Inf Canto 01 Lettura

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1 paese, non deve ricorrere a un’operazione intel- lettuale anche elementare per stabilire l’identi- tà fra quel drappo e il paese; quel drappo non ‘significa’, ma ‘è’ il suo paese. Così il cristiano di fronte a una croce. Allo stesso modo, Dan- te non deve stabilire intellettualisticamente l’identità selva-peccato: i due termini per lui sono interscambiabili. Tanto più che queste concretizzazioni egli non le inventa: sono quel- le della tradizione biblica ed esegetica e anche di poeti profani particolarmente amati; fanno insomma parte del linguaggio poetico-religio- so comunemente accettato e adoperato, che Dante si limita a sostanziare col suo genio, così come sostanzia ogni altro linguaggio tradizio- nale. Il poeta parte, già con il primo verso, da un versetto del profeta Isaia: Ego dixi: In dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi (XXXVIII 10): e vedremo che anche la precisazione cro- nologica del viaggio, apparentemente piana («a 35 anni»), è non solo mutuata dal profeta, ma ricca di molteplici significati, relativi anche alle condizioni storiche di Dante e del suo tempo. L’identificazione della vita con un’immensa silva plena insidiarum et periculorum (Ag. Conf. X XXXV) era nella tradizione letterario-religiosa; Dante stesso vi aveva attinto, prima che nella Comme- dia, nel Convivio: «l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita» (IV XXIV 12): una selva, dunque, nella quale se non ben guidati si perde la strada. Persino che la selva sia amara, Dante dice con parole dell’Ecclesiaste (VII 27). Numerose le fonti scritturali anche dell’iden- tificazione del peccato col sonno: basterà ci- tare per tutte l’epistola di san Paolo Ai Romani (XIII 11): hora est iam nos de somno surgere. Già il salmista aveva levato gli occhi al monte, per averne aiuto (Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi, Ps. CXX 1); e ripetutamen- te nella Bibbia s’incontra il simbolo del colle. Così è ovvio (e sarà un ricorso frequente nel I l canto I dell’Inferno è generalmente consi- derato come un proemio generale al poema, mentre il II è il proemio della sola prima cantica. E infatti, il canto II si apre con una spe- cie di breve protasi, che, come vedremo, non può riferirsi se non alla sola cantica infernale; questa in tal modo sarà costituita da 33 can- ti, come le due cantiche seguenti, secondo una delle rigorose simmetrie formali care alla fanta- sia del poeta. Tuttavia, la descrizione vera e pro- pria dell’Inferno comincia solo col canto III, che s’inizia appunto con le terribili parole che Dante vede scritte al sommo della porta dell’In- ferno; i primi due canti ci danno gli antecedenti e le ragioni del grande viaggio ultraterreno. Il poema sarà pieno di paesaggi, di personag- gi, di situazioni estremamente concreti; anche nei casi (deve esser detto subito che essi non sono troppo frequenti) in cui il dato poetico ha uno o più contenuti allegorici, non per questo cessa d’essere concreto. Ma per comprendere bene i due canti iniziali, e specialmente il pri- mo, bisogna non tentare neppure di riprodurre nella nostra fantasia immagini naturalistiche. La selva, il sonno in cui cade il viandante, e che gli fa abbandonare la via giusta, il colle e il sole che lo illumina, le fiere che gli impedi- scono il cammino verso la salvezza: tutto ciò non ha riferimento se non esterno con le selve, i colli, le fiere della nostra comune esperienza; emblemi volutamente schematici, non hanno vigore figurativo in sé, se non in qualche parti- colare: la loro ragion d’essere consiste solo nei valori astratti che concretizzano. La concretezza espressiva è una necessità costante dell’espres- sione poetica medievale e di Dante. Ma non si tratta, da parte di Dante, di fredde escogitazioni intellettualistiche. È un po’ quel- la «logica per immagini» che va scoprendo la moderna antropologia culturale. Uno che veda, in determinate situazioni, la bandiera del suo Inferno Canto I La lettura di Umberto Bosco

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paese, non deve ricorrere a un’operazione intel-lettuale anche elementare per stabilire l’identi-tà fra quel drappo e il paese; quel drappo non ‘significa’, ma ‘è’ il suo paese. Così il cristiano di fronte a una croce. Allo stesso modo, Dan-te non deve stabilire intellettualisticamente l’identità selva-peccato: i due termini per lui sono interscambiabili. Tanto più che queste concretizzazioni egli non le inventa: sono quel-le della tradizione biblica ed esegetica e anche di poeti profani particolarmente amati; fanno insomma parte del linguaggio poetico-religio-so comunemente accettato e adoperato, che Dante si limita a sostanziare col suo genio, così come sostanzia ogni altro linguaggio tradizio-nale. Il poeta parte, già con il primo verso, da un versetto del profeta Isaia: Ego dixi: In dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi (XXXVIII 10): e vedremo che anche la precisazione cro-nologica del viaggio, apparentemente piana («a 35 anni»), è non solo mutuata dal profeta, ma ricca di molteplici significati, relativi anche alle condizioni storiche di Dante e del suo tempo. L’identificazione della vita con un’immensa silva plena insidiarum et periculorum (Ag. Conf. X xxxv) era nella tradizione letterario-religiosa; Dante stesso vi aveva attinto, prima che nella Comme-dia, nel Convivio: «l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita» (IV xxiv 12): una selva, dunque, nella quale se non ben guidati si perde la strada. Persino che la selva sia amara, Dante dice con parole dell’Ecclesiaste (VII 27). Numerose le fonti scritturali anche dell’iden-tificazione del peccato col sonno: basterà ci-tare per tutte l’epistola di san Paolo Ai Romani (XIII 11): hora est iam nos de somno surgere. Già il salmista aveva levato gli occhi al monte, per averne aiuto (Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi, Ps. CXX 1); e ripetutamen-te nella Bibbia s’incontra il simbolo del colle. Così è ovvio (e sarà un ricorso frequente nel

Il canto I dell’Inferno è generalmente consi-derato come un proemio generale al poema, mentre il II è il proemio della sola prima

cantica. E infatti, il canto II si apre con una spe-cie di breve protasi, che, come vedremo, non può riferirsi se non alla sola cantica infernale; questa in tal modo sarà costituita da 33 can-ti, come le due cantiche seguenti, secondo una delle rigorose simmetrie formali care alla fanta-sia del poeta. Tuttavia, la descrizione vera e pro-pria dell’Inferno comincia solo col canto III, che s’inizia appunto con le terribili parole che Dante vede scritte al sommo della porta dell’In-ferno; i primi due canti ci danno gli antecedenti e le ragioni del grande viaggio ultraterreno.Il poema sarà pieno di paesaggi, di personag-gi, di situazioni estremamente concreti; anche nei casi (deve esser detto subito che essi non sono troppo frequenti) in cui il dato poetico ha uno o più contenuti allegorici, non per questo cessa d’essere concreto. Ma per comprendere bene i due canti iniziali, e specialmente il pri-mo, bisogna non tentare neppure di riprodurre nella nostra fantasia immagini naturalistiche. La selva, il sonno in cui cade il viandante, e che gli fa abbandonare la via giusta, il colle e il sole che lo illumina, le fiere che gli impedi-scono il cammino verso la salvezza: tutto ciò non ha riferimento se non esterno con le selve, i colli, le fiere della nostra comune esperienza; emblemi volutamente schematici, non hanno vigore figurativo in sé, se non in qualche parti-colare: la loro ragion d’essere consiste solo nei valori astratti che concretizzano. La concretezza espressiva è una necessità costante dell’espres-sione poetica medievale e di Dante.Ma non si tratta, da parte di Dante, di fredde escogitazioni intellettualistiche. È un po’ quel-la «logica per immagini» che va scoprendo la moderna antropologia culturale. Uno che veda, in determinate situazioni, la bandiera del suo

Inferno • Canto ILa lettura di Umberto Bosco

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che già per i Salmi era il corso medio della vita, segua il profeta Isaia, è certo significativo: non solo perché con ciò Dante poneva immediata-mente il suo poema su un livello altissimo, ne dichiarava subito il carattere di alta edificazione religiosa, ma forse anche in un senso più spe-cifico. Egli inserisce la Commedia nel vivo del profetismo che era tanta parte della vita religio-sa medievale, come denuncia di peccato, incita-mento alla severa meditazione e al pentimento, affermazione di speranza, anzi di certezza: Dio non può tardare a intervenire. Tutto il poema dice questo, e il canto I ne preannuncia le linee essenziali: esso non narra la grande avventura d’un singolo; il singolo che parla in persona propria vuole impersonare tutti gli uomini: il suo smarrimento e il suo viaggio non si hanno nel corso della vita sua, ma della vita di tutti: «nostra vita», non ‘mia’. Più oltre, nel Purgatorio (XXX 130 ss.; XXXIII 85 ss.), Dante parla del suo traviamento con termini più personali, con un diverso mito poetico, quello dei suoi rap-porti con la sua donna-virtù, abbandonata per seguire false immagini di bene.Il 1300 è un anno cruciale per Dante, per Firen-ze, per l’umanità. È l’anno del suo priorato, il culmine dunque della sua azione politica, nel quale tuttavia il poeta riconosceva l’origine delle sue dolorose vicende; una svolta nella sua vita: l’esilio del 1302 non ne è che una conseguenza. Proprio nel calendimaggio del 1300 le fazioni cittadine, «dopo lunga tencione / verranno al sangue»: dunque una data dolorosamente cru-ciale per Firenze. E infine, il 1300 è l’anno del primo giubileo: un’occasione, che mai prima d’allora la cristianità nel suo complesso aveva goduto, di poter ottenere la remissione totale dei precedenti peccati. Un anno, dunque, in cui Dante giunge al colmo dell’età sua, di là del qua-le non vi è che discesa verso la morte, e quindi gli si fa imperioso il bisogno di pensare al suo desti-no ultraterreno; e in cui l’umanità può, se vuole, ricominciare per così dire da capo, e iniziare una nuova fase del vivere. Di là delle fazioni, di là delle guerre, nel godimento della pace che solo l’imperatore può garantire, l’uomo potrà rea-lizzare il proprio «intelletto possibile», cioè la conquista piena di quel che le sue forze gli per-

poema), dovendo concretizzare visivamente Dio e la sua grazia, ricorrere al sole: lo aveva detto esplicitamente Dante stesso nel Convivio (III xii 7): «Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole»; notte e tenebre sono per converso espressione di peccato e di smarrimento. Se «vivere ne l’uo-mo è ragione usare» (Cv IV vii 11), il buio della selva oscura è figurazione tradizionalmente ov-via della perdita della ragione, cioè del libero arbitrio: da questo buio l’uomo spera di libe-rarsi attingendo la luce del sole, cioè la grazia di Dio, ma le passioni – e massime la cupidi-gia, l’attaccamento ai beni terreni (la lupa) – lo risospingono verso il buio. Finalmente, anche le tre fiere Dante trovava in Geremia (V 6): per-cussit eos leo de silva, lupus ad vesperam vastavit eos, pardus vigilans super civitates eorum («il leone della selva ti ha aggredito, il lupo vespertino ti ha devastato, il leopardo è in agguato…»). La «testa alta» del leone dantesco non trasporta la nostra fantasia, come vuole un fine lettore, verso l’«imponenza monumentale» dell’ani-male vivo, ma è anch’essa emblema; è conno-tato tradizionale della superbia, che ritorna in tanti luoghi della Commedia: per non dir altro, nella pena stessa dei superbi del Purgatorio, la cui testa è piegata, per punizione, dal sasso che trasportano. In questo canto Dante non si avvale, come in tanti altri casi, del linguaggio biblico come d’una delle molte componenti del suo vocabolario poetico-spirituale, ma lo fa direttamente suo proprio, parole e significati. Con questo non si vuol dire che Dante non se-gue qui quella che sarà una delle regole prìn-cipi del suo poetare, specie nel Paradiso, cioè rendere l’ultrasensibile mediante il sensibile, approfondendo quest’ultimo secondo l’espe-rienza umana; infatti il naufrago dei vv. 22-24 è approfondito fisicamente («lena affannata») e psicologicamente («si volge a l’acqua perigliosa e guata»); ma tali approfondimenti sono assai rari in questi versi proemiali che, come abbia-mo detto, deliberatamente puntano sulla sug-gestione emblematica.

Che Dante, nel collocare il suo viaggio ultrater-reno ai suoi 35 anni, alla metà esatta di quello

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imparato direttamente da Virgilio, non già dai maestri medievali di poetica: il che non basta certo a fare di Dante un pre-umanista, ma isola, con tanto altro, il nostro poeta nella tradizione medievale nella quale pure è tutto immerso. Punto di riferimento letterario, Virgilio qui non è ancora personaggio: basti paragonare i versi (125-126) in cui egli dichiara la sua condizio-ne di pagano e quindi la sua impossibilità di salire al cielo, con la malinconia umana con cui questa condizione e impossibilità è dichiarata altrove, soprattutto nel Purgatorio (III 34 ss.), per cogliere la differenza tra segno culturale e personaggio.Segno culturale, senza persona, è anche la più famosa e discussa figurazione profetica della Commedia, posta alle soglie del poema: il veltro. Anche qui Dante propriamente non inventa; un prossimo intervento diretto o indiretto di Dio, particolarmente della Trinità, per metter ordine nel mondo giunto all’estremo della corruzione, era da secoli nell’aspettativa del Medioevo reli-gioso. Basti ricordare solo che di tale aspettativa erano pieni i tempi di Dante, nella più o meno legittima interpretazione che di Gioacchino da Fiore (da Dante stesso detto «di spirito profeti-co dotato», Pd XII 141) facevano i francescani «spirituali», cioè quelli più rigorosamente lega-ti alla regola del fondatore dell’ordine. Questa del canto I non è la sola profezia o predizione dantesca di tale tono: c’è un passo del Purgatorio, assai vicino a questo del veltro, nel quale Dante per bocca di Beatrice profetizza con certezza («io veggio certamente, e però il narro») il prossimo avvento d’un messo di Dio, «un cinquecento diece e cinque», che porrà fine alla tresca che per cupidigia la Chiesa degenere intrattiene con la monarchia francese (Pg XXXIII 37 ss.). Qui, il messo divino prende una connotazione nume-rica; nel caso del veltro, oltre alla configurazione ovvia (se la cupidigia si configura nel pensiero di Dante in una lupa, il suo avversario deve na-turalmente configurarsi in un cane da caccia, in un veltro, che la farà «morir con doglia», ricac-ciandola nell’Inferno), la profezia assume con-notazioni d’altro genere (il veltro non sarà nu-trito né da terra né da peltro; nascerà tra feltro e feltro). Precisazioni che, come nel canto XXXIII

mettono, nella quale consiste la felicità terrena; e insieme conseguire la felicità celeste, mondo ormai di peccati e ben determinato a sconfiggere gli istinti e le passioni, mediante la riconquista della ragione, cioè del libero arbitrio.Appaiono già nel canto I i personaggi principali del poema, Dante stesso, Virgilio; Beatrice farà la sua prima apparizione nel canto seguente. Ma Dante e Virgilio non assumono ancora la loro umanità di personaggi: sono, per così dire, sagome, segni morali e intellettuali-letterari. Anche Beatrice nel canto II è ancora sfumata, ma in altro senso, come vedremo. Veri perso-naggi si avranno solo col canto V, col rapido orientarsi dell’arte di Dante verso quella regola principe, a cui accennavamo, di rendere l’ultra-sensibile mediante il sensibile.Nel canto I Dante è l’uomo in generale, l’uomo quale risulta dalla meditazione religiosa, non ancora un uomo, ben determinato nei suoi af-fetti, nei suoi pensieri, persino nei suoi gesti, quale si preciserà in seguito. Virgilio appare pri-mamente a Dante come l’ombra di qualcuno che «per lungo silenzio parea fioco». Quale che sia il significato preciso del dibattutissimo ver-so, sembra che esso non possa essere disgiunto da un verso d’una canzone compresa nella Vita Nuova, dove si parla d’un «omo… scolorito e fioco» che nel «vano imaginare» gli annuncia la morte della sua donna. È una canzone, Donna pietosa, che in molti altri particolari, pur in tono diverso, precorre da vicino questo canto. Il fan-tasma Virgilio si fissa poi in linee precise, ma ancora schematiche: è il poeta-maestro, mae-stro di stile («tu se’ solo colui da cu’io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore»), e di uma-na sapienza («famoso saggio»). Ha qui le sue prime espressioni quell’esaltazione convinta di Virgilio che costituirà uno dei motivi ricorrenti della Commedia: si vedano soprattutto il canto IV dell’Inferno, e del Purgatorio il VII (Sordello) e i canti XXI-XXII (Stazio). Assai significativa questa preminenza data da Dante a Virgilio su-gli altri poeti, anche su quelli, come bene os-servò il Parodi, che avrebbero potuto costituire per Dante modelli più vicini e nella tradizio-ne medievale più ovvii: massime Ovidio. E si noti che lo stile «tragico» Dante dice d’averlo

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agli occhi di Enea arrivante: nel poema latino, quell’aggettivo indica semplicemente il pianeggia-re del lido ai piedi dei colles oscuri alle prime luci dell’alba; ma in Dante assume altro valore: quel-la cui Enea approda è la terra ancora non illustre, ma destinata, attraverso le morti e le «ferute» degli antichi eroi, combattenti sia con Enea sia contro di lui, a diventare Roma, cioè a eseguire sulla ter-ra, quando i tempi saranno maturi, i disegni della Provvidenza; e ad attuarli ancora, ogni volta che sia necessario, come ora. Anche nella profezia di san Pietro di Pd XXVII 61 ss. l’idea della provvi-denziale redenzione del mondo è connessa con quella di Roma: «l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’io concipio». In questo primo discor-so di Virgilio c’è uno scorcio di storia romana: da Troia, dalle umili origini del regno di Enea, dalle prime battaglie cantate nel poema, sino al «buono Augusto», sotto il quale Virgilio visse, «nel tempo de li dèi falsi e bugiardi»: e appunto l’unificazione del mondo operata da Augusto era necessaria per-ché la falsa religione fosse debellata.

del Purgatorio, sembrano invitare perentoria-mente a una decifrazione, a svelare una presunta designazione specifica. Ma esse son dovute allo speciale «clima» poetico dei due canti: in questo proemio dell’Inferno tutto intonato ai temi bibli-ci e figurativi secondo la tradizione medievale; in quel canto finale del Purgatorio pieno di echi apocalittici. Altrove Dante, per esprimere la me-desima profezia, fa a meno di connotazioni ap-parentemente precise: anche nel Purgatorio (XX 10 ss.) la cupidigia si configura come lupa, con la sua preminenza sugli altri vizi («che più che tutte l’altre bestie hai preda»), con l’insaziabilità della sua fame («la tua fame sanza fine cupa»), con l’attesa impaziente che qualcuno la scacci finalmente dal mondo («quando verrà per cui questa disceda?»): c’è tutto; mancano solo le precisazioni degli altri due casi. Dunque la de-cifrazione delle allusioni, volutamente oscure, e quindi l’identificazione dei personaggi, o del personaggio unico, cui le due profezie alludo-no, non è veramente necessaria alla compren-sione dei passi relativi. Né Dante poteva mirare a un’univoca identificazione da parte dei suoi lettori: questi, se avessero potuto individuare con certezza nel veltro non dico una persona determinata ma anche un ufficio, l’imperatore o il papa, si sarebbero necessariamente divisi: gli uni avrebbero consentito nella speranza, gli altri l’avrebbero respinta e forse irrisa; mentre a Dante premeva una sola cosa: inculcare in tutti la sua certezza, che presto, in un modo o nell’al-tro, direttamente o no, Dio sarebbe intervenuto nel mondo per rimettervi ordine.Due erano le caratteristiche essenziali che il vel-tro aveva nel pensiero di Dante: essere emanazio-ne della Trinità (essere nutrito dalle tre persone, «sapïenza, amore e virtute») in conformità del profetismo medievale; e avere il suo strumento in Roma. La Trinità si serve dell’Impero per la sua opera di salvazione: qui quel profetismo assume consistenza tutta personale, in consonanza col fondamento stesso del pensiero politico-religioso di Dante. Il veltro salverà tutto il mondo, certo, ma in particolare «fia salute» dell’Italia, dell’«umi-le» Italia. Dante fa che Virgilio personaggio ricor-ra all’aggettivo con cui egli poeta aveva nell’Enei-de designata l’Italia quale apparve primamente Giorgio Kienerk, Lucifero, 1901.