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www.laRecherche.it Sergio D’Amaro Il ponte di Heidelberg fotografia di Roberto Maggiani :: www.robertomaggiani.it Ho lasciato il ponte e sono in casa la finestra si apre su una strada che scompare quasi subito. Mi manca l’acqua, ma ho fin troppi orologi che fanno liquido il tempo.

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Sergio D’Amaro

Il ponte di Heidelberg

fotografia di Roberto Maggiani :: www.robertomaggiani.it

Ho lasciato il ponte e sono in casa la finestra si apre su una strada che scompare quasi subito.

Mi manca l’acqua, ma ho fin troppi orologi che fanno liquido il tempo.

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eBook n. 76 Pubblicato da LaRecherche.it

[ Poesia ]

Questa raccolta poetica è stata già edita a stampa nel 1990

per i tipi delle Edizioni Tracce

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NOTA INTRODUTTIVA

L’edizione originaria di questo libro, Il ponte di Heidelberg, è uscita nel 1990. Essa conteneva una premessa in cui si spiegavano le circostanze che avevano permesso la nascita del testo.

A distanza di vent’anni quella situazione si è dissolta. Rimangono questi versi, a testimoniare soltanto una fase esistenziale e la scelta di un tono e di uno stile. Come fu possibile allora ritrovarsi in un ambiente ‘germanico’ e concepire lettere scritte ad un fantasmatico Friedrich? Le vie dell’immaginazione e delle suggestioni sono infinite, ma forse può colpire ancora quel moto di saggezza retroattiva, capace di guardare alle vicende umane con distacco inusitato. Sant’Agostino, Pascal, Kierkegaard, certo: ma forse anche il saluto più corale ad un secolo, nell’attesa e nell’incertezza di uno successivo, rivelatosi ora altrettanto drammatico (e ancora umano, troppo umano).

S. D’A.

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POESIE 1984 - 1989

Heidelberg (Germania) fotografia tratta da Wikipedia

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Heidelberg_corr.jpg

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I Caro Friedrich, grandi mani spingono il vento tra i vasi esposti sul balcone. Lontani vanno gli occhi da questa balaustra, alle città, alle foglie, agli uccelli alle pietre remote del passato. Lenti sono i colori nella nebbia opache le amicizie che non tengono dove sapere le rotte per una stagione più calda? Caro Friedrich, la barca è paziente mentre notti e tempeste coprono il pontile e tu ancora ritorni dalle passeggiate pensose nel parco, accompagnato dal cane. Bisogna partire seguire i percorsi che sono assegnati giungere alla meta del viaggio. Osservo con te l’acqua del fiume che non ha fretta e si muta in ghiaccio l’inverno nel cielo livido di Heidelberg. Dovremo aspettare, caro Friedrich, aspettare, mentre è già quasi sera. (24 giugno 1984)

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II È passato l’inverno, caro Friedrich, la stagione che credevamo più fredda. I ghiacci sono sciolti, l’acqua è libera passano carrozze e signore con cappelli la Friedenstrasse è in festa. Ho rivisto ieri Hugo von Homburg, pallido, il tepore di marzo non lo tocca gli danno fastidio i pittori sul ponte. Conosci la malattia di Hugo, Friedrich? Soffre di progressiva perdita della parola patisce seriamente e talvolta ha inaspettati accessi d’ira, se la prende anche con i cani. L’inverno è passato, caro Friedrich, l’inverno che credevamo più freddo. Ora ci riscalda una brezza piacevole andiamo più spesso a cena da Karl. Ho sempre da parte la mia “Heidelberger Zeitung” ho voglia di notizie fresche, non importa che siano quasi sempre ripetitive. Può darsi, anche, che legga di Hugo della sua definitiva scomparsa dal ponte. È così facile, infatti, morire per acqua! (24 giugno 1984)

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III L’estate, Friedrich, l’estate! Le nubi passano ugualmente nel cielo che sembrava di intoccabile azzurro. L’ansia del cibo tormenta il mio corpo mentre vado oscillando per Blauereiterstrasse. Colgo i passi tra i platani come per antico richiamo misuro la febbre ora per ora. E se fosse domani l’incontro con la terra? Ho voglia di negozi, Friedrich! Mannequins, queens of Scotland, ready-made, casuals, markets, spettacoli di stoffe, parures, traguardi, it’s so hard to… Ricco amico, ricco Friedrich! È lunedì, sono ancora in viaggio rivedo la stazione di Bahnhof i fili i binari le pensiline le sale d’attesa mi è rimasto il sapore dell’ultima città attraversata di corsa. Avevano fretta, tutti, con borse e valige col cuore chiuso in qualche albergo. Era estate, Friedrich, e ad ovest c’erano le nubi plasmate dal vento. Si avvicinava rapida la sera

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e un interminabile sonno con finta puntualità fisiologica. Fari di automobili lievi profumi di donne e ancora negozi con bocche dorate in cui vendere e comprare la merce vista e toccata sensualmente. Era estate, le spalle e le gambe nude avevano il sole sulla pelle le scarpe colore del corallo gli occhi marcati, stupendi les yeux, les yeux… e il sonno ormai implacabile, con rivelato inganno patologico. (25-26 giugno 1984)

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IV Ho lasciato il ponte e sono in casa la finestra si apre su una strada che scompare quasi subito. Mi manca l’acqua, ma ho fin troppi orologi che fanno liquido il tempo. Cammino tra le pareti cercando gli angoli dove si sono ammassate le parole prese nella tela del ragno. Ricostruire i discorsi sotto la polvere! Forse anche meglio trovarli tra i titoli dei giornali o nella cartella verde che non apro da mesi (i giovani…la guerra…il potere segnati in più punti del mio taccuino temo di inserirli nel prossimo indice analitico come vocaboli per una esercitazione). Sono dietro i vetri del balcone da qui è più chiara la strada che svanisce tra pietre e sterpaglie. Der Weg, Friedrich, der Weg meine innere Zeit und Geist mio unico coltello immerso nel tempo spada e freccia rivolte contro il corpo. Naturalmente sto bene dietro i vetri penso alle molte passeggiate con te e con Hugo, verso le cinque del pomeriggio, mentre il vapore del thè si dilegua dietro qualche porta. Uscire da questa casa, oggi, mi sarebbe difficile

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non potrei resistere agli incontri banali e alle chiacchiere perverse di qualche ciarlatano. Mi consento solo qualche fuga in cucina dove divoro ciliegie ed emmenthal per sopravvivere ai frequenti rigurgiti di spleen. Non so se faccio bene a stare in casa a guardare gli angoli e a misurare di nuovo i volumi delle stanze e la lunghezza del corridoio come per ritrovare i luoghi della mia geografia. Ho per cielo il tetto e per universo galassie di parole che galleggiano fra le orbite dei sensi my sweet home, my sweet love mea capsa, mea maxima capsa. (15 luglio 1984)

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V Ho anche una figlia, Friedrich, lo sai? Conferma il gioco della vita è l’altra sorgente del mio tempo. Ritorno nelle sue cellule a scoprire il mondo a inventare il linguaggio, i significati tra le nebulose della memoria (la memoria come parametro tra sogno e realtà: territori, oggetti, prismi screziati per visioni multiple e concorrenti tutto il peso del passato sulle bilance). Filius è phìlos, il figlio è amico, amico della memoria, amico del gioco anche di quello che lascia i dadi sul tavolo. È lo stesso caso dell’altalena e della trottola, il caso dell’aquilone e della palla. Caro Friedrich, cosa potrei desiderare di più? Ho tutto per tentare le ipotesi della mia scienza per mettere a frutto qualche buona intuizione. E mentre vado nel paesaggio con mia figlia riascolto con muto sorriso le favole del bosco faccio i passi di nuovo pazienti misuro le distanze, ritrovo direzioni (forse la montagna aiuta i sondaggi e la foresta è tuttora fitta di simboli).

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Le cose, ferme, acquistano la profondità che le radica in una presenza perenne non c’è più acqua, né ponte, mio Friedrich. Ciò che resta, ciò che muta, io, mia figlia, quel che dura, è visibile, invisibile un fiocco di seta pronto a sciogliersi per caso, per gioco, per alito di vento.

(16 luglio 1984)

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VI Quante volte ho visto pietre dimenarsi nell’acqua torbida del fiume! Gli anni si frangevano increspati lungo il greto tra ombre riflesse e fiori senza stelo. Lì, nell’angolo del ponte, riconoscevo l’immagine di un uomo tranquillo alle prese, penso, con barchette di carta. Avranno mai un bimbo più docile quelle esili miniature? Molta acqua è passata senza nulla di sé del suo moto circolare dei suoi liquidi grovigli senza mutare forme o darne altre. Le parole, Friedrich, le parole mute nei discorsi su quel paesaggio fin troppo chiacchierato della nostra inesistenza. E ancora acqua, vetro mobile, dietro al quale spiare le vicende come sagome serali o miti trasparenti e andare, andare, lungo una corsa forzata di attimi alla fine di un sogno. Perché non parli con me dell’acqua che ti mostro? Appena affiorante sull’acqua è il ponte che ci ospita e tu sei già pago di cielo di verità che come spade ti uccidono? Segui la tua barca, anche se di carta uomo tranquillo sul greto che si sfalda.

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Rovisti le tue tasche, quali mappe, quali città cerchi? O forse solo una cara lettera inviata mesi fa e ritornata al mittente con evidente mistero?

(19 giugno 1985)

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VII Questa vecchia casa con i suoi spazi e specie con gli oggetti sbagliati ha un calore materno ingenuo e antico che non ricordavo da anni. Il ritratto di mio padre da vecchio sembra stia lì da sempre in una fissità speciale ma vera. Se mi affaccio alla porta e spio l’interno non ho angoscia ma pietà delle cose e provo quasi una chiara indifferenza. Cosa è cambiato, Friedrich, nella mia coscienza? Eppure so che quest’impalpabile inerzia come tutto ciò che si muove appena è una tattica riservata dal dolore di sentirsi esclusi per sempre dal passato. Ti scrivo, dunque, in un tempo più banale, più mobile, adatto alla demolizione degli ultimi sassi scivolati tra le dita.

(10 luglio 1985)

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VIII Belle le gite con Ruth Schach, mi dici. L’orlo dei laghi è libero e fermo come l’aquilone rosso dipinto da Franz nel cielo commosso della campagna di Bathweg. Ti invidio, amico mio, come non mai finora per i tuoi slanci nel mondo degli uomini per quel tuo senso sottile del viaggio che a me tanto costa nutrire. Di cosa ti parla Ruth nella barca che va sulle onde verdi e silenziose dell’Oderwasser? Vi vedo, sai, così amorosamente legati da parere una tela molle di Manet deposta su un vassoio trasparente.

(10 luglio 1985)

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IX Tutti questi anni abbiamo atteso insieme cauti e pigri, di conoscere la verità. Ricordo che cenavamo da Heinz Friedmann e giocavamo a vari progetti ed ipotesi per lo più irreali, tenuti con la tela di un ragno. Eravamo giovani allora e non avevamo esperienza del caso di come una carta o un ramo spinto sul balcone dal vento potessero così profondamente illuderci sulla presenza di un fenomeno. Tutto sembra mutato, eppure fermo in questa stagione a forma di spirale dove gli spazi e i tempi hanno fine e inizio per una naturale oscillazione. È spaventoso, Friedrich, come il passato si sovrapponga al presente come le carte del solitario e lasci, dunque, parti nascoste, partite aperte.

(17-18 luglio 1985)

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X Ho tentato di passare in rassegna questi nostri dieci anni di corrispondenza. Ad ogni lettera ridò una data un segno di passata presenza. Una gioia tranquilla spinge la mano a spiegare i messaggi, a riaprire la verità su di un’epoca quasi dimenticata. Leggère, come se non ci appartenessero, riappaiono le filigrane dei rapporti i moti che tendevano solo al dubbio le sfere deformate di una condizione inattuata. Sapessi, Friedrich, come preferirei sorprendermi ad improvvise rivelazioni di un inchiostro simpatico tornato alla luce per un gioco di chimiche o per una forzata allucinazione grafica! Ho notato l’intervallo del quattro febbraio il salto di notizie nella cronaca divenuta, poi, martellante fino alla schizofrenia. Cosa è successo in questo giorno banale da farlo temere come le idi di marzo? Ho riflettuto su questo vuoto malgrado le parole riprendessero il loro flusso e mi rendessero impotente (ho rinunciato, infatti, a una risposta). Ora, il disordine di quelle carte riaperte simula una storia dispersa

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un riavvolgersi di eventi attorno a un centro immobile forse la luce di Venere o di Sirio mentre il pendolo svincola le ore dell’alba. Cordiali saluti, Friedrich!

(25-28 luglio 1985)

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XI Il dottor Weiss viene e va da una vecchia poltrona. Mi tiene il polso, mi ausculta e aggrotta la fronte non è mai stanco di indagare. Ha capelli bianchi alle tempie e alle basette si muove con calma, ogni tanto passa la mano nelle tasche alla ricerca d’un orologio. Deciso, chiede di fare due passi nel giardino camminare forse lo aiuta a rintracciare la via che lo condurrà alla diagnosi. Parla, il dottor Weiss, con accento viennese e affronta la solitudine come una qualunque parola del suo lessico medico. Sentiamo le voci bianche della Waldkirche carezzare le pietre del sentiero mentre una farfalla si ferma sulle begonie. Dico a Weiss che quel canto conserva per me lo strano potere di schiacciarmi in un languido oblìo e di farmi toccare una piatta angoscia. La causa è ignota, ma tutto questo deve avere una qualche associazione col nulla.

(28 luglio 1985)

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XII Ero di nuovo col dottor Weiss e guardavamo la gente che passava. Difficile rendersi conto di tante epoche scampate al totale arresto del tempo. Erano gli stessi che avevamo conosciuto molti anni prima? Com’erano stati i luoghi della loro giovinezza? Venivano con passi quieti, con voci sommesse e spiavano con grandi occhi rossi attraverso un filo spinato. Vedevo Weiss cercare conforto dietro i vetri aggrapparsi quasi alle tende che non bastavano. Potevamo noi, così soli in una stanza, capire il dolore degli altri i loro corpi portati da un forte vento? La tempesta, improvvisa, ci aveva reso confusi e la luce opaca riflettendosi fredda sui muri di quella nostra città così amata staccava immagini gialle ma precise. Dov’eri, Friedrich, dov’eri con la tua voce sicura a parlare di belle donne sfrenate nel can can? Un’intera serie di eventi, una totale delusione avevano rotto le ipotesi del futuro. Anche la scienza di Weiss era fallita.

(31 luglio -12 agosto 1985)

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XIII Ora i miti, Friedrich, così puri e disperati ci riportano ad un’età vergine, senza domande. Il martello del fabbro forgia la speranza rossa di ferro mentre gusto il caffé al Beistand. Cosa può dirmi quel richiamo nel sonno del piacere? C’è un filo che lega e un altro che scioglie i tempi in questa piccola tazza e li riannoda muto dietro le case con la fantasia sicura di una ricamatrice. Io bevo, Friedrich, ed ascolto il martello che batte con echi forti nell’acqua.

(17 novembre 1985)

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XIV Cari Lefebvre e Mac Intosh mi scrivete chiedendo di Friedrich e del suo indirizzo introvabile nell’occasione obbligata del Natale. Lo so, il sapore dell’infanzia sparso sui dolci restituisce le amicizie lontane e la neve indolente congela il tempo. Voi cercate Friedrich e con lui la memoria di una gioia veramente piena vissuta tra Parigi e Heidelberg. Mai spenta, no, dopo di allora malgrado le corrose nostalgie le delusioni e i compromessi degli adulti. D’accordo, scriverò a Friedrich per dire del vostro dispiacere della vostra ingiusta sofferenza per non aver rivissuto il dono delle origini le prime parole dette in un mondo ignoto. Prendete ugualmente le candele e accendetele intonate lo “Stille Nacht” e che almeno i vostri cuori siano salvi.

(23 dicembre 1985)

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XV Il massimo che spero da me stesso è un momento o movimento qualsiasi colto in tutta la sua effimera verità. Metti ad esempio le rughe di Herbert l’espressione del volto quando parla i dubbi sulla felicità che non mostra il lieve tremito delle labbra. Cosa occorre per alzare il sipario e rivelare i violini che suona languido su una scena di carta velina? Ma non voglio infierire su Herbert sulla sua stupida privacy sui suoi sogni senza logica. Siamo tutti qui all’incrocio del caso esposti ad una parziale rivoluzione esile come un fischio o un campanello.

(25 dicembre 1985)

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XVI La valle del Neckar così splendida di nebbia mi spinge a ritrovare le cose nel deposito i viali, i voli, le volontà disperse. Io non so se esiste ancora nel fondo qualche lama di luce che ci avvince al passato il battito lento di una primavera il canto di Omero che si alza tra le rovine. Attendo, amico mio, che l’orgoglio di questa età s’acquieti in un mosaico di voci come fa il sacro organo di Meister Liebenkraft. Allora, solo allora sarà chiara la memoria l’oscuro sovrapporsi degli strati l’errare molteplice dell’anima tra le linfe e le radici della nostra terra. Nulla è più gradito del frutto che cogliamo con pazienza.

(21 gennaio 1986)

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XVII Le immagini ovali dei nostri avi disposte nella terza sala della casa di Bergen ci guidano lungo gli anni che abbiamo attraversato con sguardo dolce e fermo come se bambini aspettassimo l’indizio che segnerà la via più certa. Togliamo la polvere dalle cornici passiamo la mano sui volti, sulle stoffe e parliamo senza fretta, rispettando i silenzi. Su queste carni di carta grigia scivoliamo nel nostro tempo più vero su un’acqua baciata da musiche sottili in una liberazione folle di emozioni murate. Siamo finalmente nel nostro passato nell’arca delle misteriose presenze, Friedrich!

(5 febbraio 1986)

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XVIII Questo è ciò che resterà la parola, la voce, il riflesso di un’anima il chiudersi degli occhi nella loro ultima alba. Sarà disciolta l’ira nell’acqua del Neckar che fredda scivola come una lingua di ghiaccio. Dovremo abbandonare Heidelberg l’intreccio degli eventi, i nodi irrisolti le ferite che bruciano in ogni cuore umano. Che cosa resterà di tanti intervalli mescolati alla fretta dell’azione allo spasmo dei muscoli che si tendono fino a cieli disumani e precipitano su una terra così scabra? La nostra voce durerà finché ci sarà musica finché ci sarà morbida forma legata al filo d’erba.

(13 febbraio 1986)

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XIX München Stuttgart Köln tra piane infinite e calve colline supero d’un tratto lo Stillesee il centro dell’anima, l’Oberwasser. Landa dopo landa osservo le luci trasmutanti i colori diafani dello Steinberg i borghi lontani dalla voce sottile. Quale terra ci accoglierà, Friedrich, quale misterioso futuro avrà pietà di noi dopo un viaggio così terribilmente pieno di desideri? Abbiamo lasciato la cara Heidelberg le chiacchiere della signora Kroll gli amori effimeri delle farfalle le bugie su eventuali destinazioni - vedo sempre incroci, svolte per ogni minimo percorso che dobbiamo intraprendere -. Cara città che devo lasciare rimpiangendo anche i tuoi torti i tuoi risvegli impastati di sonno la tua pioggia ingiusta in una sera di festa. München Stuttgart Köln scoperta di nuove musiche di nuove acque in fondi sottosuoli dai vetri scorgo con ignoti compagni le forme della prossima stazione. (19 febbraio 1986)

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XX Grazie degli auguri, mein lieb. Li estenderò a Karl e a Bertha così solleciti nei tuoi riguardi. Andremo in chiesa, alla Waldkirche tra i fiori che splendono, finalmente. Gusteremo il sole nell’ampio parco dello Steinberg tra gotiche cime di faggi e di abeti e rideremo del signor Friedmann e delle sue cene a lume di candela. Qui finisce la neve, dove una brezza mediterranea ci stordisce nella sua delicata carezza e noi sentiamo ammutiti il fiato della vita.

(27-28 marzo 1986)

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XXI Mi sono svegliato stamattina alle quattro, poi alle cinque e alle sei avvolto ancora nei sogni al confine che divide la luce dal buio. Svelavo tra le palpebre idee inattese orologi crudeli padroni del loro silenzio oggetti vicinissimi nel rapido dissolversi. E più e più aprivo gli occhi su quell’ambigua tortura su quelle mani gialle appena distinguibili. Quale giorno era sorto? Quale ora portava pietosa il mio involucro di carne calda delicata? Gettato nel mondo capivo il male affondavo pieno nell’amalgama nella roccia refrattaria fino alle viscere scivolose del dubbio. Così anche la memoria si apriva con un abbraccio senza sosta come una sirena trasparente si apriva come il dito che cerca nella sabbia la domanda sul mare, le rovine del tempo, le ossa. Eri tu, tu Friedrich, e tu Ruth, e tutti, tutti nuotanti nel fiume visi fragili, occhi, unghie rosse, e tu Hugo, amico perso, partito... (19 aprile 1986)

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XXII Vuoi notizie sul mio lavoro sulle crepe che si aggiungono alla mia terra aperta così simile a un paesaggio assetato. Non ho notizie ma conferme su di un tempo che non si elude e non si evolve fermo a un suo fiore ingiallito. Restiamo tra le architetture soli in mezzo alle piazze che si muovono con gli appunti pronti alle linee trasmutanti di questa città bella e aliena. Quello che mi angoscia, Friedrich, è il sonno che annulla i fenomeni in uno spettacolo osceno di fantasmi e preferisce il salto sulle stelle all’incerto vagare sulla terra. (24 maggio 1986)

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XXIII Un canto effimero di chiesa viene dalla Bergenstrasse e le campane l’accompagnano liete. È un canto che sale al tramonto nell’ora che lega gli uomini al sacro all’origine ineffabile e più fonda. Vi è una brezza speciale che spira tra le case un richiamo segreto della natura alle sue creature quasi l’annuncio di una nuova storia che riscatta i corpi pesanti e gli impazziti atomi della materia nella contorta fame dei fenomeni. Solo nel cielo senza est né ovest vedo una ragione per ricominciare a vivere per ritentare un viaggio che annega nei flussi del tempo.

(25 maggio 1986)

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XXIV Potessimo esser ciechi, Friedrich, e così scendere nel fondo ultimo della visione! In questo buio immobile, indistinto potremmo cogliere le parole e gli atti che hanno formato questa vita simile al vapore il non detto il non visto o l’immota cellula. Ebbri di festa, nel contatto della pelle e degli occhi, potremo perderci nella folla tra le brezze di tutti i cieli senza che nessuno possa dire: Qui abita il tempo.

(2 giugno 1986)

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XXV La malattia di cui ti parlavo è ancora qui, al centro della mia umile vita. Essa consiste in un lento schiacciarsi del tempo sulla superficie dell’acqua nella prigione inesorabile che spinge al doloroso desiderio della fuga. È una malattia antica e tenace che mi culla nei fantasmi del sonno e che mi dà la libertà assurda di scontare le colpe del mondo. Vivo e m’accorgo che il corpo è simile a una città che si consuma di passi e di ruote e raccoglie la polvere e le rughe dei volti che hanno assaporato gli incontri sulla Kurfürstendamm. Sì, proprio a Berlino.

(3 giugno 1986)

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XXVI Ti mando un pacco di traduzioni da Rousseau e Stendhal. Capirai il perché della spedizione a lettura ultimata. Non chiedere perciò anticipi sull’anima degli autori e sulla verità irrefutabile di quei testi. Citerai certo Agostino e non importa se cadrai in questa tentazione. L’importante è riflettere sulle linee parallele della vita sulla certezza della nascita e su come uscire dopo la festa dalla folla.

(10 giugno 1986)

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XXVII Visto che l’estate è più calda quest’anno mi sono allontanato verso Charlottenburg. Era una rara mattina di maggio quando si partecipa con gioia agli eventi più piccoli del creato. Nelle voci ascoltate e nei colori visti amavo me stesso di una forza leggera e profonda, ingenua come la mia vita. Ogni desiderio, ogni passione era calma. E me ne andavo tra i bambini con la più totale immersione nelle loro corse senza avvedermi del tempo. E poi giacevo nel lago della stanchezza.

(23 giugno 1986)

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XXVIII Per noi ormai così legati alla terra i sensi più liberi e le passioni stremate corrono al gioco delle onde e forse a quel mare da cui siamo nati. Attraverso la superficie dell’acqua abbiamo appreso il limite infinito dell’essere e il posto minuscolo che ci spetta le prime parole e i discorsi invisibili nell’aria. Qui abbiamo misurato la forza dei desideri e l’ambiguo colore del cristallo il vento che annega le passioni e il lampo che fa balenare il mistero. Ci teneva la mano possente della natura lo slancio vitale e la libertà di nuove forme di memoria. Non c’erano volti né corpi in quella totale indistinzione di luglio. Tutto avrebbe potuto cominciare e finire rinchiudersi e aprirsi illimitatamente in un tempo lungo senza fretta.

(11-18 luglio 1986)

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XXIX Aveva una voce dolce e un cappellino rosso Katherine e occhi appena ombrati da un sentimento nascente. Non so da quali impulsi uscivano i gesti e le mani che si davano liete a tocchi ripetuti e strette ferme. Era questo forse l’amore questo conoscersi lieve e malinconico di corpi vaghi in una stessa solitudine? Incerti, con le pupille sgombre del mondo, camminavamo in una nostra alba affacciati al giorno che ormai splendeva di desideri e di annunci di battaglie. Come era esile, Katherine, uguale a un sogno che lampeggia dalle tenebre e ha colori lontani, svaporati.

(19-25 luglio 1986)

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XXX Ora ricordo la signora Eisleben intenta ad annusare il sottile vento di settembre. Aveva una giovane carne e occhi capaci di impensati intrecci prospettici fissava una aiuola fiorita di rose. Dentro aveva coltelli infitti nel cuore navi che salutavano moli affogati nel mare onde che risalivano nella marea dei ricordi. Aveva un incedere scelto la signora Eisleben così colma di solitudine e d’odio così sicura di conoscere i pesi della sua bilancia. Scomparve un giorno di marzo e si educò a una terrestre prigione di atti ripetuti.

(25-26 luglio 1986)

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XXXI Oltre la vita non c’è nulla solo un manto d’erba grigia dove l’acqua ristagna. Non c’è tepore che sciolga il corpo e lo liberi fiducioso nei sentieri. Non c’è freddo o luce dopo la vita solo un tappeto di foglie e il sibilo invisibile del vento in un’aria qualunque di febbraio. Dov’è, dov’è la Friedenstrasse quella gaia trottola di uomini e donne con le bocche piene di slancio e la scintilla degli occhi che si cercano nella danza rituale degli sguardi? Oltre la vita, oltre queste creature non c’è più l’amore che lega né l’amicizia che alimenta il futuro ma tutto è già un istante consumato un gioco smesso e senza più regole. Vedo questo buio, Friedrich, infinito come un cielo carico di neve che domina con gli spessi vapori un paesaggio di camini smemorati. È qui l’ultima parte del viaggio, dopo l’ultimo ponte qui la fine di ogni passione di ogni luce ambigua di ragione parziale e stremata o colta in volo. Ed è qui la fine del dolore

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anche di quello crudele dei malati che guardano l’alba immobili nel letto ed hanno per cielo una camera gialla. È questa la doppia notte, Friedrich, questa che ha ali di avvoltoio e vuoto totale negli artigli né più sangue o candela o finestra o tèndine teso.

(3 settembre 1986)

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XXXII Cosa ci fu dopo quel primo ritmo dopo quell’onda che svolgeva i tempi e li copriva di altissime grida? Cosa avvenne in quel corpo minimo legato alla terra con fili semplici libero nella radice e nel fiore? Ancora oggi me lo chiedo ora che i tempi hanno mura come castelli a guardia di confini e le ore scorrono in una ripetizione illusoria. Ripenso perciò a quel primo orologio che mi regalò il grembo di mia madre al battito del cuore fiducioso in un mondo di liquidi veli di immagini curve e transitanti per le vie dei sogni. Cerca tra le infinite ossa degli uomini tra le pietre scarne d’un rude paesaggio le sfere primitive che ti diedero moto accetta gli angoli che feriscono gli occhi e lotta nella piazza per la merce. Così mi dico, Friedrich, e già mi volgo a nuovi aromi di sostanze invisibili a sguardi d’amore che annullano il tempo.

(12 settembre 1986)

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XXXIII Buona sera, signora Schwarzengel, non rifiuti un lieve bacio sulla mano. Settembre avanza, è vero e il sole coglie d’una luce già cruda le cose. Scivoliamo verso una stagione ignota della nostra vita in un lago di voci che ci chiamano con metallica eco. Guardi, guardi, signora Schwarzengel come camminano lieti i nostri amici più cari come ridono e guardano con occhi stupiti! Un’intera generazione si muove con gli stessi passi che furono nostri con la stessa magnetica attrazione per un futuro gioioso. Ah, signora Schwarzengel, come vorrei avere in comune con lei la speranza e stringerle la mano sottile che racchiude il suo cuore! Finirà settembre? Finirà, finirà e noi avremo più giorni da portare al vecchio deposito della Fernplatz.

(15 settembre 1986)

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XXXIV C’è in lei, signora Schwarzengel, uno strano ago magnetico che io vorrei seguire verso non so quale stella o luce nascente. Lei ha un volto chiaro tra un lago nero di occhi e di capelli e la sua anima si annuncia per fili finissimi. Sono felice che lei esista, signora Schwarzengel! La vedo turbata per i suoi errori per quell’amore tagliato in due da una spada mentre si innalzava rapido nella sua solitudine. Ritorni alla sua vita migliore piena di scoperte e di forme ritorni alla vita, meine kleine Schwarzengel.

(17 settembre 1986)

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XXXV Nel profondo specchio dell’infanzia ho rivisto i colori riflessi di un’immagine tenera. Intuivo l’acqua sonora del mare e in essa si svolgevano i singoli istanti di un’ora. Proprio qui, al centro della visione, un punto scuro nella luce solare vinceva l’infinita possibilità delle forme e si moveva, come tutti i fenomeni che vivono. Poteva dirsi questo l’inizio distinto della felicità? Quelle prime molecole di vita facevano corpo oltre l’ebbra apparenza delle linee. Si staccavano così dal cielo i miraggi tutto si moveva e si mutava come un arco teso che vibra di ferite.

(26 novembre 1986)

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XXXVI È mia grande ambizione mantenere in vita questo nostro discorso lasciando al vuoto la sua fame insaziabile. Gli atti, i sensi, le visioni restano in un mondo muto cancellato dalla ruota dei giorni. Si edificano sull’acqua le ore nulla è più certo del tramonto. Ma io ti parlo, Friedrich, io ti dico che non diventeremo l’aria della Svevia che dà abbracci invisibili e neanche l’acqua di Heidelberg che scivola fredda verso la foce. Noi vivremo, Friedrich, vivremo malgrado l’ignoranza dell’uomo e la durezza della pietra che veglierà invano le nostre ossa.

(18 novembre - 9 dicembre 1986)

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XXXVII I suoi occhi non sono più quelli di prima, mia amata Schwarzengel. Dicembre è già sceso nelle vene e dissangua gli ultimi sguardi avvolto nel lutto delle nebbie. Qui, sulla Schmerzallee, intono tra i denti la canzone antica di mio nonno prima di ogni viaggio. Lascio che tutto ritorni all’inizio senza passione e senza gioia.

(9 dicembre 1986)

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XXXVIII Ho fatto, infine, quel viaggio di cui tanto temevi la cronaca. Ero partito con totale ignoranza delle mappe fidando solo nell’inconscio girare delle ruote. Quante volte mi ero staccato da quel luogo e mi ero perso tra le strade e le piazze della città che non amavo? All’inizio era stato un ingenuo cammino un farsi e disfarsi di foglie senza memoria di particolari linfe. Il dolce vuoto che mi nutriva era simile al seno materno morbido e latteo come certe opache albe sullo Stillesee. Non mi movevo ma nodi inestricabili mi legavano all’assurdo alimento di immagini di marmo dure e ferme. Finché venne la festa la gioia e l’illusione di sciogliere le maschere e denudare in tutto i desideri. Ero lì padrone dell’acqua di ogni specchio e voce riflessi nei corpi spogli. L’albero della festa si apriva come un ventaglio riportava infanzie e antiche collane la doppia essenza del mondo.

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Così mi univo ai canti, ai fuochi, alle fanfare... Il varco si era aperto in quel corpo materno che oggi rifiuta la legge articolo per articolo.

(9-10 dicembre 1986)

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XXXIX Miss Byrd, l’amica di cui ti ho detto ha qualcosa in comune coi poliedri. È stata più volte dal dottor Weiss ma ha rifiutato ogni diagnosi. Ella soffre di una discreta malinconia che la fa pari a un novembre lento disceso in silenzio sulla Schmerzallee. Gioca con i cuscini del salotto ascolta Mozart e Chopin corre ad un mare avaro d’acqua. Non sa di essere in un’isola con la carne del padre e della madre vestita solo di occhi che la chiudono in un orizzonte di latte. Quando impreca contro il mondo la vedo più vera, sicuramente infelice ma non so condannarla. Non si giudica un disperato urlo tra i muri o il vento che incalza sulla foglia! Miss Byrd ripassa la storia armi amori e cavalieri corni e volpi vaghi nella selva. Dove va, miss Byrd? Le dico. Ad un tramonto o ad un’alba, non so, risponde con parole di sibilla. Non sa, dunque, se il giorno è già alto. (10 dicembre 1986)

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XL Cosa potrò dire all’amico Svoboda fuggiasco dal suo paese nevoso? Sono impotente di fronte alle scelte e gli potrò garantire solo una pia consolazione che non colora certo mattini invernali. Egli ama aggirarsi tra i vapori del vicino stagno dove può studiare gli effetti della dissoluzione e qualche macchia o spuma di memoria. Quando piove, Svoboda guarda e ascolta le gocce che cadono per caso in un punto prese in una luce opaca. Non risponde alle domande che faccio e allunga una mano per salutare il cielo (ma forse la sua è solo sete). Come vorrei avere io una tristezza così seria un dolore così sicuro tanto da credere che il mondo sia solo una ferita senza scopo.

(30 dicembre 1986)

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XLI La nostra epoca, Friedrich, ha avuto date quasi definitive radici sepolte per sempre statue inutili. Il tempo non ci ha permesso di crescere tanto da darci le più grige malattie la nostalgia e la disperazione. Acqua eravamo e acqua siamo con totale indifferenza delle pietre che ci guardano con occhi eterni. Non siamo mai stati qui non abbiamo vissuto nelle cose né abbiamo scoperto il vero cuore dell’uomo.

(gennaio 1987)

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XLII Ho saputo dell’ultimo viaggio di Aschenbach. Venezia ha un’aria strana in questa stagione col suo lido arabo pieno di signore velate. I ragazzi corrono senza sosta sulla riva il mare è calmo e smemorato. Che cosa cerca Aschenbach a Venezia? Credo che abbia bisogno della vita della forma reale della sua arte. Si accorge che il mistero comincia dai sensi che lo spirito predilige le vie carnali del corpo. Il banale, Aschenbach, il banale! Può guarire l’angoscia della perfezione l’illusione di attingere la divinità. Sei morto, dunque, sul lido arabo di Venezia mentre lo scirocco ti asciugava il cuore e tu immerso nella sabbia immensa di quella clessidra ritornavi al primo moto che avevi fatto nel mondo.

(6 marzo 1987)

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XLIII Finalmente a Kenton Place. L’aria di Heidelberg mi aveva viziato e più volte sorpreso nella sua opaca lattigine. Anche Miss Byrd, qui, è lontana e mi appare quasi serena forse fissata ad una foto perpetua. A Kenton Place ho bisogno solo dei miei occhi e del minimo sforzo delle ali per salire al culmine dello sguardo. Di qui vedo la piazza libera dell’infanzia le cento strade che il passo può svolgere ignaro di curve e di brecce rischiose. Di qui vedo nuove strade che il tempo ha dato quella che chiamano tutti Monday Street perché ridona la vita, dicono, senza segnali che confondono il passante. Kenton Place, Kenton Place… Mai avrei osato vedere quella strada quelle morbide braccia che rinfrescano il corpo e lo riplasmano come una creta obbediente.

(19 agosto 1987)

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XLIV Ti scrivo, Charles, dalla città che tu ami su tutte. Ogni città cambia, mi dici. Sarà vero? Cammino, sans souci, lungo le assorte rive della Senna e mi mescolo all’aria zuccherina d’un organino. Come vedo chiaro, Charles, nell’acqua dei miei occhi che riflettono le linee morbide dei palazzi e i lunghi viali che si tendono lontani. È una città dove batte un cuore vero. Qui gli orologi non hanno paura di scorrere e il richiamo del cielo è naturale almeno quanto la voglia infantile di salire sugli alberi.

(21-22 agosto 1987)

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XLV Un biglietto mi annuncia che parte, mia cara Schwarzengel. Cosa porterà chiuso nella sua valigia? Ha notato che il tempo ci strappa un altro settembre e ci invita a un inverno non più mite degli anni passati? Mentre la stagione va sento che un vento leggero risìllaba le voci sparse sui viali e canta l’amore infantile della libertà. È un moto che non ha altre scelte e pure nasconde la sua vana natura di leopardo affamato. Lei parte, lei deve partire, mia cara Schwarzengel. Ha mai pensato cos’è un viaggio questo allontanarsi dalla propria carne? Ha mai riflettuto sulle distanze che per un gioco dello spazio curvo producono braccia che assaltano vetri e gettano ancore in mari profondi? Nessuno può rinunciare a passare il ponte e a guardare la città da un altrove che chiude in un cerchio le proprie strade. Da quel punto è più facile usare lo specchio e riavere i margini e i sensi che hanno animato la nostra esile ombra. Buon viaggio, mia cara Schwarzengel, che le sue luci siano anche le mie.

(settembre 1987)

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XLVI Viaggio, caro Friedrich, sempre più viaggio all’interno delle mie terre. Non sono mai pago di ritrovare le stesse pietre, le stesse acque, le stesse foglie cadute anno dopo anno nello stesso punto. Vado su e giù per le mie terre visito le case ad una ad una alla ricerca del fiume. Perché dovrei allontanarmi nel mondo cercare altrove le cose che mi appartengono? Quando sono a Seeländorf può accadere che fissi per ore l’orologio della sala di Rhem che ha il potere del pendolo ossessivo. Mentre oscilla, cerco intorno una vita negli oggetti mi pare che la stanza muova il suo alito e si disponga a parlarmi coi suoi legni attraverso le venature delle pareti i bagliori del sole sugli specchi. Sospetto che tutto questo sia un gioco di associazioni mentali di sensazioni espresse con proiezioni magiche piuttosto che vero magnetismo esercitato da un serio stregone.

(24 febbraio 1988)

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XLVII Quando varco le colline di Hermannstadt sento di avere a compagna la pura natura. Rivedo la quercia di Glasenhost mentre i raggi del sole bucano le tre o quattro nubi sempre vagabonde. Forse è buona la pietra che calpesto e gli uccelli che temono la gravità della terra ogni cosa che incontro ogni rapido frullo o fruscìo. Vado così senza passato verso le acque del fiume e guardo attentamente i riflessi di ogni singola onda. Da essa può trasparire il sintomo di un attimo eterno o l’insensata corsa degli orologi all’ultima foce.

(30 agosto 1988)

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XLVIII 1. Oggi ripenso a Kris Berthal All’epoca mite dell’adolescenza al dancing, shake, underground. Mi commuovo ancora a quel je t’aime a quell’agosto che ci lasciò scegliere tutti gli dèi che volemmo e si richiuse nei suoi soliti sensi. 2. Kris Berthal ha un nido lassù sulle rocce estreme dello Haeckel. Ha visto molti fiumi da quelle cime correnti smaniose di una foce. Anche lei ha viaggiato molto ha gustato il piacere di mondi estranei sempre avendo fisso il suo ponte. 3. Ho conosciuto miss Berthal ad un bivio senza indicazioni. Agosto era lento, opaco come sfuggito al suo caldo smemorato. Mi ero accorto che Berthal correva ad un mondo diverso fatto di passi aderenti alla terra di scacchi già provati nel gioco.

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Amavo, dunque, Kris Berthal. 4. Arrivederci, miss Berthal, è passato qualche anno e abbiamo corso, abbiamo corso. Gli asfodeli si schiudono non abbiamo voglia di contarli.

(6-28 marzo 1989)

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XLIX Scala dopo scala ho risalito le epoche che furono di mia madre i pensieri, gli affetti, le cose della sua giovinezza. Ho rivisto il paese adagiato sullo Stillesee il passo sicuro del sole all’inizio del giorno i pescatori lenti con le barche sull’acqua la navigazione sacra delle onde verso il confine della terra. Qui sono nati gli occhi che videro l’inizio del tempo il primo farsi delle forme nel liquido caso delle spume. Da questa terra di mercanti e marinai ho riportato il grano di sale che mi fa esperto di queste poche pietre. Forse mi basta sapere che vengo dall’acqua e all’acqua ritornerò.

(23-27 marzo 1989)

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NOTE SULL’AUTORE

Sergio D’Amaro collabora a varie riviste e al quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ha scritto saggi storico-letterari, libri di poesia, inchieste e racconti ispirati ai “vinti” del Sud. Suoi testi sono inseriti in antologie anche all’estero. È autore, con Gigliola De Donato,

della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud (Baldini Castoldi Dalai 20052). Tra i suoi titoli: Il ponte di Heidelberg (1990), Beatles (2004), Terra dei passati destini (2005), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th Century Vox (2009), Romanzo meridionale (2010). È promotore e corresponsabile di due centri studio sulla storia e la letteratura delle migrazioni, per i quali dirige la rivista “Frontiere”.

GIUDIZI CRITICI SULLE OPERE POETICHE Storie Letterarie

G. Custodero, Puglia letteraria del ‘900, Ravenna, Longo, 1982 M. Dell’Aquila, Parnaso di Puglia nel ‘900, Bari, Adda, 1983 E. Catalano (a cura di), Letteratura del Novecento in Puglia, Bari, Progedit, 2009 D.M. Pegorari, Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Bergamo, Moretti e Vitali, 2009

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D.M. Pegorari, Les Barisiens. Letteratura di una capitale di periferia 1850-2010, Bari, Stilo, 2010

Riferimenti generali

V. Curci, La poesia in Puglia. Anni ‘80 e sesta generazione, “Bosco delle Noci”, ottobre 1986 P. Perilli, Lo stoicismo degli antologisti. In margine a Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008 di Daniele Maria Pegorari, “Gradiva”, 37-38, Spring-Fall 2010 Il ponte di Heidelberg (Tracce, 1990)

S. Naglia (risv. cop.) E. Bagnato, “La Vallisa”, 27, dicembre 1990 C. Siani “L’Indice dei libri”, 3, marzo 1991 e “Il cittadino”, 13, 4 ottobre 1991 A., “Tarsia”, 13-14, aprile 1994 G. De Donato, “La Vallisa”, XIX, 56-57, agosto-dicembre 2000 e “Oggi e domani”, XXVIII, 11-12, novembre-dicembre 2000

Altri giudizi sono stati espressi, per lettera privata, da Michele Dell’Aquila, Valerio Magrelli, Jean-Jacques Marchand, Sebastiano Martelli, Denis Montebello, Jean-Baptiste Para, Paolo Ruffilli, Joseph Tusiani. Ne hanno trattato in scritti e saggi inediti Maria Marcone, Luigi Paglia, E. Giannini e G. Brandone.

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La scala di Beaufort (autoed. 1999)

R. Vescera, “Protagonisti”, 27 febbraio 1999 E. Ciccarelli, “Viveur”, 15 aprile 1999 E. Celiberti, “Incroci”, 1, 2000 C. Siani, “Protagonisti”, 9, 11 marzo 2000 S. Ritrovato, “Periferie”, ottobre-dicembre 2000 Beatles (caramanica, 2004)

M. Bettarini, (risv. di copertina) E. Fraccacreta, “Il Provinciale”, XVI, 3, marzo 2004 F. Giuliani, “La Grande Provincia”, 27 aprile 2004 M. Marcone, “Puglia”, 11 maggio 2004 C. Siani, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 4 settembre 2004 e “L’indice dei libri”, 12, dicembre 2004 N. M. Spagnoli, “Raro”, 159, ottobre 2004 D. M. Pegorari, “L’immaginazione”, 209, novembre-dicembre 2004 S. Ritrovato, “Pelagos”, VIII, 10, 2004 L. P. Aucello, “Nuova Puglia Emigrazione”, 8, 6, novembre-dicembre 2004 C. de Vincentiis, (saggio) All’insegna del Cinghiale ferito, 2004 P. Perilli, “Gradiva”, 27-28, Spring and Fall 2005 A., “Jazzinlamis”, 2005 E. Catalano, saggio introduttivo a La letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009

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Fotografie e altre istantanee (sentieri meridiani, 2008)

S. Ritrovato, Postfazione a Fotografie e altre istantanee, Foggia, Sentieri Meridiani, 2008 C. Damiani, Lettera-mail del 29 settembre 2008 F. Simonelli, “Poesia”, 231, XXI, ottobre 2008 R. Di Biasio, “America Oggi”, 8 novembre 2009 E. Catalano, saggio introduttivo a La letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009 C. Siani, “Periferie”, XV, 53, gennaio-marzo 2010. C. Siani, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 aprile 2010 C. Siani, “Poesia”, 257, XXIV, febbraio 2011 20th century vox (carabba, 2009)

F. Giuliani, “L’attacco”, 3 novembre 2009 R. Di Biasio, “America Oggi”, 8 novembre 2009 M. Nardella, “Periferie”, XIV, 52, ottobre-dicembre 2009 C. Siani, “Periferie”, XV, 53, gennaio-marzo 2010 C. Siani, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 aprile 2010 F.S. Mangone, “Smerilliana”, 10, ottobre 2010 Riproduzione testi, “L’Attacco”, 20 novembre 2010 C. Siani, “Poesia”, 257, XXIV, febbraio 2011

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Autoedizioni

• Mater (1998)

• Care Fotografie (2001)

• Fiordacuore (2002)

• Life zoom (2003) E. Lordi, “Dialogo”, V, 13, 4 agosto 2001 E. Lordi, “La mia città”, XII, 8, 30 aprile 2002

Poesie sparse in rivista, edizioni collettive e siti web

• Al di qua del muro, pres. C. Siani, “La Parola del Popolo”, maggio-giugno 1977

• Anatomia dell’inverno, in M. Coco - S. D’Amaro - A. Motta - C. Siani, “Mitoclastìe”, Quaderni del Sud, 1978

• Scala dopo scala / Ritratto della madre morta, “Periferie”, aprile- giugno 1998

• Succo d’arancia, “Specchio - La Stampa” (a c. di M. Cucchi), 4 maggio 2002

• Succo d’arancia - Piccolo cactus - Ingrandimenti, in “Meridiano mediterraneo” a cura di Alberto Cappi, “Incroci”, 5, gennaio-giugno 2002

• Vete, juventud [Vattene, giovinezza], trad. di Emilio Coco, “Cuadernos del matemático”, 2004

• Aquel año…[Quell’anno avevi /20th Century Vox], in “Poesía italiana actuál”, a cura e trad. di E. Coco, “Proa”, Buenos Aires, noviembre-diciembre 2009

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Antologie comprendenti testi poetici

• Le proporzioni poetiche/3, a cura di Domenico Cara, Milano, Laboratorio delle Arti, 1987

• Alientos de luz, a c. di Emilio Coco e Carlos Vitale, Cuenca, El Toro de Barro, 1990

• Melodie della terra, a cura di Plinio Perilli, Milano, Crocetti, 1997

• Puglia (Serricchio, Angiuli, D’Amaro), a cura e con trad. in spagnolo di Martin Andrade, Còrdoba, Edicciones de la Universidad Catòlica de Còrdoba (Argentina), 2005

• Scrittori e Questione Meridionale, a cura di Leonardo Mancino, Bari, Palomar, 2006

• Cartoline dal Gargano, a c. di S. D’A., E. Fraccacreta e S. Ritrovato, Bari, Levante, 2006

• Puglia in versi, a cura di Daniele M. Pegorari, Bari, Gelsorosso, 2009

• Antología de la poesía italiana contempóranea, a cura di Emilio Coco, Monterrey (México), La Cabra Ediciones, 2010

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INDICE

NOTA INTRODUTTIVA dell’autore ................................... 2

POESIE 1990 ............................................................................. 3

I – XLIX ........................................................................... 4 - 60

NOTE SULL’AUTORE ......................................................... 61

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Questo libro elettronico (eBook) è un Libro libero proposto in formato pdf da LaRecherche.it Per contatti: [email protected] Pubblicato nel mese di maggio 2011 sui siti: www.ebook-larecherche.it www.larecherche.it eBook n. 76 A cura di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani [ Senza l’autorizzazione dell’autore, è consentita soltanto la diffusione gratuita dei testi in versione elettronica (non a stampa), purché se ne citino correttamente autore, titolo e sito web di provenienza: www.ebook-larecherche.it ]