», sottolineò Manuel soltanto per accrescere l’ira della Detective. «E’ un caso impossibile.», concluse sconfitta quella. Salì sulla fidata moto come un condottiero sul cavallo da guerra, decisa a ritornarsene nel suo appartamento. Nel farlo, udì le parole del Tenente correrle dietro, la stavano quasi per raggiunge: «Hey! Mi devi aggiornare sul caso!» Quale incurante, spietato, treno parte con a bordo l’amata proprio nel esatto momento in cui sopraggiunge l’amante, tale, la maligna moto di Alessandra si compiacque di lasciarsi dietro le parole dell’uomo e di portar via colei a cui quel fiato era destinato. Dopo pranzo, si stese sul divano, non riposò mai peggio in vita sua, forse solo nella notte insonne che aveva alle spalle e sulle quali ne sentiva tutto il peso. Frustata si alzò, si fece un altro caffè, ma non servi niente: un’incerta stanchezza le premeva la fronte, fino a farle desiderare di chiudere gli occhi. Se la prese con se stessa per non essere riuscita a riposarsi, rilassarsi, chiudere gli occhi e seguire semplicemente il ritmo del proprio respiro per ritrovarsi in un sonno rappacificatore di idee e pensieri. E invece niente: il suo cervello era sempre in azione, si permetteva il lusso di distrarsi solo fantasticando, immaginando scene improbabili di cui lei stessa era la protagonista e sulla coprotagonista, beh… Alessandra, in quel pomeriggio, avrebbe certamente preferito sorvolare. Curiosò sui social, per sollecitare le ore, di quella giornata che non voleva procedere, a scorrere. Ma quelle sembravano non sentire. L’unica costante in questa grande roulette che è la vita, consiste nel fatto che anche ciò che sembra non finire mai, prima o poi, finisce.

Page 44: L'ultima corsa

44

Avvertì il lieve chiarore del tramonto illuminarle le tenebre in cui era immerso il suo cuore, strada suggestiva per un’anima persa come la sua, ma breve cammino, battuto giusto da un po’ di sole, su cui erano sparse piccole briciole di felicità. E come doveva essere difficile non chinarsi a raccoglierle, non saziarsene, ma lasciarle lì, a marcire, a farle volar via, al primo soffio del men noto vento. Non riusciva a venirne a capo, non si era mai arresa di fronte a nessun caso, ma questa volta non aveva idea di cosa fare.

Page 45: L'ultima corsa

45

Page 46: L'ultima corsa

46

CAPITOLO 3 Non si era parlato d’altro per settimane: carte di giornali e di riviste imbrattate, parole consumate con avidità nei più noti salotti televisivi. Perfino il notiziario si lasciava qualche minuto per ricordare al mondo quanti giorni mancassero alla prima serata di Dating Star. Le persone non sapevano più dove mettere tutte quelle ore che le separavano da quel momento, se farci qualcosa o continuare a gettarle via. Tutti aspettavano quel giorno, e quel giorno finalmente arrivò. Quel programma dal titolo che non significa nulla fu piazzato da Megarete alle ventuno di venerdì sera, nella convinzione che la gente non sarebbe uscita di casa per vederlo, e così accadde. Ad aprire le danze c’era la conduttrice Pamela di Francesco: una donna pingue, bassa, con capelli macchiati da colpi di luce a nascondere la vita che li abbandonava; voce stridula e scarsa intelligenza. Non vi era una sola nota positiva che la differenziasse delle altre conduttrici televisive del tempo: «Signori e signore benvenuti alla prima puntata di Dating Staar!» Un uomo poco distante da lei, riuscendo abilmente a non farsi inquadrare dalle telecamere, incitò il pubblico ad applaudire: gli spettatori iniziarono a battere le mani in maniera tanto spontanea quanto fragorosa. Elena Rossi, comodamente seduta sul divano di casa sua, accese la televisione quando ‘La signora Pamela’ stava ringraziando periti critici teatrali, discografici e giornalisti di vario genere. «Go, go, go and never look back! / Do, do, do, together we stand / So? So? So? We never gonna stop…» Il primo ad esibirsi quella sera fu un ragazzo, che con la sua performance fu capace di dare virilità rock a della musica pop da quattro soldi. «Never! Never! Never!», e si gettò sulle ginocchia, inarcò la schiena all’indietro e alzò il braccio sinistro in segno di vittoria. Il pubblico e la giuria erano in visibilio, a fine esibizione una standing ovation,

Page 47: L'ultima corsa

47

accompagnata dai complimenti di tutti, coronò il suo trionfale ingresso nella scuola. Dopo cinque minuti di trasmissione ci fu una pubblicità lunga tre. Ebbe il tempo di aprire la porta di casa a Federico. «Cazzo, è iniziato già?» «Cioè io sto vedendo questa porcheria perché tu volevi guardarlo con me e Maria…» «Calma Rossa, Maria sta arrivando. E guarda qui», disse sorridendo, «Ho preso i pop corn!» Elena con uno sbuffo si rigettò sul divano. Dopo quel ragazzo entrarono un mezzo soprano che non le dispiacque; una certa Karma, che etichettò subito come la Tina Turner dei poveri; ed un ballerino tedesco che raccontò la sua infelice storia in un italiano che lasciava molto da desiderare e poco da essere desiderato. Mentre Elena continuava ad osservare la Signora Pamela rendersi ridicola, Federico andò ad aprire la porta a Maria. «Scusate, c’era un traffico di pazzi.» Si era persa la prima ora del Talenti che avrebbe realizzato i sogni di tanti ragazzi, che avrebbe permesso loro di fare un disco, di vincere Sanremo, fare una tournée teatrale o chissà, magari qualche serata in discoteca per alcune centinaia di euro. Tutte prospettive interessanti per dei ventenni; una veloce parentesi in anni insulsi. A volte le parole vengono usate così tanto che finiscono per stancarsi, e quando si usa un linguaggio che non significa più nulla ecco che si va in scena. Quella sera migliaia di occhi puntati su quei ventiquattro giovani talenti accompagnarono le parole vuote di Pamela. Urla da stadio, videoclip, litigi, giudizi poco obiettivi, e dopo un’ora Elena già non ne poteva più. Per lei il tempo non scorreva, ma girava, in una

Page 48: L'ultima corsa

48

roulette di pensieri che le facevano puntare sempre sul numero sbagliato. Per fortuna, ci pensò uno pseudo-opinionista ad attirare la sua attenzione: «Sto solo dicendo che io non la vedo ‘rock’» «Allora non ci vedi!», esclamò il professore di canto, con parole che nuotavano in applausi oceanici. «Dio mio pietà! Pietà!», rispose ancora alla fandonie di quell’esperto. «Sto solo dicendo che in quanto donna…», i mormorii in studio e gli occhi stralunati dei più, fecero fermare un momento quel critico. «Pamela!», chiamò la ragazza in discussione. «Sì, vuoi dire qualcosa?» «No, in realtà preferisco i fatti alle parole.» La ragazza si alzò, estasiando con questo banale gesto il pubblico in sala; si avvicinò al maestro d’orchestra, posto con dei musicisti alla sinistra del palco, e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, partì una musica rock che iniziò a far ballare tutto lo studio. «Io sono venuto qui per cantare, non per confessarmi.» «Ma sei presuntuoso anche quando canti!» «Oh scusami, se non ho la voce da fringuello!» «Ti piacerebbe.» «Mi piacerebbe essere lasciato in pace!» «Dio mio!», commentò Federico, «Questi sono proprio due repressi.» «Scommetto che andranno a letto prima della fine del programma.», decretò Maria. Pioveva, ma la pioggia non li bagnava già da un po’. In quei giorni, il sole non degnava il cielo di uno sguardo; le case, gli alberi e i colori erano immersi in un’atmosfera grigia e cupa, che sottraeva loro la vita. Elena sedeva su quel divano stretta tra la morsa dei suoi coinquilini che la stavano costringendo a guardare quello stupido programma. Osservando quelle scene sdolcinate d’applausi, d’abbracci e di

Page 49: L'ultima corsa

49

promesse che sarebbero state di lì a poco distrutte, pensava alla sua miseria. Era convinta che a raccontarle spesso le miserie umane diventavano meno gravi. Ma le sue se le andava ripetendo da giorni, senza trarne nessun beneficio. Giornate troppo uguali a loro stesse si ripetevano senza dirsi niente. Non era fatta per starsene chiusa in casa; quella sera aveva bisogno di uscire, prendere aria, vedere i colori offuscati del mondo e non il bianco di quelle quattro mura. Fosse stato un film, quella scena l’avrebbe fatta pure ridere; fosse stata la pagina di un libro, l’avrebbe spinta a chiuderlo. Ma la spacciavano per realtà! Le telecamere si chinavano a raccogliere lacrime che scendevano a fiumi, non riuscendo ad insinuarsi tra abbracci così stretti. Nemmeno stessero partendo per la guerra quei ragazzi! Nemmeno stessero traducendo Tacito, nemmeno ci stessero rimettendo il cuore! Amareggiata da una sconfitta di cui non sentiva nemmeno più il sapore per le troppe volte in cui l’aveva assaggiata, spostò la sua attenzione dalle future Stelle, ché lei alle stelle non credeva e di desideri non ne aveva più espressi dopo aver capito che la vita ti da una cosa soltanto se te ne toglie tre, ai professori che si nascondevano dietro ad un banco. Rea di un’incerta colpa, tentennando come chi ad anno nuovo si trova a dover scrivere le ultime quattro cifre di una data, Elena se ne stava tranquilla ad ingoiare la sua agitazione. Aveva soffermato la sua attenzione sul professore di danza, Stephen; questo sembrava del suo viver stanco, come se la vita l’avesse avvilito, come se avesse vissuto duemila anni, fatto la Rivoluzione francese; sembrava un piccolo fuoco spento da un abbondante pioggia, e quella pioggia sembrava fatta di gocce che si rivelavano essere secondi, e l’insegnante sembrava sentire i temporali che portavano via i suoi anni senza lasciare neanche un vago ricordo di lui. Interveniva, sollecitato dalla conduttrice, caricando le parole che pronunciava del peso dei suoi rimorsi. Destreggiandosi tra un attacco e una difesa, lo scollo della sua bianca camicia lasciò intravedere una collana; Elena si alzò dal divano e si avvicinò allo schermo.

Page 50: L'ultima corsa

50

«Ma che le prende?», chiese Federico a Maria. La forza delle sue imprecazioni non riuscì a spostarla di un centimetro, mentre l’insegnante di danza difendeva un ragazzo sancendo che: «Il veleno lo si da ai topi no alle farfalle.» Elena in quel momento vide chiaramente il ciondolo che pendeva al collo del maestro, e cadde a pezzi senza avere la forza di raccogliersi. Si girò versi i due amici e con voce che tremava, come se avesse commesso un crimine soltanto per il desiderio di confessarlo, disse loro che era certa di aver visto quella collana anche al collo del professor Montecchi.

Page 51: L'ultima corsa

51

Page 52: L'ultima corsa

52

SABATO 3 OTTOBRE 2015

Page 53: L'ultima corsa

53

Page 54: L'ultima corsa

54

CAPITOLO 1

Credeva che la vita non fosse fatta per restare, restare ad aspettare attaccati ad un’illusione, mettersi dietro ad una porta ad origliare nella speranza che qualcuno si accorgesse di noi per farci entrare. No, la vita era fatta per andarsene, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare ogni volta da capo. La vita era fatta per scordarsi tutti i film visti insiemi, tutte le canzoni dedicategli, era fatta per spegnere il calore di un bacio nel freddo di un ricordo. Quell'odore lo tormentava. Era il profumo che Lorenzo lasciava sulle lenzuola di casa sua; inutili tentativi di tenerselo per sé, restava sempre troppo poco, e quando scompariva gli mancava pure quello. C’era sempre lui nella sua testa, mentre insegnava, mentre camminava, mentre guardava un film, c’era sempre lui in ogni sua singola fantasia. Stephen, cui esistenza si potrebbe riassumere come un tentativo di fare la cosa giusta riuscito male, pensava alla sua vita come ad una pagina bianca, sulla quale non trovava il coraggio di scrivere poiché inevitabilmente, parola dopo parola, l’avrebbe riempita di errori e di cancellature. A volte ci avrebbe scritto sopra un nome così grande da riempirla tutta, ma temendo che quella scritta non lasciasse spazio a nient’altro, fissava quella pagina ingiallirsi. Proprio lui, che era solito essere la roccia alla quale aggrapparsi, stava diventando l’ennesimo scoglio contro il quale andava ad inciampare. E adesso che non aveva più nulla da fare, adesso che dormire non serviva e che se avesse incontrato una persona con un amico solo, avrebbe incontrato una persona con più amici di lui, non gli restava che presentarsi in quella dannata scuola per sperare ancora di trovare qualcosa.

Alle otto di mattina in tv era sveglio soltanto Adan, il ballerino tedesco, abituato da anni di accademia ad alzarsi di buon ora; chiusosi in bagno per svolgere la sua routine mattutina, che consisteva principalmente nel radersi e lavarsi, stoppava

Page 55: L'ultima corsa

55

nervosamente le canzoni che stava ascoltando dal cellulare prima che queste finissero. Quando poi gli fu chiesto, in una specie di sgabuzzino dallo sfondo nero, al cui centro era posta una sedia, una di quelle comode da ufficio, illuminata da un faretto, il perché del suo gesto, lui rispose semplicemente che le canzoni che finivano gli mettevano tristezza. Stephen Montgomery sedeva con il volto tra le mani sul divano della sala d’attesa; Manuel andò a prendergli un goccio d’acqua; Alessandra si sedette di fronte a lui. Ebbe l'impressione che se Stephen avesse avuto un po’ di tempo avrebbe inseguito Lorenzo come si insegue un sogno, implorandogli di non lasciarlo di nuovo; ma purtroppo doveva rispondere alle sue domande. «Erano altri tempi, o forse erano gli stessi…», iniziò quando il dolore per la perdita subita fece spazio alle parole, «Lui voleva trovare la sua Giulietta», sorrise amaramente, «e lei gli presentò il suo migliore amico: io», si fermò un attimo per riflettere bene su quello che stava per dire: «Me ne innamorai perdutamente. Erano altri tempi… Non stavo sulle scene da nemmeno dieci anni, mio padre mi disse che era normale, in fondo fin dai greci… però il mio pubblico era formato principalmente da ragazzine che sognavano di sposarmi, credo che venissero a vedere i miei spettacoli esclusivamente per quello.» Alessandra, avvertendo che le parole stavano esaurendosi, gliene prestò qualcuna: «Quindi suo padre le consigliò una relazione di copertura?» «Già.», a Stephen uscì male un mezzo sorriso. «Cosa andò storto?», domandò Manuel. «Mi tradì. Una mia cara amica lo vide con un'altra donna. Io dapprima non volli crederle, ma poi mi persuasi della sincerità delle sue parole. Pensai che ci dovesse essere una spiegazione, andai a chiedergliela, e non mi dimenticherò mai quello che mi disse: “L’ho fatto perché lei può darmi quello che tu non potrai mai darmi.” Non aveva mai espresso il desiderio di avere un figlio prima di quella volta… Mi spezzò il cuore, e io gli spaccai la faccia. Per un po' non feci altro ogni volta il mio cammino aveva la sfortuna di incrociare il

Page 56: L'ultima corsa

56

suo. L’ho odiato con tutto me stesso per vent’anni, mi ha rovinato la vita» «Beh, lei mi sta dando un movente», disse Alessandra. Stephen scoppiò in un pianto disperato, come se non avesse fatto altro che trattenerlo per vent’anni; pianto alimentato dalla consapevolezza che non si fa nemmeno in tempo a rallegrarsi un po’, ad avvicinarsi un po’ al sole, che la vita t’abbassa le ali, costringendoti a strisciare per terra. «Da quant'è che non vede il professore?», chiese Manuel. «Dal giorno in cui mi lasciò.» «Sa se frequentava qualcuno?», provò Alessandra. «Certo, amici in comune mi hanno detto che era andato a vivere con una donna.» «E' estremamente importante che lei mi dica il nome di questa donna.» «Come potrei dimenticarlo: Lea. Badi bene non Lia ma Lea, ho sempre creduto che l'abbia fatto apposta.» Alessandra lo ringraziò per il suo tempo e gli lasciò il suo numero di telefono. Volò via da quella scuola decisa a bussare alla porta di ogni Lea presente in quella fredda città. Il maestro, ancora in lacrime, osservò con la coda dell’occhio i due agenti uscire e li seguì con lo sguardo fin dove gli fosse possibile. Il suo volto ostentava sofferenza, ma tradiva preoccupazione; il suo cuore prevedeva temporali e preparava ombrelloni. L’orologio batteva le dodici e cinquantotto, altri due minuti e sarebbero stati finalmente liberi. Per chi ha una vita davanti a sé, a volte, la libertà pesa. Non si sa cosa farsene di tutta quella libertà, di tutto quel tempo che si ha a disposizione. Studiare? Lavorare? Dormire forse morire? E siamo sicuri di essere realmente liberi mentre svolgiamo a forza una qualche attività? I ragazzi non ce la facevano più, volevano soltanto precipitarsi fuori a vivere, si sentivano chiusi in gabbia, schiavi di un gioco che li eccitava, succubi delle loro stesse manie di protagonismo e del loro desiderio di ‘essere qualcuno’, saranno famosi dei poveri.

Page 57: L'ultima corsa

57

A quell’ora Alessandra aveva bussato già alla porta di cinque indirizzi diversi; Manuel a due.

Page 58: L'ultima corsa

58

Page 59: L'ultima corsa

59

CAPITOLO 2

Tutta la forza, la delicatezza, l’intelligenza di cui dispone un uomo passa sempre per le sue mani. L’amore s’accende negli occhi, ma nasce dalle mani; senza queste è un narratore annoiato dalla sua stessa storia; una bugia divenuta insopportabile per la sua indole ripetitiva; due persone che si specchiano in uno spazio troppo piccolo per entrambi. In una notte di tanti anni prima, Lorenzo e Lea erano stesi su un letto grande a malapena per una sola persona a parlare, per ore, di qualsiasi cosa; Lorenzo quasi inconsciamente si ritrovò ad accarezzare la mano dell’altra, così delicatamente e così al lungo che finì per esserci un grado maggiore d’intimità in quel gesto che in ogni altra esperienza da loro provata. A Lea mancò il fiato per tutto il tempo; Lorenzo lo capì e se ne approfittò, portando la mano dell’altra alle labbra per baciarla; in risposta, non riuscendo ad affrontare il suo nemico a viso aperto, Lea si conficcò nella sua spalla, baciandone, ritrovandoselo, per quelle trappole che ama tendere la logica, premuto contro la bocca, il collo. A tal spinta, ne seguì un’altra uguale e non contraria: Lorenzo si ripiegò su di lei, chiudendo saldamente la stretta mettendole una mano dietro alla testa; Lea avvertì di essere repentinamente al sicuro, al caldo, chiusa in un cuore, lontana dal rumore del mondo e i suoi malumori scomparirono con la stessa lentezza con cui s’allevia un mal di testa. La voglia di un altro bacio subito dopo averne avuto uno; il profumo dei suoi capelli; la convinzione che dovesse durare per sempre. Il caldo, Dio quanto le mancava il caldo in quella giornata piovosa; quanto le mancava il calore dei loro corpi, nudi, l’uno sull’altro; lei che gli si spingeva contro e lui che le afferrava i fianchi, non sapeva se per trattenerla credendo che se ne se sarebbe andata non appena avesse capito che razza di idiota ansimava sotto di lei o per reggerla per paura che cadesse dal letto. Il corpo di Lea era la cosa più bella che Lorenzo avesse mai visto: la pancia piatta, i fianchi e il seno formavano le curve su cui,

Page 60: L'ultima corsa

60

accarezzandole, si perdeva. Quei capelli, e quegli occhi; quelle labbra e quelle mani. Si era chiusa in casa, aveva fermato la sua vita perché l’unica cosa che la accendeva l’aveva lasciata. Era così stanca di elencarsi i motivi per il quali non avrebbe dovuto buttarsi sotto ad un treno; e onestamente non sapeva neanche lei perché non avesse ancora ceduto alla tentazione di farlo. Istinto di sopravvivenza? Buon senso? No, di quello, purtroppo, non ne aveva neanche un briciolo. Forse la tratteneva la speranza che lui sarebbe potuto tornare. In fondo era una possibilità. Ma una volta persa anche quella, cosa le sarebbe rimasto? Le sembrava assurdo pensare che si sarebbe svegliata ogni mattina specchiandosi in qualcosa che non sarebbero stati più i suoi occhi. Non riusciva a pensare ad altro che a lui, desiderava soltanto farlo uscire dalla sua testa. Non lo voleva come protagonista del suo romanzo, come eroe della sua storia, lui che le aveva restituito la vita solo per rovinargliela. Tornò a sedersi sulla poltrona vicino alla veranda che le dava lo sfondo perfetto per i suoi pensieri: un cielo grigio come la cenere raggelava la vita della città sottostante. Sembrava una di quelle anziane signore chiuse negli ospizi mentre si lasciano andare a ricordi malinconici. Non riusciva a distogliere lo sguardo dagli edifici lontano da lei. Come se in uno di quelli, in lontananza, abitasse la persona che voleva tanto. Fissandoli il tempo sembrava fermarsi. Per la distanza non si riusciva ad indovinare nulla di ciò che accadesse in quelle case, ed il poco di verde che separava l’osservatore dal mistero era così delimitato da non aggiungere nulla alla scena. Eppure Lea ne sembrava catturata. Quant’è diversa la realtà dall’immaginazione, è come guardare da dietro ad una finestra qualcosa che non accade. La chiamano realtà

Page 61: L'ultima corsa

61

ed altro non è che frustrazione. L’avrebbe dovuto sapere che non sarebbe potuto durare; che la vita dura un po’ di più se misurata in giorni, e allora perché fantasticare? Perché progettare anni insieme per poi starsene anni da soli ad aspettare? Era davvero quello l’amore? E se non era quello, cos’era? Lea immaginò la pioggia non toccare gli edifici su cui cadeva, la frenesia delle persone per strada; immaginò una pioggia calda come il fuoco bruciare ogni cosa, e nel farlo cadde nell’immaginazione di qualcun altro. Si alzò. Si buttò sul letto. Ormai quelle erano le uniche due azioni che faceva da qualche giorno. Non rispondeva ai messaggi di nessuno, e gli amici, invece di sincerarsi delle sue condizioni, la lasciavano in pace, convinti che soltanto quella pace potesse guarire il mal di cuore. Stesa di schiena sul loro letto matrimoniale, pensava e ripensava ai momenti felici trascorsi insieme, come se fossero ancora lì, come se fossero ancora possibili, cullandosi nell’illusione che il suo amore l’avrebbe svegliata. E invece a svegliarla non c’era nessuno; solo il solito freddo che faceva entrare dalla finestra a farle un po’ di compagnia; solo la solita malinconia tanta e tale che credeva fosse la causa principale di quel cattivo tempo che scienziati si divertivano a chiamare con un nome nuovo ogni settimana. Intorno alle tre quando una parvenza di sole rendeva piacevole l’idea di uscire in quella giornata immersa nel freddo e nel rimpianto, bussarono alla porta di casa sua. Alessandra si presentò da lei con l'intenzione di arrestare la colpevole di un delitto passionale. Lea offri alla Detective un tè. Ne beveva più di un inglese. “Come mi sento?” era la domanda che Lea si poneva per riprendere il controllo di se stessa ogni qual volta Lorenzo sostava troppo a lungo nella sua testa. Non si sentiva, era questa la risposta. Un’altra persona abitava nel suo corpo, non lei; qualcuno di così distante da non somigliarle nemmeno. Lorenzo era un’acqua che a berla le faceva venire più sete, e adesso la loro relazione somigliava ad una penna che non funzionava più:

Page 62: L'ultima corsa

62

l’inchiostro era finito, era inutile, eppure la conservava per ricordo. Lea quelle penne se le sentiva infilzate ad una ad una nel cuore; le facevano un male infernale, ma non voleva rimuoverle temendo di morire dissanguata, consapevole che era quello che v’aveva conficcato dentro che teneva in vita il suo cuore. «Lei e il professor Montecchi da quanto tempo vi frequentavate?» «Circa due anni.», rispose Lea tremando vistosamente. «Come andavano le cose tra di voi?» «Mi ha lasciata quindici giorni fa», Lea sorrise disperata, «direi male.» «Le ha detto il motivo?» «Mi ha detto che…», e i singhiozzi nascosero la spiegazione alla Detective. «Signora, mi duole informarla che il professor Montecchi è stato assassinato due giorni fa in un’aula universitaria.» Potessero le urla distruggere edifici, quelle di Lea avrebbero fatto crollare l’intero palazzo in cui era collocato il suo appartamento. Alessandra se ne andò con un numero ancora maggiore di domande, dopo aver chiesto a Lea se potesse chiamare qualcuno per starle vicino in quel brutto momento ed aver avuto come risposte soltanto singulti e lacrime.

Page 63: L'ultima corsa

63

Page 64: L'ultima corsa

64

CAPITOLO 3 “Sono stanca di girare a vuoto dentro alla mia testa, vorrei fermarmi a riposarmi in qualche posto nella tua. Si è così dannatamente innamorati di una persona che si finisce sempre per stare con qualcun altro. La frase che mi ripeto più spesso è che poi non va così male, al suono lento d’un continuo battere di irritanti attimi che cadono nel vuoto. Vorrei stare nella tua testa in questo momento, almeno starei al sicuro, nella mia tu ti ritroveresti a combattere contro mostri affamati, che si chinano a raccogliere finanche le briciole di rimorsi andati a male. Tic, tac. Chissà che ore sono nella tua testa, da me è sempre buio, e in quel buio s’aggirano ombre, a cui vado incontro per vantare coraggio a me stessa, ma ho paura. Paura che quelle ombre possano prendere vita per rinfacciarmi quanto poco le ho amate, e quanto poco sono ancor oggi capace di amare. Eppur le amo ancora, l’amore è l’unica cosa che non scompare. Vorrei potermi raccontare che se fossero ancora qui, avrei la possibilità di dirglielo ma sarebbe una bugia: parte di loro lo è, ma io me ne tengo ben lontana. Poiché non ho mai saputo amare qualcuno che non m’amasse: dall’amor altrui dipende il mio. E quando m’accorgo o mi convinco che non sia così, lo abbandono. Così inizia a farti paura tutto: l’orologio, il silenzio, il tramonto. Ogni qualvolta fingo di parlare con Dio gli chiedo sempre la stessa cosa: “Perdonami tu, perché io non ci riesco.” E non ho neanche fatto chissà quale male, semplicemente non mi è mai riuscito d’amare chi non m’amava o credevo che non m’amasse, di questo ho peccato, di questo non mi perdono. Se avessi un’altra possibilità, sbaglierei tutto allo stesso modo. Non dimenticherò mai i miei fantasmi, vorrei solo non collezionarne di altri.” Tali pensieri annotava Elena sul suo quaderno in quel freddo pomeriggio d’ottobre, mentre la pioggia faceva loro da colonna sonora. Scrivi qualcosa e ti dirò tutto quello che non hai. “Morire nella grazia di Dio e disgraziatamente morire”, continuò ad appuntare premendo più forte la penna sul quaderno, “Morire in un giorno senza sole. Un giorno senza sole: un poeta privato della voce, un artigiano senza mani, un amore senza cuore, che colma la distanza con sempre nuove incertezze. Dov’è finito il sole? S’inizia a chiedere un mese oscurato dall’impertinenza del caso.

Page 65: L'ultima corsa

65

Occhi verdi come il bel paesaggio primaverile, e nessuna traccia del sole in questo mese congelato; se non nelle sue mani, sulla sua bocca: la primavera che possiede il sole. Ma in quanto donna irascibile, altezzosa, lo mostra e poi lo nasconde. Una farsa organizzata da un’irritante buffone. Il cielo indifferente alle sciagure umane. Il mio cervello che funziona a rima, prima di tornare com’era prima: spento, lento, in ipnosi. Uno spettro che grida vendetta infrangendo uno specchio messo lì apposta. Non sei mai al posto giusto, mani giuste non le trovi mai. Sei una catena spezzata, una barzelletta mal raccontata, una tempesta finita troppo presto, un arcobaleno daltonico. Sei questo e non quello. Ma cosa sei?” Era così stanca di farsi male cullandosi nella spigolosa illusione di poter essere felice che decise di non farlo più.

Page 66: L'ultima corsa

66

Page 67: L'ultima corsa

67

CAPITOLO 4

Stephen se la passava da cani. Se ne era sempre stato da solo: gli amici non erano fatti per lui, o lui non era fatto per loro. Poco importava, si arrese prima di riuscire a capirlo. Suo malgrado, sapeva bene di aver bisogno di qualcuno, ma sapeva ancor meglio che non aveva bisogno di stare male; e con gli altri lo era sempre stato. Trascorreva ogni giorno chiedendosi perché, per quanto ci provasse, andasse a finire sempre nello stesso modo. La sua sola compagnia erano telefilm che divorava a dozzine e libri. Stephen era solito comprare un libro e leggerlo dopo qualche anno; gli piaceva l’idea di toccare pagine consunte, il deciso odore della carta ingiallita, l’avere tra le mani qualcosa che fosse cresciuto insieme a lui, che fosse durato con lui. Era una sorta di scommessa, che lo faceva continuare a puntare su quella compagnia silenziosa, priva dei schiamazzi e dei rancori umani. Confondeva spesso il suo odore con quello delle pagine del libro che aveva tra le mani. In quella claustrofobica solitudine, ardeva dal desiderio di incontrare qualcuno con cui duettare sulla bellezza di un verso, con cui discutere dell’inconsistenza di un personaggio. Qualcuno che l’ascoltasse, per davvero e non soltanto perché costretto da un fidanzamento a farlo. La morte era il suo pensiero fisso, tutto quello a cui riusciva a pensare non appena s’azzardava a chiudere gli occhi, pensiero che riusciva a combattere solo fantasticando su storie che non esistevano. Si rimproverava per farsi forza, si scusava prima con se stesso e poi con gli altri che immaginava lo stessero guardando. Il suo sonno era costantemente disturbato dall’abbaiare rauco di un cane, che quando non passava sotto la sua finestra, iniziava a sentire dentro la sua testa. Ebbe la sua prima crisi di mezz’età a quindici anni quando lesse l’Amleto, crisi che poi durò un po’ più del sopportabile. L’Amleto l’aveva convinto che il sonno fosse l’esperienza più simile alla morte, e quando chiudeva gli occhi per riposarsi, fantasmi, cui

Page 68: L'ultima corsa

68

carni erano state divorate da vermi, iniziavano a danzare davanti a lui. Immaginava quei corpi aprire gli occhi subito dopo essere stati chiusi nelle tombe, immaginava la polvere cadere su quelle, immaginava lui là sotto e non dormiva più. Da sveglio ricordava le notti trascorse con Lorenzo, lo immaginava accarezzargli il volto fino a quando non si fosse addormentato; il suo Lorenzo che l’avrebbe risvegliato e protetto da tutto. Ecco, su questo sbagliava Shakespeare: il sonno implica un risveglio, la morte no. Ma lui avrebbe non voluto risvegliarsi più tanto stava bene in quella fantasia. La vita per lui era diventata un insieme di frasi che non aveva un senso. Il caldo ad ottobre. L’ennesima dimostrazione che vogliamo soltanto quello che non abbiamo. Ci bastano un paio di giorni di freddo per desiderare di nuovo il sole. Lorenzo era la sua neve a luglio e il primo sole di Gennaio: lo voleva soltanto quando non lo aveva. Quelle lunghe notti trascorse a sudare, senza una ragionevole causa, che si trasformano in alba dopo pochi giri di pensieri. Guardare il cielo trovare il coraggio di uscire allo scoperto ogni giorno in un appuntamento fisso al quale nessuno dei due voleva mancare, una sorta di concorso di bellezza che disputavano in segreto e durante il quale entrambi i partecipanti tifavano l’avversario. Accecato da quel poco di luce che ogni tanto concede il tempo, si diceva che quando si è toccato il fondo si può soltanto risalire, che quando si è perso tutto, non si ha più paura di niente, ma non era vero perché anche quando ogni cosa è andata persa si ha sempre se stessi, i rimorsi e un filo di speranza, quella bastarda che sarà anche l’ultima a morire ma è la prima ad uccidere. Esiste una ripetitività in ogni malessere che lo rende ancora più insopportabile, come un rumore fastidioso che non si esaurisce mentre continuiamo a raccontarci che passerà, come una decisione che tardiamo a prendere. Allora è meglio non pensarci, reagire

Page 69: L'ultima corsa

69

d’istinto mandando tutto a puttane, forzarsi di andare avanti per poi continuare a girarsi indietro a tormentarsi con l’immagine che diventa man mano sempre più sbiadita di chi non c’è più. Allontanarsi senza riuscirci, avvicinarsi senza poterlo fare: un incubo, un labirinto di possibilità in cui Stephen stava perdendo la testa. L’unica unità di misura che pensava potesse tubarlo raggiungeva un’angolatura di novanta gradi, ma ben altri gradi lo stavano facendo raggelare quella notte. Avvolto nelle coperte di casa sua, appoggiò un libro sulle ginocchia che aveva cercato di portarsi al petto. “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.” Cent’anni di solitudine, un libro scritto quando lui era alto più o meno quanto la sedia che aveva davanti. Di quei cento anni ne aveva vissuti appena la metà, e se li sentiva addosso ad uno ad uno. “Era un semplice sfogo, perché in realtà erano legati fino alla morte da un vincolo più solido dell'amore: un comune rimorso di coscienza.” Sentì bruciare quelle parole sulla pelle come se qualcuno l’avesse marchiata col fuoco. Quanto leggeva di se stesso in quelle parole, quanto si sentiva un Buendìa, ora folle, ora disperato, ora un usurpatore. E cosa aveva usurpato in fondo? Soltanto un cuore che non gli apparteneva. Lo sapeva da anni che doveva stargli lontano, ma fece finta di dimenticarselo negli ultimi tempi, soltanto per ricordarselo più ferocemente. E freddo e scostante cercava di stare lontano dal suo Lorenzo, ma “L’immagine” di lui “gli rimase ficcata in qualche parte del corpo a fargli male. Era una sensazione fisica che quasi gli dava fastidio nel camminare, come una pietruzza nella scarpa.”

Page 70: L'ultima corsa

70

Cent’anni, a camparli, chissà se gli sarebbero bastati per fare finalmente la cosa giusta. Stephen serrò il libro e la porta del balcone; si posò sul letto, chiuse gli occhi, lo vide. Li riaprì e lo rivide. Lorenzo Montecchi era senza dubbio il suo Prudencio Aguilar.

Page 71: L'ultima corsa

71

Page 72: L'ultima corsa

72

DOMENICA 4 OTTOBRE 2015

Page 73: L'ultima corsa

73

Page 74: L'ultima corsa

74

CAPITOLO 1

Come ci strazia il tempo, in quanti brandelli ci riduce. L’aspirante detective Manuel se ne stava seduto in un angolo del ristorante in festa per le nozze d’argento dei genitori. ‘Venticinque anni’, non riusciva a togliersi quella cifra dalla testa; venticinque anni corrispondevano alla sua età. Che resistenza, pensava, che caparbietà. Lui era a malapena riuscito a sopportare tutti quegli anni con la sola compagnia di se stesso, figuriamoci con quella di qualcun altro. Urla, balli, schiamazzi, complimenti e auguri. Auguri agli sposi, auguri al figlio. E cibo, in tale abbondanza che Manuel ad una certa ora del pomeriggio non riusciva più a distinguere dei suoi zii da dei gamberetti. È impossibile amarsi per tutto questo tempo, ci si tiene soltanto per non lasciarsi come se non ci si fosse mai trovati. Come una pietra buttata in un lago e lasciata affondare dalla rabbia del lancio. Amare per tutta la vita sempre la stessa persona; specchiarsi ogni giorno, senza stancarsi, nello stesso sorriso; bearsi l’anima nel calore di un profumo uguale sempre e solo a se stesso. Sarà per la comodità di trovare qualcuno sempre pronto ad ascoltarti, a renderti piacevoli le noie della vita; sarà perché gli uomini sono animali abitudinari che amano rintanarsi nella stessa tana; sarà perché a tutti piace l’idea del per sempre, anche se a pochi piace così tanto da tenerla sempre a mente come il proprio colore preferito nel caso si dovesse comprare qualcosa all’improvviso. Ricordò il suo assurdo tentativo di riprovarci, la nostalgia nel capire di non essere più gli stessi, di ritrovarsi in una situazione del tutto diversa. Le ferite si risanano, il dolore lenisce, ma gli occhi che hanno visto altri occhi farli a pezzi, che hanno ascoltato le parole che hanno loro straziato il cuore, che hanno sentito tutta la cattiveria con la quale sono stati loro scagliati contro dei dardi soltanto per ferirli, quegli occhi non dimenticano; non si lasciano imbrogliare da un aspetto familiare, dopo essere stati delusi, non ti riconoscono più.

Page 75: L'ultima corsa

75

Manuel amava i suoi genitori, di un amore viscerale, nel senso letterale del termine, lo sentiva dentro di lui, e quando cercava di rinnegarlo o di allontanarsene, il suo essere gli impediva di farlo. Si convinse che dovesse trattarsi del richiamo del sangue, e si chiese, per tutti quei venticinque anni, se anche i suoi lo sentissero. Figlio unico, cui nascita fu la causa di quel frettoloso matrimonio, si sentì più di una volta rinfacciare l’ardire di essere voluto venire al mondo. Così per giunta, come loro non se lo sarebbero mai aspettato. Si volesse sintetizzare in una frase il rapporto tra Manuel e i suoi genitori, si potrebbe prendere in prestito quella di uno scrittore napoletano: “Loro sono i miei, ma io sono stato poco e male il loro.” Poco e male, nella convinzione che lo odiassero per ciò che fosse, per ogni amico che portava a casa e con cui si chiudeva in stanza. Ad un certo punto loro lo capirono, ma non glielo chiesero mai, soltanto alcune battute casuali a cena, magari ascoltando la legittimazione di un matrimonio omosessuale in uno stato lontano al telegiornale, su come non ci fosse nulla di male nell’amare una persona dello stesso sesso. Manuel non glielo disse mai, temeva che gli avrebbero fatto una serie di domande imbarazzanti e che non gli avrebbero più permesso di far dormire ‘amici’ da lui. Ne ebbero la conferma un giorno, ma non gliene parlarono mai, un po’ perché non sapevano cosa dire temendo di ferire i sentimenti del figlio, ed un po’ per non ferire i loro realizzando ad alta voce che amavano così poco il figlio che proclamavano di amare incondizionatamente ad ogni vicino. «Hey, sei libero oggi? Vorrei aggiornarti sul caso.» «Certo!», rispose Manuel sobbalzando dalla sedia del ristorante in cui stava mangiando da diverse ore, «Dimmi solo dove e quando!» L’aspirante Detective se ne stava seduto su una panchina, tormentando quella cravatta che gli opprimeva il collo. Un gruppo di giovani turisti che stava scattando delle foto a delle pietre attirò la

Page 76: L'ultima corsa

76

sua attenzione, si diventa fotografi più in fretta di quanto si diventi poeti, pensò. In quel momento Alessandra stava tirando fuori dalla sua borsa un lucchetto per attaccare il motorino ad un pilastro vicino, con la naturalezza di chi fa un gesto per la millesima volta. Lo scorse subito in lontananza e, introdotta dal rumore dei suoi stivali, gli si avvicinò. Accomodatasi gli descrisse, in maniera arrendevole, il quadro nero della situazione su cui non riusciva a gettare luce. Un incrocio tra un husky e un pastore tedesco si avvicinò, sbavando, sulla panchina su cui sedeva l’infelice coppia. Manuel iniziò ad accarezzargli la testa, Alessandra rimase immobile: le braccia le servivano per intrecciarle a manifestare il suo disappunto nei confronti del mondo. «Rocky! Rocky!», gridò una voce che si avvicinava. Manuel lesse il nome di quel cagnolone sulla targhetta a forma di osso che portava al collo e fece cenno alla ragazza che si stava sgolando di venire verso di lui. «Oh, grazie! Mi scappa sempre di mano.», disse, rimproverando quella bestia accarezzandola. «Magari», scoppiò Alessandra in uno sfogo di misantropia, «quando lo porti in giro potresti mettergli un guinzaglio, vedi», si compiacque a sottolineare l’ovvio, «che così non lo perdi.» Quelle parole così antipatiche pronunciate da una persona che aveva voglia di rispettare paralizzarono la giovane ragazza. «Ci sta sfuggendo qualcosa», riprese Manuel tornando al caso. «Per forza», constatò amaramente Alessandra, «i nostri due unici sospettati hanno degli alibi di ferro.» Uno storpio trascinandosi appresso la sua gamba storta gli si fece sempre più vicino; a cinquanta passi di distanza, Alessandra non

Page 77: L'ultima corsa

77

sapeva se andarsene o aspettare che se ne andasse lui per tornare a riflettere sull’omicidio del professore. L’uomo gli si avvicinò, pasticciò qualcosa in una lingua cui consonanti erano lamenti e vocali gemiti; Alessandra non capì cosa volesse finché il mendicante non tese verso di lei un bicchiere di plastica con qualche moneta dentro; per smettere di farlo lamentare, più che per generosità, gli fece l’elemosina, e quello, per la sua gioia, iniziò ad urlare più forte nel tentativo di ringraziarla. Alessandra lo fissò e nel farlo le tornarono in mente le parole di una sua insegnante, la quale sosteneva che nessuno guardava più in faccia la miseria, nessuno guardava più negli occhi i vecchi o i poveri, ma si giravano tutti sempre dall’altra parte. Alessandra allora, per darle torto ancora una volta, fissò quel volto sporco, quella bocca aperta che poggiava sulla barba ispida unta di gocce di sudore, birra o vomito per quello che ne poteva sapere lei. Quell’uomo le faceva venire il voltastomaco; cercò di nasconderlo dietro ad un sorriso gentile, ma ciò che aveva sulla faccia era una smorfia di disgusto.

Page 78: L'ultima corsa

78

Page 79: L'ultima corsa

79

CAPITOLO 2 “Che mi metto? La domanda del secolo. Decine di vestiti e non ho nulla da mettermi. Una commemorazione in spiaggia? Ma a chi era venuto in mente? Dovrei camminare scalza?” Tali erano i pensieri dell’afflitta Elena mentre fissava il suo armadio spalancato. La scelta cadde, dopo alcune ore di attenta riflessione, su un tubino nero, in fondo, si trattava pur sempre di un funerale. Uscì di casa in compagnia di Federico alle undici, quando la commemorazione su quel lido pubblico era iniziata già da un pezzo; pezzi di vita, pezzi di musica, pezzi di protagonismo si mescolavano rumorosamente alla sabbia, catturati dalla prontezza di una macchina da presa; il quale tempismo era troppo veloce per immortalare quei granelli che salivano al cielo. La ragazza, dopo aver banchettato con quegli scellerati convitati, vestendosi dell’impeccabilità con la quale un industriale tiene una cena di lavoro, si ritirò in disparte, consapevole di non aver presenziato a quella farsa nemmeno per due interi minuti. Iniziò a camminare: era sua abitudine farlo quando era particolarmente nervosa. Si tolse i tacchi, sentì la fredda sabbia sotto il palmo dei piedi e nient’altro. Iniziò a ragionare su quante cose perdiamo nel corso della nostra esistenza: un pensiero non appuntato, un ponte troppo presto tagliato; le tornarono in mente le parole di un suo professore di letteratura: “Ragazzi, pensate che perfino la più squallida pubblicità vi sopravvivrà”. Il pensiero che sarebbe morta e non avrebbe letto tutto ciò che c’era da leggere la gettava nello sconforto più totale. Cercò di tirarsi su pensando che si era scritto tanto da vivere in bellezza per sempre. “Per sempre”, cosa significavano esattamente quelle due parole così spesso utilizzate? Non riuscì a rispondersi mentre sentiva i suoi piedi stancarsi, si stava scaricando come una penna in un’inutile prova di stile.

Page 80: L'ultima corsa

80

Elena cercava un indizio che le mostrasse come portare avanti un’indagine. L’insieme degli studi che aveva fatto si rivelò completamente inutile: tutte quelle ore spese a cambiare il passato per vederci qualcosa di moderno, piuttosto che contare quanto e cosa di quel passato fosse ancora presente. Il pensiero del professore come una spina sul cuore la riportava alla realtà, ai suoi passi sonori per quella spiaggia vuota. "Perché riempirmi la testa di parole quando potrei semplicemente godermi questo silenzio? Senza il bisogno di annotare tutto quello che penso. Dare un nome a tutto quello che sento. Allungare il braccio nel tentativo di prendere qualcosa che non c’è." La storia per lei era del tutto irrilevante, una ruota che girava senza sosta e che col suo soffio colpiva gli uomini gettandoli ora da un lato ora dall’altro dell'oceano. Una ruota che girava e girava e nel suo girare faceva raccogliere fucili, contare banconote, perdere letteralmente la testa. La spiaggia era così vuota che ad Elena sembrò di farsi un giro per la sua anima. Mentre il vento ricopriva con la sabbia le sue tracce, notò in lontananza qualcosa che le sembrò un falò; si avvicinò come per cercarvi una qualche verità. Poco distante da quel fuoco scorse una sagoma seduta di spalle, le si avvicinò incuriosita; quando riuscì ad identificarla con la poca luce che quella scena concedeva, si rese conto che fosse troppo tardi per cercare di scappare: «Elena!», esordì sorpresa Alessandra, spinta dalla consapevolezza che dire qualcosa in alcune situazioni è sempre meglio di non farlo. «Detective.», rispose in tono serio la ragazza. «Qual buon vento?», insistette Alessandra, fissando il mare nero davanti a sé. «Credo lo stesso che ha portato lei.» Elena abbassò lo sguardo; notò il modo in cui Alessandra, seduta sulla sabbia, abbracciava le proprie ginocchia. «Dammi del tu, mi fai sentire vecchia.»

Page 81: L'ultima corsa

81

«Ho una domanda», disse Elena sedendosi accanto a lei. «Vent’otto, tu? » «Ventiquattro, ma non era questa la domanda.» «Ah, scusami. Chiedi pure. » «Perché le persone uccidono? » «Beh, me lo sono chiesta spesso», sorrise amaramente la Detective, «Credo che alcune lo facciano perché sono pazze, altre perché non capiscano il valore della vita ed altre perché si odiano così tanto da spostare il male che desiderano fare a loro stesse su qualcun altro.» «E io che credevo si uccidesse per amore, amore dei soldi, gelosia, sai.» «Tu hai letto troppi romanzi!» Elena sorrise spostando il discorso sull'interlocutrice: «Ed esattamente cos'è che fai?» «L’investigatrice, mi assegnano casi da risolvere, per lo più omicidi impossibili per l’assenza di prove.» «Credi che sia stato uno studente, per questo sei qui?» «Spero proprio di no, quanti ne siete cinquecento?» «Iscritti credo di sì, ma se conti anche gli esterni…» «Il ballerino ha un alibi di ferro, stava facendo le prove per lo show; poi c'è l'ex ragazza che non lascia il suo appartamento da quando è stata mollata. Non so proprio cosa pensare.» «Smettila di pensare. » «Se tu o qualcun altro mi cita ancora Shakespeare giuro che lo faccio io l’omicidio!» Elena scoppiò a ridere e in quel momento il piccolo fuoco che Alessandra aveva acceso con l’ausilio di alcuni rametti caduti qua e là e del suo accendino, iniziò ad ardere un po’ più forte, a causa del vento che iniziò a soffiare tutto ad un tratto. Alessandra lo sentiva attraversare ogni suo dubbio. Quand’ecco che, come una brutta notizia, risuonarono in lontananza delle grida.

Page 82: L'ultima corsa

82

Page 83: L'ultima corsa

83

CAPITOLO 3 Il cielo bagnava con lacrime salate la sabbia calpestata dalla processione di quelle anime, che perse andavano dietro ad un morto per cercare di ritrovarsi. Quella commemorazione rese Lea pazza di gelosia: era convinta che solo lei avesse il diritto di sentire la mancanza di Lorenzo, di chiudersi in se stessa, di piangerne la morte. La morte, quell’unico argomento che non necessita di parole per essere spiegato. Pensiamo sempre che non possa capitare a noi, che la morte sia altro da noi, però ogni tanto viene, come una vicina un po’ troppo invadente, a ricordarci di vivere. Lea, cui ora la vita stava stretta come ad un’obesa un tubino; divenne l’insieme delle bugie che si andava raccontando. Pensava alla sua vita come alla vita di un altro, come se tutto quello che avesse fatto e detto fino a quel momento non l’appartenesse più; non riusciva a riconoscersi in ciò che era stata e non sapeva chi fosse adesso. Tutto si perde, tutto si consuma, ma quando si finisce per diventare il fiammifero che ha dato via all’incendio, si inizia a bruciare pian piano insieme a lui. Si rese conto di quanto fosse impossibile riuscire a trovare le parole giuste, di quanto fosse impossibile trovare qualcosa di giusto come un mese che inizia di lunedì, un treno che arriva in orario, un bacio che desideravi da sempre. Divenne il conto delle maschere che indossava; il numero dei passi che non faceva; i pensieri che non ricordava. Si era stancata di chiedersi come si sentiva per afferrare un’emozione che sapeva non sarebbe tornata; stanca di vivere con se stessa e di portarsi a spasso; stanca di farsi condizionare la vita dalla logica.

Page 84: L'ultima corsa

84

Non vedeva l’ora che quella celebrazione finisse, letteralmente non vedeva l’ora, né i giorni, né nulla di tutto ciò che desiderasse vedere, che coincideva principalmente con lui. «Levatemelo da dosso!» «Pezzo di merda! È tutta colpa tua!», urlava allo sventurato che aveva sotto di lui un ragazzo palesemente ubriaco. «Aiuto!», gridò Luca non appena vide comparire Alessandra. Elena e Alessandra si precipitarono a levargli da dosso il ragazzo che lo stava prendendo a pugni. «Ma sei impazzito!» gli urlò Alessandra, «Potrei arrestarti!» «Arrestarmi?», iniziò a ridere l’ubriaco, «Arresta lui che ha ammazzato il professore!» Dei ragazzi si presero cura di Luca, aiutandolo a fermare il sangue che scorreva a fiotti e sincerandosi che non avesse nulla di rotto, Elena, Alessandra e il resto delle persone su quella spiaggia se ne stavano a bocca aperta e a nervi scoperti aspettando una qualche spiegazione dall’ubriaco, ma questo avvolto in un fremito d’emozione non distingueva il dolore che sentiva nel petto da quello che sentiva nello stomaco, né dove si trovasse; e, dopo una manciata di secondi trascorsi in questo stato confusionale, svenne. Alessandra fu tentata di prendergli le generalità, ma visto lo stato in cui versava la sua testimonianza sarebbe stata del tutto inattendibile. Intravide Lea ed andò a sincerarsi delle sue condizioni; dopo averci parlato se ne andò sconfitta, con la tristezza di chi si è appena giocato tutti i risparmi alla roulette. Elena, come se stesse recitando un copione di un film già visto, o interpretando il ruolo di un personaggio di un romanzo modernista, immerso nella sua immensa solitudine, salì sulla moto per tornare a casa. Ma stavolta, colpo di scena nel cortometraggio, spiraglio di luce nelle scure pagine del romanzo, sentì salire sulla moto il peso di un altro corpo oltre il suo. Dal peso dedusse subito che non poteva trattarsi di Federico; dal seno che premeva contro la sua schiena, che si trattasse di una donna; mescolando speranza e razionalità, processo attraverso il quale società umane inventano divinità, si persuase che il peso di

Page 85: L'ultima corsa

85

quel corpo appartenesse alla bella Detective dagli occhi verdi, dal sorriso memorabile e dai lunghi capelli neri. La necessità di non scoprirsi emozionata dalla possibile realizzazione di quella fantasia, le fece ingoiare i suoi timori: «Dove andiamo?», disse impavida, accennando anche un mezzo sorriso. «Dove vai tu.», la voce tradì quella presenza a cui ora Elena poteva dare il volto sperato. Per farsi perdonare di essere scappato all’improvviso dal ricevimento, Manuel andò a coricarsi a casa dei genitori. Ritrovò la sua stanza esattamente come l’aveva lasciata: un letto per uno, una scrivania accostata ad un muro tappezzato di foto del suo idolo, dei peluche sull’armadio di cui ciascuno portava un nome inventato da lui, le foto incorniciate degli amici e dei genitori. Si sedette sul letto e si buttò all’indietro senza togliersi il vestito e le scarpe, guardò il soffitto attentamente, non l’aveva mai fatto prima; quel soffitto con la complicità di due bottiglie di Champagne avanzate che si era scolato in macchina gli sussurrò un segreto: quella stanza era vuota, vuote erano le pareti azzurre capezzate di falsi affetti ed eroi, vuota era la sua scrivania, il suo letto, la sua vita; e lui, lui che non era nessuno. Quel soffitto gli disse tutto questo e Manuel chiuse gli occhi per non ascoltarlo più. Un paio di lacrime trovarono una via d’uscita dal casino che era la sua testa in quel momento; tentò di soffocare quel pianto, ma ottenne l’effetto opposto iniziando a piangere più forte. Odiava se stesso per ritrovarsi, dopo anni, ancora una volta a piangere da solo in quella stanza, per essere il bambino spaventato di sempre, ed odiava quel soffitto per avergli rivelato tutto e per non essergli caduto addosso in quel preciso momento, sotterrando con lui ogni suo problema.

Page 86: L'ultima corsa

86

Page 87: L'ultima corsa

87

CAPITOLO 4 Elena accese la luce del suo appartamento; qualcuno doveva dire qualcosa, e l’onere, in quanto padrona di casa, spettava proprio a lei; pronunciò allora quell’unica parola che a lei suonava sempre gradita: «Caffè?» «Sì, grazie», rispose Alessandra. Andò a posare la borsa e il giubbotto sul divano, e notò che Alessandra aveva già posato le medesime cose sul tavolo ed aperto la credenza per prendere la caffettiera. Fu sconcertata dalla rapidità di azione di quella ragazza. Alessandra sentiva gli occhi di Elena addosso, «Qual è la cosa più brutta che tu abbia mai letto?», chiese per dare inizio ad uno stralcio di conversazione. «L’Ulisse di Joyce.», rispose senza esitazione Elena. «L’hai letto tutto?» «Sì.» «Wow, sei una delle poche persone ad averlo fatto.» «Beh, mi fu imposto dal mio professore di letteratura inglese per un esame…», disse, avvicinandosi alla fiamma, «Quanto sarebbe migliore il mondo se ognuno di noi studiasse alla perfezione un argomento e poi lo raccontasse all’altro, uno studio disinteressato, puro amore per la conoscenza, tutti professori e tutti alunni…», prese fiato, «Sapessi quante scempiaggini ha prodotto uno studio forzato, ha fatto diventare la Divina Commedia un’opera in ottave e la Vita Nuova un poema epico, ha fatto studiare Dante in Spagna! Questa la sentì in seduta di laurea da un ragazzo che fu proclamato anche Dottore in Lettere!» Alzò lo sguardo e trovò gli occhi di Alessandra che la fissavano; Elena, che ogni volta che parlava con qualcuno si domandava sempre se gli interlocutori intendessero la vacuità delle sue parole, li fissò a sua volta per capire se l’avessero ascoltata. In quegli occhi verdi vide qualcosa di diverso, sembrava che l’ascoltassero per davvero, che capissero tutto quello che avrebbe voluto dire ma che non aveva detto esplicitamente. «Che stronzo comunque.», si limitò a dire Alessandra, abbassando la testa per sollecitare il caffè ad uscire.

Page 88: L'ultima corsa

88

«Gli morì la moglie.», postillò Elena quasi a difendere quel professore. «Davvero?», e ritornò con gli occhi in quelli dell’altra come per scusarsi delle sue parole. «Non lo so con sicurezza, ma parlava con quel mesto tono che ha chi perde la persona che ama di più al mondo, e trova consolazione solo nelle pagine di un libro in cui può vedere rappresentato il suo dolore, o il lieto fine che la morte gli ha rubato.», disse con una punta di presunzione. «Che la vita gli ha rubato», puntualizzò con ancora più presunzione la Detective. «La vita è il contrario della morte.» «No, è il suo fine.», decretò Alessandra. «Era proprio un idiota, comunque», riprese Elena assaggiando il caffè ricevuto, «Diceva: “Dopo l’Illuminismo il nulla! Non c’è nulla ragazzi!”» Intravide un rapido sorriso sulle labbra di Alessandra incoraggiarla a continuare. «Era un critico letterario non uno scrittore, e scoraggiava tutti gli studenti a diventarlo. Il primo giorno di lezione ci lesse una poesia, la quale sosteneva che si potrebbe anche smettere di scrivere per seguire le orme dei grandi e divenirne il lettore ideale, il più grande lettore del mondo. Secondo lui bisognava prima studiare e poi scrivere, gli manderei un racconto scritto alla perfezione, aspetterei i suoi elogi e poi mi rivelerei come uno scrittore inconsapevole.» Alessandra non riusciva a staccare lo sguardo da quegli occhi rossi. «Quindi scrivi?», le chiese sforzandosi di guardare altrove. «Sì.» «Perché non mi fai leggere qualcosa?» Elena fece segno di seguirla nella sua camera. «A me è sempre piaciuta la dilatazione spazio-temporale che la pagina permette…», disse Alessandra, «Cioè il fatto che una frase può contenere interi giorni. Ad esempio, se dici: “è da lunedì che non la vedo” e magari è sabato…», guardò un attimo Elena per

Page 89: L'ultima corsa

89

capire se la stesse seguendo, «E’ pazzesco, non trovi? Oppure: “Dal 1966”, anni… anni di storia in un rigo…» «Secondo te lo riempirà?» «Cosa?» «Tutto quello che stiamo vivendo… riempirà un rigo di storia? » «Non credo.» Elena prese un quaderno dallo scrivania e lo pose nelle mani di Alessandra. “Se ne stava seduto con le dita tra i capelli ed un pugno nell’anima; gli mancava come la pioggia manca alla terra in un periodo di siccità. L’assenza di lei gli bruciava le carni, gli molestava il cuore, lo poneva su un rogo di solitudine acceso dal desiderio dell’eccesso. Era eccessivamente innamorato e come tutti gli innamorati non aspettava altro che la pioggia per stringerla a sé. Il vento che scuoteva gli alberi facendoli ondeggiare a suo piacimento, annunciava che sarebbe presto arrivata la pioggia. E la sua anima d’improvviso venne sommersa da dubbi e insicurezze che lottavano tra loro per farsi un po’ di spazio. Il fresco prima o poi ritorna, ma l’amore? Lei con cui hai condiviso tutto, lei che è tutto, tutti i colori e le note che hai salvato, e senza di lei ti resta soltanto il grigio e il silenzio. Avrebbe voluto afferrare quel grigio con le mani per trasformarlo in luce e rumore, ma l’unico rumore che sentiva era la sua stessa voce che diceva: “Tu fai quello che vuoi, io faccio quello che devo.” Poi il rumore d’una porta sbattuta, d’un cuore preso a morsi, d’una vita buttata via neanche fosse spazzatura. Maledetto orgoglio e maledetta la distanza che crea tra due cuori. Un’attesa così lunga da farti dimenticare perfino cosa stai aspettando. Una scusa così plausibile da scordarsela, una bugia così inverosimile da crederci. Parole buone a scrivere un diario: il bisogno di fogli bianchi da riempire ed una data da sporcare. La vide in lontananza, come un’oasi nel deserto, vestita di tutto ciò che aveva sempre voluto che avesse, principalmente d’un sorriso che non gli aveva mai visto in faccia quando stava con lui. «E tu chi sei?», gli chiese. «Uno che si è perso.», rispose lui. Non aveva riconosciuto sotto a quella barba bianca e a quello sporco il volto dell’uomo a cui aveva spezzato il cuore. Perfetto, pensò allora quello, ora poteva

Page 90: L'ultima corsa

90

riconquistarla, ricordarle quanto amore gli dovesse per tutti quegli anni di lontananza; avrebbe potuto convincerla a sposarlo, a mettere il suo volto in faccia a bambini che avrebbero preso i begl’occhi di lei, perché i suoi consumati dalle lacrime, di bello non avevano più nulla. Glielo avrebbe potuto far ingoiare quell’addio pronunciato troppo in fretta per intenderlo davvero. Lei gli poggiò la mano sul viso: era gelata. Quella freschezza fu per lui un sollievo, spense tutto l’ardore che sentiva in corpo, i dubbi che aveva in testa, i disegni che aveva fatto per riprendersela. Chiuse gli occhi, accordò il suo respiro ai movimenti di quella mano. Gli spuntò un sorriso impertinente che volle sbirciare se quegli occhi che lo accarezzavano stessero ridendo anch’essi. Inebriato li riaprì, fu accecato da una luce fittissima, e quella, fu l’ultima cosa che vide.” «Wow…» «Troppo triste? » «No, è la calligrafia.» «Che ha?» «È come te: precisa, fredda, magra. Si distingue a malapena la l dalla f.» «Questa è la mia vera calligrafia quando devo scrivere per farmi leggere, per lasciare un biglietto ad esempio, le caratterizzo di più.» «È una grafia che non vuole farsi leggere… guarda la g è una semplice coda…», Alessandra alzò la testa dal foglio, «La calligrafia!», ripeté fissando il vuoto. «Sì…», disse Elena imbarazzata. «La calligrafia!», urlò Alessandra. «Devo andare! », posò quel quaderno in fretta e in furia nelle mani di Elena e volò via da quell’appartamento. Si potesse rendere vivo uno sguardo, quello di Elena avrebbe iniziato a strisciare per terra attaccandosi come Psiche alla gamba di Amore; avrebbe riempito l’intero appartamento di parole non dette; si sarebbe strappato gli occhi per non guardare come gli veniva straziato il cuore. Alessandra superava ogni esempio di bellezza con cui la ragazza avesse avuto a che fare: superava le terzine del suo Dante, superava

Page 91: L'ultima corsa

91

il blank verse di Shakespeare, dei sonetti di Petrarca e delle ottave dell’Ariosto nemmeno a parlarne; superava in bellezza il giorno, superava la vita; e statue, dipinti, poesie, canzoni non erano altro che una pietra di paragone contro quel diamante. Con quel passo un poco spedito per l’irritazione di essere stati lasciati indietro da un gruppo di amici, che hanno iniziato a camminare troppo velocemente, si diresse in bagno. Si buttò sotto la doccia cercando di lavar via i pensieri, ma questi ritornavano, quasi fossero uno boomerang, ogni volta che venivano scacciati. Trascorse quella notte a creare sillogismi vuoti in ore che sembravano non passare mai. Seguirono pagine di incomprensioni e righe di nulla scritte dalla sua mente: un amico con cui non poteva sfogarsi, una scala che non voleva salire, un piano che non sapeva fare. Non poteva, non voleva, non sapeva: sfogarsi, salire, pianificare. Trascinare la vita in giro maldestramente, ricordandosi ogni tanto di aggiungere un pezzo al puzzle e poi lasciarlo incompleto a prendere freddo in soffitta. Sprecare fiato per far danzare in aria parole vuole, inchiostro per schiacciarle su una pagina cercando di riempirle di senso. Doveva dire “Caro diario” o “Mio Signore”, rivolgendosi a se stessa? Tanto il giro di parole era sempre quello, il problema sempre in lei, la risposta sempre vita, la paura sempre morte, il problema sempre lo sfogo, la scala e il piano. E strade troppo strette per poterci camminare, una vita che non te la vuole dare, giochi di rima che non tornano, come sui i treni, i pensieri, se ne vanno. Per fortuna, dopo diverse ore, ci pensò la sua assenza a darle la buonanotte.

Page 92: L'ultima corsa

92

Page 93: L'ultima corsa

93

LUNEDÌ 5 OTTOBRE 2015

Page 94: L'ultima corsa

94

CAPITOLO 1 Di quanti colori è pieno il mondo, di quante illusioni è pieno un cuore, di quante incertezze è pieno il futuro. Ma pochi colori, inesistenti illusioni e fugaci incertezze di fronte alla bellezza di cui erano pieni i suoi sogni. C’era un sorriso così bello che, aprendosi come un sipario, rivelava altra bellezza. E c’erano sempre quei due occhi protagonisti del dramma che non riuscivano a smettere di guardarla, e c’erano le sue mani, e il suo profumo a farle capire che si trattava soltanto di un sogno; e una volta capito non poteva fare altro che svegliarsi, con una tristezza ancora maggiore di quella che le aveva chiuso gli occhi la sera prima. Appena aprì gli occhi, Lea, ricordò di averlo sognato per l’ennesima volta, e che, come ogni volta, aveva desiderato per tutta la durata del sogno di entrarci dentro per godere di quella gioia provvisoria data dalla presenza di lui. Iniziò a dannarsi l'anima cercando una parola che definisse la sua condizione attuale, ma non riusciva a trovarla, forse ancora la dovevano inventare. Si trovava a metà strada tra l’impossibilità e la paura, conscia di non averne fatto abbastanza di male per meritare tutto quello che le stava cadendo addosso. Mise il caffè sul fuoco e prese delle fette biscottate dalla credenza che iniziò a mangiare per punirsi. Che sapore amaro possiede il cibo che mangiamo per consolarci; e quanto poco ci riempie, allargando anzi il senso di vuoto che sentiamo dentro. L’unica sensazione che ci lascia un pacco di biscotti, delle porcherie imbustate o un’intera vaschetta di gelato è la nausea; così, dopo la grande abbuffata, vomitiamo tutto tranne il nostro dolore; come se ci compiacessimo a tenercelo dentro, come se fosse un marchio d’onore, una medaglia appesa alla giacca che tiene calda la nostra esistenza, perché ogni singola cosa in quest’universo vive del suo contrario, cosicché struggendoci nel pianto e nel dolore gioiamo pensando a quanto siamo stati felici un tempo per soffrire così tanto ora. Boezio si sbagliava, e sbagliò pure Dante a rendere poetiche le parole del filosofo: non c’è maggior piacere che ricordarsi del tempo felice nella miseria.

Page 95: L'ultima corsa

95

Le mancava ogni cosa quella mattina. Farsi il caffè era una necessità di cui avrebbe fatto volentieri a meno, perché anche quello le ricordava Lorenzo ed ogni singolo sorriso che la ragazza gli dava quando glielo preparava. Li contava ad uno ad uno, girando lo zucchero nella tazzina fino a farlo raffreddare, freddo ne beveva un sorso e buttava il resto. Guardò l’orologio, erano le nove e quindici; si avvicinò alla finestra, non vide nulla di nuovo, ma un brivido correndole lungo la schiena, cercò di metterla in guardia su qualcosa; purtroppo si perse prima di raggiungere la destinazione, lasciandole addosso soltanto uno strano presentimento. Un orologio non indossato buttato sul tavolo e una tazzina vuota la osservavano, o era lei ad osservare loro. Fissava la lancetta dei secondi muoversi, lo scorrere del tempo per la prima volta nella sua vita non le metteva ansia. Aveva tutto il tempo del mondo adesso che non aveva più nulla che le riempisse la vita; all’improvviso tutte quelle acrobazie per aria, tutti quei passi eseguiti alla perfezione non contavano più nulla. Contava soltanto quella lancetta che girava a vuoto insieme a lei. Pensò che la Lorenzo a vederle avrebbe voluto spezzarle entrambe. Un abuso di tempo, ecco cosa era stata la sua vita. E capriole come parole per convincersi del contrario, e colli spezzati sulla dura superficie della realtà. Era convinta che le sue labbra sarebbero state le ultime che avrebbe baciato, che sarebbe stato per sempre il sorriso di lui a continuare a dare un senso alla sua esistenza. Senza sapere come, lo sapeva. Come aveva sempre saputo che le stelle stavano in cielo e lei stava sulla terra, che i cuori battevano e che due più due faceva quattro. L’amore che provava per lui era un fatto di natura: era nato insieme a lei come i suoi occhi; era cresciuto insieme a lei come le sue mani, e sarebbe morto insieme a lei come il suo cuore. Sembrava quasi che qualcuno glielo avesse scritto in petto quel sentimento; e con l’anima marchiata da quella dannazione, Lea si rallegrava che le avessero impresso nella mente il nome di lui e di nessun altro.

Page 96: L'ultima corsa

96

Chiuse gli occhi, sentì il proprio respiro intrecciarsi col suo. Avrebbe voluto trascorrere in quel modo il resto della sua vita.

Page 97: L'ultima corsa

97

Page 98: L'ultima corsa

98

CAPITOLO 2 La vita di Luca andava avanti quarantacinque minuti alla volta; dire che andava avanti era un’iperbole: la sua vita si limitava a girare a vuoto su se stessa, come una trottola. “Oggi quanto ne abbiamo? Cinque”, si rispose e scrisse quella data in cima alla pagina della sua agenda rilegata in pelle, “Cinque Ottobre” pensò, “che dovevo fare oggi?” Quel ragazzo non faceva altro che sprecare preziose energie cancellando e riscrivendo sempre gli stessi programmi, perder tempo con una matita in mano a scriver cose che lui stesso avrebbe distrutto. Il mese di Settembre lo aveva letteralmente ucciso annoiandolo a morte. Non sapeva come riempire le sue giornate; iniziò a studiare il tempo, cercando ossessivamente di suddividere le sue ore in maniera coerente, finendo per creare un disegno soltanto per distruggerlo. Il tempo non passava più, passava soltanto la sua vita tra un esame e l’altro, tra un impegno preso ed uno cancellato. Si stancò della sua ossessione; si mise ad aspettare una buona notizia per restituirsi un po’ del tempo che si era sottratto, ma non riusciva a trascorrere una giornata senza scrivere qualcosa. Appuntava nevroticamente l’ora in cui arrivava all’università, e l’ora in cui usciva; segnava sulla sua agenda di pranzare non perché non se lo ricordasse, ma per organizzarsi la giornata prima e dopo quell’evento! Era un nevrotico ossessionato dalla paura della morte che organizzava ogni minuto del suo tempo nel tentativo di appropriarsene; così finiva per perderlo ancor prima di averlo vissuto. L’ilarità di cui spesso si serve il destino per governare gli accidenti della vita voleva che tutto ciò che Luca appuntasse su quell’agenda non si realizzasse mai. I suoi pensieri erano gravati da quel tipo di tristezza causata dalla continua ricerca di un senso; se avesse dovuto essere punito per un

Page 99: L'ultima corsa

99

peccato sarebbe stato quello di aver speso troppo tempo a donare un senso alla sua esistenza senza mai riuscire ad assaporarlo. Finì per far coincidere quel senso con l’astratto concetto d’amore, associando tutto ciò che gli mancava ad un volto per riuscire a stringere tutto quello che non aveva. Al liceo, come nella più patetica delle commedie sentimentali, si innamorò della sua migliore amica, dalla quale non venne ricambiato; tutto ciò che riuscì a lasciarle furono lividi; lividi che dopo la rabbia, le botte, il dolore, furono assorbiti dall’amore di un altro. Le restò amico riuscendo ad ignorare il suo sentimento tanto a lungo fino a lasciarlo morire d’indifferenza; poi prese un’altra ragazza, la prima di una lunga serie, e la versò come acqua fresca su ferite che a lungo sembrarono bruciare come se ci avesse versato dell’alcool. Dopo alcuni mesi si convinse che quella ragazza sarebbe stata realmente l’amore della sua vita; e così fece con quella successiva e con quella dopo ancora. Di luce in lui non ce ne era mai stata abbastanza per vederci chiaro su qualcosa. Spettri che danzavano nell’ombra di un’illusione. Amava il sole, amava sentirne il calore sul corpo; ma non la luce. Amava il fratello ed odiava la sorella luna, ma non il buio. Amava il silenzio, anche se la vita significava rumore ed il silenzio morte. Ogni cosa che amava, Luca l’amava a metà. stava cercando di non sprecare tutto quello che gli era stato dato anche se non sapeva bene da chi. Un mare di tempo d’attraversare con il solo aiuto di pochi oggetti: una penna, il ricordo di un sorriso e una speranza fredda come quell’acqua su cui camminava. Arrivato in aula, prese un posto nelle ultime file. Mentre l'insegnante spiegava cosa significasse la sociolinguistica, aprì la sua agenda per scrivere qualcosa che lo stava tormentando: “Doveva pur morire prima o poi, doveva pur venire il momento di udire questa parola. Domani, e poi domani e poi domani, s’insinua col suo piccolo passo un giorno dopo l’altro, fino all’ultima sillaba del copione assegnatoci. E tutti i nostri ieri saranno serviti ad illuminare la strada a dei pazzi, diretti ad una morte polverosa. Via, via, breve candela! La vita non è altro che un’ombra che cammina, un povero attore che si dimena e si pavoneggia sul palcoscenico per il

Page 100: L'ultima corsa

100

tempo assegnatogli e di cui poi non se ne sente più parlare. È una storia, raccontata da un idiota, piena di grida e furori, che non significa nulla.”

Page 101: L'ultima corsa

101

Page 102: L'ultima corsa

102

CAPITOLO 3 In quel freddo pomeriggio autunnale, Alessandra intravide finalmente uno spiraglio di luce. Osservare la calligrafia di Elena l’aveva illuminata: gli studenti di quella facoltà erano costretti firmare un documento, definito camicia, alla fine di ogni esame; in questo documento si metteva a verbale il voto ricevuto, le domande che erano state effettuate, il nome del corso di laurea ed altre informazioni che la burocrazia del caso richiedeva. Quindi, intuì la sera prima la Detective, per scoprire chi avesse scritto quel biglietto ritrovato sul corpo del professore, sarebbe bastato controllare tutte le camicie presenti nella segreteria della facoltà, partendo da quelle dell’ultimo anno. Alessandra e Manuel insieme ad una manciata di esperti controllavano quei fogli furiosamente cercando di scorgere in firme altrui caratteri di colpevolezza. Dopo diverse ore non avevano trovato ancora niente. Il tempo è il dardo che affligge gli oziosi. Avere abbastanza tempo per pensare, fantasticare, piangersi addosso. Il tempo era tutto quello che non avevano in quella stanza. «Dannazione!», sbottò Alessandra facendo volare dei fogli per aria, «Non trovo nulla!» «Forse», cercò di calmarla Manuel, «Dovremmo coinvolgere più persone, ci sono centinaia di verbali qui…» Alessandra si arrese a quella ovvia conclusione. Niente, il tempo passava e loro non trovavano niente. L’investigatrice alzò la testa dai fogli, le sembrava buffo indagare su uno che si chiamava Montecchi e su cui era stato trovato un biglietto con una citazione di Shakespeare, la cosa le sembrava un po’ troppo logica per trattarsi di una coincidenza. La citazione riportava la parola incesto, ma Lea le aveva detto che Lorenzo non

Page 103: L'ultima corsa

103

aveva familiari in vita. Allora pensò al tradimento, le tornò in mente Stephen. Fu destata dalla suoneria del suo telefono. «Manuel!», chiamò, «Dobbiamo andare, c’è stata una svolta.» Alessandra si ritrovava di nuovo di fronte all’edificio in cui si era recata due giorni prima. Iniziò ad osservare intensamente le gocce di pioggia cadere su quel lenzuolo bianco steso sul corpo morto di Lea, ci lesse qualcosa dentro, qualcosa che ebbe paura di dirsi. «Ho parlato con l’agente», le riportò Manuel, «Mi ha spiegato la dinamica, è sicuramente un suicidio.» «S’è buttata?», chiese Alessandra. «Sì. E credo che tu sappia il perché.» «Sì lo so, ma non è quello che credi.» «Andiamo! Il fidanzato la lascia, e stiamo parlando di quarantenni non di ragazzini, si sarà sentita distrutta! Avrà perso la testa! Scommetto che è uscita senza farsi vedere giovedì e l’ha sparato. Adesso si è buttata di sotto perché non ce la faceva a convivere con i suoi sensi di colpa!» «No, Manuel, ti sbagli.», e con l’eloquenza dei passi che s’allontanano Alessandra gli continuò a dire che Lea si era uccisa per amore.

Page 104: L'ultima corsa

104

Page 105: L'ultima corsa

105

CAPITOLO 4 Quando prendeva una penna e la adagiava, dolcemente, sulla carta, i suoi pensieri prendevano forma e si disponevano l’uno accanto all’altro, facendosi spazio da soli; come cuccioli appena nati, che allontanandosi dal grembo materno, scoprivano la savana, così i suoi pensieri, rinchiusi nelle segrete della sua mente, vedevano finalmente la luce. Così diventavano realtà, e soltanto leggendoli, Elena riusciva ad apprenderli. Non riusciva e non voleva prestare orecchio a se stessa, accettava di ascoltarsi solo attraverso la mediazione della carta. E così credeva che facesse ogni scrittore, credeva che ogni romanzo, ogni storiella fosse soltanto una scusa per parlare a se stessi. Credeva che l’intera esistenza di un uomo potesse essere assimilata ad un libro, per la volontà di conoscerne la fine, e che la vita finisse di specchiarsi in un libro soltanto quando ne avesse esaurito tutte le pagine. Credeva che la scrittura fosse una forma di pazzia e che chiunque scrivesse fosse di conseguenza uno psicopatico: gli altri, coloro che non scrivevano, riuscivano a vivere, a rilassarsi, mentre tu, nel momento in cui scrivi, escogiti un modo per non morire, un modo per far andar via la malinconia. E credeva che ci sforziamo così tanto di trovare una storia, una coerenza, un filo che regga, e che siamo così ossessionati da un senso, da un’unità esterna a noi, solo ed esclusivamente perché la verità è che dentro siamo a pezzi. Elena scrivendo riusciva a rintracciare il punto esatto in cui lei stessa diventava ostaggio della sua mente. La sua mano, in maniera rapsodica, si agitava, voleva dire tutto e non diceva niente, e rileggendo ciò che aveva scritto, non riusciva nemmeno più a distinguere ciò che aveva letto da ciò che aveva inventato. Doveva vedere un foglio bianco davanti a sé e doveva prendere una penna che guidasse la sua mano alla vittoria, in quella lenta battaglia con le sue consapevolezze. Così i giorni se andavano via, uno dopo l’altro, e la sua mente impazziva a provare sempre le stesse cose; a sentire sempre le solite

Page 106: L'ultima corsa

106

paure; a cercare sempre le medesime verità; a scontrarsi ogni volta con l’impossibile; a ripetere, due volte, sempre lo stesso errore. “È solo ottobre e già fa un freddo che gela i pensieri”, pensò, cercando nella borsa il mazzo di chiavi in cui doveva essercene una utile ad aprire un’entrata secondaria dell’Oblio. L’illuminismo ha rovinato la letteratura. Non c’era alcun bisogno di gettare tutta quella luce sulle parole, accecarle per renderle più chiare ad un lettore cieco. L’inizio del mese l’avrebbe messa di buon umore se non avesse avuto una bomba pronta a scoppiare al posto del cuore. Settò il timer sul momento in cui l’avrebbe rivista. Elena, facendo attenzione a non farsi scoprire da se stessa, stava cercando una scusa per rivederla. Scrivere le mancava; in quel momento la ragazza era l’insieme delle sue mancanze: le mancava il sole, le foglie degli alberi le sembravano meno viva senza la sua luce; la sua vita più spenta senza il verde di quegli occhi. E le mancavano le parole, quelle parole gettate su altre parole che non significavano nulla. D’improvviso cedette alle sue malinconie ed annotò le sue mancanze su un blocco di fogli su cui avrebbe dovuto segnare il numero delle pagine da fotocopiare l’indomani: “Chissà se un giorno sarò costretta a rileggermi per capire cosa non andava, cosa non è mai andato. Cara me nel futuro, le cose non vanno. Io non sono mai andata da nessuna parte, mi sono appena mossa un po’ spinta dalle idee di qualcun altro. Date una penna ad un infelice ed avrete Leopardi. Scrivere è l’unica cosa che mi fa stare bene: appuntare, ricordare, non perdere tutto. Sono così ossessionata dalle parole perché se scritte bene sono l’unica cosa che rimane. Gli anni passano in un battito di cuore fino a consumarli tutti. La mia mano è più lenta del flusso dei miei pensieri, il mio respiro a stento ce la fa a stargli dietro. Non riesco a respirare più bene, forse perché mi è passata la voglia di farlo. Io lo so che è scritta nel mio sangue la mia maledizione, lo so che non sono destinata ad essere felice, allora perché continuo ad aspettarmelo? Me lo aspetto come una promozione, una guarigione, un’indicazione che mi faccia andare da qualche parte. Verso la rovina, cara me? È lì

Page 107: L'ultima corsa

107

che sono giunta? È come diceva Leopardi: Hai messo in noi il desiderio di arrivare alle stelle senza darci i mezzi per farlo. O forse era una canzone. Leopardi. Che tristezza Leopardi. Se dovessi scegliere i panni di quale autore vestire lascerei ad altri quelli di Leopardi, ma anche quelli di Montale o di Dante. Sceglierei quelli di Bembo, Bembo ha salvato la storia e nessuno lo sa.” Federico le tirò più volte il braccio per farla smettere di scrivere. «Ma che c’è?», gli urlò irritata. «Guarda chi c’è!» Elena guardò in giro ma non vide nulla come suo solito; fece per tornare alla sua catastrofica pagina. «Ele, guarda!» «Ma cosa?», gli urlò di nuovo tra gli sbuffi. «C’è la Detective!» Non sapeva bene neanche lei spinta da quale curiosità rivolse lo sguardo verso il punto che stava indicando l'amico. Dapprima ebbe la sensazione che non fosse possibile, che si trattasse di un fantasma. Un fantasma del passato, presente e futuro in uno solo, che, confuso dal freddo, si fosse destato troppo presto credendo che fosse già Natale. Natale, quell’epidemia di ipocrisia, quella lente di ingrandimento con cui chi è felice vede, ingigantita, la propria felicità; il miserabile, la sua miseria; il dannato, la sua condanna. Poi decise che la vita poteva ripartire e il mondo poteva anche smettere di girare. Elena aveva sempre evitavo di avvicinarsi a qualcuno temendo che le persone si sarebbero approfittate delle attenzioni ricevute. Quella volta però fece un’eccezione: fu difficile farsi strada tra le persone che si accalcavano attorno alla ragazza verso cui era diretta e quelle che si accalcavano attorno a lei, ma ci riuscì; è questo il bello di avere una meta, riuscire a raggiungerla. La frase funziona anche se su meta si appoggia un accento, piano, senza dare nell’occhio. Elena Rossi si era ripetuta tante di quelle volte che il destino di una persona dipendesse dal nome che portava, che finì per crederci.

Page 108: L'ultima corsa

108

Ogni tipo di rumore l'aveva sempre infastidita, non sopportava quelle voci che le dicevano sempre cosa fare. Quelle voci isteriche che le urlavano addosso parole rabbiose senza ragione; cattive con lei e gentili con chiunque altro. Odiava la voce delle suore a cui era stata affidata la sua esistenza; aveva una voglia matta di ucciderle, morte loro, sarebbe stata finalmente in grazia di Dio, ma era solo una bambina, non ne aveva le forze. La forza invece veniva usata su di lei ogni qual volta lasciava cadere qualcosa per terra o s’arrabbiava perché veniva trattata peggio di tutti gli altri, il suo piatto, infatti, era sempre un po’ più vuoto, la sua divisa un po’ più sporca, le percosse dategli un po’ più forti. Le suore del collegio di Sant’Anna delle Vedove credevano che quella ragazzina avesse il diavolo in corpo; ne erano convinte per il colore dei suoi occhi: rosso, come la pelle del demonio, come il fuoco dell’inferno, come il peccato della lussuria. Ma poiché il Signore non ci manda mai croci di un peso maggiore di quello che, lui sa, possiamo sostenere, non la buttarono mai fuori, convinte che toccasse a loro portarla sulla retta via. Arrivata in fasce, appoggiata su una busta di plastica, fuori al portone, sembrò loro un piccolo angioletto. Era completamente nuda e sembrava goderne, forse per il caldo infernale che faceva quel giorno. Le suore di quel convento le diedero il nome della Santa celebrata quel dì come erano solite fare; le toccò il nome di una Santa Imperatrice, il nome della madre di un imperatore. Il nome di Elena spiccava tra le varie Maria ed un numero infinito di Giusy e Susy, nomi messi quando le suore non ricordavano bene quale santo si festeggiasse quel giorno. Quei secondi in cui Alessandra la vide arrivare durarono un’eternità, si aspettava che quello sguardo, che metteva a fuoco solo la sua persona ed escludeva tutto il resto, si materializzasse in qualche frase ad effetto. Ed invece tutto quello che Elena le chiese fu: «Come ti chiami?» «Cosa?», rispose sorpresa l’altra. «Qualcuno una volta mi ha detto», tolse il drink dalla mano della sua interlocutrice per assaggiarlo, «che nel nome di una persona vi è scritto il suo destino.»

Page 109: L'ultima corsa

109

Alessandra sorrise nel riprendersi il bicchiere. «Beh, io non credo al destino», disse e temendo di averla delusa con quelle parole aggiunse, «O meglio, per rendertela poetica visto che ami la letteratura, credo che tocchi a noi scrivere le storie di cui siamo protagonisti.» «Con la penna concessaci dal destino», aggiunse Elena. La Detective capì che non l’avrebbe dissuasa tanto in fretta e volendole spiegare il motivo per il quale era fuggita da casa sua la sera prima si arrese a darle la risposta che voleva: «Alessandra.» Alexandros, pensò Elena, nome di origine greca, “Difensore degli uomini”, calzava a pennello. Un nome indossato da grandi personalità del mondo antico, tra cui il Macedone, non era mai stato così bene addosso a qualcuno come stava bene addosso a lei. Alessandra si morse l’anima a vedere il suo telefono che suonava, ma non poté far altro che rispondere. «Arrivo subito», disse fissando Elena e se ne andò senza aggiungere altro. Elena la guardò andarsene, e prese un respiro profondo per allontanare l’angustiante sensazione di star guardando se stessa andare via. Se avesse avuto abbastanza destinatari, avrebbe scritto una serie infinita di lunghissime lettere d’amore; le righe delle quali sarebbero servite a spiegare come si sentiva. Spezzata era la parola che più riassumeva il suo stato, perché la linea si cui andava dispiegandosi la sua esistenza era stata spezzata nell’attimo in cui, finalmente, ne aveva intravisto il punto d’arrivo.

Page 110: L'ultima corsa

110

Page 111: L'ultima corsa

111

MARTEDÌ 6 OTTOBRE 2015

Page 112: L'ultima corsa

112

CAPITOLO 1

Il brutto delle mente geniali è che prima o poi si spengono; di un bel libro, che prima o poi finisce; di un piano brillante, che quasi mai viene portato a compimento. C’è sempre qualcosa, una sfumatura nel disegno che si sottrae alla perfezione, un braccio che non vuole allinearsi perfettamente al corpo, uno sbaglio nel calcolo delle proporzioni, e così, analogamente, tutto ciò che desideriamo, anche quando, per un qualche fortuito motivo, si concretizza, non è mai come l’avevamo immaginato. Il più banale degli innamorati, rivolgendosi alla sua bella, potrebbe obiettare che stare con lei è addirittura meglio di come l’aveva immaginato, sì, certo. Ma poi quando se ne va? Nella sua mente, loro due sono inseparabili, e invece, nella realtà, riescono a stare insieme soltanto per un attimo, un attimo mai perfetto, macchiato sempre da una qualche nube, che l’amore che prova in petto gli fa sembrare un sole, mentre è solo l’ennesima ombra gettata su una vita già immersa di suo in una perenne oscurità. «Dammi una buona ragione per cui non dovrei sbatterti in galera e buttare la chiave.», disse Alessandra seduta dall’altra parte del tavolo di metallo. L’abbandono del campo di battaglia avrebbe segnato la sua dipartita e al contempo avrebbe risolto ogni cosa, riportando l’ordine in quel microcosmo in preda al caos. Quand’ecco che invece, iniziò ad allentare i nodi che lui stesso aveva stretto accuratamente affinché lo tenessero inchiodato ad una sedia, posta vicino ad una finestra, per sopportare meglio i giorni, per aspettare i tramonti. Quanto dura un giorno? Ventiquattro ore, mille e quattrocentoquaranta minuti, ottanta seimila secondi. No, un giorno dura molto di più, a volte dura interi mesi, altre un’eternità.

Page 113: L'ultima corsa

113

Luca si trovava in una dimensione eterna, al di fuori dello spazio e del tempo; sollevato in aria, nell’ultimo secondo della partita, con in mano una palla, resa grazie ad un passaggio fortuito; la posizione era perfetta ed un tiro da tre punti avrebbe consegnato l’indispensabile vittoria alla sua squadra. Si trovava bloccato in quell’istante, destinato a non conoscere mai l’esito del suo tiro. Ma non ce ne era bisogno: lui lo sapeva che la sua vita era un canestro mancato. «Non sono stato io.», confessò ai due agenti. «Allora spiegaci perché mai abbiamo trovato un biglietto scritto da te sul corpo di un morto!», gli urlò Manuel. «Non sapevo che l’avrebbe ucciso!» «Chi?», insisteva Alessandra Luca se ne stava in silenzio. «Chi?», ripeté di nuovo, «Guarda che se non ci dici chi ti ha detto di scrivere quel biglietto finisci in galera!» Contaminate dal rumore esterno, le varie nefandezze da lui dipinte iniziarono a sovrapporsi confusamente l’una all’altra in modo tale che un orario iniziò a sciogliersi in un altro, e una rissa a confondersi con un abbraccio. Luca necessitava ora più che mai della sua agenda e di una penna per non impazzire, per far luce sui fili delle trame che stava tessendo; quella mano priva di penna non gli serviva a niente, tanto valeva amputarla. Iniziò a piangere sguaiatamente. «Mi ha contattato su Facebook, ve lo giuro!», diceva tra i singhiozzi, «Mi ha chiesto di scrivere qualcosa di Shakespeare e di metterlo nella borsa del professore. Ve lo giuro, è tutto quello che ho fatto!» «Per il momento tu resti qui», gli disse Alessandra, «Avrai il tempo di asciugare le tue lacrime. » «Devi darci il tuo telefono, dobbiamo scoprire tutto su la persona che ti ha scritto.», aggiunse Manuel. «Sto aspettando dei soldi», confessò il ragazzo, «Controllare la transazione vi può aiutare no?»

Page 114: L'ultima corsa

114

Alessandra e Manuel si guardarono l’un l’altro felici, per quanto potessero essere felici in quel momento, che i film di spionaggio servissero a qualcosa.

Page 115: L'ultima corsa

115

Page 116: L'ultima corsa

116

CAPITOLO 2 Quella mattina Elena decise di ordinare un caffè all’americana perché tutto il male che stava facendosi in quel periodo evidentemente non le sembrava abbastanza. Sorseggiò quell’acqua sporca ed avvertì una lieve fitta allo stomaco all’entrata di quel liquido nel suo organismo. Il sole accendeva le foglie degli alberi di un verde così chiaro che si confondeva col giallo dei raggi stessi. Le sue giornate erano un viavai di nulla, delle sigarette spente senza neanche averle fumate. Erano un libro che non arrivava ad un punto. Erano una serie parole che riempivano delle pagine e svuotavano lei. Impasse, lo chiamano in francese; situazione di stallo tradurrebbe l’italiano; inferno sintetizzerebbe Elena. Pensò al professore, se lo immaginò ridimensionare le sue aspirazioni nel ruolo di insegnante; e si diede ragione pensando alla sua morte: era scritto nelle sue vene, era stato il suo stesso sangue maledetto a segnarne il destino. Chissà la scontentezza di chi gli aveva evitato di continuare a riempire d’errori le pagine della propria esistenza. Quant’è bello al mattino mantenere le promesse fatte la sera prima, peccato che tale bellezza le fu preclusa perché l’unica promessa che si era fatta fu quella di non pensare a lei. Guardò fuori la finestra del bar, il sole metteva fretta alle persone, ne rimase sconcertata, non capiva la necessità di correre per cadere più velocemente in un fosso. Fogli bianchi da sporcare, ore vuote da sopportare, discorsi troppo sciocchi da sostenere. Ogni giorno riempiva una nuova pagina d’isterismi, e si vergognava un poco nell’apporvi la data odierna.

Page 117: L'ultima corsa

117

Eppure, se avesse avuto un’altra vita, avrebbe fatto tutto d’accapo; avesse avuto un’altra strada sarebbe corsa nel posto in cui l’aveva incontrata.

Page 118: L'ultima corsa

118

Page 119: L'ultima corsa

119

CAPITOLO 3 Spesso Stephen si chiedeva se fosse un vizio degli uomini quello di mitizzare il passato; quanto a lui, che uomo non si riteneva, il passato appariva semplicisticamente migliore del presente, che col passare del tempo peggiorava soltanto, fino a precipitare verso il baratro. L’unico motivo per il quale Stephen continuava ad andare avanti era perché sapeva che fermarsi sarebbe stato ancora peggio del non sapere dove stesse andando. Cercò di pensare a tutto tranne che a lui, esercizio che, per essere stato perfezionato per anni, gli riusciva malissimo. “La vita vera inizia dopo il liceo”, “La vita inizia quando hai un figlio”, e se la vita vera non iniziasse mai? Se fosse solo un insieme di attese, mai appagate, nascoste in un angolo di mente, su una strada sempre troppo dritta per fermarsi o dubitare sul da farsi? Forse la sua vita sarebbe iniziata se fosse riuscito a trovare un po’ di felicità in un soffio di vento gelido dopo un caldo soffocante, nelle pagine di un libro, in una buona tazza di caffè, sotto a delle coperte e non soltanto dentro a quel paio d’occhi. Ma questa vita non faceva per lui. Eppure la voleva. Come lo scolaretto ansimante arde d’amore per la reginetta del ballo che sa di non poter avere. Per tutta la vita, non aveva fatto altro che cercare quel rapporto perfetto che comprendesse tutto: affetto, stima, fiducia; non l’ho trovò mai ed eliminò dalla sua strada tutto ciò che non fosse come quel rapporto che esisteva soltanto nella sua testa, ripetendosi che se qualcosa non fosse esattamente come la voleva poteva anche farne a meno. E poté, ma a che prezzo? Accontentarsi era l’unica soluzione per bere un sorso di felicità, ma la sete che aveva di quella gli faceva disprezzare sorsi e pretendere tempeste. La cosa che gli mancava di più delle persone che aveva mandato via era il loro abbraccio.

Page 120: L'ultima corsa

120

Riusciva a distinguere ancora a distanza di anni ogni singolo abbraccio, e lo spaventava da morire la possibilità che un giorno avrebbe perso la capacità di farlo; poi si consolava pensando che si può anche girare il mondo, ma un abbraccio non lo si dimentica, ci si trascina sempre dietro il peso di aver rovinato tutto. Alessandra buttò giù la porta dell’aula di danza di quella patetica scuola, si avvicinò a Stephen e lo dichiarò in arresto sotto lo sguardo esterrefatto dei suoi allievi. «Cosa?», le urlò il maestro, «Ma non potete farlo!», balbettava ai due Detective. «Quello che non si può fare», lo corresse Manuel, «E’ intrufolarsi in un’università ed uccidere un uomo.» «Ma cosa sta dicendo?», continuava a difendersi l’insegnante. «E’ finita», dichiarò Alessandra, «Abbiamo scoperto tutto, il ragazzo ha parlato.» Stephen aggrottò la fronte, mostrando ai due agenti una coppia di rughe. «Siamo risaliti al suo indirizzo IP, sappiamo che ha creato un contatto falso e che ha chiesto al ragazzo di scrivere quel dannato biglietto», continuò la Detective, «Abbiamo rintracciato anche una transazione del suo controcorrente emessa guarda caso subito dopo l’omicidio. Mi dica», e lo guardò dritto negli occhi, «Perché?» «Perché mi ha spezzato il cuore.», disse Stephen tra le lacrime. Alessandra ci rifletté un attimo, forse quella sera sulla spiaggia Elena aveva avuto ragione, forse si uccide sempre per Amore, per Amore dei soldi, per gelosia. Forse si uccide sempre per Amore perché l’Amore è l’unica forza capace di farci impazzire. Stephen a modo suo lo aveva amato. In un modo malato, egoistico, distruttivo, ma lo aveva amato; lo aveva fatto nell’unico modo in cui gli fosse possibile amare qualcuno.

Page 121: L'ultima corsa

121

Ah, il narcisistico desiderio d’essere ricordati! Come una ferita, come uno sbaglio, purché non si cadi nell’oblio. Triste è il destino di chi non sa quando vien l’ora di smetterla, somiglia ad un pellegrino che si consuma i piedi per arrivare a quello che credeva essere un luogo sacro per scoprirlo profanato da altri prima di lui. Spinto nella macchina della polizia, ripensò a quando diceva a Lorenzo che il suo sorriso tendeva a scomparire, che si sentiva vuoto ogni volta che erano costretti a separarsi, che il suo pensiero di armonizzava il caos intorno a lui e che aveva vissuto fino al momento in cui l’aveva incontrato solo per aspettarlo. E non sapeva che Lorenzo, mentre fingeva di ascoltarlo, l’invidiava, e gli avrebbe dato il cuore affinché gli facesse capire per quale motivo, fino a quel momento, avesse vissuto lui.

Page 122: L'ultima corsa

122

Page 123: L'ultima corsa

123

CAPITOLO 4

«Beh, non è che hai tanto da festeggiare eh!», le disse Elena porgendole una tazza di caffè, «In fondo ci hai messo sei giorni per risolvere un caso per cui il Detective di un Telefilm americano ci avrebbe impegnato quaranta minuti.»

«Sfotti pure», le disse Alessandra tra le risate, «Ma loro hanno molte più risorse, io ho dovuto controllare qualcosa come duecentocinquanta fogli da sola!»

Le risate delle due, che scorrevano più veloci dell’acqua versata nei bicchieri, furono interrotte dalla nota suoneria del telefono di Alessandra. «Arrivo», disse ancora una volta la detective, poi guardando Elena aggiunse, «Hai da fare?» «No», rispose la ragazza, «Non so se hai saputo ma mi hanno ammazzato il professore di recente.» «Perfetto allora», sorrise l’altra, «Hanno fatto fuori uno in metro, vuoi venire?» Elena fece cenno di sì. «Sai, ho deciso di scrivere un Giallo.» «Ah, sì?» «Sì, spero che la scena del crimine mi ispiri.» «Vuoi scrivere di un omicidio in metropolitana?» «Perché no.» «E come lo intitoleresti?», chiese la Detective cercando le chiavi della moto nella borsa. «L’ultima corsa.»

Page 124: L'ultima corsa

124

www.bibliotheka.it