FRANCESCA DA RIMINI - RASSEGNA DELLA … · musique serait écrite par M. Cilea, ... A Mascagni non...

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1 FRANCESCA DA RIMINI - RASSEGNA DELLA STAMPA D'EPOCA I. anno 1914 (1-46) (pp.1-108) ----------------------------------------------------------------------------------------- anteprima 1913-14 (1-5) 1 Les nouveautés musicales italiennes, «L’Italie». 28.2.1913 M. d’Annunzio, qui paraît résolu à fournir des livrets d’opéra aux compositeurs éprouvés ou débutants, réussira-t-il à donner plus d’éclat aux productions de la scène lyrique contemporaine? Il faut l’espérer. Parisina de M. Mascagni est terminée; Fedra du maestro Ildebrando de Parme sera donnée bientôt au Costanzi, et m. Riccardo Zandonai achève en ce moment l’orchestration de Francesca da Rimini d’après la tragédie de d’Annunzio. D’après les dernières informations que l’on a à cet égard, les deux premiers actes de l’opéra sont complètement achevés et le troisième est très avancé. L’auteur de Conchita et de Melenis se flatte d’avoir exprimé dans sa partition toute l’ardeur passionnée et tout le drame violent de l’épisode dantesque. Quelques privilégiés qui ont entendu au piano des fragments de l’œuvre assurent qu’elle est fort remarquable et qu’elle justifie les grands espoirs que l’on a fondés sur la brillante carrière du jeune musicien. Prochainement, M. Riccardo Zandonai se rendra à Arcachon, en compagnie de son éditeur N. Tito Ricordi, afin de faire entendre la partition complète au grand écrivain, et de s’entendre avec lui au sujet de quelques modifications très légères d’auteur, à apporter au livret. M. Sem Benelli, de qui le succès semble s’être détourné a songé à tenter la chance dans un genre nouveau. A l’occasion de la célébration du centenaire de Verdi à Gênes, il a proposé au maire de cette ville de composer une sorte de Mystère dont la musique serait écrite par M. Cilea, l’auteur de Adriana Lecouvreur. Cette idée ayant été acceptée, M. Benelli va se mettre à l’œuvre, aussitôt la Gorgona terminée, afin de donner une forme définitive à l’ébauche de poème qu’il a déjà écrite. 2 [NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/15, 10.8.1913 La «Francesca da Rimini» del Zandonai. In un salone del Palace Grand Hôtel a Varese, alla presenza del signor Russel, direttore generale dell’Opera di Boston, e di alcuni musicisti, il maestro Zandonai fece sabato udire per la prima volta la sua nuova opera Francesca da Rimini, composta sulla tragedia di Gabriele D’Annunzio. L’opera, che dovrà essere rappresentata per la prima volta quest’inverno all’Opera di Boston, ha ottenuto un vero successo in questa prima audizione intima. 3 [NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/21, 10.11.1913 La prima della «Francesca da Rimini» del maestro Zandonai pare fissata al 15 febbraio venturo all’Opera House di Boston. Interpreti principali: Lina Cavalieri, il tenore Muratore, direttore il maestro Caplet. Subito dopo la nuova opera andrà in iscena al Regio di Torino con la Tarquini, direttore Panizza. Contrariamente a quanto si diceva, né Zandonai né

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FRANCESCA DA RIMINI - RASSEGNA DELLA STAMPA D'EPOCA

I. anno 1914 (1-46) (pp.1-108)

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anteprima 1913-14 (1-5) 1 Les nouveautés musicales italiennes, «L’Italie». 28.2.1913

M. d’Annunzio, qui paraît résolu à fournir des livrets d’opéra aux compositeurs éprouvés ou débutants, réussira-t-il à donner plus d’éclat aux productions de la scène lyrique contemporaine? Il faut l’espérer. Parisina de M. Mascagni est terminée; Fedra du maestro Ildebrando de Parme sera donnée bientôt au Costanzi, et m. Riccardo Zandonai achève en ce moment l’orchestration de Francesca da Rimini d’après la tragédie de d’Annunzio. D’après les dernières informations que l’on a à cet égard, les deux premiers actes de l’opéra sont complètement achevés et le troisième est très avancé. L’auteur de Conchita et de Melenis se flatte d’avoir exprimé dans sa partition toute l’ardeur passionnée et tout le drame violent de l’épisode dantesque. Quelques privilégiés qui ont entendu au piano des fragments de l’œuvre assurent qu’elle est fort remarquable et qu’elle justifie les grands espoirs que l’on a fondés sur la brillante carrière du jeune musicien. Prochainement, M. Riccardo Zandonai se rendra à Arcachon, en compagnie de son éditeur N. Tito Ricordi, afin de faire entendre la partition complète au grand écrivain, et de s’entendre avec lui au sujet de quelques modifications très légères d’auteur, à apporter au livret. M. Sem Benelli, de qui le succès semble s’être détourné a songé à tenter la chance dans un genre nouveau. A l’occasion de la célébration du centenaire de Verdi à Gênes, il a proposé au maire de cette ville de composer une sorte de Mystère dont la musique serait écrite par M. Cilea, l’auteur de Adriana Lecouvreur. Cette idée ayant été acceptée, M. Benelli va se mettre à l’œuvre, aussitôt la Gorgona terminée, afin de donner une forme définitive à l’ébauche de poème qu’il a déjà écrite. 2 [NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/15, 10.8.1913

La «Francesca da Rimini» del Zandonai. In un salone del Palace Grand Hôtel a Varese, alla presenza del signor Russel, direttore generale dell’Opera di Boston, e di alcuni musicisti, il maestro Zandonai fece sabato udire per la prima volta la sua nuova opera Francesca da Rimini, composta sulla tragedia di Gabriele D’Annunzio. L’opera, che dovrà essere rappresentata per la prima volta quest’inverno all’Opera di Boston, ha ottenuto un vero successo in questa prima audizione intima. 3 [NOVITÀ ANNUNZIATE], «Rassegna contemporanea» VI/21, 10.11.1913

La prima della «Francesca da Rimini» del maestro Zandonai pare fissata al 15 febbraio venturo all’Opera House di Boston. Interpreti principali: Lina Cavalieri, il tenore Muratore, direttore il maestro Caplet. Subito dopo la nuova opera andrà in iscena al Regio di Torino con la Tarquini, direttore Panizza. Contrariamente a quanto si diceva, né Zandonai né

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D’Annunzio assisteranno alla prima rappresentazione di Boston, ma saranno certamente a Torino. 4 [Giorgio Ugolini](*), Conversando con R. Zandonai. Le primizie di “Francesca da Rimini”, «La sveglia democratica» [Pesaro], gennaio 1914

Il libretto di “Conchita” ed altri – Ed Ella, Maestro, può continuare a difendere con fervore da innamorato il libretto di Conchita. Io resto persuaso che difficilmente si possa trovare libretto più inconcludente, più prosaico, più irritante; e la maggioranza dei pubblici è con me. L’unico motivo di discolpa è il titolo: «La donna ed il fantoccio» ma non basta a giustificare la messa in scena di questo argomento degno di poesia e prosa: – il capriccio di una neurastenica., la quale, offesasi con l’innamorato, si rifugia a custodire l’amore e il pudore e a ballar nuda in cabarets osceni, vive per sei mesi con un altro uomo innamorato, caccia via spesso e sguaiatamente il primo, cui comunica da ultimo aver fatto ciò amando e riserbandosi pura. – Ma voi non considerate, mio caro, i bei quadri che mi offre il libretto. La scena della Fabrica, il Baile, ad esempio, la scena della Notte sivigliana. – Ecco il torto. Voi musicisti v’astraete dalla bellezza armonica d’un libretto diciamo così completo, e vi basta innamorarvi d’un quadro, d’un istante, d’un elemento. Ecco il pericolo. Vi potete anche innamorare d’un linguaggio fiorito: altro pericolo, come quello di musicare un libretto che costituisce di per sé un’opera di bellezza. E voi musicisti amplificate perdendo il senso della realtà melodrammatica, la quale ha altre esigenze dell’opera letteraria, naturalmente più particolareggia-ta; e quasi sempre nel caso riducete la musica, per religione alla bellezza, ad un comento. – Ma la perfezione del testo non deve essere ostacolo alla perfezione della musica. Se ammettessimo ciò, dovremmo tornare ai libretti criticati e criticabili; mentre piuttosto, come ho sempre pensato, si deve andare ai grandi, a Shakespeare, per esempio. Io non curo il pericolo; so che dalla fusione armonica di una bella musica e di ottimo libretto si avrebbe l’opera perfetta, anche perché la musica può esprimere ciò che la letteratura non esprime e viceversa. Ed io combatto; cadrò, ma con la visione di quest’opera perfetta. – Ma vedete, Maestro, la bellezza è morgana, anche se bellezza letteraria. Lo sanno i musicisti che vi hanno preceduto. Per attenerci agli ultimi esempi ed al poeta incriminato citerò «La figlia di Jorio» del Franchetti e la recente Parisina di Mascagni. La Parisina intessuta di versi sonori e smaglianti è l’altra sera terminata alla Scala con un successo di stima alle due e mezzo del mattino...

Di «Parisina» e D’Annunzio – Ecco il torto di Mascagni. – Ma come, il torto di Mascagni! Errore d’impostazione semai; perché è notorio come Gabriele d’Annunzio, custode vigile delle sue tragedie, non permetterebbe mutazioni o tagli sostanziali sia pure per una rappresentazione melodrammatica. – Pregiudizio, pregiudizio! A Mascagni non mancò l’assenso del poeta, replicatogli persino telegraficamente pochi giorni prima della rappre-sentazione; mancò l’animo, sia pure innanzi ad opera di bellezza. E questo è il danno principale di Parisina, che dà più rilievo all’altro: la mancanza di collaborazione ideale fra poeta e musicista, fra poesia e musica. Potete voi pensare non senza meraviglia a Pietro Mascagni, che

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ha vivamente espresso se stesso in «Cavalleria Rusticana», a braccio del divo Gabriele, stillante ambrosia ed eleganza? Ed ecco per mancanza di sincerità e sforzo di carattere, la musica spesso ridotta naturalmente a comento non ad entità emotiva. L’impronta regia diffusa in qualche brano purtroppo non basterà forse a salvare un’opera che tiene il pubblico occupato per cinque ore d’orologio... Eravamo giunti per vie traverse al punto desiderato. Noi eravamo presso il maestro Zandonai solo per aver notizie della neonata, di Francesca rivestita di musica sul testo dannunziano. E forse ciascuno di noi aveva nell’animo la prevenzione che il mirabile testo male si prestasse per la sua armonica ma ampia compagine al cimento pericoloso; ed ora il maestro notoriamente chiuso ai dialoghi ed alle interviste, ci veniva incontro nelle vie del pensiero con lo stesso apprezzamento sul pericolo. – Rallegramenti, Maestro. Se siete coerente alle idee espresse, se avrete imposta la musica alla poesia, antesignano voi nei riguardi di D’Annunzio, avrete fatto con fermezza e audacia il primo buon passo. Ma dite: e come vi siete riuscito? – Riuscito? La cosa più semplice del mondo. Accolta l’idea, Tito Ricordi si mise all’opera con tale ardore che tre quarti di «Francesca» risultarono condannati. E quasi non si aveva coraggio di presentare la riduzione a Gabriele D’Annunzio. Chi sa che ira di Dio! pensavamo. Gliela spedimmo. Gabriele D’Annunzio lesse e telegrafò: «Mi auguro sempre al fianco un riduttore che abbia così vivo il senso scenico». E vedrete che, per volontà del poeta, il nome del Ricordi come riduttore apparirà sulla copertina del libretto. – Ciò che Ella, Maestro, mi dice, mi stupisce grandemente ed interessa. Così dunque la mirabile opera è stata ampiamente sfrondata e tagliata e apparirà al pubblico in ben diverso formato? – Sicuro; ecco la tragedia ed ecco il primo atto: vedete.

«Francesca da Rimini» Innanzi a me ed entro le pagine dalla copertina giallognola era la dolce e adultera Francesca, vivente quasi per magia di poeta nel suo vario e ricco mondo medioevale. Ed anche sul tavolo era uno scarso manipolo di fogli a stampa: le bozze dell’atto primo. Sfogliai brevemente cercando a caso novità; novità non v’erano, se non l’annunciata concisione che limita a trentacinque minuti la durata dell’atto. E il dialogo delle donne e del giullare appare giusto preludio all’incesso di Ostasio e del notaio «Ser Toldo». (È questa una macchietta così caratteristica che non si poteva escluderla, notava lo Zandonai). Scompaiono le considerazioni storiche e famigliari estranee al procedere della tragedia; e scompaiono purtroppo per dura necessità brani di poesia meravigliosa. Come deve aver penato la mano che segnò il rigo attraverso frasi come queste:

Oh, ch’Ella vale un regno! Com’è bella! Non v’è spada che sia diritta quanto lo sguardo dei suoi occhi, s’ella guarda. Ella mi chiese ieri· «A chi mi date voi?» Quand’Ella cammina...

Ella mi chiese ieri: «A chi mi date voi?» Chi la vedrà morire?

Ed ecco una novità, o meglio un particolare degno di menzione. Bannino, il bastardo «troppo dal padre careggiato» scompare. La fosca decisione d’Ostasio e del notaro è seguita dall’apparizione di Francesca; ed un

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breve dialogo con Smaragdi ed il comento musicale lumeggiano la figura soave. Poi il sopraggiungere di Paolo è presentito e preparato dalla divina melodia. Paolo passa per la corte interna, ed i commenti delle donne ne annunciano la venustà al cuore «che duole e piange d’allegrezza». La “canzonetta della bella Isotta” (O dattero fronzuto) già musicata dal Maestro Scontrino, che il D’Annunzio deplora iettatore tremendo, passa rinnovata nel ritmo; ma ecco spuntare da una viola pomposa – rinnovazione musicale – sul proscenio il motivo dolce e severo che è uno dei motivi fondamentali dell’opera. Il coro delle donne vi si fonde e Paolo s’avanza di là dalle sbarre lentamente. Cantano le donne su la loggia il coro che l’«a solo» della viola aveva intonato

Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana va caendo vivanda...

Tela. Ed il secondo atto mostra la sala d’arme, ed il torrigiano e il balestriere intenti ai preparativi della battaglia. Francesca appare, e la sua curiosità è eccitata dal fuoco greco. Pagina per pagina il testo primitivo è solcato da segni, da strisce ancora crudeli; tornano alla mente come soffusi di lontananza e malinconia i brani vividi esclusi dalla vita musicale. Il fuoco greco:

vola per la notte senza

stelle; nel campo cade, investe l’uomo armato, gl’inviluppa l’armatura...

E Paolo «schiavo al remo nella galea che ha nome Disperata» giunge ad intercedere per il suo amore appo Francesca. Frattanto la battaglia è scoppiata; battaglia che il musicista conta rendere con maggior vigore ed evidenza che non possa il verso. Anche resterà diminuito assai d’importanza l’episodio della cateratta aperta con il barocco giudizio di Dio, ma è notevole che il maestro ribelle alla tradizione non colga l’occasione del «Padre nostro» detto da Francesca per un brano melodico. Se l’intervistatore non erra, il «Padre nostro» questa volta avrà l’accompagnamento solo del silenzio e della emozione lirica. Già la battaglia s’annuncia in favore dei Malatesta, e «Lo sciancato dalla bella mogliera» sopraggiunge con il sentore della vittoria. Anche porta l’annuncio della podesteria di Firenze conferita al fratello Paolo. E poi che ho ricordato alcuni noti brani tagliati, ne citerò uno che rimane:

E te n’andrai alla città delle gaie brigate. Noi resteremo... Ferro picchieremo con ferro per ricrear l’orecchio verga sardesca e mannaia aretina con verrettoni a taglio tondo, sera e mattina, mattina e sera...

Ed il clamore della battaglia è di sfondo, con l’incendio delle nemiche case e dell’orchestra alto sulla vittoria dei Malatesti ed il crudo coraggio di Malatestino. La didascalia del volume «accuratamente impresso dai fratelli Treves in Milano», ma nell’esemplare destinato allo Zandonai accuratamente

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reimpresso d’orribili tratti in penna, dice: «Atto terzo; appare una camera adorna; a destra, nell’angolo, è un letto nascosto da cortine ricchissime; in fondo, una finestra che guarda il mare Adriatico. Presso la finestra è un leggìo...». Siamo dunque nella stanza di Francesca, che conversa con le sue donne e con Smaragdi, la cui figura è nel nuovo testo resa al tutto secondaria, ma più caratteristica e misteriosa. Giova alla azione l’abrasione [?] del personaggio del mercatante e del dialogo che lo riguarda. Ed ecco la canzone a ballo della rondine «nova in calen di marzo», non più intonata dalle quattro damigelle, ma da Alda e Biancofiore a concise riprese, che sono coronate dal coro gioioso: «Primavera!». Il sopraggiungere di Paolo disperde la comitiva ed il coro; e Paolo è venuto e non può rattenere l’animo ardente. La scena ed il colloquio sono mirabili; il dialogo sulla gaia vita fiorentina è nel nuovo testo arricchito da un ampio brano, l’unico nuovo che è di fervida ispirazione lirica. (Il magnifico squarcio innestato sul «Perché volete voi – ch’io rinnovi nel cuore la miseria – di mia vita?» fu scritto dal D’Annunzio con facilità degna d’aneddoto, in pochi momenti mentre il Ricordi e lo Zandonai, avendogliene ricordata la promessa, conversavano). Ed eccoci di nuovo al testo ristretto ed al vetusto ed eloquente libro che omai si chiama Galeotto:

E la reina vede il cavaliere che non ardisce di fare di più. Lo piglia per il mento e lungamente lo bacia in bocca...

Il terzo atto à la durata di circa mezz’ora. L’atto quarto, l’atto quinto sono un solo atto di quaranta minuti nella «Francesca» musicale: come se Ricordi e Zandonai avessero preveduto un anno prima il fato della sorella dannunziana «Parisina». Atto di magnifica ricchezza e vario risalto, dopo la dolcezza del recente finale. La crudeltà di Malatestino ecco porta alla ribalta il capo di Montagna Parcitade «sempre bovi da macello». Gianciotto intervenuto, dopo il breve dialogo con Francesca e con il fratello, resta con questi solo. Alle prime spiegazioni la volontà di rivelare e non per onestà ma per vendetta, appare manifesta. La scena è breve; osserva il maestro trentino: –Quando Malatestino à profferto: «Vuoi tu vedere e toccare?» che altro devesi aggiungere?– E infatti, avvenuto in breve il falso commiato di Gianciotto, la scena rapidamente cangia per presentarci la stanza di Francesca che è assopita nel sonno. E quindi si desta e chiede di Smaragdi e apprende la vicinanza di Paolo, e titubante congeda le ancelle; esse escono, accendendo all’alto candeliere le lampadette d’argento. ;a Biancofiore non giunge alla fiamma:

O Biancofiore, piccola tu sei... ...tu sei

la più piccola, o tenera colomba. La dolcezza accorata che procede dalla creature dannunziane prossime al fine s’effonde nell’addio a Biancofiore. L’evento precipita. Paolo è nella stanza nuziale; non più chiude il libro, né dice:

non vi legger più. Altrove scritto è il destino. Nelle stelle è scritto che palpitano come la tua gola e i tuoi polsi

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e le tue tempie... Dammi la bocca.

La voce di Gianciotto tosto tuona, mentre l‘uscio traballa per i colpi iterati:

Apri, Francesca, pel tuo capo! E nessun’altra parola. Paolo, fuggendo, resta impigliato nella cateratta. Il fratello lo agguanta con furia omicida; a questo punto il telone cala sulla scena.

Pesaro e Zandonai E speriamo cali fra un uragano d’applausi che salutino nell’Opera l’affermazione incontrastata e imperitura del Maestro Zandonai. La musica ne è degna, sicura, mutevole, ardente. Questo giovane, unico fra i coetanei, ha un definito stile proprio; e la ricchezza delle concezio-ni e dei motivi soverchia semai il loro sviluppo melodico. E per Francesca da Rimini scritta e compiuta nella nostra città (che vi è tre volte nominata) da un concittadino d’amore e d’onore, La Sveglia Democratica, interprete del desiderio comune, ha voluto che una pagina di più fosse inserita nel numero di primo d’anno, e che vi appaia l’augurio più cordiale ed affettuoso(**). Ed un secondo augurio. Noi non sappiamo se avremo la ventura di udire nella prossima estate l’Opera, che apparirà in Febbraio al Regio di Torino ed è già in anticipo impegnata dal Metropolitan di New York. Dice lo Zandonai: «Io favorirei in ogni modo i Pesaresi; ma non inizierò facilmente trattative con essi, per non espormi ad insuccessi già ripetutamente sperimentati. Prima essi decidano e vogliano seriamente; il lavoro mio comincia dove il loro finisce. Ma non mi presterò anche per questa Opera a trattative che non abbiano pegno di riuscita...». Incombe dunque ai Pesaresi il preciso dovere di intendere ad una stagione estiva con Francesca da Rimini. Molteplici condizioni e considerazioni fanno sì che essa possa ritenersi l’Opera più conveniente ai Pesaresi. E cominceremo così in pari tempo ad esprimere in modo con-creto il contributo di ammirazione allo Zandonai che è e deve restare gloria nostra, e che sulla dura via dell’Arte annovererà tra i migliori conforti la solidarietà morale e materiale dei Pesaresi a suo riguardo. Noi non sappiamo se la volontà cittadina saprà nel modo opportuno esplicarsi in favore di Francesca e del valoroso concittadino, ma lo speriamo. E noi non sappiamo se l’«opera perfetta» sognata dal giovane trentino sarà raggiunta o almeno sfiorata; ma l’augurio si mesce col vino della lode per la volontà e l’ardore invincibili. O Città musicale, mentre il piccone rinnovatore abbatteva le mura Malatestiane e Roveresche, un artefice ardente ivi presso cresceva una compagine di suoni intorno a colei che fu la rosa infame dei Malatesti. O vecchia città ducale, questo giovane che t’è figlio due volte perché figlio d’elezione, dice: «Io so che questa via è pericolosa; ma ricerco l’ottimo e combatto»; partendo così ad ogni volgere di mesi verso il mondo e la lotta, dalla quieta piana isaurica, pare il cavaliere d’una fede e d’una civiltà. Buono auspicio per l’Opera e per l’agognata Gloria!

Pesaro, 30-12-913

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Al Maestro illustre, all’amico gentile che onora la nostra Sveglia con un brano saliente della sua nuova creazione rivolgiamo le dimostrazioni più vive della nostra affettuosa riconoscenza.

LA REDAZIONE ------- (*) L’articolo è senza firma; il nome Giorgio Ugolini è inserito a matita rossa nel reperto SZ439/1. (**) A pagina 4 del periodico sono riportate 15 battute autografe dal finale Atto I e sotto la forma e la data (Pesaro - decembre 1913). A fianco. il seguente testo: «Cari amici della Sveglia Democratica Vi avverto che siete i primi a pubblicare un brano musicale di Francesca, e precisamente il tema della viola pomposa che inizia il finale del 1° atto. Si tratta del brano musicale forse più suggestivo di tutto il lavoro; vi raccomando però caldamente che il cliché di questa musica non sia ceduto ad altri giornali... 5 Saverio Procida, La nuova opera di Zandonai (Intervista con l’Autore), «Il Giorno», 2.1.1914

Il maestro Riccardo Zandonai è trentino e, naturalmente, sta sulla trentina. Credo segni un ugual numero di centimetri sul sistema metrico-decimale. Ma la grande notorietà allunga i connotati: il filosofo Pomponazzi toccava appena col mento la cattedra, e pure gli scolari lo distinguevano meglio degli altri professori. Non vi stupirete quindi se, piccino com’è, io giunsi iersera a scovare lo Zandonai nel negozio Ricordi e – col pretesto di complimentarlo per il successo di Conchita al San Carlo – a strappargli un’intervista intorno alla sua ultima opera: la Francesca da Rimini. – A quando, dunque, maestro, la prima rappresentazione? – Presto. Il 10 febbraio al Regio di Torino. – Chi gliela dirigerà? – Ettore Panizza, un musicista distintissimo che ha diretto anche al loro San Carlo. – E gli interpreti? Ne è contento? – Contentissimo. Francesca sarà la inarrivabile Conchita di qui: la Tarquiny. Paolo il tenore Crimi. Gianciotto (lo sciancato) il baritono Cigada e Malatestino il Paltrinieri. – Ha musicato integralmente la tragedia di Gabriele D’Annunzio? – Ho musicato la tragedia originale. Ma integralmente no. sarebbe stato un errore imperdonabile. – Parisina informi! – Capirà che un poema drammatico può e deve avere un àmbito vasto, precluso a un poema musicale cui è necessario soltanto il succo del dramma per restringervi intorno l’azione psicologica e scenica, sopprimendo tutto ciò ch’è ornamento, immagine letteraria o amplificazione dello stesso concetto. Così ho proceduto io con la Francesca del D’Annunzio. – Ha fatto Lei stesso questo lavoro di sforbiciamento e di riduzione? – No. Il merito spetta a Tito Ricordi, che ne ha avuto il consenso e le lodi di Gabriele D’Annunzio. Il Poeta anzi ha imposto che il nome del chiaro riduttore figurasse sul libretto... parola impropria in questo caso. – Avrà ridotto anche il numero degli atti? – Non si è ridotto: si è fuso il quarto e il quinto atto in uno, suddividendoli in due quadri. Così che la divisione scenica del D’Annunzio è rispettata, e io musico quattro invece di cinque atti. Il criterio dello sfoltimento mi ha permesso di sopprimere un personaggio: Badino [Bannino], il giovane fratello d’Ostasio, col quale quegli, al prim’atto, ha una scena violentissima non indispensabile allo svolgimento drammatico. Fra gli episodi soppressi va notato quello, al terz’atto, del mercatante fiorentino, con la sua vistosa offerta di

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stoffe a Francesca. capirà: precede la grande scena d’amore – la scena capitale del lavoro – e avrebbe potuto stancarmi il pubblico. – È intuitivo. Via, mi dica di qualche altro taglio importante, giacché Ella non ha voluto intralciare il corso drammatico o sviarne l’interesse. – Ecco. Ho tolto gran parte dell’atto quarto dannunziano, cioè la scena in cui Gianciotto, dopo la delazione di Malatestino, chiama Paolo e Francesca a rinnovare la loro fede sulle coppe. Poiché nel second’atto c’è un episodio equivalente, l’ho soppresso qui per lasciare alla delazione di Malatestino tutta la sua intensità tragica e non disperderne l’effetto, in un quadro che precede immediatamente la catastrofe. Chiudo quindi questo primo dei due quadri formanti l’ ultim’atto col concitatissimo dialogo fra Malatestino e Gianciotto:

MALESTINO [Malatestino] Vuoi tu vedere e toccare? GIANCIOTTO Bisogna, se ami scampare Dalla mia tenaglia mortale. MALESTINO Vuoi stanotte? GIANCIOTTO

Voglio!

– Per giungere presto alla catastrofe, secondo Ella dice, avrà sfrondato allora anche il quint’atto del D’Annunzio, che corrisponde al suo secondo quadro del quart’atto. – L’ho sfrondato (sempre rispettando la costruzione scenica) perché il colore dei particolari suggestivi non incomba troppo sulla grande scena passionale dei due amanti e sul rapidissimo arrivo – ridotto perfino nell’espressione verbale – dello Sciancato. La catastrofe, così, è fulminea. Francesca dà un grido e si offre da sola alla vendetta, ma Gianciotto si slancia ad agguantar Paolo, il cui giubbetto, nel tentativo di fuga, s’è impigliato nel gancio della botola. – Fedeltà assoluta, dunque, alla tragedia. – Una sola innovazione ho chiesto al Poeta ed Egli me l’ha consentita cordialmente, al terz’atto, nella scena in cui Paolo narra a Francesca del suo viaggio a Firenze e dell’incontro con Guido Cavalcanti e col giovinetto Alighieri. Io ho desiderato che si sostituisse un volo lirico alla scena narrativa – e il Poeta ha composto per me dei versi meravigliosi d’ispirazione puramente immaginifica. – Li ricorda? – Non bene, a sbalzi, e non vorrei davvero sciuparli.

Il carattere della musica – Mi dica ora, se non le sembra indiscreta la domanda, quale carattere musicale ha la sua nuova opera. – Un autore non può mai definire il carattere della propria musica perché chi compone non ha quasi mai un sistema prestabilito. – Mi spiego meglio allora: seguirà il tipo di musica descrittiva e, per così dire, verista della Conchita? – No. Recisamente no. Con la Francesca non siamo più in un campo di complicazioni psichiche moderne, né di ambienti pittoreschi, che hanno una tirannica influenza di colore e invadono quasi il campo con la loro prepotenza ritmica. – Non avevo dunque torto io, nel giudicare la sua Conchita troppo assorbita dall’impressionismo sinfonico, a scapito del dramma diretto degli individui.

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– Non solo non aveva torto, ma in teoria parlava d’oro. Credo quanto Lei che la musica debba tornare al suo contenuto spirituale. L’argomento di Conchita mi trascinò con la sua anormalità psicologica. Ma con la Francesca da Rimini siamo in un altro ordine di sentimenti. La Francesca è dramma essenzialmente umano, di passione intensa ma normale. Ho voluto quindi imprimere alla musica, che dovrà comentarne il dramma, quanto più sia possibile di semplicità e di fluidità melodica, per concentrare l’ interesse lirico sulle persone protagonista, anzi che sugli elementi esteriori di pura decorazione. – Ma l’ambiente nella Francesca è anche un fattore interessante della tragedia. – Verissimo. Ma non dimentichi che prima di tutto, come Le ho detto, ho sfrondato molto la parte episodica. E poi quel ch’è rimasto non può entrare che come elemento imitativo. – Che intende per elemento imitativo? – Questo: che in tutta la parte decorativa ho cercato di fondere in orchestra quanto poteva darmi la fonte musicale dell’epoca – ch’è ben poco – e non come materiale grezzo, ma come spunto a trarne un colorito arcaico, indeterminato, adoperando all’uopo qualche strumento caratteristico che desse la sensazione vaga dell’antico. – In quale atto questo elemento ambionale [sic] e pittoresco è contenuto? – Nel primo e nel terzo. Nel primo, quando il notaio Sartoldo [Ser Toldo] sollecita presso Ostasio, fratello do Francesca, le nozze. Mi sono studiato d’imprimere a questa scena un suggello eminentemente italiano, quasi di vecchia andatura, utilizzando il recitativo antico sopra un tessuto strumentale che lo coordini al tipo generale, pur rimanendo in se stesso caratteristico. E anche l’arrivo di Paolo tra i profumi del giardino di Francesca, mentr’ella gli offre una rosa, m’ha ispirato qualche pagina descrittiva fonica e vocale. Ma l’episodio forse che più suggestivamente assorbe questo carattere arcaico è l’entrata di Francesca, in cui ho innestato le parole di lei al coro interno delle donne che mira appunto a dar questa sensazione di antico. Nel secondo atto ho composto una pagina sinfonica a descrizione della battaglia, ma qui l’arcaismo non entra per nulla. Nel terz’atto ho vivamente colorita la scena esaltativa della primavera. – Torniamo al discorso sul tipo musicale della Francesca. – Le ripeto che ho voluto dare al puro dramma tutta la sua più larga espressione, in modo che, sullo sfondo suaccennato, il contrasto e le passioni delle anime abbiano preponderantemente il loro rilievo musicale così nelle voci come nell’orchestra. E quindi l’elemento della chiarezza e della semplicità costituisce l’essenza schietta del mio lavoro. In questo senso Le dicevo che la Francesca differirà moltissimo, come tipo musicale, dalla Conchita, come questa a sua volta differisce dal Grillo del focolare, in cui mirai a tessere una pura commedia di carattere ingenuo ed intimo. – Oltre che per Torino, la Francesca è impegnata per altri teatri? – È già presa dal teatro di Boston, dove Carlo Clausetti andrà a metterla in iscena verso la fine di febbraio, cioè quasi contemporaneamente alla recita di Torino. Ne saranno interpreti Lina Cavalieri, il tenore Muratore, celebre artista per figura e voce, dell’Opéra di Parigi e il baritono Marcoux. Direttore sarà il maestro Caplet. – Di che durata è la Francesca? – Dura su per giù quanto la nostra intervista. Alla graziosa boutade volli contrapporne una sciocchina. – Ma allora è brevissima. – Se piace sì; se non piace...

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Io non presumo di possedere il fascino di una Francesca; e a questo punto giudicai che tre orette di chiacchiere dovevano essere eccessive per un’intervista se bastavano allo svolgimento di un dramma musicale. E poi era l’ora del pranzo. Il maestro Zandonai rimaneva più che mai piccino, ma il suo collo si era sensibilmente allungato. -----------------------------------------------------------------------------------------

Torino 1914 (6-27)

6 La jettatura al Regio di Torino, «Orfeo» V/7, 14.2.1914

Le ultime vicende della stagione del Regio di Torino non sono troppo liete: vicende che hanno condotto ad un ritardo nell’andata in scena della Francesca da Rimini per un forte esaurimento nervoso sopravvenuto alla Tarquini, che dell’opera nuovissima dello Zandonai doveva essere la protagonista. [...] 7 e.a.b., La «Francesca da Rimini» al Regio, «Gazzetta del popolo», 20.2.1914(*)

Nella vecchia e generosa città che qualche settimana addietro celebrava – commemorandola degnamente – la memoria luminosa di un poeta trentino, Giovanni Prati, con fervidi ma un poco malinconici riti di epicedio, ieri sera si è compiuta la cerimonia battesimale dell’opera d’arte in un altro trentino, Riccardo Zandonai, che dalla ribalta del Regio chiedeva al pubblico torinese il primo giudizio, la consacrazione della sua nuovissima opera «Francesca da Rimini». E il risultato è stato favorevo-lissimo.

La musica Il maestro Riccardo Zandonai segue, come è noto, la più moderna fra tutte le scuole musicali. Certamente il suo credo artistico non è molto dissimile da quello di Claudio Debussy e dei debussisti. Quindi una tendenza speciale a generare e produrre piuttosto che sensazioni auditive, delle sensazioni visive. Ma mentre il caposcuola si contenta spesso di un accordo o di poche modulazioni che debbono fare da sfondo, quasi da atmosfera all’idea principale, lo Zandonai moltiplica ed accu-mula, con arte – bisogna dirlo – squisita, questi elementi decorativi. E bisogna anche aggiungere che egli sa farlo con un gusto aristocrati-cissimo, combinando piccoli disegni ed effetti istrumentali a getto continuo, con quella ricchezza di tavolozza che gli consentono la sua fantasia di colorista nato e la sua meravigliosa conoscenza dell’ orchestra, dell’effetto e del valore dei singoli istrumenti e degli inesauribili partiti che se ne possono trarre combinandoli, impastandoli, fondendoli con grande abilità. Ed a prima vista si potrebbe pensare che tutta questa ricchezza e questo scintillio formale, più sinfonista che operistico, siano destinati a mascherare l’assenza o la scarsità di quelle grandi idee madri che dovrebbero costituire la spina dorsale dell’opera. A conti fatti si rimane abbarbagliati; si ammira anche ed assai, ma l’ammirazione è più cerebrale che non cordiale (cioè fatta di cuore). Senza dubbio si ammira, ma si ripensa e fors’anco si rimpiange quell’ampio respiro melodico che per tanto tempo fu il sogno e la delizia dei pubblici del nostro teatro d’opera. Si avverte pure – e non è possibile non avvertirlo – un onesto e lodevole desiderio, un’

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intenzione molto chiara, di italianizzare i procedimenti adottati nella costruzione della musica; ma in fondo al cuore rimane sempre come una sete, un desiderio di melodie più larghe, più profonde e più sviluppate. A nessuno può sfuggire la nobiltà di quest’arte speciale, ma alla nobiltà si vedrebbe volentieri accoppiato l’impeto, il calore di una ispirazione spontanea e più travolgente. Si rimane un poco freddi, insomma, senza esaltazioni, come avviene quando si contempla un gioiello sfaccettato, cesellato sapientemente da un orafo perfetto. E ci si domanda: –Perché Forse perché il maestro abbia penuria di idee vaste? No: non per questo. Poiché infatti, oltre all’ultima parte del primo atto, viene tutto il terzo atto. Chi ha scritto questo terzo atto è non solo un musicista sapiente, ma è pure un uomo che sente e che sa esprimere i palpiti, gli ardori di una passione umana e profonda. C’è in quest’atto quel largo respiro che noi cercammo invano in altre pagine dello spartito. Il nostro libretto, annotato durante le prove, azzurreggia frequentemente di segni ammirativi, di note che esprimono e ricordano, fissandole, vivaci sensazioni provate. La ballata del «Marzo che è giunto» è deliziosa, come tutto il quartettino delle donne; come l’interludietto che precede la scena fra Paolo e Francesca, che a poco a poco si illumina, si riscalda, seguendo linee ampie e suggestive, nelle quali si snoda e si allarga una melodia, una serie di melodie che scaturiscono dal cuore e dalla vera ed eterna passione umana, fatta per conquidere, per esaltare l’uditore. Non molte volte l’amore fu cantato così largamente, così suggestivamente come in questa scena del «Libro galeotto». E le voci di Francesca e di Paolo, quando tacciono perché su entrambe è il suggello di un bacio, trovano nell’orchestra un comento che riassume, ridice, pèrora, completa meravigliosamente, levandosi nelle altissime regioni del sentimento. E questa virtù di alata poesia non è in un solo momento od in un episodio dell’atto, ma in tutto l’atto che – sfrondato forse di qualche lieve prolissità – si potrebbe classificare fra le più indovinate cose che l’arte possa produrre. Questa è musica, vera, grande musica, che vi costringe a battere le mani, mosse da un impeto misterioso ed incontenibile che ci sale su dal cuore palpitante. Tutto l’atto è chiuso in linee di suprema armonia ed è improntato a quell’unità di cui solamente un getto ben riuscito può segnare un’opera d’arte. Di quest’atto, che per noi è la parte migliore dell’opera, abbiamo voluto parlare più particolarmente e più diffusamente, perché dopo averlo ascoltato e goduto ci si riaffacciò timida la domanda: –Perché non scrive sempre così chi ha voluto e saputo offrirci questo documento di passione e di umanità? Per rispondere bisognerebbe penetrare la coscienza e la volontà dell’autore, il quale, senza dubbio, fa quel che fa, e come lo fa, perché questo modo risponde ad un suo ideale, ad un suo concetto d’arte. Di fronte ad una convinzione si potrà rimpiangere, ma non senza molto rispetto.

Il successo Del resto, quanto alla cronaca della serata, essa è assai lieta. Alle 20,30 precise, ad un cenno della bacchetta del maestro Panizza, incomincia la musica. Il teatro è bello, ma non si affollerà che più tardi, come sempre accade. Il massimo raccoglimento regna nella mezza luce della sala. Ed il velario si apre sul bellissimo scenario dell’atto primo. Notiamo fin d’ora che tutte le scene sono, come questa del primo atto, bellissime.

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L’atto incomincia con l’episodio delle donne e del Giullare, cui segue il dialogo fra Ostasio e Ser Toldo. Il pubblico ascolta attentamente, ma senza commozione. Un movimento d’anime comincia a pena col coro delle donne, e sale e si accentua nella scena fra Samaritana e Francesca. «Anima cara, piccola colomba» detto dalla Canetti con grande semplicità segna il successo schietto di tutte le pagine seguenti, che si fa sempre più vivo per la grande signorilità e delicatezza della musica. E quando Paolo e Francesca si sono visti e guardati, senza parlare, come presi entrambi da un fascino magnetico, ed il coro delle donne canta un suo ispiratissimo canto, l’uditorio, a velario chiuso, prorompe nei primi applausi. Le chiamate sono cinque, belle, unanimi, convinte. E prima si presentano i soli artisti, poi quattro volte l’autore, e finalmente anche il maestro Panizza. Nei corridoi i giudizi del pubblico sono assai favorevoli, specie per la seconda parte dell’atto. Anche la prima raccoglie lodi, ma queste riguardano più il virtuoso dell’armonia e dell’istrumentale che non il compositore ispirato e capace di alti voli. L’atto è durato 35 minuti. Più modesto è il successo dell’atto secondo. Il fragor della battaglia, per quanto si sforzi a trovare violenze di sonorità, non può accostarsi troppo a quella che noi immaginiamo debba essere la realtà. L’episodio lirico dell’incontro di Paolo e Francesca sulla torre lascia un poco freddi perché sulla ricchezza dello sfondo orchestrale l’autore non trova il modo di incidere frasi ben definite e commoventi. La preghiera di Francesca passa quasi inavvertita. Né miglior fortuna ha la presentazione di Gianciotto, che invece di risultare una figura da altorilievo in bronzo quale dovrebbe essere, rimane alquanto piatta. Qualche accento più efficace è nell’episodio di Malatestino ferito. Ma in complesso l’atto soddisfa poco. E le chiamate – non fervide – sono tre. Il maestro Zandonai si presenta due volte. L’impressione è che quest’atto, per la stessa esuberanza di azione scenica, mal consenta alla musica di commentarlo efficacemente. È un atto in soprapiù. Assai più liete volgono le sorti per il terzo atto. Ciò che già ne dicemmo ci dispensa dal seguirne lo svolgimento con qualche minuzia di analisi. Esso appare a tutti come opera d’arte di primo ordine, pervaso com’è da una passionalità profonda che si esprime con semplicità e lucidità eccezionali. La ballata di marzo, detta squisitamente, suscita i primi applausi a scena aperta. Altri applausi strappa il tenore Crimi quando nel duetto con Francesca dice con grande espressione di passione le frasi «Nemica ebbi la luce» e seguenti. E così, in mezzo ad una vera commozione ed emozione dell’uditorio, l’atto finisce con sei memorabili scrosci di applausi. Prima compaiono la Canetti e il Crimi; poi, con loro, le Donne; poi Zandonai, poi il maestro Panizza, infine lo Zandonai da solo, acclamatissimo. Così volle esprimere la sua soddisfazione l’uditorio che in quest’atto respirò la passione, palpitò nella commozione. Anche nel quarto atto è una bella vena di commozione, o almeno di emozione. Si profila la figura di Gianciotto, e prende corpo e rilievo. Il duetto fra Gianciotto e Malatestino, violento, irruente, brutale ....... suscita fremiti e s’impone con la sua ..... ..... le chiamate al Cigada ed al Paltrinieri ...... belle e sono tre, alla fine della pr.... La stessa concisione e la stessa violenza drammatica è nella seconda parte – al ........fe della tragedia – salutata, con ............... l’opera, da cinque o sei magnifiche ............. agli artisti, allo Zandonai, al maestro Panizza, a tutti insomma.

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Un ottimo successo, adunque, e, ancor più, un successo serio, del quale ci congratuliamo sinceramente con Riccardo Zandonai, che con questa sua fatica d’arte prende il suo posto fra i nostri compositori, dando affidamento di poter librarsi a voli maggiori.

L’esecuzione Ma dobbiamo pure rallegrarci con altri. Dapprima con la signora Canetti, che in pochi giorni è riuscita ad impadronirsi di una parte difficilissima come quella di Francesca, facendola sua e vocalmente e scenicamente, in modo da cantarla ed agirla – come ieri sera – con una grande sicurezza. Poi col tenore Crimi, che ieri parve un altro da quello della «Gioconda» al quale non potemmo tributar molta lode. Tanto più dolce c i riesce oggi il dover riconoscere in lui un artista che e con la splendida voce e col modo di rendere il personaggio, contribuì molto al successo dell’opera, meritando i vivi applausi che raccolse in gran numero. Ed anche col Paltrinieri ci rallegriamo, per il notevole passo ch’egli seppe fare in arte: uscendo dalla cerchia delle macchiette in cui era maestro, assurse alla responsabilità di un personaggio importante come Malatestino e seppe dimostrarsi validissimo ad affrontarle e sopportarle. E il Cigada non fu un Gianciotto stupendo? E le donne di Francesca? Ottime tutte, hanno il diritto di essere ricordate una ad una, con un appello nominale... d’onore: Avezza, Polazzi, Marek, Vaccari, Besanzoni. Né si possono dimenticare la Merly, che diede tanta malinconia scorata a Samaritana; né il Pellegrini, né l’Orlandi, né il Nessi ed il Malatesta che con Gianciotto e Paolo e Malatestino non è neanche parente, malgrado l’omonimia. Un capitoletto scriveremmo – se ce lo consentisse l’ora tardissima – sull’esecuzione magnifica e sull’interpretazione profonda che il maestro Panizza ottenne dalla sua orchestra. Ma il tempo è breve, e a pena ci basta a ricordare con una parola le masse corali, attentissime, ed accennare alla grande signorilità della messa in scena in tutti i suoi particolari. L’uditorio, abbiamo detto, era numeroso ed elegante. La principessa Laetitia era nel suo palchetto. L’arte musicale, la critica e la stampa di fuori erano largamente e degnamente rappresentate. Si notavano infatti, in teatro, i maestri Giordano, Alfano, Baroni e Mingardi; l’editore Riccardo Sonzogno; il maestro Seppilli, e fra i giornalisti e scrittori d’arte il marchese Gino Monaldi, Nicola d’Atri; il dott. Clerici, Adami, Cesari, Rattini, Gustavo Macchi, Ottolini, ecc. Francesca da Rimini avrà domani sera la sua seconda rappresentazione. ---------- (*) Una lacerazione nel lato destro del ritaglio compromette la lettura integrale del testo: qui si è cercato di completarlo a senso con le lettere in colore rosso. 8 Giambattista Cagno, «Francesca da Rimini» di Zandonai, D’Annunzio e Ricordi - La “première” di stasera al Regio, «Gazzetta del popolo», 19.2.1914(*)

Ricordi... sicuro: bisogna aggiungere agli altri due nomi anche quello del comm. Tito Ricordi, non solo perché di questa Francesca egli fece e pubblicò di questi giorni un ’edizione bella e nitidissima; o perché tutta la messa in scena fu da lui studiata, curata, animata, con quell’amore e quella meticolosità intelligente che si dànno alle nostre creature, ma anche perché veramente il Ricordi, autorizzato dal Poeta, ebbe una gran parte nella riduzione del testo dannunziano per la musica dello Zandonai. Il suo lavoro è stato non di creazione – com’egli

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stesso ha fatto sapere in un’intervista – ma semplicemente di sfrondatura e di taglio. Molti versi furono sacrificati, a malincuore, ma sacrificati: e fu soppresso qualche personaggio secondario... Ma noi pensiamo che così, rinunciando alla magnifica e preziosa esuberanza verbale dannunziana, che mal si confà con le forme stringate e concise del dramma lirico, si siano potuti evitare gli inconvenienti deleteri dell’eccessiva lunghezza (e Parisina informi), rendendo così un segnalato servizio al musicista ed all’opera ed anche al poeta. Tanto più che io massimo, quasi religioso rispetto, presiedette a questo lavorio di riduzione, eseguito con tanta perspicacia che a pena qua e là si avverte l’opera del taglio e della sfrondatura. Del resto il Ricordi si guardò bene dallo scrivere anche un solo verso. A colmar qualche vuoto, a riannodare i capi dei brani tagliati, coordinandoli, pensò D’Annunzio stesso. E ne è uscito fuori un testo che si arrende assai bene, con molta pieghevolezza, alle esigenze ed alle forme lirico-musicali. Per questo è giusto che il nome di Ricordi vada unito a quelli di Riccardo Zandonai e di D’Annunzio. L’abitudine della sala buia, che oramai è prevalsa in teatro, e che impedisce quasi allo spettatore di seguire la musica sul testo, rende necessario e giustifica, per chi voglia agevolare all’auditorio la piena comprensione di un’opera musicale, l’offrire un sunto dell’azione musicata. Veramente questa tragedia dannunziana e per la sua rappresentazione teatrale, e per la sua lettura in volume, ed anche per la notorietà della sua favola (diciamo così) che fa parte di quel patrimonio di coltura comune che molti possiedono, non richiederebbe più la preparazione di un cenno riassuntivo. Ma è sempre bene, per l’ intelligenza del pubblico che non vive di solo teatro, rinfrescare la memoria. Questo noi faremo brevemente, sommariamente, riassumendo il libretto, o, più precisamente, la sequenza e l’ordine delle situazioni che ne costituiscono la sostanza. Lo diciamo subito: saremo insolita-mente brevi e sintetici. Una trama di fatti: un sommario di situazioni. Niente altro.

Atto primo A Ravenna – nella casa dei Polentani. Personaggi: Francesca, sua sorella Samaritana ed Ostasio, suo fratello. Poi le donne di Francesca: Biancofiore, Garsenda, Altichiara, Donella e Smaragdi la schiava. Una corte, contigua ad un giardino, con una loggia alla quale si accede per una scala. Fra le donne di Francesca è giunto un Giullare, che, richiesto dalle donne di cantare una storia, si appresta a dire di Tristano ed Isotta, quando è interrotto da Ostasio... Apprendiamo che Francesca è promessa sposa a Giovanni, o Gianciotto Malatesta, lo sciancato, che manda a sposarla per procura suo fratello Paolo, detto Il Bello. Piace ad Ostasio affrettare queste nozze, e poiché Paolo Malatesta è giunto ed attende, gli muove incontro con Ser Toldo, che è come un consigliere e confidente. Anche il Giullare è partito. Rimangono sole le donne che cantano dalle stanze, d’onde escono Francesca e la sorella Samaritana. Nel loro dialogo non è gioia. Trema Francesca nel dover andare sposa ad un uomo che non conosce. E Samaritana si duole per il prossimo distacco da sua sorella. Ma le donne, dalla loggia, guardando verso il giardino, annunziano l’avvicinarsi di Paolo. E si rallegrano con Francesca la sposa. Pallida, agitata, Francesca prega, supplica ch’egli non venga, ma a pena lo vede da vicino è conquisa dalla bellezza di Paolo... E rimangono a

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guardarsi come estatici... Francesca offre una rosa vermiglia a Paolo. È la rivelazione improvvisa dell’amore.

Atto secondo A Rimini. Sull’alto della torre della casa dei Malatesta. In pieno fervore d’una battaglia. Tumulto d’armi e di soldati: bagliori di fuochi accesi a preparare nelle caldaie il micidiale fuoco greco che il mangano lancerà per la distruzione del nemico. In questo trambusto è salita anche Francesca, che s’incontra con Paolo, vigilante alle difese, lanciando dardi con l’arco, dal folto della mischia. Francesca vorrebbe essergli vicino nel pericolo grave, ma ne è impedita. Cominciano a cadere i soldati morti. Francesca prega per Paolo, per il suo amore. E Paolo è salvo malgrado che sfidi temerariamente il pericolo per punirsi del suo malvagio amore. Anche Gianciotto sale alla torre. Stupisce di vedervi Francesca. Accetta il vino che costei gli offre in una coppa che poi si appresserà alle labbra riarse di Paolo. Ecco una sciagura Malatestino, il minore fratello di Gianciotto e di Paolo, è portato sulla torre, ferito, quasi esanime. Nel soccorrerlo, Francesca scopre che egli ha un occhio crepato, ma non è morto. Infatti il giovinetto può riaversi quasi subito e riprendere la battaglia che ricomincia più terribile che mai.

Atto terzo La camera di Francesca. La sposa di Gianciotto legge in un gran libro sopportato da un alto leggìo... Legge di Galeotto... E le sue donne ridono della storia... E per distrarla fanno venire i musici e cantano un dolce e lieto calendimarzo e danzano invocando la primavera... Poi se ne vanno così come comanda Francesca, che ha sentito l’avvicinarsi di Paolo. E come questi è giunto, introdotto dalla schiava Smaragdi, dopo lunga assenza vissuta a Firenze, fin dal primo salutarsi rinasce fra i due amanti, tuttora mondi, l’antico amore, che prorompe e diventa passione adultera ed incestuosa, quando essi leggono insieme il libro... galeotto, fatto immortale dalle terzine dantesche, che tutti sanno a memoria.

Atto quarto È diviso in due quadri. Primo quadro. Una sala. Francesca è seduta nel vano di un finestrone. Malatestino dall’Occhio è in piedi, davanti a lei. Ed ella ne ha ribrezzo, e respinge i suoi desiderî, le sue proposte. Accoglie invece onestamente il marito Gianciotto ed anche si rallegra quando apprende che costui deve, in qualità di podestà, recarsi a Pesaro e lasciarla sola... E se ne va un poco racconsolata. Ma il bieco Malatestino, che poco prima era uscito ebbro d’ira e di strage, per uccidere un prigioniero custodito nella torre, ritorna subitamente recando in un sacco la testa recisa del prigioniero, per farne omaggio a Gianciotto. Al quale egli rivela la sua vergogna e l’amore infame di Paolo e Francesca... E si offre di fargli sorprendere gli amanti, la notte che seguirà... È nel secondo quadro, nella stanza di Francesca, che Gianciotto sorpren-derà gli amanti avvinti in un tenero amplesso..-. Gli urti poderosi dei suoi omeri saldi contro la porta chiusa mettono in sospetto e in terrore Francesca ed il suo Paolo. Ma c’è modo di salvarsi ancora. Paolo s’inabisserà dentro una botola, prima che la porta ceda. Ma la porta ha ceduto proprio in quell’attimo. Ancora la testa di Paolo emerge dell’impiantito, perché le sue vesti si sono impigliate in un ferro... Gianciotto gli è sopra: lo afferra per i capelli... Paolo si

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appresta a difendersi con un pugnale. Ma lo stocco di Gianciotto ha colpito in pieno cuore Francesca, che s’abbandona nelle braccia di Paolo. Anche contro di lui si volge lo stocco di Gianciotto. Trafitti entrambi mortalmente i due amanti, senza un gemito, si confondono in un amplesso, e senza sciogliersi piombano sul pavimento, morti, mentre lo Sciancato si curva in silenzio e spezza lo stocco sanguinoso. Su questa trama, contenuta in giuste linee ed in opportuno taglio di scene, corrono i quattro atti della tragedia musicata da Riccardo Zandonai, che si rappresenteranno per la prima volta questa sera al Regio. ---------- (*) Un riquadro al centro della pagina è stato ritagliato senza apparente perdita di testo se non forse della firma dell’articolista. 9 Giambattista Cagno, Dalla «Francesca» di Silvio Pellico alla «Francesca» del Regio, «Gazzetta del popolo», 19.2.1914.

Eccoci dinanzi ad uno degli argomenti su cui più si cimentarono e travagliarono i cultori tutti delle arti belle, nazionali e stranieri. Non c’è infatti esplicazione qualsiasi dell’arte – lettera, scultura, pittura, musica – che non conti e vanti molti lavori, non sovente pur-troppo capolavori, i quali furono ispirati dalla possente passione di Francesca e Paolo, che entrambi li «condusse ad una morte».

Un po’ di storia Restringendoci ora alla musica, su libretto di Felice Romani – tratto nel 1823 dalla «Francesca» del Pellico – qua e là ritoccato, fiorirono addirittura parecchi melodrammi, cioè del Carlini (Napoli, 1825), dello Strepponi (Vicenza, 1825), del Mercadante (?, 1828, e Madrid, 1829), dello Staffa (Napoli, 1830), del Fournier-Gorre (Livorno, 1832), del Tamburini (Rimini, 1835), del Borgatta (Genova, 1837), del Cannetti (Vicenza, 1843), del Sassaroli (Catania, 1846). Libretto e musica scrisse Massimiliano Quilici (Lucca, 1825). Una «Francesca» fu rappresentata a Vienna nel 1828, opera del piemontese Pietro Mercandetti sunnominato Generali, su libretto di Paolo Pola – il poeta di «Donna Caritea», che, musicata dal Mercadante, è famosa pel suo coro: «Chi per la patria muor, vissuto è assai», intonato dai martiri di Cosenza tosto appresa la sentenza capitale. Nessuna tuttavia di queste opere ha resistito all’oblio dei contemporanei; e lo stesso avvenne alle altre del Bassi-Manna (Cremona, 1832), del Maglioni (Genova, 1840), del Devasini sulla tragedia del Pellico (Milano, 1841), del Brancaccio (?, 1844), del Pappalardo (Napoli, 1844), del Petillo (?, 1869), del Maccarini (Bologna, 1870), del Marcarini, su libretto di Matteo Benvenuti (Milano, 1871), del Franchini (Lisbona, 1837), del Nordal (Linz, 1840), del Boullard (Parigi, 1866), del Moscuzza (Malta, 1877), ecc., quantunque sia stata applaudita quella del Goetz, parole e note (Mannheim, 1877). Grandi meriti avrebbe invece, secondo i competenti, l’opera del Morlacchi, che alcuni anzi giungono a proclamare il suo capolavoro, sebbene sia rimasta incompiuta. Come vedesi, l’elenco è già copioso, e non è puranco finito. Numerose composizioni sul tema, oltre i melodrammi, si possono annoverare: fra le quali rammenterò a titolo d’onore i poemi sinfonici del Bazzini (che fu eseguito qui per la prima volta ai rimpianti concerti popolari diretti dal Pedrotti) e del Tchaïkowsky (pure qui gustato ai celebri concerti promossi dalla Società omonima sotto la direzione di Hans Richter), e non dimenticherò come curiosità una

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parodia tragicomica del Mastriani ed un ballo del Gioia, ideato per la rinomata ballerina e mima Francesca Pezzoli. Non tutti però i melodrammi scritti ebbero avversa sorte, ché taluni, e dei più recenti, incontrarono giustamente il favore della critica e del pubblico e vivono tuttora pregiati, se non sulle scene, nel ricordo di chi si occupa con intelletto d’amore dell’arte di Euterpe. Vogliamo alludere all’opera del Cagnoni su libretto del Ghislanzoni (Torino, 1878), a quella del Thomas su libretto di Barbier e Carré (Parigi, 1882) e a quella del su libretto del Colautti «Paolo e Francesca» (Bologna, 1907), e a quella del Leoni su libretto proprio ricavato dalla traduzione francese dello Schwob del dramma inglese di Marion Crawford (Parigi, 1913, ultimi giorni). La «Francesca da Rimini» del godiaschese (Voghera) Antonio Cagnoni fu scritta appositamente per il Regio, dove fu appunto rappresentata per la prima volta la sera del 19 febbraio 1878 dall’egregia impresa Depanis, ottenendo accoglienza molto lusinghiera dalla critica e dal pubblico, come si rileva dai giornali cittadini. Fortuna ancora, quantunque minore, essa ebbe in Milano nel 1879, che si rinnovò a Roma nel 1902, quando il tema era tornato diremo d’attualità per le discussioni suscitatevi dalla tragedia del D’Annunzio. Buon successo, ma memo segnalato e duraturo, ebbero pure le opere del Thomas e del Mancinelli e del Leoni, non riprodotte mai sui teatri torinesi, come l’antifonia ed i tre intermezzi dello Scontrino, eseguiti il 1901 al Costanzi di Roma durante la prima rappresentazione della «Francesca» dannunziana. E veniamo così all’opera attuale, che tanta viva aspettazione e legit-tima speranza ha destato, e per l’importanza del noto argomento e per le passioni dell’amore e della gelosia e dell’onore che si scatenano, e per l’esito dei precedenti lavori, e per la fama del valoroso autore.

Il maestro trentino Riccardo Zandonai, trentino – nella sua virilità di corpo e di mente e di operosità geniale – è nome già caro ai torinesi, ed in genere al pubblico italiano, per opere meritatamente applaudite ed apprezzate, cioè «Il grillo del focolare» e «Conchita», un gioiello di musica squisitamente colorita e luminosa, entrambe riprodotte sopra i nostri teatri, e «Melenis», qui non ancora eseguita. Allievo studioso e distinto, nel Conservatorio di Pesaro, del Mascagni, molto e bene approfittò dell’insegnamento dell’illustre maestro, delle cui eminenti doti egli ritrasse, pur imprimendo alle sue creazioni una spiccata personalità, frutto di naturale ingegno affinato e temprato da coscienziosa preparazione. Il che dà ragione di riprometterci da lui un’ opera degna del nome suo e della musica italiana, per quanto forse sia lecito temere che, essendo già stato ampiamente trattato il tema prescelto, le reminiscenze nel suo lavoro al pari che i confronti nel giudizio altrui possano eventualmente influire, almeno qua e là, sull’originalità della composizione come sull’obbiettività dell’esame. Quanto alla musica, memore del giusto monito di Apelle, non mi attento a parlarne, lasciandone la sentenza ai critici ed al pubblico, il critico dei critici, il pubblico d’Italia, ove – come osservò Mazzini – la musica ha patria e la natura è un concento e l’armonia s’insinua nell’anima con la prima canzone che le madri cantano alla culla dei figli. Solo annunzierò che i pochi iniziati che poterono udirla ne dicono molto bene e che piacque davvero alle prove, alle quali attese personalmente l’autore. Concludo quindi senz’altro fervidamente augurandone il trionfo all’autore, al librettista-editore, alla patria nostra, all’arte soave-mente sublime dei suoni e dei canti.

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10 Giuseppe Fanciulli, «Francesca da Rimini» . Tragedia di G. D’Annunzio - Musica di R. Zandonai, «Il nuovo Giornale», 21.2.1914

TORINO, 20 febbraio. In breve volgere di anni Francesca è tornata a rivivere più volte la sua tragedia d’amore sulle scene del teatro lirico. La sanguinosa pagina di cronaca malatestiana fu rievocata un sette anni fa da Arturo Colautti in un solo atto serrato e rapido, per Luigi Mancinelli; proprio in questi giorni, a Parigi, si sono riprese le rappresentazioni di una Francesca del Maestro Leoni; e stasera il foltissimo pubblico del teatro Regio ha accolto con ansiosa attenzione, con commozione ininterrotta, la Francesca di Gabriele d’Annunzio, che tornava, dopo anni di silenzio, con la veste musicale per lei foggiata da Riccardo Zandonai, uno dei più giovani come dei più animosi maestri nostri. La persistenza nei secoli di questa figura tragica, che ebbe da Dante la prima vita estetica, è davvero meravigliosa. Le sue forze essenziali emanano tuttora un ben possente fascino, se un poeta d’oggi e un musicista ancor più lontano dal tempo che generò quella creatura – perché il musicista si esprime oggi con mezzi allora sconosciuti – hanno potuto trovarsi d’accordo nella fervida ammirazione e nel desiderio di intessere nuovamente intorno a quelle forse essenziali la forma viva, capace di essere amata e pianta dalle moltitudini nuove. Come è noto, l’accordo fra d’Annunzio e lo Zandonai fu all’inizio puramente ideale; pensò a tradurlo in fatto Tito Ricordi, e non come editore solamente, ma sopra tutto come riduttore della tragedia dannunziana. Il compito di Tito Ricordi fu veramente terribile; sfrondare i rami di pianta così preziosa, ridurre una tragedia ampia, ricca di sviluppi aneddotici e ornamentali nei limiti di un comune libretto era tutt’altro che facile, ed è anche naturale che a lavoro compiuto non sieno mancate le critiche per il coraggioso potatore. È certo che per un lettore – se fosse possibile trovarlo – il quale ignorasse completamente la preesistenza estetica di Francesca, questo libretto in sé considerato apparirebbe pur sempre una nobile composizione, infinitamente superiore a infiniti confratelli suoi, ricco di azione e ricco di poesia, vigoroso e prezioso insieme; ma tuttavia non mai tale da recar nuovo lustro alla gran firma dell’autore. Nei primi due atti, è stato detto, i protagonisti della tragedia si vedono di scorcio, mentre nella ricostruzione aneddotica dell’ambiente si notano sproporzioni e incertezze e quasi inosservato, con grave danno di quanto seguirà, passa il tradimento ordito fra Ostasio e Ser Toldo per far credere a Francesca che Paolo sia lo sposo, e non il procuratore del fratello. Tutto questo, in gran parte, è vero, ma, aggiungo subito, non ha molta importanza, è critica oziosa. Nessuno poteva supporre che la tragedia dannunziana dovesse ricevere bellezza da quelle amputazioni, e bisogna rallegrarsi anzi che queste sieno state eseguite da persona di gusto sicuro e di provata esperienza teatrale. Uno spettacolo ha esigenze proprie, a cominciar dalla durata sulle quali non si può passar sopra: la Parisina informi. Ma c’è ben di più, né lo Zandonai ha dato la sua musica alle sole parole sopravvissute dopo la riduzione, né il pubblico solamente con la conoscenza di quelle ha integrato il fantasma puramente musicale. Poco prima, trascinato dalle abitudini del linguaggio – che sono spesso cattive abitudini – ho detto che Zandonai ha dato ha dato a Francesca una nuova «veste musicale»; ebbene, se mai la veste, che è cosa materiale ed esteriore, trova i suoi limiti necessari, si circoscrive nelle parole precise del libretto; ma l’anima che è nei protagonisti della tragedia, nei personaggi minori e nelle cose che li circondano a

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costituire l’ambiente e il tempo loro, va ben oltre quei limiti. Zandonai ha musicato, in realtà, tutta la Francesca di D’Annunzio, e più ancora quella che è viva nella nostra tradizione estetica da Dante in poi. Se si confrontano allora le parole che effettivamente costituiscono il libretto al tesoro di quella tradizione, la mutilazione potrà apparire ben altrimenti enorme; ma, diciamo subito, enorme all’apparenza e insignificante nella sostanza, perché la musica non ha subìto riduzione e si è sforzata anzi, coi suoi mezzi che le consentono concentrazione di espressione ben superiore a quella della poesia, a far rifulgere tutto quel tesoro senza perderne la minima pagliuzza. Questo è tanto vero che lo Zandonai stesso dichiara dio non avere avuto nel comporre il suo spartito nessuna preoccupazione di ricostruzione storica: questa Francesca non è quale fu, ma quale può essere sentita da un musicista moderno. La preferenza data alla Francesca dannunziana si spiega pur facilmente: essa era la forma rappresentativa della creatura diffusa nella tradizione, per così dire, che probabilmente più si avvicinava a quella che già viveva nel pensiero dello Zandonai; ed era anche la forma che più visibili recava gli elementi musicali, intimi ed esteriori. C’è nella tragedia dannunziana, dal principio alla fine, un’ombra di torbido patos che ricorda «la bufera infernal che mai non resta». Dice a Paolo, Francesca implorante:

È dolce cosa vivere obliando almeno un’ora, fuor dalla tempesta che ci affatica.

Ma è un attimo; l’onda incalza, e naturalmente doveva trovare la sua chiara espressione nel dinamismo musicale. C’è la furia di Malatestino, la bestialità di Gianciotto; e attorno a questo gorgo in cui ribollono l’oro e le scorie è tutto un fiorire di trilli, di gorgheggi e di risa per le fresche voci di Biancofiore e di Garsenda, di Altichiara e di Dionella. C’è l’ardore del fuoco greco, l’impeto delle balestre e degli acciari; e vicino un rosaio che diffonde il suo inno alla vita, e ghirlandette di narcisi che languiscono per troppo amore. Tutto questo è già musica, musica presentita e non ancora sentita; mentre pure il verso realmente suona in larghi respiri o tintinna come metallo di ottima lega. D’altra parte, come già accennavo, il pubblico non si è preparato ad accogliere la nuova interpretazione musicale con la lettura del solo libretto o semplicemente col vedere e udire quel che avveniva sulla scena: esso già conosceva l’intera Francesca di D’Annunzio e aveva nei propri ricordi fantastici anche la più ampia Francesca della tradizione. Questa condizione di cose diminuiva di molto la responsabilità del riduttore-librettista, ma accresceva di gran lunga quella del musicista; non si trattava di far conoscere una nuova creatura d’arte ma di far riconoscere chiara, nitida, viva come non mai una creatura che inconsapevolmente si celava in noi, da quando abbiamo cominciato ad adornare il contenuto reale del nostro spirito con le figure dei sogni più profondi. Questa prima rappresentazione di «Francesca da Rimini» era un eroico cimento, e Riccardo Zandonai l’ha superato da trionfatore.

* I cinque quadri di questa «Francesca» hanno uno per uno distinta fisionomia, ma tutti sono collegati e pervasi da una stessa onda di passione. «Amor le fa cantare» è il motto che potrebbe sintetizzare ogni creatura della tragedia musicale. La prima grande originalità di questo spartito nel confronto con la produzione moderna sta nella prevalenza

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assoluta del canto. Le voci si diffondono in melodie che mai esauriscono la loro mutevole fluidità, che sembrano piegarsi parola per parola a voler rendere tutta la commozione, il calore individuale da cui le parole stesse emergono. Zandonai disegna musicalmente le sue figure con sintesi di rara profondità. Tutta l’anima di Francesca è già nella frase che ella canta dall’alto della loggia, al suo primo comparire:

Come l’acqua corrente che va, che va, e l’occhio non s’avvede, così l’anima mia...

Paolo, al suo presentarsi e poi sempre, ha un respiro ampio ed ardente. Gianciotto si annunzia con un ritmo zoppicante e incalzante. Malatestino è racchiuso in frasi contorte, che di tanto in tanto si slanciano nelle note acute e poi tornano a strisciare come serpi. Samaritana ha un canto pieno di presaga malinconia. Le ancelle di Francesca si sentono sopraggiungere e poi sparire in un continuo trillo fatto di inconsapevole e semplice gioia. Saldi, nitidi, immediatamente comprensibili sono pure tutti gli atteggiamenti di queste figure. La melodia di continuo ci dà la rivelazione di stati d’animo sempre nuovi. Lo spettatore ha una particolare commozione nel riconoscere e sentire una così intensa varietà di vita. È raggiunto uno dei fini essenziali dell’arte: suscitare aspetti infiniti e tutti veri in quello che pare un unico monotono vero. Ricordo l’ansia di Francesca dopo che per la prima volta ha veduto Paolo, quando dice alla sorella:

Portami nella stanza e chiudi la finestra, e dammi un poco d’ombra e dammi un sorso d’acqua e ponimi nel tuo piccolo letto e con un velo ricoprimi, e fa tacere queste grida, fa tacere queste grida e il tumulto che ho nell’anima mia...

La maschia gioia di Gianciotto sulla torre della battaglia, dopo che Francesca inopinatamente incontrata gli ha porto la tazza del vino:

È dolce cosa rivedere la vostra faccia, dopo la battaglia e da voi avere offerta una coppa di vin possente, e beverla d’un fiato, così.

Il concitato lamento di Paolo nella stanza di Francesca, al ritorno da Firenze, che incomincia:

Perché volete voi ch’io rinnovi nel cuore la miseria di mia vita?

Le semplificazioni non sono possibili perché dovrebbero essere infinite. Zandonai in tutta la sua produzione è stato eccellente istrumentatore, e la nuova partitura è un nuovo magnifico documento anche per questo. Il maestro ha avuto uno straordinario senso di misura: l’orchestra non supera mai le voci ma intorno ad esse, intorno cioè alle pure formule emotive, pone di continuo una trama finissima e piacevolissima, tutta

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colore e sfumature, trasparente anch’essa e luminosa. L’orchestra ripete le eco [sic] delle voci, suggerisce ricordi, idee e sentimenti associati, ed è poi la voce delle cose che non hanno voce. Solo quando la commozione troppo intensa par diffondersi e tutto sembra gridare, l’orchestra pure solleva il respiro, si estende come nelle zuffe dall’alto della torre al secondo atto, come nella zuffa ben più terribile del terzo in cui due volontà si perdono e trionfano con un bacio. L’opera non ha preludii; solo poche battute di quadro in quadro precedono l’aprirsi del velario; sono come palpiti dell’imminente canto. Ma vi sono alcune pagine che hanno trionfato come pagine orchestrali – pur essendo esse stesse tutte soffuse di canto. Ricordo il coro delle donne nel primo atto, dall’alto della loggia, e la deliziosa, finissima «canzone a ballo» del terzo atto. Questa strumentazione delicata e sapiente, che ha permesso allo Zandonai di svolgere tutto il secondo atto in due piani estetici, quello della battaglia e quello dell’incipiente tragedia familiare, non ha mai stranezze o effetti ricercati. La viola pomposa al primo atto susurra dolcissime frasi; gli istrumentini dei sonatori del 3° atti danno graziosissimi colori, ma non si potrebbe mai riconoscere nella armonizzazione nuova, libera di impacci, alcuna stranezza vo facilmente come per quest’opera, come del resto per tutta la produzione dello Zandonai, non si possa parlare né di scuola né di derivazioni. Questa musica presuppone Verdi, Wagner e Debussy, ma anzitutto presuppone un artista sincero che alla feconda vena unisce la ponderata sapienza e la tenace volontà. Anche la volontà: sono certo che lo Zandonai ha dovuto vincere non poche tentazioni per costringere la sua ispirazione nei limiti imposti dalla scena. E anche per questo ha trionfato. Il pubblico l’ha seguito con attenzione intensa, non ha perduto anche in questa prima audizione il senso di vita profonda che anima tutto il nuovo lavoro. Il Maestro può essere ben contento, come il pubblico, dei suoi interpreti. Linda Cannetti ha creato una Francesca di fiamma: la sua voce bellissima ha avuto tutte le dolcezze e tutte le violenze. Giulio Crimi ha cantato con molta passione tutta la sua difficile parte e ha composto con grande efficacia il personaggio. Ottimo il Cigada come Gianciotto, e lodevolissimo il Paltrinieri come Malatestino: tutt’e due hanno reso con drammatica evidenza la scena della delazione nel primo quadro del quarto atto. Bene assai tutti gli altri, e concorde, correttissima, la falange orchestrale sotto la direzione del Panizza che a concertare questa opera ha posto tutto il suo amore e la sua scienza. Gli applausi sono stati interminabili quadro per quadro, e qualche volta sono scoppiati a scena aperta. Un successo grande e duraturo. Dobbiamo rallegrarcene per la gloria dell’arte – e anche dell’arte italiana: il che non è di troppo. La “Francesca da Rimini” di D’Annunzio e Zandonai. La prima rappresentazione al “Regio” di Torino, «L’Ora» [Palermo], 20-21.2.1914

Se la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai conseguirà – come di gran cuore auguriamo – vittoria, il merito sarà anche di colui che ridusse e adattò per la musica la tragedia di Gabriele D’Annunzio: vogliamo dire del comm. Tito Ricordi, il quale dalla pittoresca, passionale, ma qua e là troppo liricamente verbosa opera del grande poeta abruzzese seppe trarre un libretto serrato, agile, pieno d’equilibrio, che si presta mirabilmente alla veste musicale. Tito Ricordi ha fatto una riduzione che dimostra quale e quanto senso del teatro egli possieda, come senta ciascuna scena in sé stessa e nella sua concatenazione con le altre,

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come intuisca e prepari l’effetto scenico che dalla linea totale dell’opera debba scaturire. La tragedia del D’Annunzio nell’elaborazione di Tito Ricordi nulla perde del suo colore, del suo calore, del suo pathos sottile e suggestivo, ma acquista in rapidità, e di statica diventa in sommo grado dinamica, andando al segno dritta come lama. È come un albero, cui siansi tolte le troppe fronde che l’ingombravano, e che meglio splenda nella grazia delle sue corolle magnifiche. Se la Parisina, prima di cadere in mano di Pietro Mascagni, fosse passata attraverso uno spirito critico e teatrale come quello di Tito Ricordi, il nostro teatro lirico vanterebbe oggi forse un dramma musicale in più. È una riflessione che nasce spontanea da un raffronto tra la Parisina e la Francesca da Rimini. Il nostro valoroso inviato speciale ci manderà da Torino larghe notizie sull’accoglienza che farà il pubblico alla nuova opera di Riccardo Zandonai, il genialissimo autore di Conchita, il possente musicista che tanto fa sperare per la gloria del nostro teatro lirico; e giacché trattasi d’un avvenimento artistico singolarissimo, crediamo opportuno offrire ai lettori lo schema della tragedia.

La tragedia nella riduzione di Tito Ricordi(*)

---------- (*) Segue, a firma M., il racconto minuziosissimo della storia, scena per scena. 12 Enrico Serretta, La musica di R. Zandonai, «L’Ora, 20-21.2.1914

Torino, 19 notte (Dal nostro inviato speciale) È ormai divenuto un vecchio luogo comune parlare di attesa vivissima, di impazienza ansiosa, di previsioni disparate nell’imminenza di un grande avvenimento artistico. Però mai come per questa Francesca che il comm. Tito Ricordi ha ridotto dal poema D’Annunziano per la musica di R. Zandonai le vecchie frasi sarebbero opportune. Critica e pubblico aspettavano la prima di questa sera con veramente insolita ansia principalmente per due motivi: per avere anzitutto un altro elemento – dopo l’esito di Parisina – per giudicare se e quanto convenga a un musicista ispirarsi e produrre un’opera su un poema di Gabriele D’Annunzio, ed anche specialmente perché Riccardo Zandonai è il giovanissimo maestro su cui oggi, dopo le precedenti sue opere, convergono le migliori speranze di tutti coloro che si appassionano per il teatro e per la bella musica italiana e da cui si aspetta bene a ragione «il capolavoro». La sala del Regio è questa sera meravigliosa di folla, di eleganza e di intellettualità. Tutti i grandi giornali d’Italia, moltissimi giornali esteri hanno espressamente inviato a Torino i loro critici musicali. Non è solamente un’opera nuova che stasera siamo chiamati a giudicare – e fra i giudici notiamo anche molti maestri e compositori celebri –; ci può esser da fare qualche cosa di più e di meglio: dare dirò così la cresima della gloria ad un giovane di trent’anni che ha già da un pezzo mostrato di che produzione mirabile può esser capace il suo ingegno e come sia salda e profonda la sua cultura musicale.

Il maestro Chi avvicina per la prima volta Riccardo Zandonai prova anzitutto come un senso di piacevole stupore nel non trovare in lui il «grand’uomo». Il successo non l’ha guastato. Egli è rimasto buon ragazzo, semplice, affabile, sorridente e vi parla delle sue opere solo se voi gliene parlate. Altrimenti vi parlerà d’altro, magari del suo virginia che non

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tira – perché come Mascagni ha i toscani, Zandonai ha i virginia a getto continuo. Oppure non vi parlerà di nulla. Questo è assai più probabile poiché egli anche trovandosi in compagnia preferisce star zitto. Ascolta gli altri e sorride, talvolta anche quando non li ascolta. Perché spesso dal suo sguardo si capisce che è lontano. Quando, nei brevi riposi, non è al suo paese fra i suo cari, vive a Milano, spesso ospite di un suo amico, il dottore Pizzini che egli si è sempre trovato accanto dal principio della sua carriera, validissimo e fraterno protettore, e passa le sue ore libere in una ristretta compagnia di giornalisti, fra cui è qualche giovane e noto autore drammatico, qualche poeta, qualche letterato. Ma raramente si parla di musica, specie della sua musica. Provare a chiedergli un’intervista e vedrete subito il suo viso rattristarsi e il sorriso scomparire dalle sue labbra. Proprio per questo, per non fargli dispiacere, io ho dovuto rivolgermi ad altri per avere qualche notizia sui primi anni della sua vita artistica. Colui a cui mi sono rivolto, che conosce Zandonai da moltissimi anni, era infatti bene informato. Fin dalla più tenera età – cominciò – egli mostrava una straordinaria inclinazione per la musica... Non potei trattenermi dal sorridere ascoltando la solita vecchia frase. Ma non sorrisi più al resto del racconto. Perché è verissimo che il musicista di Francesca aveva appena tre o quattro anni quando ascoltava estatico le vecchie melodie di Bellini e delle prime opere di Versi strimpellate sulla chitarra da un suo zio, nel nativo paese di Sacco nel Trentino. Quella chitarra è oggi appesa a una parete dello studio del maestro e son legati ad essa i più dolci ricordi. Fu quello il primo strumento musicale da cui trasse le prime note quando non aveva ancora sei anni, e fu la prova incontestabile della veramente incredibile passione del fanciullo per la musica, che era il suo solo balocco, il suo solo svago, l’unico suo passatempo. E cominciò a studiare. Dapprima con un vecchio tedesco, ex trombone di una banda militare ed impiegato nella manifattura di tabacchi di Sacco che gl’insegnava il violino a colpi di arco sulle dita; poi col maestro Vincenzo Gianferrari, direttore della scuola musicale di Rovereto, che con gioia lo accolse e gli rifece dai principii la teoria del violino. Riccardo Zandonai aveva dodici anni quando cominciò a studiare il pianoforte e l’armonia; a tredici anni componeva le prime romanze, a quindici fu ammesso al primo corso del liceo musicale di Pesaro. Rimase al liceo tre anni, quanti gliene bastarono per vincere in tutti gli esami necessari, e alla fine del terzo anno ebbe il primo successo quando venne eseguito come saggio di composizione finale un suo poema sinfonico per cori e orchestra su «Il ritorno di Odisseo» di Giovanni Pascoli. Fu giudicato un lavoro pieno di bellezze. Il suo primo melodramma fu «La coppa del Re» tratto dal Taucher di Schiller, che il giovanissimo maestro presentò a un concorso Sonzogno nel 1902. Riccardo Zandonai arrivò a Milano due anni dopo, nel 1904, e da Arrigo Boito fu presentato a Giulio Ricordi. Il grande editore capì subito alla prima audizione che molto ci sarebbe da aspettarsi da quel ragazzo. Gli consigliò subito di mettersi al lavoro cercando un libretto e musicandolo. La vera carriera di operista di Riccardo Zandonai comincia da allora.

Le prime opere La prima opera che Zandonai presentò a casa Ricordi e che gli valse i primi successi teatrali fu Il grillo del focolare, una commedia musicale tratta da una novella di Dickens. Il maestro si rivelò dunque affrontando il genere più difficile, poiché rivestì di bella musica un’azione intessuta di sano e corretto umorismo. Il grillo del focolare

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fu l’opera d’inaugurazione del Politeama Chiarella a Torino ed ebbe incondizionata ammirazione del pubblico per il giovanissimo autore e favorevole critica. Anche più tardi a Genova, e poi a Nizza, il successo fu eguale. Qualcuno credette notare nella musica del Grillo un certo studio di imitazione del Falstaff e in generale degli ultimi lavori della scuola italiana. L’osservazione non era esatta perché son da allora la musica dello Zandonai appariva molto più moderna e si profilava una nuova e assolutamente originale individualità artistica che si affermò poco tempo dopo con Conchita, tratta dal romanzo di Pierre Louis [Louÿs] La femme e le pantin [sic] dal poeta Carlo Zangarini. Conchita fu data la prima volta al Dal Verme di Milano nel novembre [ottobre] del 1911, con un successo magnifico. Essa è apparsa subito dovunque un’opera piena di bellezze e di originalità, frutto veramente d’un’intelligenza geniale, ed il suo autore è stato giudicato un colorista straordinario. La musica di Conchita è fatta di melodie che sembrano sensuali; palpita dal principio alla fine di ritmi avvincenti e vivaci e brilla di ricche e variate tinte orchestrali. È veramente moderna di idee e di espressioni pur essendo appassionata nel vecchio significato italiano. Lo Zandonai ha mirato in Conchita a fare delle grandi linee sinfoniche con l’orchestra e ad ottenere la caratterizza-zione dei personaggi col ritmo più che con altri mezzi, e vi è indiscutibilmente riuscito. Così Conchita ha fatto e continua a fare il suo giro trionfale in tutti i teatri d’Italia e all’Estero. A Londra, a Buenos Ayres, a New York, a San Francisco, a Chicago ecc. ha avuto successi indimenticabili. Quest’anno figura nel cartellone del nostro Massimo per l’imminente grande stagione. Contemporaneamente a Conchita Zandonai veniva componendo un’altra opera, Melenis, che aveva cominciato subito dopo la prima esecuzione del Grillo del focolare e poi aveva quasi abbandonata, L’ambiente di Melenis è la Roma decadente con la sfrenata corruzione dei costumi e la prima aurora del cristianesimo. La protagonista è un’etera greca che muore d’amore per un giovane gladiatore romano. Melenis è stata giudicata un’opera di grande intensità drammatica e di forte rilievo. Vi appare il sistema dell’autore di servirsi della declamazione melodica, e, come Conchita, anche Melenis è pervasa da una melodia a grandi linee, e l’armonia è di fattura modernissima.

La rappresentazione Quando il maestro Panizza, alle 20,50 precise dà il primo attacco all’orchestra e si leva il velario e appare la scena del primo atto, si fa nella sala subito il più religioso silenzio. Il canto delle ancelle e del giullare con cui l’atto comincia appare originale e squisito e conquista subito il pubblico foltissimo, cui piace anche il duetto fra Ostasio e Ser Toldo. Dolcissimo è il canto delle donne che prevede l’entrata di Francesca e commovente il duetto fra questa e Samaritana, L’atto di chiude con l’offerta della rosa che Francesca fa a Paolo, commentata da una pagina musicale deliziosa piena di una larga onda melodica. Scoppiano appalusi fragorosi agli artisti, al maestro Panizza e all’autore. La Canetti ha cantato egregiamente. A qualcuno sembra un po’ fredda, ma non si può negare che pur essendo desiderabile in lei un po’ più di anima e di calore, in compenso ella canta con voce e con arte magnifica. Il secondo atto è l’atto della battaglia; si preparano armi ed ogni strumento di guerra quando appare Francesca. All’arrivo di Paolo, il duetto fra i cognati che si svolge in mezzo ai rumori delle mischie che sono accompagnati da un vigoroso commento orchestrale, è conciso, serrato, impressionante. Il tema dell’amore si rinnova nel giudizio di

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Dio innanzi alla bertesca, fino all’arrivo di Gianciotto accompagnato dal ritmo che lo caratterizza, che vien giudicato originalissimo. Piace assai il delirio di Malatestino ed il suo grido: a cavallo! che è di un’efficacia musicale sorprendente. Il successo è vivissimo, come pel primo atto. La Canetti, il tenore Crimi, che ha una bella voce fresca ed estesa, il Cigada, il Paltrinieri sono applauditissimi col maestro Panizza e l’autore. Sono anche molto ammirati i costumi dovuti all’impareggiabile Caramba. E siamo al terzo atto, l’atto del bacio. «...Presso la finestra è un leggio con suvvi aperto il libro della Historia di Lancillotto del Lago...» All’inizio si vede Francesca dinnanzi al libro in atto di leggere. Le donne ascoltano l’istoria e ridono. L’orchestra colorisce la scena e accompagna il canto con motivi dolci e primaverili, come nel primo atto, che s’interrompono nel duetto fra Smaragdi e Francesca. L’intero atto, con l’entrata dei musici, il ballo delle ancelle, il canto di primavera è un continuo succedersi di melodia dolcissima, commovente. Al bacio finale, commentato con grande vigoria d’orchestra, il pubblico entusiasta applaude calorosamente, lungamente. Il quarto atto è diviso in due episodi, l’uno e l’altro stretti, serrati, efficacissimi. Il duetto tra Francesca e Malatestino, di quando in quando interrotto dai gemiti del prigioniero che sta per essere ucciso, è di una drammaticità impressionante. All’arrivo di Gianciotto e alla denunzia del tradimento ritornano i temi che caratterizzano i personaggi e il tema della rosa del primo atto. Il duetto fra i due fratelli con cui si chiude il primo episodio è colorito dall’orchestra con grande vigoria. Il pubblico applaude con calore. E veniamo alla catastrofe: nel secondo episodio Francesca appare come pervasa da un’ansia paurosa. La sua mente vaga fra ricordi lontani, fra cui specialmente quello della dolce sorella, la piccola Samaritana. E l’orchestra segue questi ricordi coi temi del primo atto. Poi, l’entrata di Paolo, il breve duetto e il fragoroso irrompere di Gianciotto. I morituri, stretti in faccia al tradito, cantano il loro ultimo duetto d’amore sullo stesso tema che sin dal primo atto ha svolto solamente l’orchestra. Subito dopo, la morte. Pochi tocchi vigorosissimi d’orchestra e cala il sipario. Gli applausi scrosciano unanimi, interminabili.

La musica Con Francesca da Rimini Riccardo Zandonai ha meravigliosamente riaffermato la sua fama di musicista di ingegno aristocratico, originale, fertilissimo. Colorista mirabile, egli ritrae dall’orchestra infinita ricchezza e novità di effetti con grande freschezza di tinte e con pochi tratti caratterizza personaggi e situazioni, ora con forza di passione violenta, ora con squisite sfumature piene di poesia. Egli dimostra in Francesca di aver raggiunto la perfezione per quel che riguarda la semplicità dei mezzi e la chiarezza, che sono le più evidenti caratteristiche della sua arte. Compreso da profonda riverente ammirazione pei versi del grande Poeta, ha voluto che neppure una parola ne sfuggisse ed ha adottato un declamato melodico suo proprio che si svolge e si snoda flessuoso colorendo ogni espressione, ogni parola. E un’onda di melodia scorre per tutta l’opera, ora affidata al canto, ora all’orchestra, ora ad entrambi e si spiega più limpida quando la situazione lo permette o lo richiede. È melodia moderna e nel tempo stesso perfettamente italiana, come nel dolorante duetto delle sorelle al primo atto, di cui il tema, ancora più triste ed angoscioso, ritorna nella memoria di Francesca al IV atto. Così pure essenzialmente melodica è la fine del primo atto, e la fresca scena del canto primaverile delle ancelle. Ogni personaggio, dall’umile

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schiava all’appassionata e dolente Francesca, da Ser Toldo al feroce Malatestino, al rozzo Gianciotto, è rivestito di vita musicale ed accenni suoi proprii. È la più ricca tavolozza di suoni, che in Francesca ci vien presentata da questo giovane maestro che è stato definito il Segantini della musica. Ogni battuta, ogni particolare ha la sua importanza, il suo significato, il suo valore. Al primo atto la scena fra le ancelle e il giullare è accompagnata da un vero tempo di sinfonia, un allegro con una linea melodica moderna ma di sapore eminentemente classico. Nella seconda parte dell’atto è un succedersi di quadri musicali, dalle grida festose delle ancelle al dolente addio di Francesca e Samaritana, alla sfumatura di commossa poesia nella presentazione della rosa, quando il tenue coro delle fanciulle è accompagnato da una melodia affidata al liuto, alla viola pomposa e all’oboe che imita il piffero. Questa melodia ritornerà più volte nel corso dell’opera, più o meno trasformata e resa persino come in tono di caricatura allorché Malatestino denunzia al fratello il tradimento. La musica del secondo atto è in pieno contrasto con quella del primo. L’autore ha voluto esprimere con uno sprazzo violento di colorito musicale il fremito orribile della battaglia. Ma con questo s’intreccia, or dolce or concitato, il duetto fra Paolo e Francesca e poi l’entrata di Gianciotto col suo tema zoppicante, il delirio di Malatestino, il magnifico grido: a cavallo! Il quadro si chiude con una breve e potente pagina polifonica nella quale al tema della battaglia si unisce il tema del duetto nel giudizio di Dio. Nel terz’atto torniamo all’ambiente sereno col canto di primavera delle ancelle, che si alterna coi presentimenti angosciosi di Francesca. Il duetto finale è tutto vibrante di passione intensa negli accenti dei due amanti quando leggono il libro galeotto, accenti sostenuti dal commento vigoroso dell’orchestra. La prima parte dell’ultimo atto è fatta di musica aspra, musica di ferocia, di rancore e di odio specie nella coloritura delle passioni di Malatestino. Il declamato raggiunge in questo punto un’efficacia straordinaria, impressionante. La seconda parte invece è pervasa da un senso di tristezza e come di vago terrore. L’atto si chiude col duetto pieno d’impeto fra i due amanti, in cui il tema finale del primo atto, che fin qui è sempre stato sempre solo affidato all’orchestra, erompe dalle labbra dei due amanti con gli accenti di una passione folle ed è troncato dalla catastrofe rapida. È opinione generale che Francesca sia l’opera più completa del giovane maestro.

Il successo Il successo veramente magnifico, indimenticabile che ha stasera ottenuto Riccardo Zandonai è il degno coronamento di tutto l’amore immenso con cui egli ha lavorato attorno a questa Francesca che gli ha fornito sì larga messe d’ispirazione. Qualche critico ha notato nelle precedenti sue opere come esse siano fatte più che altro di studio profondo e di bene assimilata scienza musicale e come in esse faccia un po’ difetto l’anima, la passione. Ebbene, in Francesca è la passione che prorompe, che ravviva tutta la musica dalla prima all’ultima nota. E gli spettatori sono stati presi, avvinti, trascinati atto per atto, scena per scena, ed hanno applaudito commossi, entusiasticamente. Il primo atto suscita commozione ed entusiasmo indescrivibile. Il pubblico chiama sei volte con grandi applausi gli artisti, il maestro Panizza e l’autore. Nei corridoi i commenti sono favorevolissimi.

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Nel secondo atto la battaglia è riprodotta con una perfezione impressionante. Alla fine sono chiamati quattro volte gli artisti e l’autore. Nel terzo atto sono applauditi a scena aperta il canto delle donzelle e l’improvviso di Paolo. Suscita commozione enorme tutto il brano del bacio e il finale. Il pubblico chiama altre sette volte gli interpreti e l’autore, al quale fa una grande ovazione. Nel quarto atto, dopo la prima parte il pubblico chiama tre volte gli artisti e l’autore, e sette volte li chiama dopo la seconda parte, facendo un’imponente dimostrazione al maestro Zandonai e consacrando il successo dell’opera.

13 Filippo Brusa, “Francesca da Rimini” di R. Zandonai al teatro Regio, «Il Momento», [20.2.1914]

Dopo un lungo periodo preparatorio il novissimo spartito poté ieri sera giungere lietamente in porto e assecondare così l’attesa vivissima di quanti nutrono la fiducia migliore nel giovane e fecondo maestro trentino salito in poco tempo ad una notevole considerazione tra gli intelligenti. L’uditorio accorso seguì infatti lo svolgersi dell’opera con quell’ attenzione intensa che al compiacimento congiunge il rispetto raccogliendosi in silenzio non appena il maestro Panizza ebbe dato il segnale d’attacco.

Il primo atto S’apre su di un movimento spigliato con vaghi accenni di viola interna. È la vecchia compagna del giullare che viene a chiedere ospitalità nel castello dei Polentani. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzose. E passa nell’orchestra un fremito vago di giovinezza e di comicità contenuta. Il giullare canterà loro storielle e romanze ed in compenso non chiede che un pezzo di scarlatto per rappezzare la gonnella. Anche la dama che va sposa ad un Malatesta sarà prodiga al cantatore di doni. Le fresche voci delle fanciulle commiste allo scoppiettio dell’ istrumentale conferiscono al quadro una grande gaiezza. Si alternano, si uniscono. Il giullare canterà di Artù e del filtro magico che la madre Lotta somministrò a Tristano ed Isotta. E la viola preludia mentre le donne protese dal balcone sono in attesa. Ma Ostasio, fratello di Francesca, vociando villanamente, sopraggiunge interrompendo. Egli teme nel giullare un cortigiano di Malatesta venuto a conoscenza di ogni artifizio ordito da Ser Toldo notaio per dare in isposa Francesca a Gianciotto, ch’è sciancato e ripugnante, prima ch’ella lo veda. Lo atterra, lo percuote e lo scaccia. Un canto giunge dalle stanze. È un ritornello antico, una cantilena suggestiva. Liuti, viole e pifferi lo accompagnano. E si diffonde una dolce melanconica nostalgia come un’eco insinuante ed insistente. La pagina ha sapore evocativo. Qualche accenno agli antichi modi con tocchi discreti ne accresce il potere. Francesca al braccio di Samaritana appare come assorta: «Come l’acqua corrente che va, che va e l’occhio non s’avvede». Anche la sorella nell’ora dell’abbandono è sgomenta. All’alba dal lettuccio attiguo ella più non sorgerà ad annunziarle la stella diana ed il tramonto delle gallinelle. Il gaio sciame delle ancelle ritorna. Si chiama Francesca. Accorra essa a vedere lo sposo. Esse che lo credono fidanzato è degno di lei. Paolo, venuto a rogar l’atto per mandato del fratello, si arresta tra gli arbusti del giardino. Ed i loro sguardi s’incontrano turbati per la prima volta. Presaga, Francesca dice a Samaritana: Fa cessare questo

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tumulto: corretegli incontro. Francesca gli si avvicina, coglie una rosa e gliela offre. Il momento è musicalmente denso di poesia. Ed il musicista dedito spesso, come già altrove, all’episodio con una pennellata sapiente riesce a raccogliere il quadro in un’atmosfera morbida, di delicatezza soavissima. Un lieve tremolio di archi su larghe armonie delle sonorità medie avvolge la melodia che i sonatori dalla loggia scandono dolcemente. La viola pomposa che lo Zandonai ha introdotta quivi trae dalle corde suoni accorati e penetranti cui risponde l’oboe quasi gemebondo. Il ritornello delle voci femminili vagamente sin intreccia evocativo nella sua semplicità.

Il secondo atto Alla serenità succede ora il fervore guerresco; e nella battaglia un’altra battaglia d’anime grave, minacciosa e nascosta. Nel maniero dei Malatesta si combatte. Macchine infernali e fuochi di pece greca attendono l’avanzarsi del nemico. Trombe, campane, strepito d’armi risuonano nell’aere sanguigno, solcato da falariche. Richiami angosciosi di feriti, urla, invocazioni si sperdono nella mischia orrenda. Atto di movimento, di vita, intesa naturalmente nel significato esteriore. Ed anche atto di colore intenso, cupo. Voci ed orchestra hanno infatti ruvidi contrasti improvvisi, aspre dissonanze. E dal punto di vista descrittivo il sinfoneta ne ha realmente intensificata la dinamica. Forse nel groviglio di frasi, nell’insistenza stessa della situazione eccede in macchinosità. La musica descrittiva finché non rivela stati d’animo ma si accontenta di rendere esteriormente vicende puramente fisiche, può nascondere un’insidia qualora non la sorregga il criterio della discrezione, o quando il musicista non sappia raccogliere attorno a pochi temi decisamente incisivi le sue impressioni. La stessa varietà conduce in caso diverso all’uniformità. Due episodi concedono però in quest’atto un po’ di tregua: quello patetico di Paolo e Francesca, ove il tema che diremo così dello sguardo ritorna in tutta la sua soavità e l’arrivo di Malatestino ferito. Anche il declamato è a singulti. Un ritmo puntato, caratteristico, si ripete come un pedale, mentre altri tocchi nelle sonorità acute guizzano e si succedono ad intervalli di silenzio come urlo di belva ferita. È cotesto un accenno abbastanza significativo alla bieca figura del sanguinario e feroce giovinetto. Accenno vago, ma che illumina a sufficienza il tipo.

Atto terzo Nella camera di Francesca. All’alzarsi del velario ella è intenta a leggere. Una nota di pedale fissa ne dà come l’immagine plastica. Dopo la sera perigliosa essa non ha più veduto Paolo, che il Comune di Firenze volle Capitano del popolo. E questa è la parte veramente lirica dell’opera. Al fascino del canto si aggiunge quello della danza. Sonorità di flauti, liuti, oboi e clarini echeggiano su dalla loggia. La musica è leggiera, senza costituire un’imitazione pedestre di modelli arcaici, dà nell’insieme un profumo sottile, come soffuso di polvere. Le ancelle, giunte le mani, ballano e cantano: Deh! creatura allegra, conduci questa danza in veste bianca e negra, com’è tua costumanza. La voce si distende sugli arpeggi ed i violini in accordi acuti avvolgono il canto in una chiarezza diafana, quasi impalpabile. Anche la disposizione delle parti si compiace di intervalli consonanti, appena intercalati da qualche successiva armonia un poco inconsueta. L’armonia dello Zandonai, del resto, benché modernissima e non aliena da passaggi cromatici ed enarmonici, evita spesso quella sovrapposizione d’accordi così cara agli stranieri: quelle sonorità composte in cui

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nella tonica o nella dominante si accavallano none, undecime e tredicesime, talora a danno della limpidezza. La sostanza melodica di cotesto stornello non è certo originale, come non sempre originale è a rigor di termini lo Zandonai quando si propone di definire con una linea più sensibile un periodo, una frase. Gli occorre talvolta di rasentare in flessioni proprie ai maestri dell’ ultima ora, non escluso Puccini e Mascagni. Ma se nel lungo respiro la sua melopea ci abbandona, si riprende come appunto nella pagina cui accenniamo non appena la situazione richieda grazia e snellezza. La situazione saliente è però nella seconda parte dell’atto: nel dialogo tra Paolo e Francesca. La situazione ha, prima dello Zandonai, soggiogati compositori illustri ed incogniti. E si comprende. Là ove il sentimento sopravviene, impera la lirica. L’arte dei suoni riacquista allora tutto il magico suo potere suscitatore, sia esso passionale e gagliarda come in Riccardo Strauss, mistica e sognante come in Wagner, sottile e voluttuosa come in Massenet, o profonda, umanamente e sanamente sentita come in Verdi. Riccardo Zandonai, più che coll’onda travolgente della passione, trattò la scena in maniera sentimentale. Volle seguire il lungo indugio di Francesca parola per parola, e dai morbidi tocchi di colore dell’inizio salire solo in fine alla vera espansione, che però presto dilegua nell’ eco lontana di voci interne.

L’ultimo atto La tragedia volge trucemente all’epilogo. La cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da Malatestino. Anch’degli ama Francesca. Ucciderà Gianciotto purché ella lo voglia come uccide il prigioniero che geme nel sotterraneo ed il lamento del quale la fa rabbrividire. Anche qui la sinfonia si distende negli strumenti, pervasa da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino. Il declamato a tratti vi si intreccia e tra i lunghi silenzi passa come un senso di sgomento. E nella scena susseguente si rinvigorisce, si rafforza ed agevola il dialogo, che se non raggiunge sempre comunicativa intensa, si mantiene però vibrato e svelto. È notevole quivi il carattere sarcastico che assume in certi atteggiamenti ripetuti a guisa di leit-motif [sic]; atteggiamenti che esprimono assai bene lo scherno con cui Malatestino ferisce ed aizza il fratello. Nella seconda parte che conduce alla catastrofe appena preparata da un intermezzo pittorico in cui aleggia inconsapevolmente una tristezza infinita e da uno scoppio intenso di passioni, coteste virtù sono mantenute, insieme ad una invidiabile chiarezza di espressione. Peccato che la tragedia per la stessa sua natura non commuova realmente, riuscendo a mala pena a mascherare l’artifiziosità vuota della situazione portata all’iperbole dalla ferocia più sanguinaria, e che ciò si rifletta anche nella musica.

Impressioni E la mancanza di sincerità tradisce spesso l’intera tragedia e ne fa opera di poesia più che di teatro e di verità. Opera di poesia e quindi armonica, imbevuta di musica e di suoni tenui e diffusi, quasi intenti esclusivamente a soggiogare ed a disporre per solo compiacimento proprio le idee, i pensieri. In ciò sta il lascito maggiore dell’arte di D’Annunzio, ed entro certi limiti la giustificazione di un connubio colla musica. Riccardo Zandonai, come il D’Annunzio poeta e colorista, ne restò soggiogato: anima squisita e sensibile, ne intuì l’armonia, ne fu scosso e compreso. E volle scendere a scrutarne le fibre, e col potere evocatore del suono esaltarne la psiche commossa e cantare colla

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leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova; non consapevole in tutto forse del pericolo e dell’insidia che gli si riserbava. L’arte di questo giovane autore fecondo che in pochi anni ha dato alla scena un Grillo del focolare, una Conchita ed una Melenis, malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica d’onde aveva preso le mosse coll’allargare le volute del canto verso più spaziosi orizzonti, è essenzialmente anche in «Francesca» quella dell’impressionista. Dell’ impressionista italiano, diremo così, vale a dire ove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy o Dukas passano a volte in seconda linea, e che nondimeno nello Zandonai elevati a fattore giovano colla loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ ente fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si manifesta in ogni arte, e nella pittura in ispecie, e nella musica muove alla ricerca costante del colore nuovo e del nuovo suono – siano essi semplici o più spesso composti – lo Zandonai seguì il sistema, in parte per temperamento proprio, in parte per influsso altrui. E risultò analitico più che sintetico: propenso al particolare anziché alla vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia, per quanto ligia ai principi tematici, è talora un fantasioso succedersi di elementi difformi, che conservano colle origini un nesso appena superficiale, ove i richiami già poco plastici ed afferrabili, raramente riescono riconoscibili nel mare fluttuante, nel caleidoscopio dei più svariati colori in cui sono disciolti. Ed è appunto nelle parti della tragedia ove il colore tenue e diffuso prepondera che il musicista vi s’accorda coll’armonia latente. Più che non nel crescendo passionale, nell’impeto lirico, od ancora nelle truci scene dell’ultimo atto. Quivi sentiamo venirgli meno la profondità del sentire; noi sentiamo mancare al discorso quella robustezza che in un solo momento può lumeggiare una coscienza; quel «pathos» misterioso che rivela noi stessi agli altri. L’artificio del drammaturgo invano cerca sostegno nel declamato a volte senza ragione nelle estreme regioni, e qualche volta ancora troppo diffuso o interrotto da inutili didascalie strumentali. Francesca da Rimini rimane tuttavia un documento prezioso d’arte superiore: e prezioso non soltanto per qualità di tecnica, ma ancora per dignità ed elevatezza di contenuto: per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso che a volte costituiscono il tramite sicuro del successo. L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto della figura d’artista cui si trovava si fronte. E riserbò all’opera novissima accoglienze festose. Il primo atto si chiuse infatti con cinque chiamate, di cui una agli interpreti e quattro agli interpreti stessi, all’autore e al maestro concertatore Ettore Panizza. Al secondo, più esteriore e macchinoso e di minor contenuto espressivo per quanto magistralmente trattato, due chiamate evocarono ancora artisti ed autore. Il terzo risollevava però decisamente le sorti con sei chiamate dopo essere stato interrotto da applausi al canto delle ancelle ed alla frase del tenore: «al vostro viso» che il Crimi disse con molta espressione. Ed alle due parti dell’ultimo atto risuonarono ancora approvazioni abbastanza vive e nutrite agli interpreti, all’autore e al Panizza. Quest’ultimo fu col Ricordi, che ridusse per la scena lirica la tragedia d’Annunziana, un vero collaboratore del successo. Concertò con amorevole zelo la bella partitura e ne fu assecondato con diligenza dall’orchestra,

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dai cori che disimpegnarono con lode il loro compito, e dagli interpreti. Sono essi la Cannetti, il Crimi, il Cigada ed il Paltrinieri. La Canneti fu una protagonista intelligente, diede alla passionale e dolorante figura tutta la vita, tutta la sincerità, facendosi apprezzare anche come eletta cantatrice in una parte ardua e faticosa. Il Crimi – assai più a posto quivi che nella Gioconda – diede risalto vocale e drammatico, come risalto ne ebbero dal Cigada e dal Paltrinieri le due figure di Gianciotto e di Malatestino. La messa in scena ed i costumi di Caramba sontuosi. Per l’avvenimento erano convenuti al Regio molti critici di quotidiani della penisola, tra cui Clerici del «Corriere della Sera», Nicola d’Atri del «Giornale d’Italia», Gustavo Macchi, Gino Monaldi, artisti, musicisti, letterati. Tra questi Umberto Giordano, Armando Seppilli, Carlo Zangarini, l’editore Riccardo Sonzogno. Assisteva allo spettacolo la Principessa Laetitia. La sala era ben popolata. «Francesca da Rimini» si replica domani sera. [...] 14 La prima rappresentazione di “Francesca da Rimini” tragedia di G. D’Annunzio, ridotta da Tito Ricordi per la musica di Riccardo Zandonai al Teatro Regio, «La Stampa», 20.2.1914

Il successo e il pubblico Un giudizio intorno alla musica dello Zandonai non è cosa agevole anche per chi abbia di questa “Francesca da Rimini” seguite con attenta cura le ultime prove e conosca l’opera nella buona riduzione per canto e pianoforte fatta da Ugo Solazzi e pubblicata dalla Casa Ricordi con quella signorilità che è in essa consuetudine. Il pubblico mostrò nondimeno di apprezzare di primo acchito quanto di veramente buono è nell’opera dello Zandonai. E noi non possiamo che dargliene lode. Cinque chiamate al proscenio, di cui quattro con lo Zandonai e l’ultima col maestro Panizza, dopo il primo atto; tre dopo il secondo di cui due con lo Zandonai, sei dopo il terzo di cui l’ultima assai calorosa per il solo autore dell’opera; tre dopo la prima parte dell’ultimo atto e nuove acclamazioni al finire dell’opera costituiscono la migliore prova di un successo tanto più notevole in quanto non era certo facile per il pubblico penetrare di primo acchito l’essenza di una musica abbastanza complicata come questa. E quale pubblico Interamente occupati i palchi, fra cui quelli delle Loro Altezze la Principessa Laetitia e la Duchessa di Genova, presenti allo spettacolo; eleganti ed animatissimi i posti distinti; meno affollato il pubblico altrove, ma pur sempre tale da dare un aspetto assai vivace alla sala, ove notammo i critici di Milano, di Venezia, di Roma; il maestro Giordano; l’editore Riccardo Sonzogno ed altri personaggi notevoli.

L’opera d’arte Così il pubblico torinese, che primo aveva saputo scorgere in Il grillo del focolare i segni squisiti di una tempra di musicista ricca di originalità e di cultura, ed allo Zandonai esordiente aveva dato la gioia dell’applauso, si è trovato ieri sera dinanzi all’ultima prova del compositore trentino, fatto maturo di esperienza e reso agguerrito alle lotte della scena dalla pallida ombra di Melenis e dalla sensualità ardente di Conchita. Quali dunque i legami tra questa nuovissima Francesca da Rimini e le opere dello Zandonai che la precedettero? La ricerca non è ardua per sé,

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poiché è evidente che, tracciatasi una via, il compositore l’ha seguita nelle sue opere con fortuna maggiore o minore ma certamente con la magnifica sicurezza di chi ha una convinzione profonda di ciò che fa e di ciò che crede vada fatto. Ma la tempra dello Zandonai è quella di un musicista complesso e delicato; ed è per ciò una tempra complicata. Dire pertanto che in Francesca da Rimini ricompaiono molte delle doti di Conchita e di Il grillo del focolare – quali la ricchezza dell’orchestrazione; la preziosità e spesso l’originalità dell’armonizzazione; i bagliori di una tavolozza tutta accesa di un vibrante senso del pittoresco; una irrequietezza di ritmi persino esuberante; un’audacia che qualche volta può soltanto essere giustificata dall’esito; una preponderanza assoluta del linguaggio orchestrale sui mezzi di espressione concessi alla voce; una ineluttabile tendenza a restringere il volo della melodia entro confini che sembrano anche più stretti dato che l’idea musicale nello Zandonai non ci appare mai, o di rado, dominata dal soffio potente e largo della vera ispirazione – dire questo ed altro è bensì dare rilievo ad alcuni del caratteri dominanti in tutta la musica dello Zandonai, ma non è approfondire la ricerca delle qualità che fanno di quest’ultimo lavoro il lavoro più complesso e più equilibrato e più caratteristico del compositore trentino, qualunque possa essere il giudizio intorno ad esso, qualunque l’esito sulla scena.

I caratteri generali della musica Poiché il maestro ci appare qui in tutta la sua interezza, colle sue qualità migliori, co’ suoi difetti più sensibili. E nel contesto musicale è tanta la schiettezza degli intendimenti ed è un così disciplinato ardore di libertà da indurci a credere che oramai lo sviluppo delle facoltà artistiche del compositore sia veramente completo, e nitida e piana la sua visione d’arte. Egli infatti ha spinto l’abilità nel sapersi valere di ogni risorsa orchestrale ad un punto che sarebbe forse pericoloso per lui il voler superare. Egli ci ha dato il tessuto più ricco e il più faticosamente trapunto che dalla sua abilità di agitatore di grandi masse orchestrali potessimo riprometterci. La varietà dei piccoli giochi ritmici è pervenuta ai confini oltre i quali non vige più – regolatrice inflessibile – quella compostezza di linee cui – per quante possano essere le licenze consentite – deve pur sempre porre mente il musicista nell’architettura grandiosa del dramma lirico. La ricercatezza dell’armonizzare rasenta oramai la preziosità ricercata del linguaggio; gli effetti sapientemente calcolati, ma non mai sfioranti la volgarità, hanno qui toccato tal grado da far sembrare anche nutrito di una qualche sostanza di idee ciò che invece semplice-mente artificio gustoso. La meraviglia ci assale così ad ogni tratto. Ma, come a tale sensazione si conviene, il piacere che essa ci procura è cerebrale. Non scende quasi mai dai meandri del cervello alle radici, donde originano la commozione e l’irrefrenabilità di certi impeti dell’animo nostro. Noi ci troviamo come in una magnifica serra, gelosa custode di preziose piante tropicali. Nell’atmosfera umida e calda i ricchi fogliami contendono la luce alle vetrate, e all’ombra dei fusti carnosi s’annidano e crescono fiorellini di specie rare e dall’aspetto strano. La serra è ampia e superba d’ogni ornamento. Eppure noi sentiamo qualche cosa che ci pesa; proviamo un desiderio ardente di un po’ d’aria pura che ci venti sul viso, in cospetto del grande cielo, della pianura deserta, povera di piante e di fiori ma tutta percorsa da un fremito di vita, che non è la vita chiusa della serra, dosata nei gradi di calore, uguale, resa soltanto possibile grazie a cento abili artifici.

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Non voglio dire con questo che lo Zandonai sia artificioso. Ho anzi la convinzione che in lui sia una così completa corrispondenza – e direi compenetrazione – dell’idea colla forma da far sì che nulla di quanto egli scrive non sia sincero. La mancanza di schiettezza assumerebbe un altro aspetto. Ma questo affermo: che nella musica dello Zandonai è quasi sempre qualchecosa di studiato – nel senso buono della parola –, di evoluto, che stringe tra i suoi lacci la ispirazione come per tema che essa – la bella puledra selvaggia – possa, non frenata, gettarsi focosa tra ai campi inondati di sole e tutti fragranti dell’aspro aroma della terra, Dio sa con quale grave pericolo per i molti sofismi onde è nutrita la concezione del teatro melodrammatico moderno. Lo Zandonai, insomma, sembra soffocare la sua creatura per volerla baciare con troppo ardore; o fa della melodia una Pisanella che muore sotto il peso dei fiori che la rigidità di un sistema e l’arte consumata del compositore le gettano sopra. E poiché l’idea melodica non ha quasi mai ampio e profondo il respiro, accade che noi vediamo nel ricco trapunto orchestrale onde è rivestita l’azione una superba bellezza di sottili disegni e di gustosi ricami, senza che mai – o di rado – la nostra mente riesca ad adagiarsi in qualche forma così ampia da potervi rinvenire un po’ di quel riposo che non esclude affatto la commozione. Né di ciò devesi fare un appunto allo Zandonai più di quanto non lo si faccia al Mascagni di Parisina od allo Smareglia nella sua opera di ieri: L’abisso. L’eccesso attuale nell’asservimento della musica alla parola è una reazione necessaria contro l’abuso invalso un giorno in senso inverso. Oggi preme sulle forme del melodramma la logica più assoluta e più serrata; ieri ebbe invece un dominio irrefrenato e talora spinto al grottesco la melodia quadrata e dottrinaria nelle sue formule semplici ma intransigenti. E forse, sotto questo aspetto, sarebbe abbastanza interessante un confronto tra le due ultime e maggiori concezioni musicali sorte in Italia in questo scorcio di tempo e la «Francesca da Rimini». Ma per poter bandire dalla scena il periodare largo, caro ai nostri padri, occorrerebbe almeno che nella declamazione fosse tanta intensità di espressione e tanto intimo vigore da non farci rimpiangere tale ostracismo. Accade ciò in Francesca da Rimini? Schiettamente credo di no. Non nelle voci, bensì nel commento orchestrale è la tragedia. Il commento è colore, è vita, è materia profondamente elaborata, che ha impeti violenti, tenerezze, abbandoni, schianti di passione, terrori, gridi di esultanza, collere selvagge. Sulla scena i personaggi ci appaiono come dominati dal grande soffio che emana dall’orchestra e spinti là ove esso vuole. Le alzate terribili di voce ed i sospiri non ci turbano, non ci commuovono. Le nostre anime e più i nostri orecchi sono intenti altrove. In Francesca da Rimini, è vero, sono anche momenti di ispirazione fresca e delicata: ad esempio i canti di Biancofiore e di Garsenda, di Altichiara e di Donella – le donne di Francesca – raggiungono spesso una soavità di espressione, una dolcezza di atteggiamenti musicali ed emanano intorno una così tenue fragranza da fare, ad esempio, della seconda metà del primo atto, una delle cose più squisitamente colorite e poetiche che ci abbia dato il teatro lirico in questi ultimi tempi. E la frase, dallo spunto così dolce e passionale, che accompagna la comparsa di Paolo nella casa dei Polentani; la frase, che riudremo trasformata leggermente nei ritmi e profondamente nei coloriti orchestrali in tanti momenti dello spartito, e che l’amante di Francesca non farà mai sua poiché dalle labbra gli eromperà soltanto nell’ora d’amore che precede quella del sangue – delicato e sapiente artificio! – è anch’essa d’una ispirazione larga e poetica. Ma una rondine non fa primavera, né la fanno tre o quattro.

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«Che importa?» direte voi. «Che importa la bellezza di qualche canto (onde udii ieri sera accennare a profonde orme di italianità nella musica dello Zandonai) se i personaggi vivono innanzi colle loro gagliarde e torve passioni, e il dramma musicale si compenetra pienamente con quello poetico?» E ciò che voi dite è giusto. Vediamo dunque quale sia il modo tenuto dal maestro nel comporre musicalmente il carattere dei personaggi.

Le persone della tragedia nella musica Le dramatis personæ, come ama chiamarle il poeta, sono quindici; e naturalmente non tutte importanti o necessarie all’azione. Alcune appajono in guisa da farci ritenere a tutta prima strettamente legata all’intero svolgimento del dramma la loro presenza, e poi non ricompajono più. Tali Ostasio – figlio di Guido Minore da Polenta – e Ser Toldo Berardengo – orditori della trama onde Francesca andrà sposa per triste inganno a Gianciotto. Essi, spiegato l’intrigo al cominciare del primo atto, non ci vengono più innanzi. Così non ritorna più il giullare, che non è il matto che nella Francesca da Rimini del Colautti musicata dal Mancinelli si fa delatore, e che ha quindi una assai maggiore ragione di essere che non sia quella di riempire in qualche modo l’azione nella prima parte dell’atto primo dell’opera, come fa qui. Altre figure, come quelle del balestriere, della schiava e del torrigiano sono soltanto come una pennellata atta ad ambientare l’azione; epperò non hanno notevole importanza nei rapporti con la musica. Né maggiore importanza hanno le donne di Francesca di quanto non ne derivi loro dal desiderio del poeta di infondere nella tragedia un non so quale senso di fragrante freschezza giovanile in contrasto col torbido incupire delle passioni intorno. Rimangono dunque la protagonista, Paolo, Gianciotto (Giovanni lo sciancato), Malatestino e Samaritana. Cioè gli elementi più atti a dar vita ad un dramma per musica, anche se visti di scorcio, come spiegai ieri scrivendo della riduzione fatta da Tito Ricordi della tragedia Dannunziana. La bellezza e la grazia, rinvigorite in Francesca dal rude ambiente fra cui fiorì la sua giovinezza; Paolo, nobile e prestante figura di cavaliere uso a largheggiare con trovieri e con giullari; Gianciotto, rozzo ed animoso, cui solo sorride il sorriso della moglie sua, Francesca; Malatestino, cupido, vendicativo, feroce; Samaritana, timido fiore che cresce melanconico accanto a Francesca, nella grande luce di dignità, di bellezza, di pietà che costei sparge intorno. Dati questi elementi, l’effetto del contrasto scenico non poteva venir meno, per poco che fossero abili il poeta e il musicista dimentichi che qui siamo dinanzi un D’Annunzio ed uno Zandonai. Orbene, il musicista volle anzitutto caratterizzare con una forma decisa, senza accostarsi per questo al sistema Wagneriano, i personaggi, affidando, per così dire, la loro persona scenica ad una frase che ritorna durante tutto lo spartito più a foggia del vecchio motivo di reminiscenza che non del vero «leit-motif». È, ad esempio, per Paolo la frase, cui già accennai, e che vela di un’ombra di dolcezza e di passione la scena, ogniqualvolta essa sale dall’orchestra e dilaga; per Gianciotto un breve ritmo saltellante, ineguale, e ad un tempo vigorosamente rude, poiché Gianciotto è zoppo e veemente e valoroso e rozzo; è per Malatestino un succedersi di accordi di terza, con un caratteristico salto discendente, su un movimento sincopato del basso che bene dà una sensazione di perfidia e di affanno; è per Samaritana un altro movimento sincopato, pieno di angosciosi presentimenti.

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Naturalmente noi abbiamo queste impressioni perché conosciamo la psiche dei personaggi, ché la musica non può esprimere certi sentimenti per sé stessa. Ma la corrispondenza tra il pensiero poetico e la musica c’è, e ciò a noi deve bastare. Ora di questi motivo lo Zandonai fa certamente un uso abilissimo e logico. Ma se il pubblico può apprezzare in tali procedimenti l’ingegnosità del compositore – sempreché sia sempre così vigile in esso l’attenzione da avvedersene – è peraltro nelle pennellate ampie e vigorose, è nell’arte di colorire potentemente le situazioni drammatiche, è nella vivacità scenica che esso trova l’elemento sostanziale del plauso. Fermare la figura scenica entro un contorno saldo e caratteristico; dare ad essa un linguaggio che degli altri non sia e, col linguaggio, alcuni atteggiamenti così peculiari da farci distinguere tosto l’un personaggio dall’altro anche a traverso la sola grande voce dell’orchestra, non è cosa agevole per il musicista, ed è oramai essenziale al dramma. È giustizia riconoscere che lo Zandonai raggiunse spesso, e mirabilmente, l’intento. Ma di non minore importanza è il toccare quell’altra meta che noi chiamiamo «la teatralità».

La «teatralità» La «teatralità» è istinto. Epperò niun artificio può supplire, ove questo istinto manchi. Con mezzi semplicissimi il Verdi giunge talora ad una vera terribilità di effetti cui invano tenderebbero altri collo scatenare tutte le bufere vocali e orchestrali. Ed ecco correre allora per la folla quel brivido di commozione sincera e profonda che determina i grandi e gli immediati successi. Ha lo Zandonai tale istinto? Premetto che le situazioni sceniche non hanno sempre in sé tanto da interessarci, ove non sia per la ricchezza delle immagini poetiche e per la bellezza del verso: due cose che qui, come nella «Parisina» del Mascagni, hanno un valore assai scarso. Così tutto il primo atto ed il secondo quale dovizie di elementi puramente musicali possono offrire ad un musicista? Accade pertanto che lo Zandonai, poveretto, fa quanto sa e può per suscitare un qualche interesse: e lo fa con quella stessa arte per l’orecchio con cui lo scenografo, l’attrezzista, il vestiarista cercano di cattivarsi l’attenzione dell’occhio. Né dicendo questo credo di menomare la dignità artistica del maestro. Qui tutto ha un valore uguale. Non è d’altra parte questo uno degli articoli del «credo» Wagneriano? Noi vediamo la scena: ma l’interesse per ciò che accade sul palcoscenico ci lascia per lo più abbastanza indifferenti. Sul finale del primo atto si chiude il velario e noi ci domandiamo quale è la sostanza di quanto udimmo. Abbiamo ammirato la scienza del musicista, e sovratutto la delicatezza e la originalità e la bellezza di colore di alcuni impasti orchestrali; ci siamo compiaciuti della varietà degli episodi; abbiamo udito qualche bella frase, da Francesca nel suo duetto con Saracena [Samaritana]; ci siamo meravigliati di tanto gridìo delle donne al comparire di Paolo e di tanta pletora di agitazione in Francesca, come se uno sparviere minacciasse roteando uno strupo [?] di pavidi uccellini, e non un nobile e bel cavaliere comparisse; abbiamo udito un canto di donzelle tutta freschezza e sapore arcaico; siamo passati per una serie di momenti quasi insignificanti sino a che il bel canto che colla viola pomposa si sprigiona dall’orchestra è venuto a darci finalmente una qualche commozione profonda. Ma il nostro compiacimento fu anzitutto cerebrale. E per la scena non basta. E così accade per il secondo atto, ove la parte in cui ferve la difesa agli spalti è trattata con mirabile sicurezza, ma che non ha

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corrispondenza di effetti drammatici negli episodi che si svolgono al di qua dello sfondo. Così ci pare freddo e stanco il duetto tra Paolo e Francesca; così ci sembrano poco interessanti musicalmente la figura di Gianciotto e quella di Malatestino. E quando il velario si chiude la nostra ammirazione va forse al di là della musica: va alla bellezza della messa in scena, al movimento delle masse, allo splendore dei costumi, all’effetto scenografico. Le cose volgono assai meglio al terzo atto. E perché? Perché finalmente lo Zandonai può veramente esprimere colla musica un qualche movimento dell’animo che non rivesta un’apparenza puramente decorativa e superficiale. Ed infatti tutto questo terzo atto non solo segnò il momento culminante del successo, ma fu quello che veramente rivelò, colla seconda parte del primo e con la seconda metà dell’ultimo, una più stretta comunione fra il pubblico e il musicista. Tre volte eruppe l’applauso a scena aperta. e fu dopo la canzone a ballo – leggiadra canzone cantata dalle quattro donne do Francesca e ravvivata da graziose figurazioni di danza per entro cui spira la grazia che più tardi animerà i dipinti del Botticelli e gli affreschi del palazzo di Schifanoja –; dopo il dolente canto di Paolo; e dopo una frase di Francesca, tutta ricca di contenuta e dolorante passionalità. Ma l’atto intero è ricco di bellezze. La musica si anima, si riscalda; nelle interrogazioni di Francesca alla schiava è una concitazione che raggiunge spesso una notevole intensità di effetti drammatici; le risposte della schiava sono ricche di intimo valore espressivo; il duetto tra Paolo e Francesca è tutto una pagina di nobile e sostenuta purezza. L’ispirazione mette le ali e s’innalza ad alti voli nei cieli del patetico. Eh sì che non era facile dare un’anima alle due figure così freddamente rievocate qui dal D’Annunzio! Perciò se dianzi dissi che nello Zandonai l’istinto della «teatralità» non appare forte, debbo aggiungere, argomentando da quest’atto, che la colpa devesi attribuire più a mancanza di situazioni nel libretto che non ad altre cause più intime. Tant’è che qui la musica fa miracoli: eppure, attraverso la signorilità della forma e la bellezza del canto trapela un po’ di monotonia, di freddezza. Di chi la colpa? La prima parte del quarto atto ha qualchecosa di scultorio, di vibrante, di fortemente sentito e di vigorosamente reso. Essa è destinata, a mio credere, – e malgrado l’apparente mancanza di musica – a piacere ogni sera più. Ed è ricca di sentimento l’ultima parte dell’opera, arieggiante il quarto atto di «Otello». Dovrei ora riassumere queste impressioni. E rispondere se l’opera è bella; se lo Zandonai segue Debussy o Strauss, o Wagner, e via via. Ma parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria – ciò che vale molto meglio – e l’abbia in grande parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte. Egli ha evitato ogni accenno alla volgarità. Dove il libretto glielo consentì egli trovò accenti veramente drammatici ed espressivi. Fu colorista a volte vigoroso, a volte semplicemente audace. Seppe essere denso e chiaro ad un tempo. L’opera sua non avrà una grande unità organica; apparirà frammentaria e qua e là un po’ ricercata e talora fredda o almeno priva di quei momenti vibranti che trascinano il pubblico all’entusiasmo. Ma così come è «Francesca da Rimini» correrà ugualmente con fortuna la scena per il maggior nome della giovine scuola italiana. E questo mi pare che basti.

L’esecuzione Fu semplicemente degna di un avvenimento artistico, che per il nome del D’Annunzio e dello Zandonaj, richiamò su di sé l’attenzione del così detto mondo musicale.

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L’aspettativa non fu delusa da alcuno. Tutti gli esecutori seppero tenere con onore il posto loro affidato, e parvero comprenderne la responsabilità. Di qui una fusione, un equilibrio, una cura di ogni particolare, una delicatezza di coloriti, atti a mettere in piena luce ogni bellezza dell’opera. Il Panizza ed il Ricordi furono per lo Zandonaj due fratelli. L’uno attese alla messa in scena con una grande signorilità di gusto, con vigile cura di ogni minuzie; l’altro non si turbò dinanzi alle gravi difficoltà dell’opera, e questa sua calma fatta di proprio valore fu uno dei principali elementi della vittoria di ieri sera. Ritrovammo infatti l’orchestra dei nostri tempi migliori; e la direzione sicura, vigile del maestro Panizza fu veramente degna del plauso che il pubblico volle decretargli, chiamandolo più volte all’onore della ribalta. Non dirò oggi partitamente degli esecutori sulla scena. Dopo la seconda rappresentazione sarà più agevole il farlo. Ma dove trovare una più deliziosa interprete della Canetti? Essa, in pochi giorni, studiò la difficilissima parte. E la vittoria fu degna dell’abnegazione di cui essa diede prova. Alla sua volta, il Crimi parve qui assai più a posto che non nella Gioconda, e cantò veramente con passione, con nobiltà di accenti, con giusto senso del colore; il Cigada sfoggiò la sua bella voce possente e diede grande risalto alla parte di Gianciotto; il Paltrinieri fu ancora una volta l’artista studioso, originale, che apprezzammo in altre opere, e la figura di Malatestino parve piena di vita e di carattere; Raquelita Merly fu una lodevole Samaritana; la Besanzoni, nella parte della schiava, cantò con grande purezza ed ebbe momenti assai ricchi di espressione; il Pellegrini, il Berardengo [?], il Malatesta e le quattro donne di Francesca (signorine Avezza, Polazzi, Vaccari e Marck [Marek]) completarono degnamente l’ottimo insieme. Benissimo i cori, anch’essi non risparmiati dallo Zandonai nelle difficoltà. E belli gli scenari dipinti dallo Stroppa, dal Gheduzzi, dal Testi, ed i costumi che direi di Caramba, tanta signorilità di gusto e ricchezza di particolari presiede ad essi. Una lieta serata, dunque. Ed un avvenimento artistico degno di corrispondere alla più esigente aspettativa. «Francesca da Rimini» ricomparirà sulla scena domani sabato [...] 15 La “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai. Il grande successo al Regio di Torino (Servizio particolare del «Corriere della Sera»), «Corriere della sera», 20.2.1914

Torino, 19 febbraio, notte. Stasera al Teatro Regio si è data la prima rappresentazione della Francesca da Rimini, la tragedia di Gabriele d’Annunzio musicata da Riccardo Zandonai. Il teatro era affollatissimo e magnifico. Il primo atto s’apre con un brevissimo preludio, nel quale già si presenta – col preludiar d’una viola dietro la tela – la figura del giullare. All’alzarsi della tela sono in scena le quattro donne di Francesca e il giullare: e fra quelle e questo si svolge un chiacchierio che l’orchestra accompagna con un movimento vivace. Prevalgono nel commento musicali i semplici ritmi di danza: un breve tema di quattro note caratterizza la bizzarra figura del giullare. Voci ed orchestra sembrano gareggiare di spensierata gaiezza: solo allorché gli umili personaggi sfiorano nel loro discorso quegli argomenti che sembrano a loro di cronaca domestica banale e saranno invece gli elementi essenziali della tragedia, accenni di ben altro tono si disegnano nella profondità dell’orchestra. Così quando Adonella racconta che Messer Guido da Polenta dà la figlia in sposa ad un Malatesta, nell’orchestra

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compare non già il tema di Gianciotto, lo sposo designato, tema dal ritmo spezzato e zoppicante, sibbene i due accordi pieni e ben cadenzati che costituiscono uno dei temi di Paolo. Così fin dalla prima scena si mostrano parecchie delle formole proprie della musica di tutta l’opera: l’importanza assai grande data agli effetti prevalentemente ritmici e coloristici in confronto agli effetti legati alle melodie nette e bene sviluppate; la concentrazione massima nell’uso dei motivi conduttori ai quali non si domanda più – secondo la maniera wagneriana – la parte maggiore del materiale pel lavoro sinfonico dell’orchestra ma solo la rievocazione rapida, quasi istantanea d’un personaggio o d’una idea, mentre è l’emozione unita alla vicenda del momento che primeggia nel determinare il carattere del commento musicale. Nella scena seguente fra Ostasio, fratello di Francesca, e Ser Toldo, il notaro intrigante, vien combinato l’inganno per cui Francesca crederà di sposare Paolo il Bello, mentre verrà data invece a Gianciotto lo Sciancato. Alla parte di Ser Toldo sono affidati effetti caratteristici coll’abile impiego del vecchio recitativo a piacere. Nella scena successiva, occupata da una canzone delle donne e da un dialogo fra le due sorelle, Francesca e Samaritana, la struttura musicale diventa, nell’apparente tenuità della situazione, sempre più forte e complessa: Il canto delle donne è d’un sapore deliziosamente arcaico: esso fa da sfondo ai canti delle due sorelle, d’una dolcezza di sentimento e d’una grazia melodica squisite. Specialmente notevole è il punto in cui le due voci si riuniscono sulle parole: «E si vivrà oimè...», preceduto da una bella frase degli archi. L’annuncio dell’arrivo del fidanzato porge alla musica di sfondo – voci delle donne e orchestra – l’occasione di farsi ancora più mossa e colorita (solo gli accordi del tema di Paolo mantengono sempre un carattere misterioso); e intanto la commozione che invade l’anima di Francesca si espande a volta a volta in appelli tumultuosi all’avvenire – «e il tumulto che ho nell’anima mia» – o in ritorni dolci e mesti alla sua vita di giovinetta che la musica riveste d’una melodia dolcissima: «portami nella stanza e chiudi la finestra». L’entrata di Paolo, il falso fidanzato, è segnata da uno scoppio di sonorità dove tuttavia i timbri sottili e gai dei campanelli, del liuto, dei piccoli legni riescono ancora ad affermarsi contro l’echeggiar degli ottoni: sembra quasi che il terribile futuro sospenda per un momento di gettare la sua ombra su quella scena di allegrezza piena d’ingannevoli speranze. Ecco: i due giovani stanno l’uno di contro l’altra, guardandosi senza parole e senza gesto. Una dolce larga melodia piena di un fascino appassionante viene intonata dalla viola pomposa: per un poco vi si sovrappongono i canti augurali delle donne:

«Per la terra di maggio»;

ma essa ricompare, ripresa dall’intera orchestra. Ora Francesca porge a Paolo la grande rosa vermiglia: e mentre nella morente luce del vespro il gesto affettuoso è appena visibile, gli accenti intensi della viola evocano del fatidico fiore il profumo inebriante. In verità la musica di codesta fine d’atto riproduce in modo perfetto l’atmosfera delicatamente ambigua della passione nascente.

La scena della battaglia Mentre il primo atto era sopra tutto ricco d’emozione gentile nel dramma e di tinte delicate nell’ambiente, nel secondo atto la fiamma passionale getta i suoi primi guizzi, e il ventar [sic] violento della battaglia e delle stragi circostanti l’attizza.

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Francesca, sposata a Paolo con una cerimonia fittizia, è stata condotta al marito designato, Gianciotto, e vive ora con questo e col cognato a Rimini, in mezzo all’infuriar delle lotte di fazione. Ella non ama Gianciotto, e non ha perdonato – o crede di non aver perdonato – a Paolo la parte ch’egli ha preso al suo sposalizio di frodo. Ora, mentre si apre la scena del secondo atto, sullo spalto d’una torre dei Malatesta, in un pomeriggio di battaglia fra i Malatesta guelfi e i Parcitade ghibellini, ella cerca di distrarsi dal suo cruccio interno conversando col torrigiano, mentre questi sta preparando il fuoco greco. Il primo tratto saliente della scena – dal punto di vista musicale – è la strofa in cui Francesca chiede contezza del fuoco greco: «È vero che arde nel mare?» Qui la musica è piena d’effetti realistici, nei quali il compositore dà pieno sfogo alla sua vena di strumentalista. Paolo giunge, e Francesca ha con lui un colloquio nel quale, come nel primo atto del Tristano, la passione che si celava sotto le apparenze dell’ostilità si svela e vince. È noto con quale arte sottile il poeta nostro, per condurre il dramma fino al momento decisivo, abbia ricorso alla psicologia stessa del personaggio di Francesca, mentre il poeta di Tristano aveva ricorso al soprannaturale del filtro: in piena conformità colle idee superstiziose del suo tempo, Francesca chiede a Paolo ch’egli si purifichi dal peccato commesso coll’averla sposata per frode, e gli propone perciò di sottoporsi al giudizio di Dio: combatta egli senza elmo e scudo, balestrando dagli spalti, e se le armi dei nemici lo avranno risparmiato vorrà dire che Dio gli ha perdonato. Così avviene infatti: e allora Paolo abbandona, vittorioso e illeso, il posto di combattimento, Francesca lo ritiene mondato dal peccato e può perciò abbandonarsi alla gioia di amarlo in segreto. Assai ben fatto l’episodio di Malatestino che si svolge sopra un insistente ritmo di corsa e culmina nel grido: «A cavallo, a cavallo!» Il canto di Francesca: «Bevete, mio cognato» è magnifico per la nobiltà della linea melodica. Ma subito dopo Paolo le dice il suo amore: ella, sbigottita, lo respinge: l’arrivo di Gianciotto interrompe il colloquio. Per musicare questo duetto lo Zandonai ha affidato alle voci una serie di canti declamati in forma piuttosto libera, incaricando l’orchestra di accentuarne il potere espressivo colle risorse d’una strumentazione e d’una armonizzazione estremamente ingegnose. L’ardimento è grande, perché l’uditore così vien messo nell’obbligo di afferrare rapidamente e completamente la forma e il contenuto del discorso musicale, senza essere aiutato dalla grande regolarità del ritmo e dalla simmetria dell’idea nelle melodie a forma chiusa, o dalla ripetizione frequente di certi temi nel commento a forma sinfonica. Il compositore evidentemente ha ritenuto di poter comporre della musica tale da imporsi all’animo dell’uditore pel suo valore espressivo intrinseco, senza bisogno di alcun artificio di tecnica tradizionale. Il tentativo gli è riuscito dove il particolare emotivo era meno intenso e profondo, ad esempio nella frase ironica di Francesca:

Donarmi un bell’elmetto Voi dovreste, signora mia cognata [signore mio cognato];

ma non là dove nel verso la passione di Paolo tumultua violenta, e Francesca più soffre della sua doppia ambascia, davanti al pericolo corso dall’amato e davanti all’amore che sente sorgere in sé. Il valore della musica si rialza nel restante dell’atto, dove l’elemento descrittivo della battaglia riprende il sopravvento. Tutto il finale, colle acclamazioni dei balestrieri al Malatesta vittorioso, è trattato con tinte di un realismo ad oltranza: i

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balestrieri non fanno coro, ma gettano delle fortissime grida, mentre gli ottoni squillano col massimo fragore in note dissonanti. Ma l’abili-tà con cui questi mezzi eterodossi sono usati è così grande, così fino è nel compositore l’intuito dei rapporti profondi fra emozione e suoni, che l’effetto non solo è raggiunto dal punto di vista teatrale ma anche appare perfettamente legittimo dal punto di vista dell’estetica musicale.

La scena d’amore - Il tradimento Il terzo atto si apre con un preludietto nel quale ricompaiono, alleggeriti anche più, i ritmi di danza della prima scena dell’opera. Francesca nella sua camera sta leggendo di Lancillotto e come amor lo strinse: ella legge ad alta voce; le ancelle commentano rumorosamente la timidezza del cavaliere e l’intervento di Galeotto: la musica scorre e sfugge sotto le parole con fine malizia. Anche più bella risulta la scena seguente, colla canzone a ballo delle quattro donne: «Marzo è giunto»; lo spunto melodico indovinatissimo, il trattamento delle voci in un contrappunto assai semplice di nota contro nota, l’accompagnamento diviso fra l’orchestra, il liuto e l’orchestrina sulla scena: tutto ciò è di un profumo arcaico e d’una grazia quasi infantile; e l’episodio, lungi dal sembrare pleonastico, riempie l’animo di una vaga melanconia, quasiché fosse codesto lo sforzo vano delle piccole persone e cose amiche per trattenere madonna sulla oscura via del suo destino. La scena seguente si svolge fra i due cognati che leggono insieme le parole tentatrici: «Tra le braccia lo serra e lungamente – lo bacia in bocca» e sono travolti essi stessi dalla passione. Ma prima che si arrivi a questo punto ha luogo fra i due un lungo colloquio, nel quale Paolo tenta invano di vincere Francesca parlando di sé, dicendo quanto egli abbia sofferto allorché era lontano da lei. Anche questo duetto, come quello del secondo atto, è costruito sopra una serie di canti declamati, molti dei quali presi a sé sono dei veri modelli, tanto giusta è la rispondenza del metro e del sentimento fra il testo poetico e quello musicale; ma anche qui essi non son tali da conquistare l’uditore e da trasportarlo. Persino la raffinatezza dei mezzi orchestrali, contribuendo a fermar l’attenzione sul particolare prezioso, raffredda l’emozione. Nella chiusa si fa riudire la larga melodia del finale del primo atto, svolta ora con un grande sfoggio di sonorità. Il quarto atto è diviso in due parti. Nella prima la scena rappresenta una sala nella casa dei Malatesta. Malatestino offre a Francesca di liberarla da Gianciotto, e accenna con parole subdole al premio immondo: respinto, per spavalderia, egli scende nel sotterraneo a decapitare il prigioniero Parcitade. Intanto Gianciotto sopravviene; e alcune parole imprudenti di Francesca fanno sorgere in lui il sospetto che Malatestino non tratti la donna sua coi dovuti riguardi. Francesca esce: i due fratelli si trovano ora a faccia a faccia. Malatestino compie bruscamente la sua opera di delazione: «Vuoi tu vedere e toccare? – Bisogna, se vuoi scampare dalla mia tenaglia, o mortale. – Vuoi stanotte? – Voglio!» In queste scene terribilmente drammatiche la musica si mantiene costantemente intonata alla situazione: scelta e maneggio dei temi (fra i quali quello di Gianciotto dal ritmo spezzato e rude trova qui un impiego specialmente efficace), taglio delle frasi nei canti declamati, coloriti strumentali: ogni particolare musicale possiede qui un significato netto, desta immediato nell’uditore il fremito della commozione. La seconda parte dell’atto si svolge nella camera di Francesca. È notte: le donne di Francesca prendono congedo da lei. La scena contiene particolari squisiti; specialmente bello è il saluto di Francesca a

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Biancofiore, colla dolce rievocazione della figura di Samaritana: «Era dolce la mia sorella, è vero, Biancofiore?» Ma, poiché essa è basata in gran parte su effetti minuziosi di rispondenza fra il testo e la musica, la sua intensità di ispirazione viene apprezzata a stento. L’ultima scena fra Paolo e Francesca è breve. L’entrata di Paolo è accompagnata da un crescendo vertiginoso nell’orchestra; più tardi ancora una volta nel canto di lui «Ti trovo dov’è l’oblio» risuona il gran tema del primo incontro: e ancora una volta le voci dei due amanti esaltati dalla passione si fondono in un unisono grandioso (del quale non v’è traccia nel libretto). Gianciotto sopraggiunge e in un impeto di furore trafigge i due amanti: mentre egli si spezza sul ginocchio lo stocco sanguinoso nell’orchestra passano gli ultimi sussulti d’orrore.

La musica Volendo aggiungere all’analisi qualche impressione complessiva, diremo anzitutto che con questa opera lo Zandonai conferma la sua fama di musicista dotato di qualità veramente eccezionali. Nella tecnica della strumentazione e dell’armonizzazione egli si classifica addirittura fra i migliori non solo per la solidità della scienza ma anche e meglio per la felicità e la ricchezza delle disposizioni native, per cui egli sa trarre appunto dalla tecnica una quantità di effetti drammatici e sentimentali nuovi ed altamente espressivi. Egli si classifica fra i migliori anche come sinfonista; possiede ormai alla perfezione l’arte di far commentare dall’orchestra una data situazione secondo linee perfettamente logiche, chiedendo alle varie voci orchestrali il loro concorso per quanto ciascuna di esse può fare, né più né meno; e sa anche plasmare l’idea musicale sul testo poetico, in modo che la rispondenza giunga fino ai minimi particolari, così quan-do si tratta di semplici evocazioni pittoriche, come quando si tratta di riprodurre i più sottili movimenti dell’animo. Insomma in questa Francesca da Rimini il contenuto tragico delle scene dannunziane, abilmente concentrate da Tito Ricordi, ha trovato veramente uno sviluppo musicale denso d’interesse proprio, mentre nessuna delle risorse offerte dall’ambiente storico fu trascurata dal compositore. Pure essendo così grandi ed evidenti i meriti della nuova opera, si ha l’impressione che essa non è perfetta; come si ha pur l’impressione che a codesto grande musicista, che ha l’istinto dell’arte, la padronanza della tecnica, la vigoria dell’ispirazione, qualche cosa manchi ancora per essere un perfetto operista. Che cosa adunque? A parer nostro null’altro che un maggiore spirito di concentrazione nella scelta dei mezzi. La fantasia dello Zandonai è così vivace che ogni strofa, ogni verso, ogni parola del testo le dà occasione di uno slancio, di un volo nuovo. Ma è chiaro che per tal modo l’opera d’arte risulta in complesso d’una varietà e rigogliosità eccessive: l’attenzione dell’uditore non arriva in tempo a fissarsi, le sue capacità percettive a un certo punto si saturano; e il senso di sazietà genera a volte il senso di stanchezza. Si tratta, è vero, di una menda isolata: gli applausi ieri seta così numerosi e convinti dimostrarono che essa non basta a compromettere la solidità e la bellezza dell’edificio d’arte complessivo.

Il grande successo Il successo fu grandioso: cinque chiamate al primo atto, tre al secondo, quattro al terzo, tre dopo la prima parte del quarto atto, sei – tutte fra applausi nutriti – alla chiusa dell’opera. Inoltre si sono avuti applausi a scena aperta, nel terzo atto, dopo la canzone a ballo e dopo il canto di Paolo: «Perché volete voi?» E fu un successo sincero. Se pure alcune parti dell’opera, alcuni caratteri della musica venivano discussi, l’impressione di ammirazione

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pel complesso del lavoro e pel compositore era generale. Fu insomma una magnifica serata, non soltanto per Zandonai, che vede la sua fama d’operista consacrata in modo definitivo, ma anche per l’arte italiana che ha festeggiata una delle manifestazioni più potenti e più pure della sua inesauribile vitalità. L’esecuzione fu ottima sotto ogni rapporto. L’orchestra sotto la direzione del Panizza suonò con slancio e precisione. La Canetti diede un rilievo bellissimo al personaggio di Francesca con la sua splendida voce e la sua azione drammatica efficace, pur essendo sempre assai misurata e corretta. Il tenore Crimi (Paolo), il baritono Cigada (Gianciotto), il tenore Paltrinieri (Malatestino) furono anch’essi ottimi interpreti delle rispettive parti e come cantanti e come attori: notisi che lo Zandonai ha pochi riguardi pei limiti di resistenza delle voci e dà loro molto da fare negli acuti. La Merly eseguì la parte di Samaritana con bella voce, ma dando ad essa poco rilievo drammatico. Assai bene anche il quartetto delle Donne di Francesca (Polazzi, Avezza, Vaccari, Maretz [Marek]) che hanno delle parti né brevi né facili; buoni anche Malatesti [?] (il Giullare), Orlandi (Ser Toldo), Pellegrini (Ostasio), Besanzoni (Smaragdi), Nesti (Balestriere) e i cori diretti dal maestro Veneziani. Furono ammirate le scene e ancor più i costumi (del Caramba). 16 Gaetano Cesari, “Francesca da Rimini» del maestro Zandonai al Regio di Torino, «Il Secolo», 20.2.1914

La cronaca della serata Torino, 19 notte.

La prima rappresentazione della Francesca da Rimini del maestro Zandonai ha segnato per il giovane maestro un grande successo. Tutto il primo atto è ascoltato con religiosa attenzione. Non appena il velario cala sull’apparizione di Paolo dinanzi a Francesca, che è nelle sue stanze insieme con le ancelle, il pubblico che gremisce quasi completamente il teatro scoppia in un applauso fragoroso e chiama gli esecutori alla ribalta per due volte. Si odono insistenti grida di: «Fuori l’autore!»: il giovane compositore appare in mezzo agli interpreti accolto da una grande ovazione, che si ripete insistente una seconda volta. Alla quinta chiamata, si presenta con gli altri anche il direttore di orchestra, maestro Panizza. Il pubblico sfolla lentamente la sala e si sparge nel foyer a commentare favorevolmente l’arte di Zandonai, la squisita sua esperienza musicale, le qualità finissime della partitura. Noto, fra coloro che discutono animatamente, il maestro Giordano, il maestro Alfano, il maestro Seppilli, Mingardi della Scala e gli inviati di parecchi giornali della penisola. In teatro è presente Tito Ricordi, Riccardo Sonzogno e la famiglia Ricordi. Vi è poi una vera colonia di milanesi. Nel secondo atto riscuotono subito viva ammirazione le splendide scene che rappresentano l’assalto delle mura dei Malatesta. Al cadere del velario tre chiamate calorose agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza. Si attende con interesse il terzo atto, di cui coloro che hanno assistito alle prove dicono molto bene. Infatti, il canto delle fanciulle che danzano lievemente intorno a Francesca è gustatissimo. Abbiamo qui il primo applauso a scena aperta, e un secondo applauso segue il canto di Paolo. Alla fine dell’atto tutto il teatro acclama entusiasticamente e si hanno cinque chiamate. Lo Zandonai, il Panizza devono presentarsi per ben tre volte alla ribalta. Ormai il successo dell’opera è assicurato. Il quarto atto, diviso in due parti, è ascoltato dal pubblico favorevolmente. Tre chiamate al breve intermezzo

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e altri applausi alla fine della rappresentazione. Il pubblico esce lentamente dopo avere decretato una vittoria. La difficile prova è stata vinta brillantemente, benché si giudicasse molto arduo il compito di mettere in musica la tragedia di D’Annunzio. Assistevano la principessa Laetitia e la duchessa di Genova.

L’opera d’arte Nel volgere di pochi anni Riccardo Zandonai è pervenuto alla sua quarta opera. Dopo Il Grillo del focolare, dopo Conchita e Melenis, eccoci ora innanzi questa Francesca, concepita e tracciata con rapidità, senza giovanili esitanze, con baldanza schietta e vigorosa. Zandonai, anche questa volta, ha agito con la sicurezza di chi, sapendosi ben reggere in arcioni, non conosce i rischi della corsa. Alle negazioni, a cui talvolta conduce l’autocritica, egli preferisce le affermazioni concrete e lascia al pubblico, al tempo, la cura della selezione. Il suo modo di comportarsi dipende dalle qualità stesse della sua natura di musicista. Poiché alle disposizioni musicali veramente forti non può riuscire molto faticoso il lavoro, lo Zandonai non lesina sul quantitativo della sua produzione. Vedremo poi fino a qual punto questa abbondanza produttiva si lascia anche qualitativamente giustificare. La scelta del soggetto trattato dallo Zandonai è forse da ascriversi a cause estrinseche. Lasciamo da parte i ricordi incancellabili del divino canto dantesco che già ebbe la potenza di trascinare, assai prima dello Zandonai, uno stuolo numeroso di musicisti. Ma ci pare certo che se D’Annunzio, plasmando in forme più consentanee al nostro teatro l’antica materia drammatica non l’avesse in certo modo ritornata di moda, difficilmente l’infelice eroina del canto dantesco sarebbe stata richiamata ai nuovi onori della scena. Inoltre la Francesca d’annunziana, scelta dal compositore quando la sorella Parisina non era ancor nata e sul ricettario dell’esiliato volontario di Arcachon erano meno lecite le critiche, la Francesca doveva offrire al temperamento musicale dello Zandonai ragioni di preferenza. Egli, il colorista delle notti lunari di Conchita vantate come il suo prodotto più spontaneo, deve essersi accorto che quel tenue velo di acaica poesia onde si adornano le donne di Francesca, ben conveniva alla sua tavolozza; e quanto il rude linguaggio di certi personaggi d’annunziani si prestava al genere di declamazione musicale da lui prediletto. Fatta la scelta, occorreva provvedere alla misura. Il libretto d’opera, già si sa, pretende una concisione assai lontana dalla verbosità del discorso d’annunziano. In questa bisogna il maestro trovò nell’editore un ausiliare abile e, come le circostanze lo volevano, senza inutili scrupoli. Le chiacchiere d’argomento storico vennero senz’altro soppresse; l’azione ridotta al Minimum necessario. Ad onta di ciò, parecchi punti risentono ancora della irreducibile prolissità originale. Il coraggio degli operatori non riuscì sempre a vincere il male. Né poterono riparare ad un altro e, quando Francesca fu scelta, imprevedibile inconveniente. Si tratta del richiamo di certe situazioni sceniche a situazioni dallo stesso D’Annunzio introdotte in un libretto scritto poi; di certe scene di maniera qual è quella lunga lettura della Historia di Lancillotto del Lago nel terzo atto; della fissità a cui sono costrette le masse nel secondo atto, serventi più da sfondo del quadro che partecipanti all’azione. Di questo libretto, il primo atto è stato trattato dal maestro Zandonai a tinte piuttosto fredde, come atto di presentazione. Il colorista vi fa subito capolino, facendo accompagnare un coro interno di donne da una curiosa orchestrina. È musica che non appartiene ad una determinata età

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storica, ma che dell’antica possiede la fragile e malinconica vena, l’indeterminatezza plastica e la uniformità tonale. I moduli strumentali – l’avrebbe mai pensato il cardinale Sadoleto – rivivono nella pittura del costume, ritornano alla profanità associati alla scena moderna. Ma vi ritornano come evocazione libera, fattrice d’illusione. Se guardiamo ben davvicino la loro materia, vi ritroviamo la mano dell’autore di Conchita: il nocciolo è diverso, il seme è sempre quello. Quest’effuso mormorar di canti, di Oimè, portati lontani dall’aria, fra le mura delle case dei Polentani, preludia ad una delle pagine più delicate dello spartito. Francesca, dove andrai? Chi mi [ti] toglie? interroga la sorella Samaritana, quasi presaga del triste destino. Accompagna il tenero colloquio un insistente sincopar lamentoso, un espressivo incatenarsi di armonie. Il declamato, senza consolidarsi in vera linea melodica, scende una volta tanto giù dal labbro al cuore. Guardando alla produzione del maestro, questo ci sembra uno dei pochi casi in cui l’espressione si interiorizzi. La natura del dialogo fra le due sorelle pretendeva accenti sommessi: Zandonai ha saputo renderli con sincerità. E crediamo anche che sopra il musicista di gusto la loro azione si conserverebbe profonda se una logora frase gounodiana di un paio di battute in Largo cantabile (E si morrà, oimè) non disturbasse la chiusa. Meno felice ci sembra invece la seconda metà dell’atto. La frase di Samaritana, O Francesca, anima mia, risente di un altro declamato d’origine alquanto mascagnana; il pedale centrale di preparazione all’ arioso di Francesca: Portami nella stanza è ricalcato sul disegno dell’ansioso movimento ritmico che accompagna il giungere di Tristano nel secondo atto dell’omonimo dramma musicale. Né l’arioso stesso di Francesca si offre in forme troppo peregrine. Si obietterà forse, a questo riguardo, che per non giungere a una soluzione di continuità stilistica, il compositore è stato costretto dal genere di declamato ammesso nell’opera a non consolidare meglio le sue linee melodiche. In questo caso però l’idea sistematica del maestro avrebbe commesso una sopraffazione, costringendo il libero espandersi del sentimento del musicista ad una formula preconcetta. Premesso poi che la ragion dello stile non potrà mai servire da scusante alla evaporazione del contenuto sentimentale, perché in ogni arte sincera è questo che determina quello, dobbiamo osservare come in tutta la Francesca la presenza di un vero calore interno non sia che assai relativa, e non si manifesti per le vie della immagine melodica. Questo calore permane allo stato di puro dinamismo, sia che sobbalzi da un grado all’altro nella gamma variamente intensiva del declamato, sia che cerchi d’attingere alle potenze dell’orchestra. Ne vogliamo la prova? Si badi alla frase della viola pomposa, frase generata dal primo incontro di Paolo con Francesca de dall’avvincente effusione del loro primo sguardo. essa dovrebbe essere il simbolo di una parola d’amore che conduce all’adulterio, alla catastrofe. Ebbene, il suo tracciato melodico è quello di un melisma, il suo carattere quello dell’improvviso, il suo contenuto armonico quello della tonica e dell’accordo di quarto grado. Il ricamo degli archi da cui essa è avvolta è elegante come una trina e ricorda l’arte colorita del compositore di Conchita; ma la sua materia vale per la sensazione pura, e sembra suggerita tutt’al più per chiudere un atto con effetto. Il secondo atto è il più massiccio e greve dell’opera. Lo strumentale ci sembra carico. Forse non tutti gli effetti propostisi dal maestro risultano corrispondenti alle belle disposizioni fissate nella partitura. È un caso del resto che capita a molti, anche ai maggiori sinfonisti. Le voci, inoltre, cominciano a farvisi un po’ troppo spesso sentire nel registro acuto. Alle dolci frasi interrogative di Francesca, piene di

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terrore, di ansia: Che mai è questo, o Dio! Paolo! segue un duetto piuttosto enfatico, senza calore d’idee nuove. Più felice in quest’atto appare invece la musicale caratterizzazione di certi personaggi. Gianciotto, Malatestino, il Torrigiano ricevono fin dal loro primo apparire una fisionomia musicalmente distinta. Nel senso della ruvidezza e della perversità, la musica dello Zandonai è assai più plasmabile che nel senso dell’amore e del dolore. Ma eccoci alla prima parte del terz’atto, teatralmente la migliore, forse, dell’opera. Zandonai vi deve fare il quadro: Biancofiore e Garsenda, Altichiara e Donella, movendo il piede alla danza, sciolgono inghirlandate la canzone di primavera. I musici le accompagnano col liuto, col piffero, col flauto:

Marzo è giunto e febbraio gito se n’è col ghiado. Or lasceremo il vaio per veste di zendado. E andremo passando a guado acque di rii novelli tra chinati arboscelli verzicanti, con stromenti e con canti in compagnia di presti drudi, o nella prateria iscegliendo viole ove redole più l’erba, de’ nudi piedi che al sole v’ebbe Primavera.

Il quadro è tutto un luccicore di fili d’oro; vi si sente come un leggero aleggiar di rondini. La canzone si muove da uno spunto giù volgarizzato da Puccini, che però lo strumentatore di Conchita e delle danze di Melenis fa presto dimenticare. D’Annunzio ferma l’azione per intrecciare i fili di un arazzo; Zandonai, costretto a seguirlo, s’indugia a suo agio, trovando l’atmosfera più favorevole alla sua ideazione artistica. Il duetto che viene dopo, innanzi al fatale... antifonario, non equivale questa prima parte. Così si giunge all’ultimo atto, fortemente drammatico nella prima scena fra Francesca, Malatestino e Gianciotto. Il maestro, alle prese con la perversità e la ruvidezza dei caratteri scenici, torna ad avere buon giuoco. Il declamato lo serve, l’orchestra l’ubbidisce. Più che la violenza rugge in queste scene il demone della ferocia. La forza grossolana dei tipi non è disciolta e nemmeno attenuata dalla musica. Sentiamo il compositore di teatro valersi dei mezzi limitati di cui dispone con un fine chiaro, determinato. L’effetto è raggiunto; ora chi bada in teatro ai mezzi? I critici, che son pochi, e fors’anco non tutti. Nella prima scena della seconda parte di quest’atto spira un’aura di tragico presentimento: quell’aura stessa che nell’ultimo atto di Otello precede la catastrofe. Zandonai l’ha resa nel fiato lirico del canto dio Francesca:

O Biancofiore, piccola tu sei! Non arrivi ad accendere la tua lampadetta. Tu sei la più tenera, piccola colomba!

Dopo tanto languore di tinte, l’invito di Paolo: Vieni, vieni, Francesca, sa di rancido; l’espressione musicale non riesce a concentrarsi né a trovare il suono adatto alla situazione. La frase della viola pomposa, udita alla chiusa del primo atto, non basta a rendere la frenesia spasmodica degli esseri; la musica è inferiore alle parole, alla

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passione. E quando sotto lo stocco di Gianciotto cadono i due amanti sorpresi, l’immanità della catastrofe non giunge a scuoterci per le vie del cuore. La passione è stata sempre troppo poco sentita in tutta l’opera per aprirci ora l’animo alla pietà. Il crudo realismo della tragedia d’annunziana, in quest’ultima scena, sembra eccessivo, e goffa l’avventura di Paolo che, fedelmente alla storia, va ad impigliarsi per la falda della sopravveste ad un ferro della cateratta. Il vero estetico non riesce, come nell’inferno dantesco, a far dimenticare il vero morale; e nessuno sognerebbe qui il tramortimento di Dante. L’esecuzione offerta al Regio è stata in tutto degna del teatro e dell’ avvenimento. Riccardo Zandonai, Tito Ricordi ed il maestro Panizza sono riusciti, dopo difficoltà di ogni genere, ad ottenere il desiderabile. Sia musicalmente che scenicamente lo spettacolo è apparso di primo ordine. Fra gli artisti citeremo soltanto la Cannetti (Francesca), la Merly (Samaritana), il tenore Crimi (Paolo), il baritono Cigada (Gianciotto), il Paltrinieri (Malatestino) e le signorine Polazzi, Avezza, Marek, Vaccari, Besanzoni nelle rispettive parti di Biancofiore, Garsenda, Altichiara, Donella e la Schiava. Bellissimi i figurini del Caramba ed accurate anche le scene. 17 Giuseppe Adami, «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai al Teatro Regio di Torino, «La Sera» (Milano), 20.2.1914

TORINO, 19 notte. Riccardo Zandonai persegue con indefessa energia, con fede entusiastica, il suo glorioso sogno di arte.- Non sono molti anni che il delicatissimo Grillo del focolare, in questa stessa città, lo affermava musicista di grande avvenire, e già un’opera nuova, assolutamente diversa di colore e di intendimenti, Conchita, nasceva bella e sana e vitale dal suo cervello fecondo.- A brevissima distanza seguiva Melenis, lavoro di vasta linea in contrasto, anche questo, con l’elaborata frammentarietà del precedente. Ed ecco, adesso, un nuovo ardimenti meraviglioso, l’ opera di colore, di poesia, di passione, tragica e delicata ad un tempo, sottile ed ampia, squisita di dettaglio e potente d’insieme, ecco Francesca da Rimini raccogliere nella cerchia dei suoi cinque quadri la matura virtù di questo giovane artista così vivo, così fecondo, così immaginoso, così esperto.

*** Fra le opere teatrali di Gabriele d’Annunzio Francesca da Rimini è indubbiamente la tragedia più ricca di movimento e più densa di azione. Qui non è soltanto il fastoso ornamento della veste poetica, ma una serrata successione di fatti, un precipitare di fatalità e di passione verso la catastrofe. L’artista non ha preso il sopravvento sull’uomo di teatro. Francesca ha un’ossatura, una costruzione solida e ben tagliata. Ma riducendo per il teatro lirico la visione dannunziana era necessaria la mano sicura di un esperto conoscitore dell’effetto scenico, che non alterasse la linea del poema, non ne offuscasse la chiarezza, non ne turbasse la bellezza. A tale impresa si accinse non senza trepidazione Tito Ricordi. Si accinse soltanto per provare, sottoponendo al Poeta come un semplice tentativo la sua riduzione. D’Annunzio ne fu così convinto e ammirato che volle il nome dell’amico riduttore vicino al suo, nel testo del libretto. Ora a questa sfrondatura taluno credette muovere appunto e scrisse che la tragedia, costretta nei limiti di una riduzione per musica, perdeva molto della sua selvaggia e impetuosa fierezza. Il grande successo che Francesca da Rimini ottenne stasera risponde meglio di ogni nostra

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parola alla critica ingiusta e ingiustificabile. A noi, a tutti quelli che furono avvinti non soltanto dalla prorompente onda musicale ma dalla rapida vicenda tragica, parve invece che anzi, così ischeletrita, Francesca acquistasse nella sua virtù teatrale. Lo stesso critico trovava oscura, nel libretto, la ragione dell’inganno ordito da Ser Toldo ed Ostasio ai danni di Francesca. Ma la scena, pur rimpicciolita, ci appare di una chiarezza evidente, e a dare un più forte rilievo all’importanza della parola, lo Zandonai si è appunto servito – come vedremo più tardi – del recitativo scoperto. Accusare di oscurità questa fondamentale scena del dramma significa non voler leggere o non voler ascoltare. E la colpa, anzi le due colpe, in questo caso non ci sembra devano proprio cadere sul riduttore. Comunque, ad avvalorare la solidità di tale critica preventiva sta una affermazione che è bene rilevare: lo scrittore trova che la Francesca da Rimini concepita in un atto dal Colautti «può bene gareggiare in efficacia scenica con la tragedia ridotta del D’Annunzio». Quand’è così, facciamo punto, andiamo a capo e parliamo della musica.

*** Parliamo anzi, prima di tutto, della vittoria vera, calorosa, assoluta ottenuta ieri sera da Riccardo Zandonai. Non era e non fu una facile vittoria. Zandonai non appartiene – beato lui – a quella categoria di musicisti incompresi o perseguitati dalla sfortuna, per i quali è tutta la benevola aspettazione del pubblico e il compassionevole elogio della critica. No, Zandonai è un arrivato e quindi un fortunato. La sua strada è ampia, piena di lusinghe, feconda di risultati, E l’Italia è quel paese nel quale quanto più un artista dimostra di elevarsi in una eccezionalità di ingegno, in una disciplina di lavoro, in una volontà di ardimento e di battaglia, tanto più contro di lui s’azzannano le diffidenze atroci, le ostilità sorde, il contrasto implacabile. Buon segno. Segno di grande valore, non fosse altro. Conquistare, in tale stato di grazia, un pubblico gelido, sorprenderlo poco a poco con la sola forza dell’arte, riscaldarlo gradatamente fino all’entusiasmo pur senza nulla concedere, pur esplicando interamente la propria personalità e il proprio convincimento: ecco i meriti precipui di questo successo che si è manifestato in una successione di applausi quadro per quadro. Già al chiudersi del velario sul primo atto, Riccardo Zandonai aveva operato il miracolo. Fino dalle prime battute egli aveva saputo creare l’atmosfera alla sua tragedia. Un colore di cose remote, una nebulosità di leggenda, un delicato e squisito sapore arcaico è nelle sottili pennellate che iniziano l’atto. E subito il chiassoso cinguettar delle ancelle, e un’ondata di piccole risa e di piccoli trilli. A quale miracolosa tavolozza ha attinto il musicista tanta efficacia di colore? Epoca di fantasia, colore di fantasia naturalmente. Eppure non è così che nello spirito nostro abbiamo sentito sospirar Francesca fra il cicaleccio delle cameriste loquaci? La viola del giullare tronca come un singhiozzo cupo tanta placida allegrezza:

Come Morgana manda al re Artù lo scudo che predice il grande amore del buon Tristano e d’Isotta fiorita.

Così incomincia la pietosa leggenda; così imprime il musicista la sua tragica nota fondamentale. Ancora per un poco il cinguettio riprende. La breve scena ha un movimento vocale e orchestrale su fioriture di tipo classico. Poi, subito, una nuova forma le succede. Una forma che sorprende tanto pare antica e tanto è nuova. Il colloquio di Ostasio e Ser Toldo è improntato al vecchio recitativo melodrammatico, ma la

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parola è declamata su un commento armonico modernissimo. Là dove la tragedia non richiede una interpretazione lirica e melodica lo Zandonai ricorrerà ancora a questa formula che ottiene il doppio risultato di allentare in una specie di piccoli riposi la prorompente linea musicale, e di far risaltare esattamente il valore della frase. Ma l’iniziale carattere arcaico riprende con l’entrata di Francesca. Per la corte dei Polentani si diffonde la eco della canzone delle ancelle. Una piccola orchestrina interna accompagna questo canto che si ripercoterà come una persistente nota ambientale per tutto l’atto e ne coronerà con limpida poesia il finale. Ora il musicista canta. Il duetto di Francesca e della Samaritana è essenzialmente lirico. Due elementi di grande commozione vi si confondono: la infantile dolcezza della piccola sorella, la infinita tristezza della futura sposa di Gianciotto. C’è nella musica un vago presentimento di angoscia, e le due figure si ingigantiscono in una rassegnazione mistica che ne aumenta, con semplicità estrema di mezzi, il valore drammatico:

...pace, datti pace...

Il movimento delle ancelle ora è ansioso ed intenso. Di lontano l’arrivo dello sposo è segnalato. Ancora un grido di spasimo: il tumulto do Francesca. Poi una serena ondata di poesia su una nube di archi: lo sfondo su cui si tesse il ricamo della viola pomposa che accompagna l’entrata di Paolo. È discesa la sera. Il cortile è avvolto di ombre. Traverso il chiuso cancello trema un annunzio di chiarità lunare. Francesca strappa la rosa di fiamma e la tende all’ignoto con il suo cuore, con l’anima sua, mentre il coretto arcaico, d’un curioso colore agreste, pare il sospiro d’una primavera d’amore:

...A convito selvaggio in contrada lontana uno cor si dimanda...

L’effetto è irresistibile. Il pubblico prorompe in un applauso che si ripete sei volte agli interpreti, all’autore, al maestro Panizza.

*** Il secondo atto è rapido e violento. Riccardo Zandonai vi ha superata una difficoltà che pareva insormontabile. Nel tumulto della battaglia è il primo tumulto della passione. Tra il folgorar delle saette, le grida dei combattenti, gli strilli lontani delle donne inseguite per le contrade, in un convulso musicale pieno di cacofonie, che s’innalza, languisce, si riprende, torna ad allargarsi, torna a spegnersi, si eleva una mirabile pagina musicale: il giudizio di Dio. E ancora su questo sfondo di ferro e di sangue, fra la selvaggia lotta è, prima, lo spasimo della pietà amorosa di Francesca:

...non sanguini non hai stilla di sangue sul tuo capo...

quando la freccia sfiora l’amato; ed è poi la sosta ampiamente lirica dell’offerta della coppa ai due fratelli. Alternare e fondere tanto contrasto di atteggiamenti, serrarli in una linea complessiva, innestarvi ancora l’episodio così pieno di carattere di Malatestino, era impresa nella quale anche il più esperto compositore poteva naufragare. L’atto si apre con il tema di Gianciotto: un tema, quasi diremo, claudicante. Risentiremo poi gli elementi della viola pomposa – che ci

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richiameranno all’ingresso di Paolo nella casa dei Polentani –, quando Francesca rimprovera al cognato l’inganno. E finalmente l’ampio tema del giudizio di Dio, concluso nella frase

perdonato ti sia con grande amore

formerà la base di tutto il finale. Certo quest’atto, staccandosi con un grande effetto di contrasto dal primo, non ne ha un uguale valore. Lo sforzo enorme di Riccardo Zandonai non è valso a intensificarne la debolezza organica costituita dalla sua frammentarietà. Questo squarcio di violenza in un’opera di poesia e di passione può quasi apparire come una stonatura. Non è questo il tumulto che il pubblico cerca. Paolo e Francesca devono vivere in una più ampia atmosfera: quella del loro infinito ed inutile desiderio, soltanto. Ma il musicista doveva seguire completamente la visione dannunziana e, seguendola, non poteva risolvere in miglior modo l’ardua difficoltà. Tre chiamate caldissime, due delle quali all’autore, accolgono anche quest’atto. Ora il pubblico aspetta il grande cimento. La tragedia è tutta nel terzo episodio. È qui che l’autore raggiungerà la sua espressione massima. Ed è qui che Riccardo Zandonai l’ha raggiunta. L’atto è tutto mirabile. Il musicista vi ha cantato con una foga così travolgente, con una linea melodica così vasta, così chiara, così espressiva che al chiudersi del velario sette od otto chiamate entusiastiche lo acclamano. Torniamo al primo carattere arcaico della tragedia. La lettura di Francesca ha un andamento quasi religioso. Con la stessa intenzione è espresso più tardi l’episodio famoso. Ed è notevole rilevarlo, appunto perché questo soffio di misticismo manterrà figure ed episodio in una linea di grande purità, togliendo anche al bacio ogni turbamento sensuale. Purità e poesia: l’atto si impernia in queste due atmosfere. L’episodietto della canzone a ballo, proposta da Biancofiore e Garsenda, ripresa da Altichiara e Donella, da tutte conclusa, è pieno di tenerezza, squisito di forma e di grazia, indicibilmente dolce. Un vivo applauso ne è giusto coronamento. Poi un altro applauso durante il duetto, al canto di Paolo:

Perché volete voi ch’io rinnovi nel cuore la miseria di mia vita?...

È questo – com’è noto – l’inizio del nuovo squarcio lirico aggiunto dal Poeta. Brano che si chiude perdutamente con la risposta di Francesca:

– Ora perché vi togliete dal capo la ghirlanda?

– Ho sentito che già non è più fresca.

Arriviamo subito alla lettura e alla perdizione:

...«e lungamente lo bacia in bocca...»

La sonorità sale con un impeto meraviglioso. Poi si accascia in un languore infinito. Il canto della viola pomposa del primo atto è dato, in questo finale, dall’orchestra con un violino e una viola. Poi ancora s’attenua, illanguidisce, si spegne nel sospiro di un solo violino,

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mentre lontano, quasi portato dalla marina, giunge come un soffio il canto della primavera.

*** Il quarto atto si compone di due quadri: la delazione di Malatestino, poi, subito, la catastrofe. Nella scena fra Malatestino e Francesca torniamo alla forma del declamato melodico. Qui parla la tragedia e il musicista si limita a commentarla in orchestra. Ma il commento assume una importanza grandemente drammatica e significativa nel concitato dialogo fra Malatestino e Gianciotto che chiude il primo quadro. Altre tre chiamate allo scendere del velario sul cambiamento scenico. L’inizio dell’ultimo quadro sull’accorato e sommesso spiar delle ancelle è tessuto sul temetto del piccolo coro del primo atto che accompagna l’entrata di Francesca. E tutta la scena che ne segue, con Biancofiore, non è che una squisita, suggestiva, commovente rievocazione della figura della piccola Samaritana. Torniamo dunque in pieno lirismo; ancora il canto melodico trova nuove espressioni nel breve duetto, così caldo e così vivo, fra gli amanti travolti in una vita e in una unica morte. Ora alla frase di Paolo: «ti trarrò dov’è l’oblio» riappare il tema del terzo atto: «una visitatrice si chinava su me». È questa la visione dell’amante nella lunga assenza. La visione è adesso tradotta in realtà di amore. E il tema della viola, affidato per la prima volta alle voci, chiude il duetto:

Dammi la bocca. Ancora! Ancora! Ancora!

La tragedia prorompe. Il passaggio dall’amore alla duplice morte è rapidissimo. Solo sul disperato gesto di Gianciotto che piega il ginocchio a spezzare la spada, la tragedia si chiude con un grido di orrore. Per sei volte l’ovazione all’autore si ripete. Il trionfo è completo.

*** Abbiamo seguito nelle sue linee generali la struttura dell’opera, ma siamo ancora ben lontani dall’averne analizzato il valore. Più si ascolterà questa Francesca da Rimini e più ne appariranno evidenti le infinite bellezze. Riccardo Zandonai vi ha affermata tutta la personalità del suo magnifico talento, oramai maturo e completo. Di fronte a tanta bellezza, a tanta originalità, a tanta sapienza, miglior commento è l’ammirazione. Il musicista non poteva infatti intendere, penetrare, rendere la tragedia in veste musicale più evidente e più chiara. Sembra che egli aspiri alla semplicità assoluta. Il suo commento è come un sussurro sommesso. Ma l’essenza e la forma del commento sono frutto d’una elaborazione magistrale. Ci sono in questa orchestra che ha una trasparenza purissima tali acuti dettagli, così sottili impasti, così originali e strani atteggiamenti da sbalordire il più moderno dei tecnici. Dove egli canta, quando la sua fantasia vuole librarsi al più ampio dei voli, la sua personalità più appare evidente. Il pubblico ne è trascinato. Sente che questa onda melodica gli richiama, con assoluta novità di forma, la classica melodia italiana, quella melodia che gli impressionisti rinnegano e di cui tutti siamo assetati. Aver trovato tale espressione è un altro meraviglioso merito della nuova opera e forse la prevalente ragione del suo successo.

*** Al quale, indubbiamente, ha contribuito l’esecuzione. Ettore Panizza, in prima linea, studiò e rese l’opera con anima d’artista; la Canetti, il Crimi, il Cigada, il Paltrinieri gareggiarono in valore. La Canetti imparò in pochissimi giorni la difficoltosa parte e fu cantante ed attrice perfetta. Il Crimi ha una delle più belle e maschie voci

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tenorili che si possono ascoltare. E tutti, anche i minori, furono all’altezza del loro compito. Il quadro scenico, su bozzetti del Rovescalli e con costumi di Caramba, fu reso con grande effetto da Tito Ricordi che ne curò ogni dettaglio con quella visione di teatro e quell’ acuto talento che lo rendono un direttore scenico insuperato. Perfetti in ogni particolare gli attrezzi del Rancati, scrupolosamente studiati su modelli dell’epoca. L’arte italiana non poteva dunque avere iersera un trionfo maggiore e più significativo. 18 La seconda rappresentazione di “Francesca da Rimini” di R. Zandonaj al teatro Regio, «La Stampa 22.2.1914)

La nuovissima opera dello Zandonai vide iersera rinnovate presso a poco le ottime accoglienze onde fu accolta la prima sera. Il pubblico, magnifico nei palchi e nei posti distinti e abbastanza affollato in platea e nelle gallerie, volle salutare più volte alla ribalta l’autore, gli artisti e il maestro Panizza. E se anche l’applauso non raggiunse sempre il grado di intensità che fece della prima rappresentazione uno dei successi migliori conseguiti in questi ultimi anni al Regio da opere nuove, l’impressione parve anche maggiore in quanti udivano lo spartito per la seconda volta. Questo sentimmo dire da molti. E volontieri ne prendiamo nota, poiché è questo un segno caratteristico d’intima bellezza che non interamente si discopre di primo acchito, per concedere tutta se stessa al pubblico. Questa sensazione, d’altra parte, collima con quanto prevedemmo, dicendo della prima rappresentazione. Ed era facile profezia. La musica dello Zandonai non è infatti musica di facile acchito. O almeno lo è soltanto in alcuni episodi, e per quel tanto bastevole ad afferrare l’attenzione del pubblico ed a trascinarlo con sé. È «il soave liquor» di cui il Tasso voleva aspersi gli «orli del vaso» per «l’egro fanciul» costretto a bere gli amari succhi della medicina. Essa è tutta fatta di materia preziosa e salda per chi la giudichi alla sola stregua con cui può giudicarla un musicista. Ma guardiamo noi forse nel diamante l’arte di chi dagli angoli delle sfaccettature seppe ricavare il partito maggiore? No: i bagliori, le iridescenze soli ci meravigliano. E così è per questa Francesca da Rimini. Il grande pubblico ne vede le grandi linee; ne gusta la parte più semplice, quella ove la melodia s’innalza in più vaste ruote, e lascia a chi vuole di scendere nell’ intima struttura della musica. Nondimeno sente sprigionarsi dai meandri a tutta prima un po’ oscuri dell’orchestra e della scena qualchecosa di non comune, di fortemente studiato, di vivo, di caratteristico. Lo intuì udendo la prima volta l’opera, e ne rimase colpito ma disorientato. Lo sentì ieri sera, e n’ebbe compiacimento. Francesca da Rimini è infatti una di quelle opere che tutto hanno da guadagnare ad essere riudite: nulla a perdere. Ciò che è in essa di vuoto, di inorganico, di freddo, di voluto, può a poco a poco trovare un largo compenso nella bellezza e nella ricchezza di molti episodi, man mano che essi appaiono più netti, più perspicui col procedere delle rappresentazioni. E l’opera resiste così nella sua intima essenza. Intanto ieri sera il successo si concretò in tre chiamate dopo il primo atto; tre meno vivaci dopo il secondo, che ha un difetto grave: quello di voler descrivere lo sfondo di una battaglia alternando i momenti di lotta con quelli dominati dagli episodi che agitano i personaggi principali: donde qualche cosa di squilibrato, di artificioso, che già nella rappresentazione della tragedia del D’Annunzio nocque al successo

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immediato. Il terzo atto rinnovò il magnifico plauso della prima sera, con altre quattro o cinque chiamate, e fu gustato maggiormente l’ultimo atto, di cui sovratutto la prima parte ha una superba incisività drammatica. L’esecuzione fu tutta una bellezza. La Canetti seppe unire ai pregi di una voce dolce, calda, ricca di passione, educata ad ottima scuola, un portamento scenico dignitoso e fiero. Non eccedette mai: anzi la nota della passione parve qua e là velarsi d’una tinta melanconica e grigia che ad una parte del pubblico poté sembrare freddezza. Ma freddezza non è, ove si discenda nell’anima del personaggio. Il Crimi ebbe momenti bellissimi per vigore d’accenti passionali, ed altrove seppe invece contenere il suo canto in una nota di sconfortato dolore, come conviensi a Paolo. Gianciotto (Cigada) e Malatestino (Paltrinieri) rinnovarono l’eccellente impressione lasciata in tutti la prima sera. Ed è strano come anche il cosidetto phisique du rôle convenga ad essi. Tarchiato, forte, d’una rara potenza di mezzi vocali il Cigada; nervoso, svelto, insinuante il Paltrinieri, per cui questa nuova importante interpretazione è un giusto compenso dovuto ad un artista cui furono affidate in passato soltanto parti secondarie, ma che dimostrò sempre una singolare intelligenza. Ricordate, ad esempio, il folle nel magnifico Boris Godunoff. Degli altri esecutori già dissi il bene che pensavo dopo la prima rappresentazione. E soltanto del ricordo mi valgo per riparare ad un piccolo errore, rivendicando al tenore Orlandi la buona interpretazione della parte di Ser Toldo, Né ripeto le lodi per l’orchestra e per il maestro Panizza. Piuttosto a me pare che in questa esecuzione così accurata in ogni punto; in questa esecuzione ove le comparse sembrano riporre lo stesso amore nella figurazione scenica che dànno gli artisti principali alla loro parte; in questa rappresentazione ove ogni aggruppamento di personaggi ha qualche cosa di artistico sia un grande insegnamento. E l’ insegnamento è del Wagner: «Abbia la scena importanza uguale a quella della musica e del poema». E scena non significa soltanto scenografia e vestiario. A proposito di vestiario, non mi apposi male attribuendo i bellissimi costumi a Caramba, e fu la ditta Zamperoni di Milano ad eseguirli. [...] 19 “Paolo e Francesca” del M° Zandonai - Il successo al “Regio” di Torino, «Il Corriere d’Italia», 20.2.1914

TORINO, 20 matt. Dopo un lungo periodo preparatorio il nuovissimo spartito poté stasera giungere lietamente in porto ed assecondare così l’attesa vivissima di quanti nutrono fiducia nel giovane e fecondo maestro trentino salito in poco tempo ad una notevole considerazione fra gli intelligenti. L’uditorio accorso seguì infatti lo svolgersi dell’opera con quella attenzione intensa che al compiacimento congiunge il rispetto racco-gliendosi in silenzio non appena il maestro Panizza ebbe dato il segnale d’attacco.

Primo atto Si apre su di un movimento spigliato con vaghi accenni di viola interna. È la vecchia canzone del giullare che viene a chiedere ospitalità nel castello dei Polentani. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzose e passa nell’orchestra un fremito vago di giovinezza e di comicità contenuta. Il giullare canterà le storielle e romanze e in compenso non

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chiede che un pezzo di scarlatto per rappezzare la gonnella. Anche la dama che va sposa a un Malatesta sarà prodiga al cantore di doni. La fresca voce della fanciulle commista allo scoppiettìo dell’istrumentale conferiscono al quadro una grande gaiezza. Il giullare canterà di Artù e del filtro magico che la madre Lotta somministra a Tristano e ad Isotta e la viola preludia mentre le donne dal balcone sono in attesa. Ma Onstanlio [Ostasio], fratello di Francesca, vociando villanamente, sopraggiunge interrompendolo. Egli teme nel giullare un cortigiano di Malatesta, venuto a conoscenza di ogni artifizio ordito da Ser Toldo il notaio, per dare in sposa Francesca a Ginciotto [Gianciotto] che è sciancato e repugnante. Prima che ella lo veda lo afferra, lo percuote e lo scaccia. Un canto giunge dalla stanza: è un ritornello antico, una cantilena suggestiva: liuti, viole, pifferi lo accompagna[no] e si diffonde una dolce malinconica nostalgia come un’eco insinuante ed insistente. La pagina ha sapore evocativo: qualche accenno all’antico modo con tocchi discreti ne accresce il potere. Francesca al braccio di Samaritana appare come assorta, come l’acqua corrente che va e va e l’occhio non se ne avvede. Anche la sorella nell’ora dell’abbandono è sgomenta. All’alba dal lettuccio attiguo ella non sorgerà ad annunciarle la stella diana e il tramonto delle gallinelle. Il gaio sciame delle ancelle ritorna. Si chiama Francesca; accorra essa a vedere lo sposo Paolo [che,] venuto a rogare l’atto per mandato del fratello, si arresta tra gli arbusti del giardino. Gli sguardi si incontrano turbati per la prima volta. Presaga, Francesca dice a Samaritana: «fa’ cessare questo tumulto, corretegli incontro». Il momento è musicalmente denso di poesia ed il musicista, dedito spesso come già altrove all’episodio, con una pennellata sufficiente riesce a raccogliere il quadro in una atmosfera morbida di delicatezza soavissima. Un lieve tremolio di archi avvolge la melodia che i suonatori della loggia cantano dolcemente. La viola pomposa che lo Zandonai ha introdotto quivi trae dalle corde suoni penetranti cui risponde l’oboe quasi gemebondo. Il ritornello delle voci femminili vagamente si intreccia evocativo nella sua semplicità.

Atto secondo Alla serenità succede ora il fervore guerresco: e nella battaglia un’altra battaglia dilaga. Grida minacciose e nascoste; nel maniero dei Malatesta si combatte: macchine infernali e fuochi di pece greca attendono l’avvicinarsi del nemico; trombe, campane, strepiti d’arme risuonano nell’aria sanguigna; richiami angosciosi di feriti, urla [e] invocazioni si spandono nella mischia orrenda. Atto di movimento, di vita intesa naturalmente nel significato esteriore, ed anche atto di colore intenso, cupo. Voci ed orchestra hanno infatti ruvidi contrasti improvvisi, aspre dissonanze: dal punto di vista descrittivo il sinfoneta ne ha realmente intensificato la dinamica. Forse nel groviglio di frasi, nella insistenza stessa della situazione eccede di macchino-sità. La musica descrittiva, finché non rivela stati di animo ma si accontenta di rendere esteriormente vicende pure fosche, può nascondere un’insidia qualora non la sorregga il criterio della discrezione o quando il musicista non sappia raccogliere intorno a pochi temi decisivi le sue impressioni. La stessa varietà conduce in caso diverso alla uniformità. Due episodi concedono però in questo atto un po’ di tregua: quello patetico di Paolo e Francesca ove il tema che chiameremo dello sguardo ritorna in tutta la sua soavità, e l’arrivo di Malatestino ferito. Anche il declamato è a singulti: un ritmo puntato caratteristico si ripete come un pedale mentre altri tocchi nella sonorità acuta guizzano e si succedono ad intervalli di silenzio come urla di belva ferita.

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È questo un accenno abbastanza significativo della bieca figura del feroce e sanguinario giovanetto, accenno vago ma che illumina a sufficienza il tipo.

Atto terzo Nella camera di Francesca

All’alzarsi del velario ella è intenta a leggere. Una nota di pedale fissa ne dà come l’immagine plastica. Dopo la sera perigliosa non ha più veduto Paolo che il Comune di Firenze volle capitano del popolo. È questa la parte veramente lirica dell’opera. Al fascino del canto si aggiunge quello della danza: sonorità di flauti, liuti, oboi e clarini echeggiano su dalla loggia. La musica è leggera, senza costituire una imitazione pedestre di modelli arcaici e dà nell’insieme un profumo sottile come soffuso di polvere. Le ancelle, giunte le mani, ballano e cantano: «Deh, creatura allegra, conduci questa danza in veste bianca e negra come è tua costumanza». La voce si distende sugli arpeggi ed i violini in concordi acuti avvolgimenti del canto in una chiarezza soffiano quasi impalpabili. Anche la disposizione delle parti si compiace di intervalli consonanti, appena intercalati da qualche successiva armonia un po’ inconsueta. L’armonia dello Zandonai del resto, benché modernissima, è non aliena da passaggi cromatici e enarmonici, evita spesso quella sovrapposizione d’accordi così cara agli stranieri, quella sonorità composita in cui nella tonica o nella dominante si accavallano none, undicesime e tredicesime, talora a danno della limpidezza. La sostanza melodica di questo stornello non è certo originale come non sempre originale è – a rigor di termini – lo Zandonai; quando si propone di definire con una linea più sensibile un periodo, una frase, gli occorre tal volta di risentire inflessioni proprie ai maestri dell’ ultim’ora non esclusi Puccini e Mascagni. Ma se nel lungo respiro della sua lunga melodia si abbandona, si riprende, come appunto nella pagina cui accenniamo, non appena la situazione richieda grazia e snellezza.

L’ultimo atto La tragedia volge trucemente all’epilogo: la cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da Malatestino. Egli ama Francesca e ucciderà Gianciotto pur che ella lo voglia, come uccise il primogenito che geme e i lamenti del quale la fanno rabbrividire. Anche qui la sinfonia si distende negli strumenti, pervasa da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino: e qui nel lungo silenzio passa come un senso di sgomento.

L’impressione Mancanza si sincerità che tradisce spesso l’intera tragedia ne fa opera di poesia più che di teatro e di verità: opera di poesia e quindi armonia imbevuta di musica e di sogni, tenuamente diffusa, quasi intenta esclusivamente a soggiogare e disporre per solo compiacimento proprio le idee e i pensieri, in ciò sta la scena maggiore dell’arte di Gabriele D’Annunzio e ciò limita la giustificazione di un connubio con la musica. Riccardo Zandonai, come d’Annunzio poeta e colorista, ne restò soggiogato e, anima squisita e sensibile, ne intuì l’armonia e ne fu scosso e compreso, e volle scendere a scrutarne le fibre e col potere evocatore del suono esternarne la psiche commossa, e cantare con la leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova, non consapevole in tutto forse dei pericoli e delle insidie che gli sorgevano dinanzi. L’arte di questo giovane autore che in pochi anni, con «Il Grillo del focolare», con «Conchita» e «Melenis» si è meritatamente acquistato una

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fama considerevole, malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica donde aveva preso le mosse, con allargare le volute del canto verso spaziosi orizzonti, è essenzialmente anche [in] «Francesca» impressionista. Impressionista italiano – diremo così – dove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy e Ducas [Dukas] passano a volte in seconda linea, e che non di meno nello Zandonai, elevati a fattori, giovano con la loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ente fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si manifesta in ogni arte – pittura in specie – [e] nella musica muove alla ricerca costante del colore nuovo e dei nuovi sogni assai semplici e più spesso compositi, lo Zandonai seguì il sistema in parte per temperamento proprio e in parte per influsso altrui, e risultò analitico più che sintetico; più propenso a particolari anziché alla vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai principi tematici è talvolta un fantasioso succedersi di elementi difformi che conservano colle origini un nesso appena superficiale dove i richiami già poco plastici ed afferrabili raramente escono riconosci-bili nel mare fluttuante del caleidoscopio di più svariati colori in cui sono disciolti. Ed è appunto nella parte della tragedia ove il colore tenuamente diffuso prepondera che il musicista si accompagna e si accorda con l’armonia latente più che non nel crescendo passionale dell’impeto lirico o ancora nella truce scena dell’ultimo atto. L’artificio del drammaturgo invano cerca sostegno nel declamato spinto a volte senza ragione nelle estreme regioni, e qualche volta ancora troppo diffuso e interrotto da inutili didascalie strumentali. La psicologia di Francesca, come quella di ogni altro personaggio, rimane un poco nell’ ombra: ecco perché non ci sentiamo spesso partecipi o vicini e meno ancora immedesimati nella loro vita; ecco perché la vediamo più attraverso ad un velo che vibrante in noi stessi.

La cronaca della serata La cronaca della serata è stata assai lieta. Si ebbero al primo atto cinque chiamate di cui una agli interpreti e quattro all’autore. All’ultima comparve anche insistentemente chiamato il maestro direttore Panizza che col Ricordi fu della messa in scena e della concertazione amoroso cooperatore dell’autore. Anche gli artisti dal canto loro cooperarono al successo e le difficoltà da sormontare non erano né poche né lievi. La Cannetti, il Crimi, il Cigada e il Paltrinieri furono attori e cantanti degni del migliore encomio. La Cannetti, benché la parte non le si convenga del tutto per il fatto che il suo sistema di canto e la dolcezza della sua voce potrebbero meglio figurare là dove si richiede una linea più larga, visse il personaggio di Francesca e lo rese da grande artista. Il tenore Crimi le figurò degnamente accanto vincendo una tessitura acuta e sostenendo i trapassi più aspri con vigore e voce vibrata. Il Cigada fu uno sdegnoso Gianciotto minaccioso e violento ed il Paltrinieri colorì la figura felina di Malatestino. Pure molto bene fecero le ancelle di Francesca. L’orchestra suonò con anima, e chi conosce il tessuto istrumentale di Francesca da Rimini, meraviglioso tale da fare invidia a quello dei più reputati autori nostrani e stranieri, sa che essa non fece poco e che non facile fu il compito del direttore. Il secondo atto, un po’ macchinoso, interessò meno ma riscosse pure due chiamate agli interpreti ed all’autore.

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Le sorti dell’opera si risollevarono al terzo atto interrotto dalla “canzone” e dalla frase del tenore “il vostro viso”, detta dal Crimi con molta espressione. Al quarto atto si ebbero pure varie chiamate che suggellarono così il lieto successo dell’opera. La sala del “Regio” era popolatissima. Erano presenti per l’avvenimento molti critici dei quotidiani della penisola, scrittori, musicisti ed ammiratori della musica, venuti specialmente da Milano. Notati furono il comm. Tito Ricordi, editore dell’opera, e Riccardo Sonzogno. 20 La “Francesca da Rimini” del m. Zandonai al Regio di Torino, «Il Messaggero», 20.2.1914

TORINO, 19. Questa sera al teatro Regio ha avuto luogo la prima rappresentazione della Francesca da Rimini, l’opera del maestro Zandonai tratta dalla tragedia di Gabriele D’Annunzio. La Francesca è riuscita una nuova affermazione dell’ingegno e dell’arte dello Zandonai che nel volgere di pochi anni dal Grillo del focolare a Conchita a Melenis a questo suo nuovo lavoro è venuto raggiungendo una lirica d’arte vigorosa e personale. Il primo atto è stato tracciato dal maestro a tinte piuttosto fredde, come atto di presentazione. Ma il colorista appare subito dopo la prima battuta: e l’autore fa accompagnare un coro interno di donne da una curiosa orchestrina. Il recitativo, senza consolidarsi in vera linea melodica, scende si può dire dal labbro al cuore. Meno felice sembra la seconda metà dell’atto. La frase di Samaritana «O Francesca, anima mia» risente di un altro declamato di origine alquanto mascagnana. Ma il finale ricorda l’arte singolare del compositore di Conchita. Il secondo atto è il più massiccio e greve dell’opera. Lo strumentale sembra carico; forse non tutti gli effetti propostisi dal maestro risultano corrispondenti alla bella disposizione fissata nella partitura. Più felice in questo atto appare invece la musicale caratterizzazione di certi personaggi. Gianciotto, Malatestino, il Torrigiano ricevono, fin dal loro primo apparire sulla scena, una fisionomia musicalmente distinta; nel senso della rudezza e della perversità la musica dello Zandonai è assai più plasmabile che nel senso dell’amore e del dolore. Ed eccoci alla prima parte del terzo atto: teatralmente il migliore dell’opera. Biancofiore e Garsenda, Altichiara e Donella muovono il piede alla danza, sciolgono inghirlandate la canzone di primavera; i musici le accompagnano col liuto, col piffero, col flauto. Il quadro è tutto un luccichìo di fili d’oro; vi si sente come un leggero aleggiare di rondini. La canzone si muove da uno spunto già volgarizzato dal Puccini(*), che però lo strumentatore di Conchita e della Danza di Menelis [Melenis] fa presto dimenticare. L’ultimo atto è fortemente drammatico nelle sue prime scene fra Francesca, Malatestino e Gianciotto. Il maestro, alle prese con la perversità e la rudezza dei caratteri scenici, torna ad esser padrone della sua arte; il declamato e l’ orchestra gli obbediscono fondendosi mirabilmente; più che la violenza rugge in queste scene il demone della ferocia. Al finale però la musica è inferiore alle parole e alla passione. L’esecuzione del Regio è stata in tutto degna del teatro e dell’opera. Riccardo Zandonai, Tito Ricordi ed il maestro Panizza sono riusciti,

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dopo difficoltà di ogni genere, ad ottenere il desiderabile. Sia musicalmente che scenicamente lo spettacolo è apparso di prim’ordine. Tra gli artisti citeremo la Canneti [Cannetti] (Francesca), la Merly (Samaritana), il tenore Krismer [Crimi] (Paolo), il baritono Cigada (Gianciotto), il Baltrinieri [Paltrinieri] (Malatestino). Bene tutti gli altri. Bellissimi i figurini della casa Caramba e accurate anche le scene. Per la cronaca: teatro meraviglioso; tutto il primo atto ascoltato con religiosa attenzione e salutato alla fine con cinque chiamate agli artisti e all’autore. Nel secondo atto riscuote applausi vivissimi e calda ammirazione la splendida scena che rappresenta l’assalto alle mura di Malatesta; il calare del velario è accompagnato da tre calorose chiamate agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza. Al terzo atto si ha un applauso a scena aperta e alla fine tutto il teatro acclama entusiasticamente. Si hanno cinque chiamate. Il quarto atto, diviso in due parti, è ascoltato favorevolmente: tre chiamate si hanno nel breve intermezzo e altri applausi alla fine. Il pubblico esce lentamente dopo aver decretato una vittoria. Assistevano alla rappresentazione la principessa Letizia, la duchessa di Genova, i maestri Giordano, Alfano, Seppilli, Mingardi e altre personalità. ---------- (*) In Fanciulla del West. 21 “Francesca da Rimini” del maestro Zandonai al teatro “Regio” di Torino, «La Tribuna», 21.2.1914

La rappresentazione Torino, 20.

Diciamo subito che se il lavoro non ha avuto un successo straordinario, strepitoso, tale da lanciare di colpo il giovane musicista nei campi dorati della gloria e renderlo l’uomo del giorno, è stato però calorosissimo, schietto, oltremodo lusinghiero. Il pubblico torinese, che a Zandonai esordiente aveva dato la grande gioia del primo successo, ha compensato il suo nuovo lavoro, lo studio e la passione sua, con un nuovo trionfo incontrastato. Il pubblico gustò la musica e gustò la tragedia; non trovò soverchio distacco dall’una all’altra; è nel complesso una opera organica che non stancò, come qualcuno prevedeva. Sulla drammaticità e sul contenuto del libretto sono vari i giudizi. Non è necessario spender molte parole intorno al libretto di questa Francesca da Rimini. Si sa che esso è formato dal testo dannunziano, opportunamente sfrondato di alcuni episodi scenici e di molti brani narrativi non necessari all’intelligenza dell’azione drammatica. Lo stesso Tito Ricordi si è accinto all’impresa di alleggerire e ridurre la tragedia del D’Annunzio a libretto d’opera e, si deve riconoscerlo, egli è riuscito mirabilmente nel suo intento. I tagli operati nella compagine folta del testo originario non si avvertono, leggendo il libretto. Eppure questi tagli sono semplicemente colossali. Basti dire che al primo atto è stato soppresso, oltre ad una buona metà del dialogo fra Ostasio e Ser Toldo, tutta l’intera scena fra Ostasio e Bannino col ferimento di quest’ultimo. Di bene in meglio: la scena iniziale del secondo atto con il colloquio tra “il Torrigiano” e “il Balestriere”, lunga centododici versi nella tragedia, è stata ridotta a tre soli versi nel libretto. E le successive scene tra Francesca, Paolo e Gianciotto hanno subìto anch’esse decurtazioni importantissime. Al terzo atto sono state tolte interamente le lunghe scene con il Mercante, l’Astrologo e il Medico; anche la scena capitale tra Francesca e Paolo è stata ridotta a poco più di un terzo, guadagnando molto la forza drammatica.

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Il quarto e il quinto atto della tragedia, ridotti ai minimi termini, formano nel libretto un atto solo diviso in due parti. Del resto, come già abbiamo detto, queste amputazioni non hanno sfigurato affatto l’opera bellissima del d’Annunzio. La vicenda drammatica, in fondo, è rimasta immutata: il primo atto consta nell’arrivo di Paolo Malatesta nel palagio dei Polentani [di] Ravenna e termina con l’offerta della rosa che Francesca fa al sopravveniente; il secondo si svolge fra il tumulto della battaglia sull’ alto della torre malatestiana a Rimini ed è inframmezzato dalla scena nella quale Paolo e Francesca rivelano l’affetto che li sospinge l’uno verso l’altra; il terzo, eminentemente poetico e lirico, ha luogo nella camera di Francesca e si chiude con l’episodio della lettura del libro e del bacio; il quarto e il quinto (collegati insieme) ci fanno assistere alla delazione di Malatestino, all’agguato di Gianciotto e all’uccisione degli adulteri. Nell’insieme, il libretto può dirsi eccellente per taglio e sceneggiatura, oltre che smagliante per la forma letteraria. Tutti conoscono, del resto, i meravigliosi pregi formali dell’opera dannunziana, e sarebbe certo ingenuità il parlarne ora. Il primo atto si apre con un breve preludio spigliato su una scena di donne alle prese con un giullare che canta comiche storielle d’amore. La gaia scena è interrotta dal sopraggiungere irruento di Ostasio; ma poi le donne ritornano e chiamano Francesca perché accorra a vedere lo sposo. Le donne lo credono realmente il fidanzato e lo trovano degno di lei; ma Paolo è venuto invece a rogare l’atto per mandato del fratello e si arresta tra gli alberi del giardino. Gli sguardi dei due giovani si incontrano, per la prima volta, turbati. Francesca si avvicina a Paolo: coglie una rosa e gliela offre. Il momento è musicalmente denso di melodia poetica, delicatissima. Il quadro è contenuto in un’atmosfera dove un lieve tremolio di archi su una larga armonia di sonorità medie avvolge le melodie che i suonatori della loggia scandono dolcemente. Il “canto delle donne” riesce deliziosamente arcaico ed è gustato dall’uditorio. Il coro si spegne:

A convito selvaggio in contrada lontana uno cor ti [si] domanda...»

Il pubblico scoppia in applausi calorosi. Sono 5 le chiamate che salutano l’autore e gli interpreti. Il secondo atto risulta, nel suo insieme, di minore contenuto musicale in confronto del precedente e di quelli che seguono. Inferiorità evidente, sentita. Esso si sostiene tuttavia per la sua bellezza esteriore e per il suo movimento scenico. Sono infatti resi assai bene il fervore della battaglia, i richiami dei feriti, gli episodi di morte. Nonostante che lo svolgimento dell’atto sia esteticamente impeccabile, l’atto stesso non riceve che 3 chiamate. Questo atto, così diverso dalla gentile tenuità del primo e rotto da un episodio che può chiamarsi di riposo, cioè quello patetico di Paolo e Francesca, a qualcuno tuttavia è apparso stanco. Quando infatti l’atto si chiude non si sa bene se gli applausi siano diretti agli esecutori o alla musica. Ma il successo rimbalza di nuovo al terzo atto che sembra la parte migliore di tutto il lavoro. Già a scena aperta si hanno parecchi applausi; piace infatti molto la leggiadra canzone a ballo delle 4 donne di Francesca: un quadretto di danze che ricorda gli affreschi tanto cari al Poeta del Palazzo Schifanoia nella silenziosa Ferrara; ed è insieme al mesto canto di Paolo:

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«Perché volete voi?...»

una delle fini gemme dello spartito. La musica di questo atto è calda, ispirata. Su nella loggia echeggia una piacevole sonorità di flauti, di clarini, di oboi, molto gustata. La seconda parte è tutta sentimentale. Vi si svolge un lungo colloquio in cui Paolo tenta invano di vincere Francesca parlandole delle proprie sofferenze d’amore. Ma la lettura delle parole tentatrici e vittoriose: «tra le braccia lei serra - lungamente - la bacia in bocca» [sic] – come dice la didascalia del Poeta. L’atto si chiude con un grande sfoggio di melodia che ricorda il finale del primo atto e strappa calorosi applausi. La tragedia volge al suo epilogo: la cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da quella di Malatestino. Anche egli ama Francesca e ucciderà il fratello Gianciotto purché ella lo voglia, come uccise freddamente un prigioniero il cui lamento di notte la faceva rabbrividire. La sinfonia qui si distende negli strumenti pervasi da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino durante la sua prima scena. Intanto Giangiotto [Gianciotto] sopraggiunge e alcune incaute parole di Francesca fanno sorgere in lui il sospetto che Malatestino non tratti la donna sua col riguardo dovutole. Francesca esce; i due fratelli si trovano faccia a faccia e Malatestino compie brutalmente la sua opera di delazione. la scena è profondamente drammatica: la musica si mantiene all’altezza sua e riproduce quel momento di sgomento e di terrore. Tre applausi coronano questa prima parte. Il velario si abbassa per breve. La seconda parte si svolge nella camera di Francesca. È notte, le donne prendono congedo da lei. La scena comprende molti particolari delicati, specialmente il saluto di Francesca a Biancofiore con la rievocazione della figura di Samaritana:

«Era dolce la mia sorella, è vero, Biancofiore?»

La musica conduce l’animo da una tristezza infinita, presaga di sventura, ad uno scoppio di passione intensa. Appare Paolo: nel suo canto risuona il gran tema del primo incontro che il pubblico ha già gustato e di cui ora si ricompiace. Le voci si fondono. Arriva Gianciotto. Trafigge i due amanti e spezza lo stocco sanguinante. Sei chiamate chiudono l’opera. Il maestro Panizza ha concertato lo spartito con diligenza, assecondato con molta lode dagli interpreti: la Canetti [Cannetti], il Krismer [Crimi], il Cigada e il Paltrinieri. La Canetti fu una protagonista intelligentissima che si fece apprezzare come eletta artista in una parte ardua e faticosissima. Il Krismer [sic] dette giusto risalto drammatico e vocale alla sua parte. Molto bene il Cigada e specialmente il Paltrinieri nelle parti di Gianciotto e di Malatestino. La messa in scena e i costumi di Caramba, magnifici, sontuosi. L’opera ha commosso realmente? La musica di Zandonai nella sua essenza ha convinto? Nella Francesca, come già in Melenis, la parte drammatica è in prevalenza su quella lirica. Il musicista riesce a scrivere pagine di efficacia non dubbia, quando l’azione assume un carattere fosco e angoscioso; viceversa, là dove il canto di amore dovrebbe esplicarsi libero, flessuoso e spontaneo, sembra che la sua ispirazione si trovi un po’ inceppata. Questo si nota sia nell’episodio del secondo atto fra Paolo e Francesca, sia specialmente nell’ultimo duetto d’amore, assai

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meno significativo della precedente scena tra Gianciotto e Malatestino, così torva e vibrante. Lo Zandonai è sopra tutto uno straordinario colorista: egli maneggia l’orchestra con un’abilità superlativa e sa, con pochissimi elementi tematici, imbastire un quadro lussureggiante. Per questo la musica interessa più di quel che non commuova: essa sembra rivolgersi più allo spirito che al cuore dell’ascoltatore. Nella Francesca da Rimini, di vere melodie passionali che abbiano un periodo di una certa ampiezza e un disegno caratteristico, ve ne è una soltanto, che appare nel finale del primo atto – cantata da una viola pomposa – e poi ritorna nel secondo atto e chiude il terzo, commentando l’episodio del bacio. Forse la storia lancinante dei “due cognati” avrebbe richiesto un maggior corredo di melodie amorose. Tuttavia nell’opera v’ha una pagina animata da un lirismo sottile e seducente al massimo grado: la canzone della primavera, intessuta su di un motivo che per lo spunto iniziale fa pensare a un famoso brano della Fanciulla del West, ma che poi si svolge in modo originale, tra una successione di effetti fonici e vocali veramente squisiti. Ma, a parte ogni giudizio sul valore intrinseco dell’opera d’arte, una cosa è certa: che il pubblico nella sua massa, senza anatomizzare, ha provato istanti di godimento.

La critica Il critico del «Momento» scrive: «Peccato che la tragedia per la stessa sua natura non commuova realmente riuscendo a malapena a mascherare l’artificiosità vuota della situazione, portata all’iperbole dalla ferocia più sanguinaria, e che ciò si rifletta anche sulla musica». Ma occorre tenere calcolo del colore del giornale e della opportunità di non esaltare l’opera dannunziana. Circa la musica lo stesso critico scrive: «L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha dato alla scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis», malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica donde invece aveva preso le mosse, con allargare le vedute del canto verso più spaziosi orizzonti è essenzialmente, anche in «Francesca da Rimini», quella dell’ impressionista; e dell’impressionista italiano(*). «Francesca da Rimini» rimane un documento prezioso, considerato da una visuale d’arte superiore; prezioso non solo per qualità di tecnica, ma anche per elevatezza di contenuto, per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso che a volte costituiscono il tramite sicuro del successo. L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto, alla figura d’arte cui si trovava di fronte». Il critico della «Gazzetta del popolo» dice che «si rimane abbagliati, che si ammira anche molto la musica; ma che la ammirazione è più cerebrale che cordiale. Senza dubbio si ammira, ma si ripensa e forse anche si rimpiange quell’ampio respiro melodico che per tanto tempo fu la delizia del pubblico e del nostro teatro d’opera. Si avverte pure un onesto e lodevole desiderio, una intenzione molto chiara di italianizzare i procedimenti adottati nella costruzione della musica, ma in fondo al cuore resta sempre come una sete, un desiderio di melodie più larghe, più profonde e sviluppate. A nessuno può sfuggire la abilità di questo tentativo; ma all’abilità si vedrebbe volentieri accoppiato l’impeto e il valore di una ispirazione spontanea e più travolgente. Si rimane un poco freddi: insomma senza esaltazione, come avviene quando si contempla un gioiello sfaccettato e cesellato da un orafo perfetto». Quindi il critico soggiunge: «Ottimo successo; e quello che è più, successo serio di Riccardo Zandonai, che con questa nuova fatica d’arte prende un bel posto tra i nostri compositori».

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La «Stampa» dopo aver accennato alla tempra dello Zandonai, tempra di musicista complesso e delicato, ai suoi lavori ricchi di orchestrazione, originali nella armonizzazione irrequieta ed esuberanti di ritmi, con una preponderanza assoluta del linguaggio orchestrale sui mezzi di espressione concessi dalla voce, si chiede se lo Zandonai abbia seguito Debussy, o Strauss, o Wagner, e conclude: «Parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria, ciò che vale molto meglio; e la ha in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte; egli ha evitato molti accenni alla volgarità; dove il libretto glielo consentì egli trovò accenti veramente drammatici ed espressivi. Fu colorito, a volte vigoroso, e a volte semplicemente audace. Seppe essere denso e chiaro ad un tempo. L’opera sua non avrà una grande unità organica, apparirà frammentaria e talora fredda o almeno priva di quei momenti vibranti che trascinano il pubblico all’entusiasmo, ma, così come è, la «Francesca» correrà egualmente con fortuna le scene per il maggior nome della giovane scuola italiana. E questo mi pare che basti». In complesso l’opera dello Zandonai ha avuto un nobile successo del quale il giovane compositore si può molto rallegrare. ---------- (*) In realtà la citazione, ancorché parafrasata, sembra appartenere al «Corriere d'Italia» del 20.2.1914 - cfr. sopra, n. 19. 22 La “Francesca da Rimini” di Zandonai al Regio di Torino - La lieta accoglienza del pubblico, «La Vita», 21.2.1914

Torino, 20. Magnifica ieri sera la sala del Regio per la prima della Francesca da Rimini, l’opera di R. Zandonai su parole di Gabriele D’Annunzio. Il libretto come è noto è stato tratto dal Ricordi dalla tragedia dannunziana.

Il Libretto La tragedia del D’Annunzio è stata ridotta da cinque atti a quattro ma i quadri sono stati conservati quali erano: la corte nella casa dei Polentani al primo atto, la piazza d’una torre dei Malatesta al momento della battaglia nel secondo, la camera di Francesca al terzo. Il quart’atto invece riunisce il quarto ed il quinto della tragedia, ma ne conserva i due quadri, che son divisi in due parti: la sala ottagona nella casa dei Malatesta e di nuovo la camera di Francesca. Tutta la tragedia magnifica così è percorsa ugualmente da ondate di calda poesia. La necessità di sfrondare ha portato anche alla soppressione di qualche personaggio: così è stato tolto Bannino, il fratello di Francesca e di Ostasio, che non aveva più nulla da fare dopo la soppressione della violenta scena con Ostasio, e le cinque donne di Francesca son diventate quattro – è scomparsa Alda, e Adonella è nominata Donella – e non più appare il mercatante al terzo atto e sono anche levati nella loro espressione singola i partigiani di Guido Minore da Polenta e di Malatestino da Verucchio. Ma restano, oltre alle figure essenziali, la piccola Samaritana, la dolce sorella di Francesca, e Smaraggi [Smaragdi], la schiava, e il notaro ser Toldo Berardengo, e il giullare, e alcuni uomini d’arme. Il critico musicale della Stampa trova stamane però che la tragedia così ridotta e sfrondata abbia perduto assai della sua fierezza. Egli così scrive: «Nella riduzione, per quanto abile essa sia, per quanto asservita alle esigenze della scena lirica da un uomo di buon gusto e pratico di teatro come Tito Ricordi, la tragedia del D’Annunzio, costretta nei limiti consueti di un libretto d’opera, perde – a traverso i tagli inevitabili

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– molto della sua selvaggia ed impetuosa fierezza; molto del suo carattere rievocativo di tempi aspri per aspre e per continue contese. Confermo però che non so chi avrebbe potuto con altrettanta abilità e con altrettanto amore sfrondare la tragedia del D’Annunzio di quanto poteva costituire un ingombro al rapido sviluppo dell’azione sulla scena o che avrebbe creato difficoltà gravissime per il musicista, soltanto con danno dell’opera sua».

Gli episodi Al prim’atto l’entrata di Francesca è annunziata da un coro leggia-drissimo delle sue giovani donne. Ella appare sulla loggia insieme a Samaritana «piccola colomba», la sorellina dolce che implora Francesca di non andare sposa. Ricordate?

O sorella, sorella, odimi: resta ancòra con me! Resta con me, dove nascemmo! Non te n’andare! Non m’abbandonare! Ch’io faccia ancòra il mio piccolo letto accanto al tuo!

L’entrata di Paolo – Paolo è il terrore [!], naturalmente – al finale del primo atto è appoggiata al suono di tre strumenti antichi: una viola pomposa a cinque corde con sotto altre corde metalliche di risonanza, un piffero e un liuto. Paolo non dice parola. Francesca «rimane immobile ed egli si ferma fra gli arbusti, e stanno l’una di contro all’altro, divisi dal cancello, guardandosi senza parola e senza gesto». Poi ella si separa dalla sorella, coglie una grande rosa vermiglia e di sopra alla chiusura la offre a Paolo. E il coro delle donne canta:

Per la terra di maggio l’arcadore in gualdana va caendo vivanda. A convito selvaggio in contrada lontana uno cor si domanda...

Al terz’atto, che si svolge nella camera di Francesca, col ritorno di Paolo da Firenze, il maestro si era fermato dinanzi a una difficoltà: il racconto che il Malatesta fa delle sue giornate fiorentine e dell’ incontro di Dante:

E un giovinetto degli Alighieri nominato Dante...

appariva difficile e lo sbigottiva invece di inspirarlo. Se ne parlò a D’Annunzio, e D’Annunzio sostituì il racconto con questi versi nuovi. Solamente i primi quattro che legano sono dell’edizione primitiva:

Perché volete voi ch’io rinnovi nel cuore la miseria di mia vita? Mi fu a noia e spiacque tutto ch’altrui piaceva. Nemica ebbi la luce, amica ebbi la notte, ove su dal silenzio di me stesso nata e dal fondo dell’eterna doglia, simile alla sorgente che disseta

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e simile alla fiamma che riarde, freschezza e incendio, lenimento e piaga, or torbida ruggente come fiaccola, or mite come lampada, una visitatrice si chinava su me, quasi a nudrirmi dell’assidua mia veglia; quando si partiva al tremor delle stelle, non più foco né fonte era, ma il vostro viso... FRANCESCA Ah, Paolo, Paolo! PAOLO ...il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore FRANCESCA Paolo se perdonato vi fu, perché vi rilampeggia ancòra sotto i cigli la colpa? Ahi, che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra!

La lettura del libro di Lancillotto del Lago, alternata da Paolo e da Francesca, è declamato sovra un sommesso accompagnamento dell’orchestra che ha appena l’aria di sfiorare le parole. E prima, nello stesso atto, la canzone a ballo soavissima:

Nova in calen di marzo o rondine, che vieni dai reami sereni d’oltremare...

è intonata prima a duetto da Biancofiore e da Garsenda, poi danzata dalle quattro donne, poi ripresa da Altichiara e da Donella, e in fine cantata dalle quattro voci insieme. Il precipitar della tragedia – lo irrompere di Gianciotto nella camera di Francesca e l’uccisione dei due amanti – è qui rapidissimo(*). Sono state tolte le parole di Paolo alla donna impietrita dal terrore mentr’ella obbedisce al marito furente e va ad aprire vacillando, e tolte sono le parole che lo Sciancato avventava contro il fratello impigliato nella fuga a un ferro della botola. Gianciotto urla di fuori, squassando l’uscio:

Apri, Francesca, pel tuo capo! Apri!

E quando, l’uscio aperto, lo Sciancato si precipita innanzi furibondo cercando con gli occhi il fratello, e lo scorge ritenuto per la sopravveste alla cateratta, e gli si fa sopra e lo afferra per i capelli forzandolo a risalire, la donna si getta tra mezzo ai due:

Lascialo! Me, me prendi! Eccomi!

E come il ferro le trapassa il petto la morente sospira:

Ah, Paolo!

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E sono le ultime parole della tragedia.

La musica - Il successo Ecco intanto le impressioni dopo la prima dell’opera. La musica è stata giudicata fine, elegante, melodica. Si tratta di un’opera veramente italiana in tutte le sue parti. Il successo si è delineato fin dal primo atto sicuro. L’autore è stato chiamato cinque volte al proscenio fra grandi ovazioni. Nel secondo atto hanno riscossa subito la più viva ammirazione le splendide scene che rappresentano l’assalto alle mura dei Malatesta. Al cadere del velario tre chiamate calorose agli interpreti, all’autore e al maestro Panizza che ha diretto l’orchestra magistralmente. Alla fine dell’atto terzo il teatro ha acclamato con entusiasmo e si sono avute cinque chiamate, e Zandonai ed il maestro Panizza si sono presentati tre volte alla ribalta. Il quarto atto, diviso in due parti, è stato ascoltato dal pubblico favorevolmente. Tre chiamate al breve intermezzo ed altre tre alla fine della rappresentazione. Il pubblico è uscito lentamente, dopo aver decretato una piena vittoria. La difficile prova è stata vinta, perché si giudicava molto arduo il compito di mettere in musica la tragedia di D’Annunzio. L’esecuzione vocale ed orchestrale è stata ottima. Specialmente si distinsero la signorina Canetti [sic] (Francesca), il baritono Cigada (Lanciotto [Gianciotto]), il tenore Crini [Crimi] (Paolo). Assistevano la Principessa Laetitia e la Duchessa di Genova. ---------- (*) È evidente che qui l'articolista confonde le situazioni sceniche del terzo atto con quelle del quarto. 23 Nicola D’Atri, Il gran successo della “Francesca da Rimini” di d’Annunzio e Zandonai al Teatro Regio di Torino, «Il Giornale d’Italia», 21.2.1914

Torino, 20 febbraio. La Francesca da Rimini è finita or ora al “Regio” tra le acclamazioni prolungate. È stato un successo crescente. Dichiaratosi al finale del primo atto, quando, all’arrivo di Paolo, Francesca gli offre la rosa, ha toccato la nota alta dell’entusiasmo alla fine del terzo atto per la bellezza della musica inspirata e spirante tutta poesia nella scena d’amore e alla lettura del libro. E il plauso entusiastico si è mantenuto durante il quarto atto, potente nel primo quadro per drammaticità della grande scena in cui Malatestino annunzia a Gianciotto il tradimento di Francesca, e profondamente patetico nel secondo ed ultimo quadro fino alla catastrofe tragica. Quattro chiamate al primo atto, due al secondo, che è l’atto della battaglia, sei dopo il terzo, otto o nove durante e dopo l’ultimo atto. L’aritmetica ormai banale delle chiamate questa volta diventa significativa. L’opera si dava in ambiente difficile e per sé stessa sollevava diffidenze; l’autore era un giovane stimato già in Italia dagl’intelligenti, ma senza il prestigio della popolarità e del gran nome. Gl’intelligenti medesimi non osavano riconoscergli altro che talento e sapere; solo pochissimi, e di questi mi onorai far parte senza ambagi, non indugiarono a concedergli anche le doti superiori della genialità creatrice, che pure s’intravedevano nelle sue opere precedenti. Ma Riccardo Zandonai, con la sua giovinezza audace nell’affrontare l’altissimo soggetto, ha vinto d’impeto la sua battaglia decisiva con la Francesca, conquistando il gran pubblico che non gli ha resistito; ha

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vinto la grande battaglia da cui esce ormai col suo destino di operista italiano potente ed inspirato. L’aritmetica quindi delle chiamate che dinota un successo pieno, incontrastato, discusso, ha questa volta un’importanza singolare che trascende la pura cronaca dell’avvenimento. Ma, appresa la cronaca, sorgerà nella mente curiosa dei lettori lontani il desiderio di molte domande cui non mi è dato rispondere in questa prima ora dopo lo spettacolo, cui ho assistito per informarvi e a cui fui attratto anche e sopratutto dalla fede che avevo nell’autore della nuova musica e nel soggetto da lui prescelto. Saranno probabilmente, quelle del lettore lontano, domande non scevre di dubbi su quest’altra Francesca da Rimini, ultima di una serie da anni molti ininterrotta di opere musicali inspirate dall’immortale episodio dantesco, che tutte le ha soverchiate con la propria grandezza poetica e subito poi le ha cancellate quasi sul nascere dal novero delle cose vive. Vivrà all’arte, vivrà lungamente alla scena quest’ultima Francesca? A domande così esplicite, eppure tanto comuni dopo le prime rappresenta-zioni teatrali, nessuno che abbia senno ed esperienza vorrà esplicita-mente rispondere. Basterebbe per oggi sapere, e sarebbe già molto, che in questa Francesca ferve di vita un artista. Ma se e quali elementi di schietta poesia, se e quali elementi di teatralità viva e sana, se e quanta genialità musicale contenga il nuovo dramma lirico per la propria esistenza all’arte e per la propria fortuna alla scena, si potrà dire, sia pure di sfuggita, nel corso veloce di questo resoconto. Quel che intanto preme affermare, per sciogliere i dubbi, è che questa Francesca da Rimini, apparsa iersera alla scena lirica, ultima di una serie dimenticata, è tale opera che sorprende e impressiona, penetra fascinosamente nell’animo, persuade l’intelletto e asseconda il gusto dello spettatore moderno. Potrà poi essere tranquillamente e variamente giudicata nel suo insieme e notomizzata nella parti, ma frattanto si offre al teatro con alte suggestioni, e un fascino nuovo di bellezze rare vi spiega la musica, inspirata dal poema tragico in cui Gabriele D’Annunzio rivisse e riespresse in nuove forme l’episodio dantesco. È opera insomma che, indipendentemente dal successo di teatro e da ogni altro criterio momentaneo, s’imporrà come un oggetto degno alla critica d’arte, e fin da oggi innalza il giovane musicista, Riccardo Zandonai, ch’ebbe l’audacia di un gran cimento, nella sfera di quei tali artisti che, come suol dirsi, hanno le scintille. Per darvi un’idea del nuovo dramma lirico v’invito a ripensare la tragedia dannunziana, ch’egli stesso, il Poeta, denominò poema di sogni e di delitti. Non diversa è stata la visione del musicista. Ridotta per la scena lirica, la tragedia perde episodi e versi preziosi ma acquista in rapidità ed efficacia drammatica, e conserva inalterato l’ambiente duecentesco, inalterata la soavità d’amore che la pervade, inalterata la ferocia delle armi. E l’ambiente, l’amore, la ferocia ritrovano una figurazione sonora per virtù geniale del musicista. Nel primo atto si susseguono con una grazia arcaica le scene musicali delle ancelle col giullare, di Ostasio con Ser Toldo, un duettino, questo, caratteristico per la sua andatura che richiama il vecchio recitativo italiano, e quella della entrata di Francesca al braccio della Samaritana mentre il corettino interno delle donne modula un’ingenua cantilena accompagnata dall’orchestra, che si fonde con un’orchestrina interna composta di un liuto, una viola pomposa, un clarinetto, un piffero e un flauto. E non soltanto il suono di questa orchestrina all’antica, ma l’insieme della melodia e delle armonie dànno un senso di lontananza nel tempo, il senso di cose che furono e tra le quali si maturarono sogni e delitti. E quasi trasognata incede Francesca, appoggiata alla cara sorella e carezzata dalle tenui armonie vaganti per l’aria. Alcuni accordi tristissimi dell’orchestra, che ricorreranno in

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tutta la partizione con significato tragico, vengono a impostare musicalmente il dramma, tosto che il pensiero di Francesca si volge allo sposo annunziato ed atteso. Quindi, al lamento della Samaritana che trepida per la dipartita di lei e la scongiura di non abbandonarla, la «piccola colomba». Ma sull’improvviso suono rapido e festoso dell’ orchestra le ancelle invocano Francesca perché corra a vedere lo sposo, Paolo, che passa. Qui l’animo di lei entra in tumulto, e l’orchestra ferve in un modo che lo esprime e che ingrossa e che incalza finché raccoglie l’agitato canto di Francesca. La commozione a questo punto si propaga nell’uditorio. Risuona festosa l’ orchestra e, prorompente ora nella gioia, Francesca accorre, la Samaritana singhiozza; le ancelle conclamano la venustà dello sposo; Paolo si appressa al cancello della corte dei Polentani, si fa silenzio, trepido silenzio: mormora leggerissima tutta l’orchestra intorno ad una melodia, la melodia d’amore, intonata dalla viola pomposa cui presto si uniscono gli altri strumenti dell’orchestrina all’antica, sulla scena; tutti guardano verso il giardino, e un coretto di donne intercala la sua mite cantilena. È il finale dell’atto che finisce come in un sospiro di suoni, come in un sogno. La visione dannunziana è raggiunta ed è come avvolta in un velo di armonie fascinose da cui emerge semplice, pura, gentile, italianissima, l’onda melodica. Si chiude il velario. Scrosciano irresistibili gli applausi. Seguono le chiamate. Analizzare ora ciascun pezzo musicalmente? Dirne il pregio, i difetti, la struttura o la linea? A che vale, se il loro nesso, creato dalla fantasia del musicista, produce in sintesi la sensazione del quadro dannunziano nel primo atto del suo poema? Lirico paesista è stato chiamato D’Annunzio; e un paesaggio musicale arcaico in cui ferve l’ animo lirico di un musicista moderno ha dipinto con i suoni Riccardo Zandonai nel primo atto della sua opera. Così nel secondo egli ha visto la battaglia ardente e tumultuosa, in cui violenta si scatena a tratti nel fragore, e tra il pericolo incombente di morte, la passione dei due cognati. Brevi episodi lirici, frasi cantabili di Paolo e Francesca, poi di Gianciotto traversano i clamori della battaglia. L’atto, di carattere sinfonico, è costruito superba-mente come una immensa chiazza di colore crudo, in forte contrasto con l’atto precedente. Forse è oscuro nella sua costruzione a chi lo ascolta per la prima volta, e ferisce con le aspre sonorità dell’orchestra e delle voci, realisticamente trattate. Forse la parte lirica è soverchiata. Ma nel quadro sinfonico irrompe, maschia e scultoria pur musicalmente come nella tragedia, la figura di Gianciotto, e si determina nel suo ritmo caratteristico, strano ed indimenticabile poi nella partitura, il perverso tipo di Malatestino. Altro paesaggio musicale a grandi macchie impressioniste e con le sue figure in iscorcio questo secondo atto, che poi si chiude con la ripresa sinfonica della battaglia in cui trionfa con gli ottoni il tema del giuramento d’amore tra Paolo e Francesca. Il terzo atto, l’atto della scena d’amore e del bacio presso il libro galeotto, meriterebbe davvero anche una esegesi musicale riposata e tranquilla. Altri la darà o noi stessi in diverso momento, ma ora qui, sotto l’impressione provata, noi cerchiamo di intuire, nella visione generale del quadro, le intenzioni d’arte del musicista. Poiché la critica non è, come i più credono, quell’osservare e rilevar pregi oppure rimproverar difetti, e nemmeno è la semplice analisi musicale di pezzi e brani e melodie e ritmi e accordi; critica è lo interpretare, intendere e fare intendere l’artista se questi ci ha sinceramente penetrati e commossi, la critica è nella sua prima fase una sintesi, una ricostruzione emotiva.

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Onde è che il terzo quadro musicale della Francesca da Rimini ci è apparso come un trionfo della poesia della primavera così come fu visto nel fondo dal paesaggio lirico dannunziano. Paesisticamente lo Zandonai ha tratteggiato e sfumato tutto il suo quadro con i brani e i frammenti della fresca canzone della primavera intonata dalle quattro ancelle nella camera di Francesca che attende il suo amato. E quando nel quadro si delineano le figure dei due amanti che sciolgono dal cuore e dal labbro le melodie più tenere e appassionate, i frammenti della canzone primaverile si insinuano come lieta risonanza arcana dei loro animi, finché all’ultimo accompagnano il bacio d’amore coi loro echi indefinibili, generati sommessamente dall’orchestra e dalle voci interne in lontananza, le quali cadenzano soavemente mentre il bacio si prolunga e dura: primavera! Primavera! – Cala la tela e il pubblico rapito scatta di entusiasmo. Così il temperamento musicale coloristico dello Zandonai già rilevato nella Conchita qui trova esplicazione altamente poetica e si completa con l’affermazione di un altro temperamento che è in lui, quello del melodista che lirizza e canta. Tutta la Francesca, salvo alcune scene come quella della battaglia, è materiata di musica melodica e cantabile; le voci secondo la grande tradizione italiana regolano la condotta musicale del dramma, non l’orchestra; l’orchestra dipinge, descrive con frammenti a lei apprestati dalle melodie vocali. Rievocando ora rapidamente il quarto atto nel quale il dramma domina in tutto sull’ambiente e il quadro è preso dal disegno delle figure, si ha nella prima parte, dopo le prime due scene forse troppo sviluppate relativamente all’azione melodrammatica, quella tra Gianciotto e Malatestino, potente nella tragedia e resa potentissima dalla musica. Il dialogo declamato fra i due e intercalato di un ritmo crescente dell’orchestra è di una efficacia teatrale immancabile, onde il successo ottenuto da tale scena. La seconda parte dell’atto contiene una delle pagine musicali più inspirate di tutta l’opera, quella tra Francesca e le sue ancelle e poi con Biancofiore: pagina, questa, piena di profonda melanconia, che sembra preludere come un presagio alla tragica morte di Francesca e Paolo. La scena ultima tra i due amanti non ha pregio musicale in senso assoluto, ma è piena di passione e di foga nel canto; qui le voci dei due amanti insieme ripetono in uno slancio comune la melodia della rosa, quella con cui sulla fine del primo atto si aprirono i loro animi all’amore. Così termina felicemente l’opera inspirata dal nobile poema di Gabriele D’Annunzio al più forte tra i giovani operisti italiani. Opera in cui questo ha esaltato il suo estro sinfonico nel contemplare le visioni del Poeta, ed al sonito del fulgido verso dannunziano ha potuto formare una sua melodia cantabile italianamente bella ed eletta spontanea infiammata. La vittoria di un giovane musicista che già si sapeva fortemente temprato nella sua arte e che oggi nel contatto spirituale con un alto soggetto poetico guadagna la palma dell’operista ho voluto io qui esaltare ai lettori. Non ho inteso celebrare nella Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai un capolavoro musicale: né mi farà velo il suo successo odierno nel giudicarne quando che sia il valore intrinseco di opera d’arte e rilevarne pacatamente o le rare bellezze o i mancamenti. Oggi noto soltanto che da consimile materia poetica e da siffatte tempre di artisti quali si mostrano nella nuova opera sorgono i capolavori; e constato né più né meno che da oggi esiste per la scena lirica un melodramma nobilmente inspirato nel quale l’arte ha detto una sua parola. E constato pure che per il pubblico teatrale esiste un’altra opera italiana bella e commovente.

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L’esecuzione Della esecuzione dell’opera al “Regio” non si può affermare che sia stata veramente perfetta: fu commendevole per alcune parti, manchevole per alcune altre. La protagonista medesima, signorina Canneti [sic], una squisitissima cantante, se fu ammirevole per bellezza di canto, non fu abbastanza efficace nell’azione scenica e nemmeno in qualche accentuazione drammatica del suo canto. Ma a lei va tenuto gran conto che dovette assumere la parte all’ultim’ora e studiarla in pochissimi giorni, onde si può dire ch’ella abbia compiuto un vero miracolo e abbia nello stesso tempo assicurata l’andata in iscena dell’opera. Nella parte di “Paolo” si è magnificamente affermato il giovane tenore Crimi, che si fece applaudire anche a scena aperta. Egli è un cantante dalla voce bella, calda, simpatica, estesa ed ha contribuito non poco al successo dello spettacolo. Il baritono Cigada, un artista ben noto, è stato un “Gianciotto” efficacissimo per robustezza di voce e vigoria di accento e per l’azione scenica sempre felice. Così pure un efficacissimo “Malatestino”, parte difficile, è stato il tenore Paltrinieri. Fra le parti minori si distinse il basso Malatesta, il giullare. Il maestro Ettore Panizza, un direttore stimatissimo, ha posto tutta la sua coscienza di artista nella concertazione dell’opera difficilissima: che risulta anche di tante finezze strumentali ed armoniche le quali costituiscono un lato originalissimo della nuova musica di Zandonai. Quindi il maestro Panizza fu con gli artisti e con l’autore chiamato più volte al proscenio, e fu anche evocato il valentissimo maestro Veneziani istruttore dei cori. Generalmente ammirata è stata poi la messa in iscena. Bellissime alcune scene del Rovescalli e i costumi di Caramba.

La sala(*) La sala presentava un bellissimo aspetto benché ieri sera fervesse a Torino in ogni ritrovo il giovedì grasso. La principessa Letizia e la duchessa di Genova assistettero a tutto lo spettacolo dai palchi di Corte. Tra gli intervenuti si notavano molte notabilità artistiche torinesi. Coi treni di Milano eran giunti Umberto Giordano e i maestri Seppilli, Alfano, Donaudy, Barone e vari altri. Vi erano gli editori Riccardo Sanzogno [Sonzogno] e Tito Ricordi, quest’ ultimo complimentato per la riduzione della «Francesca da Rimini» di D’Annunzio, da lui fatta per la musica di Zandonai e riuscita teatralmente efficace.

I giudizi dei giornali Torino, 20 febbraio.

Nella Stampa di stamane Ferrettini constata il grande successo ed esaminata l’opera così conclude: «Dovrei ora riassumere e rispondere se l’opera è bella, se lo Zandonai segue Debussy o Strauss o Wagner e via via. Ma parmi che il maestro trentino cerchi piuttosto una strada propria e ciò che vale molto meglio che l’abbia in gran parte trovata. Egli ha composto una nobile opera d’arte; egli ha evitato molti accenni alla volgarità. Dove il libretto glielo consente, egli trova accenti veramente drammatici ed espressivi. È un colorista a volte vigoroso, a volte semplicemente audace. Francesca da Rimini correrà con fortuna le scene per il maggior nome della giovane scuola italiana, e questo mi pare che basti». A. Borta nella Gazzetta del Popolo parla in particolar modo del terzo atto della Francesca e dice: «La virtù di alta poesia non è in un sol momento o in un episodio dell’atto, ma in tutto l’atto che – a parte qualche lieve prolissità –

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si potrebbe classificare tra le cose più indovinate che l’arte possa produrre. Questa è musica vera, grande musica che mi costringe a battere le mani mosso da un impeto misterioso che mi sale su dal cuore palpitante». Filippo Brusa nel Momento dice: «L’arte di questo giovane autore fecondo, che in pochi anni ha dato alle scene un Grillo del focolare, una Conchita, una Melenis, è essenzialmente anche in Francesca quell’impressionista. «Dell’impressionista italiano – diremo così – vale a dire ove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy e Dukas passano a volte in seconda linea e che nondimeno nello Zandonai sono elevati a fattori, giovano con la loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’ente fonico. Francesca da Rimini rimane un documento prezioso non soltanto per qualità di tecniche, ma anche per dignità, anzi elevatezza di concetto, per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche che a volte costituiscono il tramite sicuro del successo».

Milano, 20 febbraio. Clerici nel Corriere della Sera scrive: «Con quest’opera lo Zandonai conferma la sua fama di musicista dotato di qualità veramente eccezionali. Nella tecnica della strumentazione e della armonizzazione egli si classifica addirittura tra i migliori non solo per la solidità della scienza ma anche e meglio per la felicità e la ricchezza delle disposizioni native. Egli si classifica fra i migliori anche come sinfonista; possiede ormai alla perfezione l’arte di far commentare dall’orchestra una data situazione e sa anche plasmare l’idea musicale sul testo poetico in modo che la rispondenza giunga fino ai minimi particolari, così quando si tratta di semplici evocazioni pittoresche come quando si tratta di riprodurre i più sottili movimenti dell’animo». Cesari nel Secolo dice: «Nel volgere di pochi anni Riccardo Zandonai è pervenuto alla sua quarta opera. Dopo Il grillo del focolare, dopo Conchita e Melenis eccoci ora innanzi a questa Francesca, concepita e tracciata con rapidità, senza giovanili esitanze, con baldanza schietta e vigorosa. Zandonai anche questa volta ha agito con la sicurezza di chi sapendosi ben reggere in arcione non conosce i rischi della corsa. Alle negazioni a cui talvolta conduce l’autocritica egli preferisce le affermazioni concrete e lascia al pubblico e al tempo la cura della selezione. Il suo modo di comportarsi dipende dalla qualità stessa della sua natura di musicista, poiché alla disposizione musicale veramente forte non può riuscire mai faticoso il lavoro. E Zandonai non lesina sul quantitativo della sua produzione». ---------- (*) Questa parte è un'appendice redazionale. -----------------------------------------------------------------------------------------

echi a Roma 1914

24 Livio Marchetti, La «Francesca» di Riccardo Zandonai eseguita dal maestro. Una primizia ai romani, [non id.], [27].2.1914

Roma, 26 febbraio Il grandioso successo che la Francesca da Rimini ha ottenuto al Teatro Regio di Torino – mentre è oggetto di fervido compiacimento per coloro che, come chi vi scrive, nutrono da tempo una fede profonda e sincera nella crescente gloriosa affermazione del Maestro trentino e non hanno

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pensato di fare dell’adulazione regionale ma di esprimere un loro convinto giudizio quando altri maggiori giornali facevano sul conto di Zandonai alcune non simpatiche riserve – richiama alla mia mente uno splendido pomeriggio primaverile romano che mi fu prodigo della compagnia e della generosità artistica dell’ormai celebre musicista di Sacco. Avevamo consumato deliziosamente il nostro pasto meridiano sulla terrazza del Castello dei Cesari, invitati dal comune amico prof. Giovanni Lorenzoni e col concorso del caro compagno e collega di studî Augusto Sandonà. la magnifica distesa della città e della campagna di Roma, presentata al gaudio degli spettatori dai primeggianti cipressi dei ruderi Palatini, tutta quella grande maestà di ricordi e quella lieta festa di speranze primaverili raccolta nel nostro occhio, tutti i conversari che quel panorama tanto famigliare e pur sempre nuovo suggeriva alla comune anima trentina (che è sempre soffusa di nostalgia anche quando la lontananza si sopprime) avevano singolarmente preparato i nostri spiriti a gradire e gustare la primizia che il Maestro ci aveva preannunziata. Era il 24 marzo: due giorni prima la Melenis aveva ottenuto al Costanzi la brillante riconferma della fama del nostro artista; ma questi soleva dire – e ci ripeteva allora – che se Melenis era una produzione giovanile rammodernata, se Conchita aveva fatto erompere sulle scene non ancora ben organato [sic] il suo sistema musicale e ne aveva rappresentato il primo adattamento al dramma lirico, Francesca da Rimini doveva raffigurare la pienezza di espressione di questo sistema, la maturità vera dell’arte sua di maestro. Il libretto, tagliato da Ricordi sulla tragedia di Gabriele d’Annunzio, esigeva dal suo lavoro un impegno superlativo, ed egli ne era pienamente consapevole, ed il suo ingegno si applicava al soggetto di Francesca con una intensità di preoccupazione così alta, con uno studio così coscienzioso e appassionato, che a prescindere dallo stesso temperamento suo genialissimo e dai fortunati precedenti teatrali non si poteva dubitare del grande trionfo che a questo nuovo poderoso sforzo era preparato, e – all’udirlo parlare dei suoi propositi coll’equilibrata visione che lo conforta e lo sorregge in ogni cosa che lo riguardi – si finiva per sposare la sua fede in una più viva e più tenace affermazione. La esecuzione al pianoforte dei primi due atti – allora già compiuti – della Francesca da Rimini, esecuzione nella quale doveva prodursi lo stesso Zandonai, era destinata a seguire il nostro lieto simposio, ed infatti convenimmo nello studio Ricordi al Corso Umberto I in una stretta compagnia di critici, di musicisti, di pubblicisti e di amici: c’erano fra gli altri Nicola d’Atri, critico del Giornale d’Italia, la signorina Tarquini, festeggiata interprete di Conchita, il Dr. Augusto Sandonà, il collega Mario Mengoni di Rovereto e molti altri. Il Maestro attaccò l’opera al pianoforte con quella piena passione che egli mette in ogni manifestazione d’arte; e via via ch’egli continuava era in noi un senso di meraviglia e di gioia più alto: era in noi la rivelazione di una originalità veramente spiccata, di un metodo altamente nuovo allontanatosi di produzione in produzione dalla comune pratica di tutti i vecchi e nuovi autori musicali per raggiungere un ritmo distintamente personale. Ciò che più ci commosse – e che certo sarà stato l’intimo segreto del successo di Torino – non fu tanto la tecnica arricchita di nuove colorazioni, il tessuto sinfonico percorso da preziosi ricami, il complesso armonico fissato in ogni punto con originali consonanze e dissonanze, il prodigioso effetto orchestrale ottenuto al tempo stesso con tanti ardimenti imprevisti ed impensati e con equilibrio così sicuro e gagliardo, ma fu invece il ritmo e la modulazione del canto, in ogni

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sua cadenza suggerito dalla impressione e dall’ambiente scenico del momento. Se ciascuna locuzione ritrova nel ritmo e nella frase musicale il vero, caldo, vivo sfogo dell’anima in tutti i suoi lieti o tristi, fugaci o tenaci atteggiamenti o movimenti; in particolare le più drammatiche sensazioni, le angosce vibranti, le sospensioni spasmodiche, gli sfoghi ai quali la tragedia dantesca e dannunziana aprono largo campo, toccano nella musica una felice indovinatissima rispondenza, sì che la nota non appare che un rinforzo gagliardo alla cadenza della parola, e la voce che nella sua sensibilità a tutte le emozioni può in sé stessa raffigurare la prima gamma di ogni moto dell’anima, è da questo metodo musicale dello Zandonai ancor più sensibilizzata ed esaltata in tale suo delicato drammatico ufficio. E attorno al conduttore caldo e suggestivo delle voci – che alitano nel dramma in una espressione profondamente, potentemente umana – gli strumenti modellano con eleganza e sapienza gli accordi più squisiti, aprendo uno sfondo polifonico tale da dare al canto una evidenza, un risalto, un effetto passionale anche più robusto. Tale fu la nostra impressione, tale il nostro giudizio, e gli spettatori come i critici di Torino – non solo gli antichi convinti fautori del Maestro, ma anche i più rigidi suoi censori di un tempo – non hanno che brillantemente e clamorosamente confermato ciò che in quell’aureo pomeriggio romano diede la gioia alla nostra amicizia, e più ancora al nostro sentimento d’arte e di bellezza. 25 Filippo Brusa, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Il Tirso» XI/9, 1.3.1914

Torino, 20 febbraio. Il nuovissimo spartito del maestro trentino ha ottenuto al nostro massimo teatro un esito lietissimo. Non uguale per intensità ad ogni atto, ma tale nel suo complesso da legittimare l’aspettativa di cui era circondato. Il primo e sopratutto il terzo parvero interessare di più, mentre il secondo, di genere descrittivo, e i due ultimi quadri lasciarono come un’impressione di incertezza, malgrado il carattere eminentemente drammatico del poema. E ciò del resto si spiega. Già sulla scena di prosa la «Francesca» del D’Annunzio non aveva in quanto a teatralità quel fascino da altre opere d’arte di pretese più modeste raggiunto. A mala pena il poeta riesce quivi a mascherar nella cupa ferocia l’artifiziosità del congegno e la mancanza di sincerità, che tradisce spesso il poema e ne fa un’opera di letteratura e di poesia più che non di teatro e di verità. Opera di poesia e quindi armonica, imbevuta di melodia e di suoni tenui e diffusi, quasi intenti esclusivamente a soggiogare ed a disporre per solo compiacimento proprio le idee, i pensieri. Ciò può spiegare e giustificare il connubio colla musica e come Riccardo Zandonai, alla stessa maniera del D’Annunzio poeta e colorista, ne sia rimasto soggiogato e abbia voluto scendere a scrutarne le fibre, e col potere evocatore del suono esaltarne la psiche commossa e cantare colla leggenda tramandata dai secoli l’amore che eterno si rinnova; non consapevole in tutto forse del pericolo e dell’insidia che gli si riserbava. L’arte di questo giovane autore fecondo che in pochi anni ha dato alla scena un «Grillo del focolare», una «Conchita» e una «Melenis», malgrado uno sforzo evidente per tornare alla lirica d’onde aveva preso le mosse coll’allargare le volute del canto verso più spaziosi orizzonti, è essenzialmente anche in «Francesca» quella dell’impressionista.

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Dell’impressionista italiano, diremo così, vale a dire ove non è rinnegato del tutto il valore intrinseco di quegli elementi melodici e ritmici che in altri come in Strauss, Debussy o Dukas passano a volte in seconda linea, e che nondimeno nello Zandonai elevati a fattore giovano colla loro fugace apparizione ad accrescere lo scintillio evanescente dell’elemento fonico. Non estraneo all’acuirsi incessante della sensibilità moderna che si manifesta in ogni arte, e nella pittura in ispecie, e nella musica muove alla ricerca costante del colore nuovo e del nuovo suono – siano essi semplici o più spesso composti – lo Zandonai seguì il sistema, in parte per temperamento proprio, in parte per influsso altrui. E risultò analitico più che sintetico: propenso al particolare anziché alla vasta e vigorosa concezione. La stessa sua sinfonia per quanto ligia ai principi tematici è talora un fantasioso succedersi di elementi difformi che conservano colle origini un nesso appena superficiale, ove i richiami già poco plastici ed afferrabili raramente riescono riconoscibili nel mare fluttuante, nel caleidoscopio dei più svariati colori in cui sono disciolti. Ed è appunto nelle parti della tragedia ove il colore tenue e diffuso prepondera che il musicista vi s’accorda coll’armonia latente. Nel finale del primo atto, fra gli altri, ove il musicista, dedito spesso all’episodio, con una pennellata riesce a raccogliere il quadro in un’atmosfera morbida, soavissima e delicata nel lieve tremore di archi, sotto cui si svolge a sospiri, tra oboe e viola pomposa, il tema d’amore nascente. Nella protasi ancora dell’atto terzo cotesta musica ha profumi e carezze delicate. L’armonizzazione, nel quadro vigoroso della battaglia aspra e dissonante, ritorna quieta e serena. Né in genere da una notevole chiarezza essa si allontana pur non sdegnando i portati della tecnica modernissima, aliena però da quella specie di sovrapposizione di accordi che in altri autori genera a volte come un senso di pesantezza e di oscurità. Nel crescendo passionale, per contro, nell’impeto lirico ed ancora nei momenti più tragici, sentiamo a volte venir meno allo Zandonai la profondità del sentire e, nella ricerca del grande volo, anche la personalità. Tutta la seconda parte del dialogo dei due amanti risente di cotesta lacuna. Nei pochi momenti in cui la melodia si afferma non sono infrequenti le analogie di successioni armoniche, di cadenze e melopee alla Mascagni ed alla Puccini, come in altri punti – nel declamato – alla Wagner. Anziché il calore intenso troviamo quivi accenni sentimentali. Non la sensualità gagliarda di un Riccardo Strauss, il mistico e sognante epperò traboccante amore di Riccardo Wagner o la passione profonda, umana e sommamente sentita di Verdi e nemmeno la voluttuosa onda sottile, avvolgente di Giulio Massenet... Nelle scene drammatiche poi il nostro autore raramente perviene a scolpire con un disegno ritmico e melodico il ritmo e la melodia latente della frase del testo, a riprodurlo con quell’incisività che plasma, con quel “pathos” che lumeggia in un istante uno stato psichico, una coscienza; con quel “quid” misterioso che rivela gli altri a noi stessi e noi stessi agli altri. Francesca da Rimini rimane tuttavia un documento prezioso, considerato da una visuale d’arte superiore: e prezioso non soltanto per qualità di tecnica ma ancora per dignità ed elevatezza di contenuto: per lo sdegno di tutte quelle formule melodrammatiche consacrate dall’uso e famigliari al gran pubblico le quali a volte possono costituire il tramite sicuro del successo.

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L’uditorio questo intuì subito e a poco a poco se ne rese conto, ammirato anche quando non ne fu convinto, della figura d’artista che aveva di fronte. 26 Gino Monaldi, La “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai, «Nuova antologia» XLIX/vol. 254, 16.3.1914

Finalmente la cronaca musicale delle tante Francesche e Paolo giunte sino ad oggi sulla scena lirica ha la soddisfazione di poter registrare un successo. Un successo vero, reale, completo, consacrato dal consenso di un pubblico notevole per quantità e qualità, accorso al teatro Regio di Torino chiamatovi dalla fiducia migliore nel giovane e fecondo maestro trentino. Il Zandonai aveva infatti diritto a questa fiducia da lui guadagnata con Il grillo del focolare, Conchita e Melenis, tre lavori ognuno dei quali ha segnato un passo innanzi nella carriera del compositore. Una osservazione notevole è questa: nei tre argomenti scelti dallo Zandonai per esperimentare la forza e la misura della sua fantasia e della sua dottrina, si rivela una spiccata disparità di caratteri scenici e drammatici; eppure, malgrado ciò, lo stile e la personalità dell’artista rimane ugualmente salda ed integra. L’unità e l’armonia della lingua musicale da lui adoperata per tradurre ed esprimere le passioni dominanti nei tre disparati argomenti non appare infatti in verun modo alterata o depressa. Ciò prova che il giovine compositore possiede in sommo grado la coscienza della sua personalità e a questa non intende recare offesa. Lo Zandonai è e vuol rimanere un sincero – e vincere, senza porre nessun velo a traverso lo specchio di questa sua bella sincerità. Ciò egli ha sentito e fatto nelle sue tre opere precedenti e ciò egli ha sentito e fatto altresì adesso nella Francesca. E bisogna dire che la sua tempra sia davvero ben salda se egli ha potuto conservare questa sincerità in una tragedia come la Francesca del D’Annunzio, opera di poesia più che di verità, dove la commozione è dovuta più che altro alla artificiosità delle situazioni, spinte talora alla iperbole della più sanguinaria ferocia e sempre avvolte in quella tristezza profonda che incombe sull’atmosfera del dramma. Eppure lo Zandonai ha potuto e saputo qui, meglio ancora che altrove, conservare alla sua musica i propri caratteri originarî. Soltanto che nella Francesca egli ha sentito il bisogno di concedere alle persone della tragedia una espansione maggiore, infondendo alle voci una facoltà melodiosa più confacente alla violenza delle passioni che vivono e turbinano entro le loro anime. Naturalmente questa facoltà melodiosa è sempre subordinata alle esigenze della parola, subordinata, intendiamoci, non però asservita. L’asservimento esiste solo nei momenti in cui l’azione, come nell’atto secondo, nella scena della battaglia, assume un carattere pittorico collettivo e quindi necessariamente descrittivo. E allora il commento sinfonico ha impeti selvaggi, terrori, sgomenti, schianti violenti, grida esultanti di vittoria, gemiti dolorosi e clamori formidabili. È la tragedia che dall’orchestra sale e invade il palcoscenico, e i personaggi, presi e travolti da quell’onda istrumentale sempre più grossa e incalzante, ci sembra che sfuggano per un momento alla nostra attenzione distratta e attratta dalla grandiosità complessa del quadro scenico-musicale. Per renderci conto di questo fatto, che a taluni è sembrato motivo o argomento di censura, occorre ricordare che in questo secondo atto, alla serenità melanconica dell’atto primo succede il furore d’una battaglia. Siamo sullo spalto d’una torre nel maniero dei Malatesta: macchine

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infernali, saettare di balestrieri, pioggie di fuoco greco si rovesciano contro l’avanzante nemico. Trombe, campane, strepito di ferro e di armi risuonano nell’aria in mezzo al guizzo di quadrelli e di falariche. Lamenti angosciosi di feriti, urla forsennate di ebbrezza vittoriosa si confondono nell’orrore della mischia accanita. È quindi logico e naturale che voci ed orchestra abbiano contrasti ed urti continui, dissonanze aspre e concitate. Sono vicende guerresche che bisogna musicalmente dipingere e la pittura di necessità non può risultare all’ orecchio diversa da quello che l’occhio vede innanzi a sé. Due episodi scenici però giungono in tempo a dare un po’ di tregua all’imperversare tumultuoso delle voci e degli istrumenti. Il primo è quello in cui Paolo e Francesca si trovano vicini l’uno all’altro e l’amore scambievole, che mal si celava sotto un’apparente ostilità, li accende entrambi d’ improvviso. Francesca vuole però che Paolo si purifichi prima del peccato da lui commesso per averla sposata con inganno e invoca il giudizio di Dio: Paolo si toglierà l’elmetto e lo scudo e privo di quelle due difese combatterà all’aperto, dall’alto degli spalti. Paolo acconsente e quando, libero ed illeso, si ritira dalla pugna, Francesca, che pavida e trepidante lo crede ferito e gli cerca invano tra i capelli la piaga, giustificata nella sua idea superstiziosa, può finalmente abbandonarsi alla segreta gioia del suo amore. Nel musicare questo episodio lo Zandonai si serve dello spunto dolce e passionale che accompagna l’arrivo di Paolo nella casa di Francesca allorché i loro sguardi s’incontrano per la prima volta. La frase, che chiameremo “dello sguardo”, abilmente trasformata giunge molto opportuna a colorire il breve colloquio. Fortemente significativo è il ritmo puntato che si ripete come un singulto all’arrivo di Malatestino ferito. Sono poche battute che bastano a disegnare musicalmente la bieca figura del sanguinario giovinetto. Questo secondo episodio, tanto dissimile dal primo, ci dimostra come lo Zandonai senta la psiche de’ personaggi della tragedia e con quanta bravura ne sappia tradurre e rendere la fisionomia musicale. Certo che in questo atto secondo non è il caso di ricercare la lirica musicale in quella sua essenza melodiosa che costituiva la concezione dell’antico teatro melodrammatico. L’essenza musicale esiste, ma non è visibile e sensibile che ne’ suoi rapporti soltanto, né potrebbe essere altrimenti, dato il carattere eminentemente descrittivo di tutto l’atto. Questa essenza melodiosa noi la percepiamo e la gustiamo invece in tutte o quasi le pagine che costituiscono la partitura musicale degli altri atti. La sentiamo e la gustiamo infatti nei canti di Biancofiore, di Garisenda [Garsenda], di Altichiara e di Donelba [Donella] – le donne di Francesca –: canti atteggiati ad una soavità e ad una dolcezza spensierata e serena. Questo movimento melodico che incomincia subito col cicaleccio delle donne sale e si accentua nella scena fra Samaritana e Francesca «Anima cara, piccola colomba» e si ha sempre più vivo nelle scene successive. Sopratutto la musica raggiunge accenti di delicata melanconia quando il gaio sciame delle ancelle ritorna per annunciare a Francesca l’arrivo di Paolo venuto a rogar l’atto nuziale per mandato del fratello. È un momento musicale pieno di bella e di grande poesia. Con una pennellata magistrale lo Zandonai ci dà tutta intiera la delicatezza del quadro. La pennellata e costituita dalle note armoniose e dense di doloroso sgomento vibranti dalle corde d’una viola pomposa che lo Zandonai vi ha introdotto con raro accorgimento di arte. Mentre la viola svolge il suo canto suggestivo accompagnato dall’oboe e dal clarone, Francesca e Paolo si osservano turbati, come presi da un fascino misterioso. La viola continua intanto la sua ispirata melodia: le donne cantano e il velario si chiude lentamente mentre lentamente si vanno estinguendo altresì le voci e gl’istrumenti.

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L’atto terzo, com’è noto, si svolge nella camera di Francesca. Una specie di pedale fisso sopra una nota ci porge l’immagine plastica del quadro. Le ancelle cantano e danzano, mentre su dalla loggia echeggiano dolci armonie di liuti e clarini. La musica, senza seguire la solita falsariga arcaica degli antichi modelli, è viva e leggera e si diffonde da essa come un profumo di sottile voluttà. Anche qui, come sempre o quasi, lo Zandonai, pure compiacendosi di qualche armonia inconsueta, si studia affinché la chiarezza del canto non rimanga disturbata. A questo proposito voglio osservare che nell’armonia dello Zandonai non si fa mai abuso di quelle famose sovrapposizioni e sonorità complesse in cui si aggrovigliano none, undecime e tredicesime, tanto care allo Strauss e a qualche altro, e che recano così grave nocumento alla limpidezza della idea musicale. E poiché abbiamo nominato la parola idea intendiamoci bene sul valore di essa. Molte volte abbiamo udito dire: la musica moderna è priva d’idee: e quest’accusa si è ripetuta da taluno, anche oggi, a proposito della Francesca. L’arte odierna, ricordiamolo, è tutta compenetrata di critica, ma ciò avviene perché noi di essa scorgiamo e avvertiamo le benché menome pulsazioni, mentre l’arte del passato ci appare nel suo insieme come un oggetto messo a distanza. Siamo analitici, è vero; ma dobbiamo pur considerare che ciò che è immediato si presta meglio all’analisi di ciò che è lontano. È naturale quindi che un fenomeno d’arte moderna ci appaia molto più complesso d’un simile fenomeno d’arte verificatosi in altri tempi. Il discutere pertanto sulla psiche, diremo così, delle idee musicali è una fatica senza costrutto. Si chiami frase, motivo, periodo, idea, la musica rimane sempre costituita da quella successione di suoni misurabili alla quale è sottoposta la sua comprensione. Quali che sieno pertanto i fattori, quali i rapporti ingegnosi di sonorità e le forme libere e ardite con le quali la musica si offre alla contemplazione, essa avrà sempre bisogno di significare un pensiero – e il pensiero non potrà aver mai manifestazione più bella ed efficace della melodia. Orbene lo Zandonai ha tenuto conto di questo assioma per tradurre e rendere musicalmente la situazione lirica dell’atto terzo, nella grande scena d’amore tra Paolo e Francesca. Quella situazione, che aveva già da tempo sedotto – purtroppo invano – la fantasia di altri musicisti anche illustri, ha trovato così questa volta nello Zandonai un interprete squisito. Anzi che lasciarsi travolgere dall’onda irrompente della passione egli ha preferito di farci sentire la salita di quella vampa d’amore con un dialogato melodioso che va, cammina e procede con moto lento e continuo, e a poco a poco si svolge in linee ampie e suggestive che fissano i contorni d’una serie di frasi eloquenti che sembrano uscire dai più riposti meandri di quei due giovani cuori. Poche volte l’inno dell’amore è salito così bello, così alto, così pieno di esultanza come in questa poderosa pagine musicale descrivente la scena del “libro galeotto”. Ciò non esclude che nell’atto ultimo altresì egli non ci sorprenda e ci avvinca con la forza incisiva di cui fa magistralmente uso nella scena terribile fra Gianciotto e Malatestino, e non ci rapisca e ci trasporti con lo scoppio intenso di amorosa passione che esplode dalle anime deliranti dei due innamorati nella seconda parte dell’atto che prelude alla catastrofe finale. Egli non solamente possiede l’estro e la dottrina, il senso del teatro e la ragione dell’arte, il culto dell’estetica e quello della tecnica, ma sa distribuire queste sue facoltà con una misura ed un buon gusto che non possono non assicurargli la vittoria della scena. E siccome lo Zandonai ha la sicurezza ormai di proseguire la salita per cui si è messo a raggiungere la sospirata meta, così senso il bisogno di esporgli un mio parere. I moderni compositori in generale non trovano

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più, o la trovano raramente, la ragione organatrice che guidava un tempo la costruzione della sinfonia, della sonata, del concerto, ecc., e intendono che essa consista in qualche cosa di più d’una semplice costruzione di parti. A prima giunta questo sdegno per le forme tradizionali o scolastiche sembra assolutamente un progresso, e lo è, ma non puro, poiché occorre ricordare che se la fuga, ad esempio, si giudica oggi un arido artificio, nemico d’ogni verace espressione di sentimento, si deve pur considerare ch’essa nacque quando l’opera pratica si concepiva con una determinatezza di confronto che oggi è smarrita. Questo dico e ricordo allo Zandonai, come a colui che oggi a ragione può dirsi il pioniere della giovine scuola italiana. Come tale pertanto egli ha il dovere di non dimenticare che la vertiginosa evoluzione del pensiero moderno, se può essere illimitata nelle scienze positive, non può esserlo parimenti nelle discipline musicali, soggette a certe leggi occulte della natura che invano si tenterà di scuotere. Prima di chiudere questa rassegna sento il bisogno d’una sincera parola di lode per Tito Ricordi, il quale ha saputo evitare che la novella dannunziana, nel suo travestimento musicale, subisse la sorte poco fortunata di altre sorelle. E il Ricordi ha saputo evitarlo falciando senza misericordia ma con mano esperta e sicura, nella tragedia del D’Annunzio, limitandola a quelle sole necessarie vicende imposte dalla chiarezza della favola e adatte ai mezzi d’un libretto per musica. Tanto lo Zandonai quanto il D’Annunzio debbono essere grati alla abilità del riduttore. 27 Mario Untersteiner, Musicisti contemporanei - Riccardo Zandonai, «Il Marzocco», *.3.1914 (tronco) Non è la prima volta che parlo qui del musicista trentino che sembra essere veramente una delle più grandi speranze del nuovo dramma lirico italiano e che ora colla sua Francesca da Rimini si è certo avvicinato a quell’ideale di opera d’arte che lo tormenta e che, come tutti sperano, raggiungerà se egli senza curarsi dei falsi amici continuerà per la sua strada. Dico falsi amici perché, se io non m’inganno, mi pare di non poter escludere che Zandonai in questa sua nuova Francesca non sia più veramente quello di Conchita e forse ancor meno quello di Melenis. Quali motivi abbiano fatto deviare Zandonai un po’ dalla strada per la quale egli si era messo, io non so e forse egli stesso ignora. Ad un giornalista che lo interrogava, Zandonai rispose che la musica della Francesca era tutto un cantare, musica chiara e cantata, che non deve mai venire oppressa dalla sinfonia istrumentale. E lo stesso rispose a D’Annunzio che gli domandava di che note avrebbe vestito i suoi versi; ma in arte ben di rado volere è potere, quando quello che si vuole non è veramente ciò che corrisponde alla propria natura. La critica musicale lodò Conchita e Melenis e ne riconobbe i grandi pregî ma lasciò capire che dal maestro si chiedeva maggiore abbondanza melodica, meno spezzatura del canto, e forse essa non è estranea a tutto il cantare della Francesca, che predomina nell’opera. Né certo poco vi influì l’armoniosità dei versi e l’ambiente stesso che lo provocava ed in parte lo pretendeva. Ma non tutto questo cantare è sempre e veramente spontaneo e non di rado vi si scopre il proposito di essere melodioso anche dove l’azione non lo richiederebbe o lo vorrebbe altrimenti. Uno di questi punti è per esempio per me il finale del primo atto che, per quanto sia musicalmente una trovata e la melodia abbia una dolcezza

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infinita aumentata da un istrumentale poetico e finissimo, mi sembra drammaticamente ingiustificato. Comunque in questa Francesca, Zandonai ha dato la prova di un talento melodico di primissimo ordine in un tempo in cui di melodia vera ce n’è ben poca. Ma non tutta la melodia di Francesca è sempre spontanea e derivante dalla foga inventiva che assale involontariamente il vate e lo fa cantare; ché anzi in alcune parti del dramma mi pare scoprire lo sforzo della volontà e perciò qualche cosa di artificioso e non sempre sincero. Ed allora, come è naturale, il maestro perde un po’ della sua fisionomia e senza volerlo assomiglia a qualcun altro, che potrebbe essere anche il Mascagni dell’Iris, certo una delle opere più riuscite del facile maestro, il Wagner del Tristano, ma specialmente Verdi. Né io me ne saprei lamentare, perché Zandonai, qualunque cosa si dica, rimane sempre fino alla midolla italiano e la sua musica per quanto l’abbiano voluta chiamare impressionistica, nulla ha a che fare con quella dei maestri di oltralpe e chi lo asserisce non conosce davvero o Zandonai od i moderni francesi. Anzi a me pare che in questa Francesca aleggi invisibile lo spirito di Verdi dell’Otello e ciò non solo nell’atto quarto, che per necessità ha la stessa intonazione delle prime scene del quart’atto dell’Otello, ma anche in tutto il secondo atto. Questo sentimento di vera e spiccata italianità si palesa in alcune melodie, che non possono essere che italiane, per la parabola della linea melodica, l’ampiezza e semplicità della frase, che appare come deve essere e che trova la sua bellezza soltanto nel disegno e non nell’ armonia. E veramente italiana, italianissima è tutta la musica arcaica di questa Francesca, arcaica tanto per dire, giacché Zandonai non ha frugato i codici musicali del medioevo in cerca di spunti ma l’ha tutta creata e trovata. E questa evocazione di un’epoca remota, specialmente nei cori e ballatelle delle donne, è pressoché perfetta, così negli spunti melodici che ricordano le canzoni di Falconieri ed altri primitivi di una grande freschezza e dolcezza, come nell’istrumentale vaporoso e tenue al pari di una vecchia e preziosa trina. In generale la musica di quest’ultima opera di Zandonai è eminentemente suggestiva ed io devo cercare fra i capolavori dell’arte musicale per trovare un punto di paragone nella parte decorativa o descrittiva dell’ambiente. Zandonai ci ha dato, del resto, anche nelle sue opere anteriori, splendide prove di questo suo specifico talento, per esempio nel second’atto e negli intermezzi della Conchita e nel terz’atto di Melenis. Né soltanto in queste, ma anche nel Grillo del focolare, che io mi ostino a credere ancor oggi un vero gioiello del quale un giorno o l’altro forse si vorrà accorgersi, anzi un’opera meravigliosa se si pensa all’età dell’autore. Ho detto di sopra che ascoltando la Francesca qualche volta si pensa involontariamente a Verdi. Udendo ripetutamente il second’atto, quello che a me sembra il meno riuscito e che certo offriva le maggiori difficoltà, mi domandai cosa ne avrebbe fatto Verdi e credetti di poter conchiudere che egli l’avrebbe musicato certo altrimenti specialmente nei pezzi di assieme. Ed è naturale, giacché troppa è la distanza di tempo che corre fra l’uno e l’altro maestro e troppo diverse sono le vie del dramma musicale moderno. Ma anche in quest’atto Zandonai ha dato una nuova prova di saper dipingere a larghi tratti un grande quadro e di dominare le masse come oggi forse nessuno saprebbe far meglio, cercando nuove strade e servendosi delle voci del coro quasi semplice mezzo ed elemento fonico senza pensare a contrappunti e polifonia. E, fino ad un certo punto, verdiana è la concezione del primo quadro dell’atto quarto e con ciò non esprimo certo un biasimo, ma anzi una lode, giacché dal punto di vista drammatico musicale la scena fra Gianciotto e Malatestino è delle più riuscite e tale che basterebbe a

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provare la forza drammatica di Zandonai e la sua capacità di scolpire rudemente con pochi tocchi magistrali una figura ed un carattere. Un’altra questione che io mi sono ripetutamente posta leggendo od ascoltando la musica di Zandonai è quella dell’originalità della sua musica. Ha essa una nota veramente personale? Ebbene, a me pare di poter oggi rispondere affermativamente, quantunque sia ben difficile dare a parole una ragione di questa risposta sia per la musica di Zandonai che per quella di molti altri maestri. In alcuni casi l’originalità o la nota veramente personale dipende dall’intrinseco del pensiero musicale; altre volte essa deriva da certi procedimenti quasi tecnici che sono proprî degli autori. Restando nella ristretta cerchia dei maestri moderni più noti non v’è dubbio che siamo capaci di distinguere una melodia di Wagner da una di Verdi. Una simile spiccata e decisa differenza fra la musica di Zandonai e quella di altri musicisti, tale da riconoscerla tosto, io non saprei ancora scorgere, quantunque non sia difficile trovare nella sua musica degli spunti e temi – non dico melodie nel senso più comune della parola – che sono veramente personali come, per esempio, il tema «perdonato vi sia con grande amore», o la perorazione nel second’atto quando Francesca offre la coppa di vino a Paolo, ed altro. Non parlo poi di una quantità di idiotismi zandonajani che un po’ alla volta si sono venuti formando e che sono ora preferenze per certi intervalli, ora sequenze di accordi ed altro, che hanno tutti un’aria di famiglia. Io vorrei piuttosto dire che è più facile rispondere alla questione invertendola, ossia cercando a quale musica essa non somigli. E molti punti di somiglianza non vi troveremo specialmente in Melenis e Conchita, senza dubbio le opere più personali del maestro. E neppure nella musica della Francesca, che nella parte specificamente melodica ha fisionomia propria più italiana delle altre opere, fisionomia che io sento ma non so ancora ben definire, giacché non basta dire che il canto è più spiegato ed ampio e che la linea è più chiara e naturale di prima. Per via di confronti poi mi pare di poter affermare che Zandonai sia un talento proteiforme e che egli nelle sue quattro opere, piuttosto che trasformarsi complessivamente o subire influenze speciali, ha saputo trovare sempre la musica più adatta al soggetto ed a seconda di questo cambiarla e modificarla. Pressoché sempre lo stesso egli è rimasto soltanto nelle parti meno importanti delle sue opere, nelle scene secondarie per esempio nelle prime di Conchita, di Melenis e della Francesca, in quelle cioè ove egli si può sbizzarrire in ritmo veloci e piccole frasi, botte e risposte, che palesano una mano maestra ma in cui lavora certo più la testa che il cuore. Quando invece l’azione incalza e domina la passione, allora cessa il gioco dei suoni ed il maestro entra tosto in medias res trovando sempre la vera nota. Perciò Conchita, Melenis e Francesca parlano tutte e tre una lingua diversa perché tutte e tre sono anime diverse. Ed un’altra lode si può subito aggiungere, quella cioè che Zandonai non si contenta di trovare uno spunto, una melodia più o meno oggettivamente riuscita, ma che egli sa quasi sempre scegliere quella che più si adatta alle parole e alla situazione e sa, se sia necessario, cambiare in un attimo con un paio di tocchi armonici o ritmici tutta l’intonazione (cfr. la chiusa del canto del giullare sulle parole «sangue del Nostro Signore Gesù»). Ma per approfondire la questione dell’originalità ed altre sarebbe necessario entrare in analisi tecniche qui fuori di luogo, perché soltanto con queste si potrebbe veramente dimostrare che ormai Zandonai non è soltanto un maestro, ma che molte volte ha una lingua od almeno un’ inflessione assolutamente propria e caratteristica.

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Naturalmente trattandosi di musica moderna è necessario giudicarne anche la melodia con criteri diversi da quelli di altri tempi. Una volta la bellezza di una melodia dipendeva quasi sempre dalla semplice linea e sviluppo della frase. Certe melodie di Verdi ed ancor più quelle di Bellini non hanno alcun bisogno dell’armonia per palesare la loro bellezza. Altre invece sono sì complesse che esse non si possono veramente giudicare che sentite col loro completamento armonico che non solo serve d’appoggio e ne aumenta il valore, ma che è nato con esse e ne è indivisibile. La melodia di Zandonai è di ambedue le specie, ma quella della seconda maniera è predominante, specialmente nelle opere an- [...] -----------------------------------------------------------------------------------------

reazioni a Rovereto 1914 (28)

28 L’imponente omaggio dei roveretani a Riccardo Zandonai. Oltre mille persone si recano a Sacco ad acclamare il Maestro, «L’Alto Adige», 5-6.3.1914

L’entusiastica, imponente dimostrazione che il popolo di Rovereto ha voluti improvvisare al maestro Riccardo Zandonai resterà memorabile negli annali del paese nostro, come un moto spontaneo, unanime impulsivo del cuore del popolo di tutta una città palpitante di ammirazione e di riconoscenza verso un illustre figlio di questa terra: di ammirazione perché il genio fecondo di tante sublimi pagine musicali non può non inorgoglire gli abitanti della regione che gli diede i natali, e di riconoscenza perché riconoscenza sincera e profonda deve questa terra al maestro che con la sua meravigliosa produzione artistica tiene alto ed onora il nome della patria per tutta la Nazione ed all’estero. Quando ieri sera alle 20 la Banda cittadina – scortata da una squadra di pompieri – mosse dalla sua sede sul Corso Rosmini alla volta di Sacco, una fiumana di popolo le fece coda e la seguì fino a Sacco. Ad oltre un migliaio di persone si può, senza tema di esagerare, far ascendere quella gran folla di popolo di tutte le classi che ieri si è notata a Sacco, percorrendo a piedi l’orribile strada. La Banda si è fermata nell’ampio cortile davanti alla casa del maestro. E in quel cortile si accalcò quanta più gente poté; gli altri, i più, perché la popolazione di Sacco era uscita dalle case per unirsi alla folla acclamante che così s’era quasi triplicata – dovettero accontentarsi di starsene sulle vie adiacenti, tutte gremitissime. La Banda cittadina intanto ha subito attaccato il primo pezzo, una briosa marcia, che valse ad infiammare vieppiù quella moltitudine già piena di entusiasmo. E la Banda suonò magistralmente altri tre pezzi e la folla acclamò il maestro, prorompendo ogni tanto in grida di evviva. Il maestro dal poggiolo della sua abitazione guardava commosso la folla, sventolando un fazzoletto. Ad un certo punto l’avv. Gino Marzani, che con molti altri era sul poggiolo vicino allo Zandonai, pronunciò il seguente discorso: Concittadini, non so se sia doveroso od opportuno che i brividi di entusiasmo che passano nelle anime vostre trovino una concretazione nella mia parola, nella parola di chi sente di esser parte di voi nell’entusiasmo che vi agita e vi commuove in questo momento. Concedete che le mie parole dicano a Riccardo Zandonai i vostri sentimenti di ammirazione e di entusiasmo fraterno. Oltre all’omaggio a Riccardo Zandonai a me piace che la manifestazione di oggi unisca alla gloria di lui alla modestia

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dei suoi genitori che insieme a lui ho visto con gli occhi umidi di commozione al cospetto di questa moltitudine festante. Il nostro entusiasmo è immenso e profondo malgrado che noi, folla, non abbiamo mai sentito né potuto comprendere la grande opera di questo nostro glorioso concittadino. Qui parla l’affetto di concittadini e di fratelli. Auguro che giunga presto il giorno in cui a questi sentimenti si unisca l’ammirazione cosciente con la rivelazione al Trentino dell’opera del Maestro nostro. In quel giorno noi grideremo a lui non con maggior affetto, ma con più profonda coscienza una voce alta di: gloria, gloria, gloria a lui che ha dato lustro a questa terra». Commosso rispose ringraziando il Maestro: Io vi dico soltanto questo. Voi mi avete dato stassera una delle più grandi e più profonde impressioni della mia vita d’artista. Essa mi fa dimenticare le più grande soddisfazioni della mia carriera, e vi assicuro che la porterò con me attraverso il mondo. Nel nome vostro e di tutto il nostro amato Trentino mi sarà facile qualunque lotta ed ogni vittoria mi sarà sicura. Evviva il Trentino». Il grido fu ripetuto e nuovi vivissimi applausi, nuove grida di evviva s’alza[ro]no dalla folla. Dopo il concerto la Direzione della Banda cittadina salì dal maestro a presentargli un’artistica pergamena con la quale il maestro vien nominato socio onorario della Banda stessa. Omaggio gentile che Zandonai aggradì oltremodo. La Banda cittadina sostò poi nella vicina Birreria dove eseguì altri scelti pezzi, molti amici e ammiratori si trattennero per qualche ora ancora presso il maestro, ed il pubblico chi a piedi e chi in carrozza fece ritorno a Rovereto. -----------------------------------------------------------------------------------------

London 1914 (29-44)

29 “Francesca da Rimini”, «The Globe, 17.7.1914

There is a good deal of similarity between the two new works that have been added to the Covent Garden repertory this season. Each deals with the fearful passage of a crossed lovers play their piteous parts amid the turbulent changes and chances of medieval Italy, But whereas Montemezzi’s setting of an old tale was practically unfamiliar, Signor Zandonai has found his inspiration in a story that has been known the world over ever since Dante first immortalized it in the page of his Inferno. It was an adventurous step to attempt a new version of the tragedy which Hermann Goetz and Ambroise Thomas had already put upon the operatic stage, and Tchaikovsky had used as the basis of a symphonic poem. But Zandonai’s confidence in himself was not ill-founded, and his opera – performed last night at Covent Garden for the first time since the initial production at Turin in February – was a marked, if not an uproarious success. The book is adapted from the play that D’Annunzio wrote for Eleanora Duse. The first act deals with the betrothal of Francesca, daughter of Guido da Polenta, [?] Giovanni “the Lame”, son of the famous Malatesta da Verruchio. The scene is laid in a court of Polenta’s house, whither – after some preliminary dialogues between Francesca and her sister Samaritana – comes Paolo “the Handsome” to act as his brother’s ambassador; and the marriage being necessary for reasons of state, Francesca is tricked into believe that Paolo is her destined husband. The next scene is laid in Rimini, where a fight is in progress between

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Guelfs and Ghibellines. Pictorially it is magnificent, with its machicolates towers and all the cumbrous artillery of the Middle Ages. But it does little to advance the action, and only serves to intensify the protagonists’ feeling for one another. Those feelings subsequently become irresistible; and Francesca’s secret meetings with her lover are discovered by Giovanni’s brother, Malatestino. Himself in love with Francesca, and bitterly jealous of his more successful rival, Malatestino betrays the intrigue to Giovanni and so brings about the final tragedy which stained the Palazzo Ruffo in 1285. Except in a few quite trivial details, the libretto is historically accurate; but that fact – though interesting in itself – is really immaterial. Indeed a little less accuracy might have been ad advantage; for the business of the battle has not raised the composer to his greatest heights. As in his earlier opera “Conchita”, hi is not at his best in scenes of movement; and during the whole of the second act, one almost forgets the score in watching a bustling and riotous pageant that ceased to fascinate after the first few moments. Elsewhere, however, Signor Zandonai’s music is delightful. He is rarely imitative and never eccentric. Too modern to indulge in melodies of the obvious type, he yet write nothing that is ungrateful for the voice. His harmonies are unobtrusively vivid, his rhythms are bright and lively, and his scoring is captivatingly light and fanciful. It is difficult, perhaps, not to contrast the love-music of the third act with “Tristan and Isolde” and to feel some disappointment at the absence of Wagner’s passionate fervour. But in his tranquil moods Zandonai is individual and charming, and the Song of Spring he has given to Francesca’s maidens is a thing of real grace and beauty. On the whole, the music is best when it is most reticent in its reflection of emotion. Yet the composer can achieve a climax when he wants one; and after the dainty dialogue between Francesca and her sister in the first scene, he is genuinely thrilling in the passages that herald the advent of the hero. The performance was well worthy of a work which is far the best novelty the Grand Opera Syndicate has submitted since “Louise”. The part of Francesca suited Mdme. Edvina thoroughly. She looked alluringly girlish, and while all her singing was marked by freshness and purity of tone, there was no lack of warmth where warmth was needed. Another individual success was won by Miss Myrna Sharlow, who played Samaritana. If her tone sounded a little shrill at times, that was probably because most of her music lay rather high for the voice; but the fault was not persistent, and in general Miss Sharlow sang with an amount of charm that proved her to be a very valuable acquisition. Signor Martinelli had fewer chances of distinguish himself that usually fall to the lot of a tenor and a hero. As a fighter he was not exactly a happy warrior, and though he sang pleasantly enough in the third act, he gave the impression – perhaps inevitably – that he was rather too diffident for a lover. Signor Cigada made a much braver figure as the wronged husband, and there was an incisiveness about Signor Paltrinieri’s singing that was quite in keeping with the malignant temper of Malatestino. It remains only to mention the consistently good work done by Francesca’s maidens, to pay a grateful tribute to the authorities for a sumptuously magnificent setting and to compliment Signor Panizza on his authoritative conducting. 30 A.K., Success of a New opera. “Francesca da Rimini” at Covent Garden. Italian Work of Great Interest, «The Daily News and Leader», 17.7.1914

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Riccardo Zandonai’s “Francesca da Rimini” which first saw the light at Turin in February, was produced last night at Covent Garden. Whatever its ultimate fate may be, there is no doubt that from the musician’s point of view it is the most interesting new Italian work heard for a considerable time, and fully justifies those who, in spite of the want of popular success of “Conchita” two years ago, maintained that the composer had a distinctly original personality and that a work of abiding interest could be looked for from him. The chief original characteristic of “Conchita” was the way in which German influence permeated the score. One felt then the pouring of German wine into Italian bottles might produce a new and very comforting beverage.

Mastery of Stage-craft The text of “Francesca da Rimini” has been adapted by Tito Ricordi with the poet’s consent. This, it appears, was difficult to obtain. Signor Ricordi must certainly be given credit for a great mastery of stage-craft, for it was no easy matter to make out a long, slow-moving poetic drama a libretto with clean-cut characters and swiftly-moving situations, in which the literary elements do not interfere with the needs of the stage. We learn in the first act that Francesca is to be married to Giovanni lo Sciancato, or Gianciotto(*), who is lame and unattractive, and so by a trick Francesca is lead to believe that his brother, Paolo the Beautiful, is really to be her bridegroom. In the second act we have a violent battle scene, in which the forces of the Malatesta, under the command of Gianciotto, defend their citadel. Francesca reproaches Paolo with his deceit, but he proves to her that he was himself tricked, and did not know the part he was playing. We see their passion growing, and in the third act, after some introductory scenes between Francesca and her waiting-maids, which are musically delightful, we have a great love scene, which ends with the famous reading of the story of Lancelot and Guinevere. The fourth act consists of two short scenes, in the first of which Malatestino, Gianciotto’s younger brother, who is himself in love with Francesca, arouses the suspicion of Gianciotto; and in the final scene Gianciotto kills both Paolo and Francesca.

The Composer’s Rapid Development Signor Zandonai’s talent for the creation of poetical atmosphere has developed very rapidly since we heard his last work. In this respect the first act, with its use of guitars and mandolines, and the curious intensity which results from constant reiteration of expressive phrase adroitly varied, is original and striking. In the second act the functions of the music are mainly pictorial and illustrative, and, whereas a good deal of it is clever and incisive, the musical value of the act is perhaps the smallest. In the third act the songs of Francesca’s waiting maids form a charming background to her own expressive phrases of foreboding, and the love duet which follows has fine broad melody phrases, and is worked up to an impressive climax, while the orchestral atmosphere is maintained with great skill, and the whole strikes a distinctly personal note. The irresistible approach of tragic fate is well depicted in the first scene of the fourth act, and the music gathers strength to the close without recourse to any of the conventional Italian methods of creating theatrical excitement. Throughout the work the composer shows more appreciations of the dramatic value of expressive vocal phrases and of their development that most modern composers, while at the same time he

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is thoroughly abreast of the time in the way in which he elaborates he orchestral commentary.

A Fine Performance The new opera had every help from the performance. Signor Martinelli is very well suited by the part of Paolo. He acted with great freedom and sincerity. Vocally he has not done anything better. His singing in the love duet at the end of the third act was supremely artistic. Mme. Edvina, too, was admirable. She is a picturesque figure always in the wonderful dresses she wear, and she makes Francesca a true heroine of romance, and suggests with much skill that she is rather driven by fate than by her own will. Signor Cigada sang excellently as Gianciotto, the husband, and indicated the brutality of the character well; his [•]ameness was very cleverly done. Miss Myrna Sharlow, who made her début as Samaritana, Francesca’s sister, made a notable impression by the beauty of her voice. A word of praise is due to the singing of Francesca’s attendants – Miss Sybil Vane, Miss Rosina Buckman, Miss Violet Hume and Miss Ruby Heyl; while Mlle Leveroni was excellent as the slave Smaragdis. Signor Panizza conducted with remarkable insight, and under his guidance the whole performance was notable for distinction of atmosphere. The mounting was a real triumph for the management. Nothing more artistic has been seen than the opening scene in the courtyard of the house of the Polentani, with its flower garlanded loggia and its view of a distant landscape. The new opera was received with real enthusiasm. ---------- (*) Per tutto l’articolo il nome è storpiato in Gianciotti. 31 “Francesca da Rimini” at Covent Garden. Zandonai’s Fine New Opera, «Daily Express»(*), 17.7.1914

If any one really wants to know how they made war in the thirteen century Covent Garden is the place for them – that is to say, Covent Garden upon such nights as Zandonai’s new opera, “Francesca da Rimini” holds the stage. There they will be initiated into the mysteries of Greek fire and its extremely unpleasant consequences. They will learn the correct way to raise a lump on an enemy’s head with a cross-bow, and if they come away without the din of battle ringing in their ears that will not be the fault of the composer, his drummers, and all the other gentlemen armed with implements of offence. They will also witness certain other unusual sights. They will, for instance, see a man’s eyes knocked out; they will see a game-legged, outraged husband give a guilty pair of lovers the unhappy despatch, and they will see some splendid pictures of mediæval life. Zandonai has written an opera far and away in advance of anything young Italian has given us of late. There is charm and imagination in the composer’s music, and he knows how to make a noise almost as well as Strauss. But what is even more welcome is the absence of any attempt at pawky philosophy or cheap psychology. An incident of a decapitated head excepted, there is nothing nasty, banal, or gratuitous offensive in the handling of the story. The music, which fits the situation very happily, is never obvious, and there are many moments of great charm, if not perhaps real beauty. At times it betrays French and German influences, but it never strikes one

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as being anything but the work of one who is an artist at heart and a wonderfully improved workman. The immortal scene between the lovers will one disappoint those unacquainted with the poverty of creative genius from which the world is suffering. There is no living composer who by any stretch of imagination could be credited with the ability of doing justice to such a theme.

The Lovers The first act shows us Francesca surrounded by her waiting women – all very delightful music this – her heart dangerously susceptible to Cupid’s darts. Paolo comes: she sees, and is conquered. In the next she is married – by a trick – to the lame ungainly Giovanni. She reproaches Paolo for his share in the plot, and, of course, the fat is in the fire. Then comes the reading of the story of Lancelot and Guinevere, and every one knows the result when a young impressionable man reads poetry to a no les impressionable girl. A third brother whom the author has introduced into his plot – the librettist has founded his book upon d’Annunzio’s tragedy – is also in love with Francesca, and he it is who betrays the secret of the guilty pair to the enraged Giovanni. The lovers perish miserably at the dagger’s point. Mme Edvina and Signor Martinelli were a more convincing pair of lovers than one had dared to hope. Both sang with fervour, while Mme Edvina’s acting was always clever and resourceful. Signor Cigada as Giovanni was a forbidding powerful figure, and Signor Panizza conducted authoritatively and forcefully. The opera was more than cordial received. ---------- (*) Incerta l’identificazione della testata. 32 R.C., “Francesca da Rimini”. D’Annunzio Opera at Covent Garden, «Daily Mail», 17.4.1914

If fine words made fine operas, what an opera were here! “Francesca da Rimini”, produced in the grand manner at Covent Garden last night, would then have been the second new masterpiece to see the light there this season. The poem is Gabriele d’Annunzio’s sumptuous elaboration in four acts od Dante’s most lovely episode, and the old poetry and the new mingle their streams. Unfortunately, mere verbal beauties count for little in opera. All that counts is the broadly general situation and the music. The result was the impression that here was just “The Love of Three Kings” all over again. Francesca is now the name of the fatal woman; the brother Malatesta the three kings. We are again plunged in the savagery of mediæval love and warfare. Jealousy claims a preposterous right to the blindest violence, while the lovers in their love are only a degree less insensate than the warriors in their hate. Their doom, anyhow, is more a relief than disaster, so hopeless seem all passions except lust and slaughter in such a word. Dante tells Francesca’s story in a few faultless, unforgettable lines. D’Annunzio is feverishly profuse, The lovers’ reading of Queen Guinevere’ story – the reading that stopped short that day – is naturally the centre scene. Francesca’s marriage to Paolo’s elder and ill-favoured brother, is brought about by trickery. The betrayal of the lovers is due to the youngest brother, Malatestino, with whom d’Annunzio brings his new peculiar flavour into the story – a curious and slight morbid sense

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of depraved cruelty. The world will still go back to Dante for the story, but here incontestably is an opera poem fit for a master-musician’s hand.

“PRETTY PRETTY” SCENES Unfortunately this rare opportunity has been sadly frittered away by the composer, Riccardo Zandonai. The most striking thing is the lightly, unwarrantably confident way in which he takes up, trifles with, fusses with, round and about such a subject which needed either the most profound and burning accents music could enrich it with, or nothing. He is not to be reproached with lack of effort. In its piecemeal fashion the music (Act IV, particularly) is indeed restlessly striving and straining in incessant effort. What is lacking is unifying conviction and any trace of genuine impulse. The “pretty pretty” scenes – in Francesca’s garden, Act I, and in her chamber, Act III – are the weakest, for it was not given this composer to charm. Act II, which is all warlike alarums and excursions, was by contrast effectively spirited. To M. Martinelli the chief honours of the evening. This young tenor has wonderfully ripened. He sings with all his first ardour and an added polish. No living singer that we know could have done better. People should hurry to hear him before he is no longer at his best and special prices for “Martinelli nights” come in. Mme. Edvina’s Francesca was beautiful to look on and much resembled other distraught princesses in her repertory. Her grace seemed sometimes (in the scene of the rose, in Act I) too deliberate and calculated, and the music obviously was intended for a more voluptuous voice. 33 P.P.P., “Francesca da Rimini» A Brilliant Success. Composer Excels Himself, «The Daily Graphic», 17.7.1914

Riccardo Zandonai’s “Conchita” was perhaps the most promising failure Covent Garden has to its credit. After two years of silence as far as England is concerned, this brilliant young composer has been given another hearing and last night was produced his “Francesca da Rimini”. The famous love story is eminently operatic, and no Italian could fail to make it vivid. But Zandonai has gone even further than the many virtues of his previous work led one to expect. His method has been subtle, restrained, and delicate. He has not made the more intimate portions of his opera a mere succession of suavely melodious love duets and the remainder conventional padding. In this respect he is far ahead of his particular school. He has not Puccini’s facility for well-turned phrases, and the appeal he makes is less direct. He is a master of conscientious, but not laboured, detail. He seems to revel in painting with meticulous care even the less-important corners of his canvas. Thus the chorus of women in the first act, to an accompaniment of mediæval instruments, is so well thought out that it brecomes something more than a picturesque addition. There are many touches of the character – small in themselves – which all blens to make “Francesca da Rimini” a work of delicate charm.

THE STORY AND THE MUSIC The libretto, adapted from Gabriele D’Annunzio’s tragedy, moves a little slowly, but never loses clearness. The fortunes of the lovers are traced from their first silent meeting to their murder by Gianciotto, brought about by the treachery of Malatestino, who himself is cherish a guilty love for Francesca. The second is the least effective of the of the four acts, both musically and dramatically. It is occupied with a fight between the Guelphs and the Ghibellines on a platform of a tower of the

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Malatesti. The actual combat, although darts and tubs of pitch, is not less ludicrous than operatic warfare usually becomes, and the music, a conventional crash of brass and cymbal, is not at this point of sufficient distinction to prevent the act from striking a jarring note. The composer is at his happiest in his madrigals and some other fragments of choral writing for female voices, indefinite in form but invariably of great beauty. While his mastery over his orchestra is always evident, he never allows it to run riot. His colour schemes are perfect, largely because his taste is flawless. Mme. Edvina sang well in the title role and posed with the grace of a pre-Raphaelite maiden – probably a conscious touch. But she seemed cold and unemotional. Signor Martinelli was almost an ideal Paolo, and Signor Cigada, whose voice is hard, gave a very intelligent performance as the jealous Gianciotto. Signor Panizza, who was responsible for the original production in Turin, conducted with due authority, and the general production was admirable. Although it has come so late in the season, “Francesca da Rimini” has come to stay. Covent Garden must be congratulated on having secured so fine a work. 34 H.C., Paolo And Francesca At Covent Garden, «Daily Chronicle», 17.7.1914

An operatic setting of the familiar story of Paolo and Francesca was given a production of much splendour at Covent Garden last night. The libretto is a modification of D’Annunzio’s play, “Francesca da Rimini”, the composer being Riccardo Zandonai, the gifted young Italian whose opera “Conchita” attracted some attention here in 1912. Zandonai has unquestionably given us an opera of very great interest, full of atmosphere and charm, with ideas of much originality. The first act, entirely idyllic, is delightful almost from beginning to end. The scenes in the garden, the arrival of the Jester, his interrogation by four ladies who (like those in “The Magic Flute”) are always in evidence in the opera as attendant upon Francesca, the appearance of Francesca and her sister, are all reflected with much fancy and imagination by the composer, and most of the music is really very beautiful. The festal music, some delightful phrases for quartet and chorus of women’s voices with incidental music from a viole d’amore, a lute and one or two other instruments, which welcomes Paolo, helps to make an appropriate climax, ending with the briefest suggestion of tender love-phrase. In Act 2 the composer has attempted to work on a very ambitious scale—love music for Paolo and Francesca, against the background of a battle scene. If he has not been so successful here, it is the fault of the martial music, the brief duet being genuinely emotional.

EXQUISITE MUSIC In Act 3 there is a return to the idyllic vein, again with the happiest results. Francesca, surrounded by her ladies, is reading the story of Guinevere. She asks for music, which is provided in the shape of a spring song by the four ladies, with accompaniment from a small band of stage players. This is music of exquisite freshness, a dainty prelude to the long love scene that follows, the music of which, even though it has unequal moments, is full of romance and delicately-expressed passion. The last act opens with a scene between Francesca and Malatestino, who hints both at his own love for her, and his knowledge of her love for Paolo. The music falters a little here, as it does also in the succeeding scene in which Giovanni learns from Malatestino of the intrigue between his wife and his brother. The final duet between Paolo

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and Francesca now brings us the finest love-music in the opera, phrases of impassioned beauty. The discovery of the pair by Giovanni and their death at his hands is illustrated graphically, but the music just misses real dramatic strength. The mounting of the opera deserves more than a mere mention. As the scenery, costumes and accessories were all designed by one artist, Signor Coramba [Caramba], the stage pictures had an artistic unity which is not possible in the ordinary way, and most of them were very beautiful. The performance was one of all-round excellence. As Paolo Signor Martinelli sang with great fervour and acted romantically. Mme. Edvina, as Francesca, rather over-acted, and her singing was somewhat indifferent. Signor Cigada was impressive as Giovanni, and Signor Paltrinieri very energetic, vocally and dramatically, as Malatestino. Signor Panizza conducted with much ability, and on the stage every thing worked smoothly. 35 Royal Opera. Zandonai’s “Francesca da Rimini”, «Evening Standard», 17.7.1914

Riccardo Zandonai’s opera “Francesca da Rimini”, which has already met with considerable Continental success, was produced for the first time in London at Covent Garden yesterday. Tito Riccordi [sic] has adapted the libretto from Gabriele D’Annunzio’s version of the story, and though in its salient points it does differ materially from that set down by Dante in his “Inferno”, and which was later exploited by Paul Heyse, Martin Greif, Uhland and Stephen Phillips, the details of the tragedy, though naturally familiar, may be again recounted, as in its present form the dramatic side is strongly emphasised. In the first act, as a means to the reconciliation of two hostile families, Francesca, daughter of Guido da Polenta, has been condemned to marry Giovanni, generally known as Gianciotto, son of Malatesta da Verrucchio. Giovanni is deformed and Paolo, the younger brother, is persuaded to impersonate him, but though achieving the end in view he at the same time falls in love with Francesca, and his affection is reciprocated. Act II. takes place in a round tower in the palace of the Malatesti, which is being attacked by the Ghibellines. Francesca is now married to Giovanni, and she reproaches Paolo for having deceived her. Then he confesses his love for her and his ignorance of the deception that he unwittingly practised upon her, and later Giovanni brings him word that he has been appointed Captain of the People and Commune of Florence, for which city he immediately sets out. The third act is really the romantic climax of the story. Francesca is reading the story of Guenevere and Lancelot to her attendants, but Paolo has returned from Florence with the intention of meeting her. He enters her apartment, and in a lengthy duet they describe the passionate nature of their mutual feelings. In the fourth act is the inevitable tragedy. Malatestino, Giovanni’s younger brother, who is himself in love with Francesca, betrays them, and Gianciotto takes his revenge. Dramatic as the story is, and highly effective as is much of the music, Zandonai has not produced anything that will make operatic history. The general impression that his musical illustrations create is one of constant disappointment. He is apparently capable of working himself up to a certain pitch of achievement that on many occasions is remarkably strong and vivid, but he seems to lack the art of consistency both of purpose and idea. Acts III. and IV. literally teem with possibilities, and to a certain extent are conceived with fine dramatic feeling, but

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just where the forceful climaxes should be there is a curious lack of concentration of thought that weakens the general effect, and just evades the thrill that is frequently on the verge of appearing but never becomes an accomplished fact. Zandonai is, of course, a disciple of Puccini, and much of the work bears a strong resemblance to several familiar operas with a not inconsiderable smattering of Wagner. But to follow in the footsteps of the great is a sound policy, and there can be no doubt that when Zandonai has found himself he will produce an opera of real value and importance, although it can be freely admitted that the one in question is distinctly interesting. His scoring is always ingenious, and such extracts as Francesca’s “Anima cara” in the first act and “Il fuoco greco” in the second provide quite sufficient evidence of the great developments in his creative art. Louise Edvina as Francesca looked charming as she always does, and sang with remarkable beauty of tone and expression. Her portrayal of uncontrollable passion may have been occasionally unconvincing, but as a general rule she acted with delightfully youthful grace and was at times finely dramatic. The Paolo of Giovanni Martinelli was admirable, though mainly from the vocal standpoint. His voice rang true and resonant, and was used with consistent excellence, but he, too, in the love scene lacked the fire that can grip the imagination and approach within measurable distance of realism. Francesco Cigada’s reading of the part of Giovanni tended to show him rather as the outraged husband than as the sinister villain of previous non-operatic productions. His singing was strong and full of vitality, and it was always possible to see in him the warrior of unflinching courage and the true lover hoist with his original petard of deception. Amongst the smaller parts, Myrna Sharlow as Samaritana and Giordano Paltrinieri as Malatestino sang well. The production as a whole is one of the most elaborate that has yet been staged at Covent Garden. The house of Carramba [Caramba], of Milan, is responsible for it, and in a practically every detail it has caught the spirit of the times, as well as presenting much that is architecturally interesting and a number of colour schemes that are remarkably attractive. Ettore Panizza conducted a fine performance that never failed to give the opera every chance of success by the combination of the admirable work of soloists, orchestra and an exceptionally intelligent chorus. The reception was enthusiastic, and at the fall of each curtain the artists were recalled time after time. 36 New Opera At Covent Garden. “‘Francesca da Rimini» By Riccardo Zandonai, «The Times» 17.7.1914

Francesca LOUISE EDVINA Paolo GIOVANNI MARTINELLI Samaritana Myrna Sharlow Giovanni Francesco Cigada Malatestino Giordano Paltrinieri Biancofiore Sybil Vane Garsenda Rosina Buckman Altichiara Ruby Heyl Donella Violet Hume Smaragdi Elvira Leveroni Ser Toldo Octave Dua Giullare Pompilio Malatesta Balestriere LEON DE SOUSA

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Ostasio CAREL VAN HULST Torrigiano Conductor – Ettore Panizza By the production of Zandonai’s opera Francesca da Rimini last night Covent Garden reached its mean level of two new operas in the season. The opera thus brought to a hearing season just before the season closes is certainly a thing of greater interest than its companion which was brought out earlier, or than the same composer’s Conchita, given a couple of years ago. Zandonai has at least found in D’Annunzio’s play a big subject with an atmosphere and a colour of its own, and has tried to let its atmosphere and colour suffuse his music. The general course of the opera is identical with that of the play, though the words have had to be considerably curtailed in becoming a libretto for music. The opera is nominally in four acts, but virtually in five, for D’Annunzio’s last two acts are treated as two scenes in Act IV. It is easy to see that a much more effective opera could have been made by adopting a more drastic method in moulding the play for music. All the part played by the youngest of the three brothers, Malatestino, that is to say, the whole of the first part of Act IV, might have been sacrificed without much musical loss, and it would have been a great gain in condensation. At the same time one appreciates the reverence which the musician pays to the poet; he is trying, with the help of Tito Ricordi, who made the adaptation, to give a musical version of the tragedy, and refuses merely to boil it down into a serviceable libretto.

UNSATISFACTORY AS AN OPERA.

Still, though this appeals to literary sympathies, it is the result as an opera that we have to consider; and without, on the one hand, the breadth of musical vision which creates Tristan, and, on the other, the sensitiveness to poetic suggestion which produced Pelléas et Mélisande, the result could not be satisfactory. Needless to say, the composer of Francesca has not this abundant equipment. He has merely tried to accompany the play scene by scene with music that reflects some of the character of each situation, and he has brought to the task a good deal of resources, especially in writing for the orchestra. The scenes between Francesca’s women and the jester and between Francesca herself and the women, all the preparation, in fact, for the coming of Paolo, have a good deal of charm, spoilt only by a youthful tendency to work everybody and everything much too hard. The voices are frequently forced to give ear-piercing shrieks because the orchestra is so busy with rhythms od repeated notes that to use any other part of the voice would be futile. By the time the climax comes, the trumpets sound and the bells ring out, the voices and the audience are so tired that the welcome to Paolo, “Eccolo! è qui presso,” loses its significance. The scene of the first meeting of the lovers is, however, effective by its contrasted quietude. The melody for a viola pomposa placed with a lute and an oboe on the stage, though not peculiarly eloquent among love themes, is skilfully combined with the suave tune of the women’s chorus, and makes an imaginative ending to the act. Of the battle scene on the ramparts not much need be said. Stage battles are proverbially difficult to handle; musical stage battles are irredeemably futile. The composer keeps the clatter and bustle going with unabating [sic] energy, and with it all he has to combine suggestions of heroism and love; for Paolo, exposing himself bareheaded on the battlements, shoots the leader of the Ghibelline attack, and Francesca is by his side pulling up the portcullis that he may take his aim, handing him his arrows, weeping for his supposed wounds, trying up the

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real ones of Malatestino. Neither Mme. Edvina’s first aid nor Signor Martinelli’s archery helped to increase our confidence in a scene which is carried along chiefly by its extreme theatricality.

THE CRUCIAL SCENE But in the crucial scene of the drama, the reading in Galeotto of Lancelot’s story, the composer has entered sympathetically into his increased opportunities. It is a scene for music; Francesca’s richly decorated Florentine room offers suggestions to the musical colourist; the reading, the discussion and the spring songs of the girls (the latter is supported by a band of woodwind and lute upon the stage) lead the musician to a quieter mood; then the long scene between the lovers, ending in the kiss which reveals the depht of their love, has something of the restraint of Dante’s comment Quel giorno più non vi leggemmo avante. The common mind would have turned this into the conventional love scene such the middle act of any Italian opera can show; Zandonai reaches real distinction in refusing to allow the passion to leap too readily to the surface. Nothingh in the final act is nearly as good, and musically it is apt to be tautologous. One is glad that when the final struggle between the two brothers eventually arrives it is swiftly accomplished and the lovers fall together without an unseemly operatic parade. The large cast collaborate admirably under the direction of Signor Panizza to produce a thoroughly good performance and the work was received with general acclamation. The timbre of Mme. Edvina’s voice, however, is not one to lessen the disadvantages of Zandonai’s unfortunate style of vocal writing to which we have referred, in fact shrillness and uncertainty of intonation rather spoilt the effect of her painstaking presentation of the part of Francesca. Signor Martinelli’s voice, however, was as admirably suited by the part of “Paolo il bello” as the gruffness of Signor Cigada was suited to that of Giovanni, the elder brother, and husband of Francesca. While the smaller parts were all well distributed, a special word seems due to Miss Myrna Sharlow, who as Samaritana sang with an appealing freshness in the duet with Mme. Edvina in the first act. 37 Royal Opera. Success Of Young Italian Composer. “Francesca da Rimini”, «The Standard», 17.7.1914

“Francesca da Rimini”, the first performance of which in England took place last night, is certainly the best of the novelties that have been heard at Covent Garden for a number of years. The composer, Riccardo Zandonai, will be remembered by his opera “Conchita”, which was produced during the last grand season, much of which–despite an unpleasant and hopelessly theatrical theme–gave high promise for the future. Perhaps it was too much to expect that young Italy could get away entirely from the lurid atmosphere and heated emotionalism in which so much of the music of her younger sons is cast, but at least it was very comforting to find Zandonai deserting the realistic in favour of the idyllic—at any rate in two out of the four acts—and turning his back upon the offal and garbage of pseudo-psychology in which so many present-day composers delight to delve—either from hope of profit or a perverted sense of æstheticism. The composer’s best work is associated with the happenings of the great story of love and death, which, perhaps, is not surprising, seeing that

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it would take a Wagner to do justice to a love scene which in ecstatic passion is equally only by that of Tristan and Isolde. Very charming is the music allotted to Francesca’s attendants—music which indirectly suggests the influence of the Valkyries’ chorus, notwithstanding that it has little direct connection as regards figure or phrase. On the other hand, the babel of sounds that accompanies the attack and defence of the castle is unquestionably effective, whatever may be thought of it as music. Here the din in the orchestra becomes deafening, the drummers in particular having some very strenuous quarters of an hour. Indeed, the high pressure at which the score is maintained almost throughout the opera is most marked, the occasions when the artists are not singing at the tops of their voices being few and far between.

SENSE OF THE THEATRE As regards the melodic line, the composer gives one the impression of being at great pains to avoid the facility for tune-making which he apparently shares with his compatriots. Time after time he employs scales and harmonic progressions which, to say the least, near something more than traces of the influence of the modern French school, his affection for the two-note reiterated figure being his conspicuous throughout. That he knows his Wagner well would also seem to be beyond dispute. Strong as is the sense of theatre manifested throughout, all the scenes would gain by compression, and the elimination of the anti-climax. Take, for example, the first act, where Francesca first sees Paolo. Here the music that heralds the entrance of “the fairest knight in all the world” has been wrought to an ecstatic pitch, but the moment of his arrival is too long delayed, and the denouement of an artistically built up situation is whittled away, charming, musically, as is the final tableau. Again, a good deal of the music at the opening of the third act might be dispensed with. Everyone by this time is waiting for the culminating incident, the reading of the immortal love story of Lancelot and Guinevere and the impassioned outburst that is the sequel to it. But the composer marks time while Francesca’s women and some lute-players indulge in what at another time would be pretty vocal and terpsichorean exercises. “Francesca,” in fact, would gain from such pruning as would bring it within the three hours limit. In that case the opera would stand a better—a really good—chance of obtaining a permanent place in the repertoire for some years to come, since, apart from the hurly-burly of its drama, it contains scenes of great charm and real æsthetic value, scenes which in conception and execution are upon a far higher artistic plane than any we had dared to expect from the protagonists of contemporary Italian opera.

THE INSTRUMENT OF FATE Instead of killing Malatestino in infancy, the librettist permits him to grow up and become the instrument by which the death of the lovers is accomplished. He it is who, because Francesca repulses him, betrays the guilty pair to the lame Giovanni. The murder of a certain prisoner whose groans distress Francesca is a totally unnecessary excursion into the realm of gruesome realism, and the only vulgar episode in the opera. A head tied up in a cloth and kicked about the stage like a football is a gratuitously nasty spectacle. The fights on the battlements of the castle are remarkably vivid pictures of mediæval prowess; indeed, the production generally—except

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for the introduction of some distressingly garish artificial floral decorations—is one of which the management have ever reason to be proud. Nothing so good has been seen at Covent Garden for long enough. If Louise Edvina’s action seemed a little studied, her Francesca is a clever performance, while her singing was nothing if not an emotional exercise. Giovanni Martinelli did not wear his heart upon his sleeve to the same extent as his lovelorn partner in guilt, but he has never sung more robustly. There was perhaps more passion in his voice than in his bearing, but artists who possess all the graces with which Paolo is credited have yet to be discovered. Francesco Cigada was naturally not as raucous a voiced Giovanni as tradition demands, but his embodiment of the lame husband was powerful and characteristic. As the moon-struck, half-witted Malatestino, Giordano Paltrinieri did well. The women’s music was admirably sung by Sybil Vane, Rosina Buckman, Ruby Heyl, and Violet Hume. Ettore Panizza, who conducted, took charge of the work at the original production in Turin, and consequently one gathers that the high pressure at which the score was maintained had the sanction of the composer. The opera met with a flattering reception both at the end of each act and upon the fall of the final curtain. Among those at the Royal Operas, Covent Garden yesterday evening at the first performance in England of Zandonai’s “Francesca da Rimini” were the Marquess and Marchioness of Lincolnshire, the Marchioness Douro, Viscount Iveagh, Earl Howe, the Countess of Cavan, Lady Curzon, Lady Airedale, the Hon. Lady Musgrave, Lady Hastings, Lady Victoria Burke, Lady Meyer, Lady Dawson, Sir Spencer and Lady Maryon-Wilson, Sir Edward and Lady Stracey, Mr. and Mrs. St. John Hornby, Mrs. Lewis Harcourt, Mrs. Gerard Leigh, Mr. and Mrs. Leo Bonn, Mrs. John Leslie, Mrs. Louis Duveen, and Mrs. Wormald. 38 A New Masterpiece. “Francesca da Rimini”, At Covent Garden, «Pall Mall Gazette, 17.7.1914 (tronco) In recent years signs have not been lacking that Young Italy is at last awakening to the essential vulgarity of post-Verdian opera, with its alternation of lurid hurry-music for heavy and musiquette for light libretti. In the current season, for instance, we were given “L’Amore dei Tre Re,» which, though not of startling originality, at least indicated an advance in operatic taste. Two years ago we had an opportunity of judging, by Zandonai” “Conchita”, that an improvement in musical method was also in course. The weakness of that opera was its concentration of the interest upon no more than two characters, which, as is happened, were not particularly well cast, so that the impression on the operatic public was less vivid that is should have been in fairness to the composer. Covent Garden has now produced a second opera from the same source, free from such dramatic flaws and under much more adequate conditions, with the result that the advance in both musical taste and technique is too obvious to escape the most superficial observer. Here is an opera dealing with a subject of great tragic beauty, and there is no intrusion of melodrama to cheapen its effect. Even the last scene, which one would imagine offered almost irresistible temptation to a modern Italian composer, is treated with a dignified reticence that brings it own reward in heightened effect.

*** The music is remarkable for its freedom from overworked clichés. A captious critic might suggest that the composer has merely substituted

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others of more recent origin—that he owes much to his immediate predecessors—that the interval of the augmented fourth which he favours for certain effects is no more his than another’s. But if he is not the first Italian composer to profit by the experiences of his contemporaries, he is, so far as we know, the first not to turn them to base uses, and this is almost enough to stamp him as an innovator. Nor is he without a definite musical personality of his own. On the contrary, though certain of his features may be familiar, his profile, se to speak, is new. More than that, his orchestral colour is personal, and where it ventures upon experiment, it is almost invariably successful.

*** On the weak points, such as the prolongation of the closing episode of the first act, with the attendant risk of an anti-climax, we prefer not to speak, for the moos of the moment is against fault-finding. The cast is too long for detailed enumeration. The two name-parts were taken by Mme. Edvina and Signor Giovanni Martinelli. Mme. Edvina’s method in a work of this kind are well known. Whilst she is too good an artist to allow her vocal production to suffer from her acting, it is usually to the matter that she applies most of her technical experience. Unfortunately, she is hampered by conventions, such as the familiar heaving of the shoulders when Paolo’s arrival is announced to her. There is room for more subtlety than can be attained by such methods. Signor Martinelli’s voice and appearance were effective, but in interest his part was overshadowed by the remarkable performances of Signor Cigada as Giovanni and Signor Paltrinieri , a new-comer, as Malatestino. These two artists were convincing throughout, and when they met in the duet of the last act they easily scored one of the successes of the evening. A word of praise is also due to the four ladies attendant upon Francesca, to whom the composer has allotted some of his most picturesque music, and who acquitted themselves remarkably well.

*** The production, in which M. Almanz, the stage manager, had the valuable advice and(*)

---------- (*) Il ritaglio si interrompe qui. 39 Royal Opera. Francesca da Rimini. Successful Production, «The Daily Telegraph», 17.7.1914 Francesca Louise Edvina Paolo Giovanni Martinelli Samaritana Myrna Sharlow Giovanni Francesco Cigada Malatestino Giordano Paltrinieri Biancofiore Sybil Vane Garsenda Rosina Buckman Altichiara Ruby Heyl Donella Violet Hume Smaragdis Elvira Leveroni Ser Toldo Octave Dua Giullare Pompilio Malatesta Balestriere Leon De Sousa Ostasio Carel Van Hulst Torrigiano Last night saw the production at Covent Garden of “Francesca da Rimini”, the second and last of the novelties promised by the syndicate for the season now nearing its close. For reasons no doubt unavoidable,

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Zandonai’s opera has thus had to wait for a hearing until the season has entered upon its last days. Yet, as things operatic go, the young Italian composer may reckon himself favoured among his kind, for it is only a few months since “Francesca,” his latest work, was brought out in Turin, and already the London public have been enabled to pass judgment upon it. Moreover they have heard it in circumstances in every way advantageous the composer and his work. For no opera, indeed, could a “production” more complete, artistic, and beautiful have been fashioned. It is only right that all possible credit should be given to the Covent Garden management for the admirably artistic spirit in which they set about producing the new opera in such a way as to ensure for it a setting wholly in keeping with the atmosphere of D’Annunzio’s tragedy—the source of Zandonai’s inspiration. And having said thus much let us hasten to add that they have lavished their pains and resources upon no unworthy work. In some respects, indeed, one may unhesitatingly welcome “Francesca da Rimini” as the most satisfying opera that has come out in Italy for a considerable time. Whether it is likely to prove as successful as its many beauties and merits deserve is a point we need not stay to consider. Time may be left to answer that question. It is to the good, at any rate, that a work of which the mood, for three put of its four acts, is inevitably sombre, but from which the note of sincerity and high aim is never absent, succeeded in spite of its considerable length in enlisting the sympathies and interest of last night’s audience.

D’ANNUNZIO’S TRAGEDY In D’Annunzio’s well-known tragedy. which was written, it will be remembered, for Eleanora Duse (whose beautiful performance in it about a decade since will not have been forgotten by anyone who saw it), there is obviously much that would appeal to a composer or imagination and poetic instinct. In it, no less obviously, there is abundance of good material for music-drama—and we are here only concerned, naturally, with its value as an opera text. For that purpose the play was “adapted” by Tito Ricordi—considerable compression was, of course, necessary—and, generally speaking, there is little fault to find with the result. But we say this with one important reservation. It is that, in our opinion, the battle-scene of the second act is a mistake for operatic purposes, and would have been far better left to the imagination. For, when all is said and done, the story of Paolo and Francesca—which is far too familiar to require telling again in connection with the opera seen last night—is a great love tragedy, simple in its outlines, as old as the hills in one sense, and yet perennially fresh, because intensely human, in its emotional appeal. For the purposes of music-drama, everything, surely, should have been made subservient to the one paramount, overwhelming issue. And it is for that reason that we regard the second act of this opera as a mistake, viewed either from the dramatic or the musical stand-point—but particularly the latter. For this battle-scene—it is more than that—only retards the one all-important and only essential issue.

A POETIC SCORE Zandonai must not be blamed, therefore, if in this act he failed really to impress us, notwithstanding that he certainly carried matters along with no little skill and vitality. Before that desperate affray of the Guelfs and Ghibellines, with their cross-bows and arrows, he had succeeded both in charming and interesting us. It was his sure poetic instinct, his sensitive feeling for atmosphere, that charmed; it was his manner that interested. In “Conchita,” to which Covent Garden introduced

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us a year or two ago, this composer—who has been spoken of as Italy’s “rising star”—revealed himself as the possessor of exceptional gifts and something of individuality as well. In “Francesca” the promise held out by the earlier score is abundant fulfilled. One notes the same reticence—even in that ill-judged battle scene this quality is present–and the same sureness in arriving at the particular effect aimed. There is in much of his music a directness of expression by no means common nowadays in that which is representative of modern musical thought. And Zandonai is “modern” enough, if one may be allowed that term in these advanced days in connection with music of which the harmonic basis is perfectly clear and no less “legitimate.” His modernity, however, is not of the kind that makes ruthless demands on the human voice. Indeed, the vocal line in “Francesca” is far more grateful than in Zandonai’s previous opera, and in his more lyrical phrases the composer achieves a measure even of suaveness without falling into commonplaces of melody. And, as we have already hinted, it is indubitably in his gift of poetic expression that the composer here shows his chief strength. It enables him to strike the right note at the very outset in the brief orchestral introduction to the rising of the curtain, and to sustain that note through the whole of the act, the music of which, accordingly, reflects with singular felicity the delicate charm and poetic atmosphere of the scene wherein Francesca first sets eyes on Paolo. For fragrant beauty, indeed, and delicate imagination the music treatment of the end of this act, where Francesca watches from the courtyard Malatesta’s handsome son, whom she fondly imagines is to be her bride-groom, while her attendants gather about her and sing, is an achievement of a rare order. One finds the same poetic feeling in much that comes later, and if in the scene between the lovers in the third act, where together they read the story of Lancelot and Guinevere, the note of passion is rather subdued, it has to be remembered that it is only at the very end of the act that the lovers lips meet for the first time. The composer, therefore, may have aimed chiefly at suggesting their heart-yearnings rather than anything in the nature of ecstatic, all-mastering passion. One must needs deal briefly with last night’s performance, which, as already indicated, certainly revealed the novelty in as favourable a light as possible. Both Mr. Martinelli and Madame Edvina, to whom were assigned the rôles of the two lovers, may be said to have added to the laurels that have fallen to them this season. Madame Edvina, if a little inclined to remind us in some of her movements and attitudes of one or two other parts with which she has identified herself, yet gave us in in her Francesca a performance on a high level of skill and sincerity, and throughout she sang with finish purity of tone, and a full appreciation of her opportunities. So, too, with Mr. Martinelli, who sang, moreover, when occasion demanded, with characteristic force and fervour. Mr. Cigada, the Giovanni of the cast, had to wait until the last act for his chances, but when they came he seized them with complete success, both as singer and actor. By this artist and Mr. Paltrinieri, a newcomer possessing a resonant tenor voice and no small histrionic gifts, the scene in which the vindictive Malatestino informs his brother of Paolo and Francesca’ secret meeting—a scene, by the way, wherein the composer rises finely to his dramatic opportunities—was carried through with exceeding power and effect. Mr. Panizza, who conducted, clearly deserved the share that went to him of the audience’s tributes. In the audience were: The Marquis and Marchioness of Lincolnshire, Marchioness Douro, Viscount Iveagh, Earl Howe, the Countess of Cavan,

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Lady Airedale, the Hon. Lady Musgrave, Lady Dawson, Sir Spencer and Lady Maryon Wilson, Sir Edward and Lady Stracey, and Mrs. Lewis Harcourt. 40 New Opera At Covent Garden. Zandonai’s “Francesca da Rimini”, «Westminster Gazette», 17.7.1914

Zandonai’s “Francesca da Rimini”, which was heard for the first time in London at Covent Garden last night, is a work of a type of which Italy has sent us many examples during recent years. That is to say, it is an earnest attempt at a work of real value, characterised by a sincerity of purpose and a sobriety of treatment, putting in in quite a different category from that of the old-time blatant and vulgar Italian productions; but when one comes to consider it in other respects the superiority is unfortunately less pronounced. These modern Italian operas, in other words, are vastly superior to their predecessors in externals, but in essentials much the same. This, however, is only what might be expected, for no amount of high aim and taking thought can generate genius, even though it may invest with a more dignified appearance the productions of mediocrity. This “Francesca das Rimini”, for instance, has all the outward air of a serious and important contribution to the art. A fine theme is handled with every evidence of a genuine desire to rise to the occasion. And up to a point, too, the composer has even succeeded. There is not a little in the technique of the music, in the good taste and reticence displayed, the freedom form extravagance and banality, which may be cordially applauded. But these are negative virtues after all, and it is in the provision of more positive attractions that the composer fails. His music flows on with exemplary ease and smoothness, but soon becomes tedious because its ideas are so ordinary and their treatment so uninspired. The truth is that only a great composer could hope to deal really adequately with such a theme as Zandonai has chosen in this case. Wagner in “Tristan” supplied, of course, the supreme model, while Debussy in “Pelléas” showed another possible mode of treatment, which had the enormous advantage of avoiding any direct comparisons with Wagner’s; but Zandonai has hardly succeeded in providing another. Apart from these elementary deficiencies the opera is not without its good points. As regard the book, this is based on D’Annunzio’s version of the famous story in which form it makes an excellent libretto (Signor Tito Ricordi has been responsible for the adaptation), distinguished by not a few happy touches and graceful details. The opening scene are very charming, for instance, showing Francesca at her home in Ravenna attended by her women. [•]hiter comes Paolo in due course to win her for his brother, but in the result to conquer her heart forthwith not for her destined husband but for himself. The second act, showing a fight in progress between the Guelfs and Ghibellines, with Paolo making love to Francesca, now the wife of his brother Giovanni, between the intervals of shooting with his crossbow at the enemy, is less effective, since this mingling of love and war is singularly unconvincing as represented in the stage, being indeed a purely “literary” conception, which should be confined accordingly to the printed page. Much happier is the following scene. In her beautiful apartments Francesca is reading the story of Lancelot and Guinevere to her women—it is not historically recorded that Francesca told Dante that she ascribed her undoing to that earlier tale of guilty love?— till presently Paolo arrives and the lovers continue the reading together alone. Then finally comes the tragedy brought about by Giovanni’s younger brother,

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Malatestino, who, having also succumbed to Francesca’s charms, betrays her relation with Paolo to her husband, who, surprising them together, kills both on the spot. Apart from the fact that it is rather needlessly spun out, the story makes, as noted above, quite a good book, and if only Zandonai had been able to provide music of greater interest it might well have served as the framework of a really notable opera. As it is, for the reason which have been suggested, the work can hardly be so described. At the same time, if the music is not great, it is not without its happier moments. Quite charming, for instance, are some of the lighter pages, such as the songs of the women in the first act, while again in the third, when Francesca is with her attendants once more, there are some very pleasing moments. It is the treatment of these slighter elements of the story that Zandonai seems most at home, and in such scenes his music at its best suggests quite happily the appropriate atmosphere of sensuous beauty and delight as a fitting background for the tragedy that is in preparation. As the action proceeds, however, his music gets weaker instead of stronger, and though he strives hard by strenuous orchestration and other familiar expedients to conceal the fact, it is not to be disguised, unfortunately, that the whole thing in purely an affair of clever make-believe and manufacture, and the effect resulting is correspondingly small. The production of the work could hardly have been better. Whether the opera is worth all the money which must have been spent on it or not, the management have certainly grudged nothing in order to present it in the most favourable manner to the London public. More beautiful stage pictures than some of the scenes, such as those of the first and third acts, could hardly be wished, while the artists are, of course, all of the first rank. Mme. Edvina, the Francesca, is not perhaps quite the ideal representative in all respects of parts of this particular order (in so many of which she has appeared during recent years at Covent Garden), since she lacks the temperament which they demand, but within her limits she is always to be relied on for a sound performance, and she gives of her best once more in the present case. Excellent, too, with just the right personality for the part, was Signor Martinelli as Paolo, while Signor Cigada, with his fine voice and vigorous methods, gave an equally good account of himself as the rough and savage husband. As the other brother, Malatestino, Signor Paltrinieri, a newcomer, acted better than he sang, his voice, a penetrating tenor, being too “white” and shrill in quality to afford unqualified pleasure. MM. Octave Dua, Malatesta, and Carel van Hulst, were other membres of the cast, and Signor Panizza as conductor seemed to have the orchestra well in hand throughout the evening. 41 Royal Opera. “Francesca da Rimini”, «The Star», 17.7.1914

“Francesca da Rimini” has fascinated many composers both as a subject for opera and a program for a tone-poem. The latest opera on the subject is that of Riccardo Zandonai, which was first heard in Turin last February, and produced at Covent Garden last night, with more than the usual signs of success. It seems safe to predict that it will be in the repertoire for a long time than a good many of the novelties heard recently. It has weak moments, and a little use of the blue pencil would not be a disadvantage, but it has many of the qualities which make for life. To begin with, the composer has something to say, and knows how to say it; then there is a good book, full of contrast and animation and

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characters in whom one can take an interest; and, lastly, there is a picturesque background which appeals to the imagination. The management has fully realised the importance of this, and has produced a series of pictures of medieval Italy of singular beauty and unity of style, such as we used to see at the Lyceum in the days when Irving was king. In spite of one or two drawback – such as men-at-arms turning their backs on the enemy in order to gaze at the conductor – no finer stage picture has been seen for some time than the fight on the battlements of the Malatestas’ Palace.

*** Signor Tito Ricordi has adapted d’Annunzio’s play for the stage with remarkable insight into the needs of a composer of opera, and the rival claims of the three essentials — action atmosphere, and characterisation. It is true that not much happens in the first act, but it creates an atmosphere of romance and foreboding, and shows us the character of Francesca. The fight in the second act is not necessary to the main plot, but it reveals the natures of the three brothers — Paolo, Gianciotto(*) (Francesca’s husband), and Malatestino — and shows us how all three love Francesca. Incidentally, it may be said that the way in which Paolo hesitates over the drinking of the draught given him by Francesca would have aroused the suspicion of a far duller man than Gianciotto. The singing of songs by Francesca’s attendants creates the right atmosphere for the subsequent meeting of the lovers, and from this point the action moves at full speed to the final catastrophe.

*** Two years ago it was prophesied that the mingling of Italian melodiousness with the fullness and subtlety of orchestral treatment and texture which are largely German might end in the creation of a new style of peculiar significance, and this prediction has been justified by “Francesca.” In both respects the composer has made a notable advance. His melody is more expressive and dramatic, and the atmosphere he creates by means of his orchestra is more appealing, more original, and more distinguished. He has a fondness for repetition of short phrases which is almost Russian, but he does not exceed the due limits. The first act is fully of charm, and the female choruses show the imagination of a true poet. The quartet of the four attendants before the lovers’ meeting is most delicately imagined, and the duet and the scene of the reading of the story od Lancelot and Guinevere has the true note of romantic passion. The scene in which Malatestino arouses the suspicions of Gianciotto is robustly dramatic, and the final scene has both beauty and power. On the whole, the strong elements fat outweigh what is less good, and the whole creates a fine impression of unity. There is, in short, much achievement in “Francesca” and more promise; and that Zandonai is the man of the future in Italian opera there is little doubt.

*** The performance was excellent, and Signor Panizza has never done anything as artistic as his handling of the whole. Mme. Edvina struck the right note of romance in her embodiment of the dreamy Francesca, and sang finely, and Signor Martinelli (besides showing great skill in archery) sang and acted with more authority and breadth of style than ever before. Signor Cigada was an impressive robust and brutal Gianciotto, and his lameness was very well done. Signor Paltrinieri made a good deal of the part of Malatestino, though his voice is not of the most pleasing. Miss Myrna Sharlow as Francesca’s sister Samaritana showed herself to have an unusually fine voice, of which we should hear more, and the four attendants — Miss Sybil vane, Miss Rosina Buckman,

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Miss Ruby Heyl, and Miss Violet Hume — sang charmingly, while Mlle Leveron was excellent as the slave Smaragdis. ------------ (*) Qui e altrove il nome è scritto «Gianciotti». 42 Opera We Have Waited For. Instant Success Of The New Italian Work At Covent Garden, «Daily Sketch», 17.7.1914

“What a pity they left it till so late in the season”, exclaimed Signor Scotti in the foyer at the end of a very beautiful first act at Covent Garden last night. And everybody was saying the same thing. For “Francesca da Rimini,” the brand new opera based on the tragedy of Gabriele d’Annunzio, looks like being the new winner that Covent Garden has been waiting for. The story is the fascinating old story of Paolo and Francesca, the maid of Rimini, who falls at sight in love with the brother of her destined ugly husband. As for the music of Zandonai, the young Italian whose charming opera “Conchita” was produced here two years ago, it is the best thing that Italy has done this century. Scenery and production, indeed, play a great part in the success of the new opera. Martinelli is a handsome and sweet-voiced Paolo and Edvina, if temperamentally a little too “northern” for Francesca, uses to good effect her honeyed voice that match so well her trailing walk. But the success of the evening – especially for the first and third acts – was the composer, Riccardo Zandonai. 43 The Tragic Lovers: Beautiful Stage Pictures In “Francesca da Rimini” At Covent Garden, «Evening News», 17.7.1914

The story of Paolo and Francesca has inspired a good deal of music, although no modern opera on the subject had appeared, so far as one knows, previous to the Zandonai-D’Annunzio “Francesca da Rimini,” which was heard at Covent Garden last night. Such a subject as that of Paolo and Francesca really demands music of as high a quality as that in which the love of Tristan and Isolde is told in Wagner’ immortal work. Zandonai is no Wagner, in musical stature, and his opera, although beautiful and interesting, as regard much of its music, does not give us any real expression of the supreme dramatic moments of D’Annunzio’s play, the meeting of the lovers, their avowal, and their death. Bur in the more delicate moments of the play, when there is a stage picture to be illustrated, there is music of real grace and charm, and of genuine poetic atmosphere. Last night’s production was one of much elaborate staging, of a rarely beautiful kind. With scenery, costumes, and accessories all designed by one and the same artists, the stage pictures were uncommonly harmonious and striking. Musically the performance reached a high level of general excellence, with Signor Panizza conducting. The best individual performance was that of Signor Martinelli, who sang and acted splendidly as Paolo. Signor Cigada, as the ugly husband Giovanni, was also very dramatic and sang finely. Mme. Edvina, as Francesca, seemed to act in a rather affected and unnatural way, and her singing was not of particularly good

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quality; the rest of the cast was excellent, and women’s choruses were beautifully sung. 44 La critica londinese concorde nelle piene lodi alla “Francesca” di Zandonai, [non id.], 16.7.1914[?] Tutti i giornali si occupano diffusamente della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, e ne scrivono parole di alta approvazione. Il critico della Pall Mall Gazette descrive la Francesca da Rimini come un nuovo capolavoro. In particolar modo è ammirato lo stile del giovane maestro, la sua abilità e la sua misura. Secondo questo critico, l’opera nuova dimostra nello Zandonai una individualità musicale ben definita e tutta sua. Il critico osserva che si può quasi considerare lo Zandonai come un grande innovatore. Benché non sia condiviso interamente da tutti i critici londinesi, questo entusiasmo dello scrittore della Pall Mall Gazette offre la misura del successo riportato qui dalla Francesca da Rimini. Anche quei critici che scorgono qualche debolezza nell’opera, non possono a meno di tributare al nuovo lavoro, nel suo complesso, un notevole elogio. «Se non si tratta di musica veramente grande – scrive il critico della Westminster Gazette – l’ultimo lavoro dello Zandonai non manca di momenti assai felici». Il critico del Times trova che Zandonai, non possedendo ancora gli accenti magistrali che sarebbero stati necessari per la trattazione di un tema così sublime, ha semplicemente voluto comporre delle scene ricche di una musica nobile, che commenta qualche carattere e tutte le situazioni. In questo compito lo Zandonai ha recato grande copia di risorse, specialmente di orchestrazione. Per il critico del Daily Telegraph, la Francesca da Rimini sotto varii aspetti è, senza discussione, l’opera più soddisfacente che sia venuta dall’Italia. Di quasi identico parere è il critico del Daily News, secondo i quale la Francesca da Rimini è un’opera di grande interesse, anzi la più interessante di tutte le nuove opere italiane da parecchi anni in qua. Il critico della Morning Post scrive: «Nell’insieme della musica lo Zandonai mostra una forte individualità e possiede un carattere che è in gran parte decisamente italiano. Anche se non è sempre originale, Zandonai riesce a convincere assai più di ogni altro compositore italiano contemporaneo. Egli si esprime in uno stile preciso: grazie alla sua abilità, la versione musicale della tragedia riesce effettiva-mente a commuovere». Di parere contrario è soltanto il critico del Daily Mail, il quale pensa che lo Zandonai si limita a giocherellare abilmente con un tema per cui erano necessari i più profondi accenti di cui sia capace la musica. Tutti i giornali indistintamente ritengono ottimo il libretto e lodano l’adattatore, commendatore Tito Ricordi. Quanto alla messa in iscena ed alla esecuzione dell’opera, esse vengono giudicate ammirevoli sotto ogni aspetto, specialmente sotto quello orchestrale, per il quale i critici vanno a gara nell’elogiare il maestro Panizza. Resta ora a vedere se la Francesca da Rimini riuscirà a fare una forte presa su questo pubblico. La Morning Post a questo riguardo osserva: «Non ci indugiamo a considerare se la Francesca da Rimini avrà probabilità di ottenere dinanzi al pubblico tutto quel successo che le sue molte bellezze meritano. Soltanto il tempo potrà rispondere a questa domanda». -----------------------------------------------------------------------------------------

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Pesaro 1914 (45-46) 45 Il trionfale successo di Francesca da Rimini del M° Zandonai al nostro Teatro Rossini, «La Sveglia democratica», 1-2-.8.1914

L’arte di Riccardo Zandonai, il giovane e illustre Maestro trentino di nascita e pesarese di adozione, ha ormai raggiunto la sua piena maturità. Le ovazioni che echeggiarono lungamente giovedì sera nel nostro glorioso Teatro Rossini hanno salutato veramente nella Francesca da Rimini l’opera di un artista insigne che all’antica vicenda d’amore e di morte che da secoli commuove il mondo ha saputo aggiungere una nuova formidabile significazione musicale che rinnova, esalta, ingrandisce quasi la tragica passione. Riccardo Zandonai ha voluto affrontare con ardimento magnifico una difficoltà tale da sgomentare ogni audacia: la grandiosa tragedia di Gabriele D’Annunzio, che ha rievocato con una concezione teatralmente perfetta «il disperato amore e il disperato dolore» di Paolo e Francesca, aveva raggiunto nell’impeto lirico tale altezza che sembrava temerità voler darle maggiore significazione. Eppure la musica di Zandonai ha saputo veramente dire ciò che non è della parola, ha saputo cogliere nella forza della sua arte quel quid che nessuna parola può esprimere. E la tragedia musicale si eleva così che nel pubblico stipato e plaudente la commozione era pari all’ entusiasmo che ciascuno sentiva nelle proprie vene correre il brivido della passione, l’ardore della primavera, l’orrore della strage grandiosa, e su tutto scatenarsi senza freni né soste la più grande, la più possente, la più formidabile delle passioni umane. Vincere così una battaglia tanto ardua significa avere la mente, il cuore e i polsi capaci di ogni più bella e più ardita vittoria. Salutiamo in Riccardo Zandonai, spirito eminentemente passionale che alla grande tragedia malatestiana ha dato uno splendore forse non ai raggiunto, che ha saputo essere musicista austeramente moderno e spirito audacemente innovatore ma sempre e sopratutto italiano, una nuova fulgidissima gloria della patria nostra. L’opera non ha preludio, ma già nelle prime battute, nel cicaleccio delle donne di Francesca e del giullare, nel dialogo che segue fra Ostasio e ser Toldo sull’intrigo infernale che deve trarre in inganno Francesca, la ricchezza strumentale e la freschezza melodica si rivelano immediatamente. S’ode venire dalle stanze alte il canto delle donne: «Oimè che adesso io provo che cosa è troppo amore». Francesca e Samaritana appaiono sulla loggia. Una tristezza dolce pervade la scena; la musica ha colori giusti, nuovi, indovinati: un’arpa, pochi archi e un’orchestrina lontana accompagnano il soave e semplice canto delle donne: sottile profumo, dolce poesia!... Ma Samaritana domanda alla sorella: «Francesca dove andrai? Chi mi ti toglie?». Allora la linea musicale s’infosca, ha strappi violenti che preparano la tragedia sulla quale domina come una strana inquietudine. Ed ecco l’arrivo di Paolo: lo annunciano le ancelle a Francesca mentre accorrono sulla loggia, sulla terrazza: «No, no! Correte donne, correte, ch’ei non venga!» Supplica e fa per salire la scala; ma ecco che vede apparire di là Paolo Malatesta. Rimane immobile fissandolo lungamente, mentre sulla terrazza i suonatori intonano i loro strumenti. La viola pomposa canta il tema di passione e d’amore che sarà ripreso da tutta l’orchestra quando Francesca va lentamente verso Paolo Malatesta per offrirgli la rosa vermiglia. E questo tema, che domina in tutta l’opera, è di una tale elevatezza d’inspirazione, di un crescendo di grandiosità, che il pubblico pervaso

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da commozione profonda, non ha atteso che si chiudesse il velario per prorompere in una ovazione veramente entusiasta al grande musicista. Nel secondo atto, al fuoco della passione si accoppia con linea dominante il furore bellico e già nell’episodio del fuoco greco che

arde nel mare arde nei fiumi brucia le navi brucia le torri

l’impeto musicale assurge ad altezza impressionante. Francesca non è più la dolce fanciulla che sogna e freme del suo sogno d’amore: la sua passione si disfrena nel duetto con Paolo e mentre l’ardore della battaglia – un quadro veramente meraviglioso – accende uomini e cose, anche l’amore parla cupi accenti di morte e la musica tra urla grandiose di furore e d’amore raggiunge altezze quasi ignorate. La tecnica di questo atto. audacissimo sempre, diventa eccezionalmente efficace nel tema d’ingresso di Gianciotto, lo sciancato, e di Malatestino. Tutto l’atto, seguito con crescente entusiasmo, provoca alla fine una ovazione magnifica. Le difficoltà superate in esso sono sbalorditive e Zandonai non è sfuggito a nessuna, sdegnando ogni banalità e mantenendo una sobrietà di colorito singolarissimo. La tragedia sosta ora nella dolcezza episodica dei dialoghi tra Francesca e le sue donne coi quali si apre, per la gioia degli occhi e dei cuori, il terzo atto nel quale la passione prorompe vittoriosa e sublime, nel quale il musicista ha lasciato libero volo al suo temperamento passionale e ha saputo scrivere pagine di melodia che da tempo, da molto tempo non eravamo chiamati ad udire. E veramente in quest’atti noi sentiamo come

è dolce cosa vivere obliando almeno un’ora fuor della tempesta che ci affatica.

L’oblio è dolcissimo: gli archi miniano la passione con una voce che raccoglie le anime nella commozione più profonda. E al canto delicatissimo di Paolo

Inghirlandata di violette m’appariste ieri,

e al finale formidabilmente appassionato, l’onda del plauso più convinto, più fremente chiama alla consacrazione di maggiore gloria il nostro giovane autore, L’ultimo atto è diviso in due quadri foschi di sangue, di strage, di tradimento e di perfidia. E il poeta che ha dato ala sublime al sublime amore, qui trova eguale altezza nel dare espressione formidabile allo scatenarsi dell’odio, della ferocia, della furia distruttrice. L’episodio di Malatestino e della feroce uccisione del prigioniero Montagna è musicalmente efficacissimo. L’ultima parte è una meravigliosa sintesi di tutta l’opera: la squisita scena del sogno di Francesca e di Biancofiore ricamata sopra una tessitura di tristezza e di pianto trascinano a viva commozione. Prorompono le voci della passione con l’ingresso di Paolo, e nell’episodio sanguinoso che tronca l’infinito amore, la musica fresca, sicura, efficacissima come nelle prime note, come in tutta l’opera, dà

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ad esso un significato nuovo e magnifico che stupisce, esalta, entusiasma follemente il pubblico. Non è possibile in queste brevi note dire degnamente di quest’opera: Riccardo Zandonai con essa si colloca in primissima linea tra i musicisti italiani e risolve la sicura promessa del Grillo del focolare, di Conchita e di Melenis. Che dire della esecuzione dello spettacolo tutto, e di Riccardo Zandonai come direttore d’orchestra? Fu una rivelazione trionfale perché Riccardo Zandonai possiede tutte le qualità del grande direttore e dovremmo scrivere ancora lungamente per esaminare questa seconda attitudine del sommo artista. La brevità dello spazio ce lo vieta. Diremo solo che l’esecuzione fu perfetta in ogni suo dettaglio, e che tutti, orchestra ed artisti, furono all’altezza del loro compito. Francesca da Rimini segnerà nella storia del nostro teatro il più grande avvenimento artistico.

*** Questi nostri apprezzamenti sull’opera d’arte comprendono già la cronaca della première di Francesca, ma non ci dispensano, per compiere fedelmente il dovere di cronisti, dal dire partitamente qualche parola sugli elementi che contribuirono al trionfale successo della rappresentazione. L’opera ha avuto una preparazione sollecita, accurata in ogni suo minimo particolare; il che è prova della perfetta padronanza che il Maestro Zandonai ha del teatro e dimostra la valentia dei suoi principali coadiutori: Il Maestro Nini Bellucci, il Cav. Clausetti, il Maestro Veneziani. Gli artisti sono apparsi al pubblico un tutto omogeneo per cui difficil cosa sarebbe procedere alla consueta distinzione e lode del merito vocali. Di Maria Wroblenska, di Giulio Crimi, di Giacomo Rimini, di Salvatore Papaccio, di Osvaldo Pellegrini, di Celestina Magnoni, per unire in un sol fascio i principali personaggi dell’opera, si può dire: voci belle, intonate, pronte a tutta la gamma, educate al bel canto, arricchite di sentimento e di talento. Giulio Crimi e Maria Wroblenska hanno avuto accenti di passione così vivi da far scattare il pubblico sorprendendolo ora in uno ora in altro dei momenti in cui esso si trova più intento per afferrare la melodia che il Maestro ha saputo con facilità di vena italiana ordire. La schiava, le ancelle, il giullare e il coro hanno pur fatto ottimamente superando le non poche difficoltà che per quelle e per questi presenta l’opera. L’orchestra è stata meravigliosa; il pubblico ha avuto l’impressione che quella massa poderosa fosse soggiogata completamente dal fascino di Riccardo Zandonai. L’intonazione di uno spettacolo di prim’ordine è stata mantenuta anche dall’allestimento scenico, ciò che torna a lode dei nostri Morigi e Sora. La sala presentava un aspetto imponente per numero di spettatori, per notabilità artistiche, per ricchezza di luce e di toilettes. Il trionfale successo è stato segnato da più di venti chiamate alla ribalta agli artisti e all’autore; e il pubblico in una di queste chiamate ha avuto il gentile pensiero di unire nel plauso e nella riconoscenza l’editore e il sapiente riduttore del lavoro dannunziano, Tito Ricordi. La Società «Amici della Musica» e la città nostra, che vollero, fermamente vollero questo spettacolo, bene meritano di partecipare alla gioia che fu e sarà sempre di Riccardo Zandonai.

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46 Francesca da Rimini - Il trionfale successo, «L’Idea», 1.8.1914

Dopo un lungo periodo preparatorio la nuovissima opera di Riccardo Zandonai è andata in iscena giovedì sera al nostro «Teatro Rossini» soddisfacendo completamente l’attesa vivissima di quanti nutrono fiducia nel grande ingegno del giovane e forte maestro trentino che in breve tempo si è saputo guadagnare nel mondo dell’arte un posto invidiatissimo, ed anche – perché non dirlo? – con sommo orgoglio di tutti i pesaresi che vedono nello Zandonai un loro concittadino e che con slancio unanime vollero preparargli questo meritato trionfo. E fu un vero trionfo quello di giovedì sera. Trionfo del maestro che vede la sua fama di operista nuovamente confermata; trionfo della lirica italiana che con Francesca da Rimini si arricchisce di una gemma fulgidissima. Non sta a noi – l’indole del giornale non lo permetterebbe nemmeno – far una vera critica dell’opera, già sviscerata da grandi ed illustri musicologi; esprimiamo solo brevi impressioni e registriamo il successo.

Il primo atto Si apre con un movimento spigliato, con vaghi accenni di viola interna. Compare il giullare che chiede ospitalità nel castello dei Polentani a Ravenna. Le ancelle di Francesca lo interrogano scherzosamente mentre passa nell’orchestra un fremito di gentilezza e di giocondità. Il giullare canta alle ancelle e a Francesca stornelli e romanze, e in compenso non chiede che un po’ di scarlatto per rattoppare la sua veste sdrucita. Il giullare vuol cantare di Re Artù e del filtro magico che la madre di Lotta [sic] ha dato a Tristano e Isotta, e la viola preludia. Ma entra Ostasio, fratello di Francesca, fortemente vociando e interrompendo il canto. Nel giullare il fratello Ostasio teme un cortigiano della corte dei Malatesta, venuto a conoscenza di ogni artificio ordito per dar marito a Francesca, scelto in Gianciotto, orribilmente sciancato e ributtante, senza che ella lo conosca. Lo afferra, lo picchia e lo scaccia. Un canto giunge dalle stanze. È un ritornello di una canzone suggestiva. La viola accompagna il canto. La pagina ha un riuscito sapore evocativo. La buona Samaritana nell’ora dell’abbandono è anch’essa sgomenta. Deve sopraggiungere lo sposo. Accorre Francesca per vederlo, mentre le ancelle accolgono l’arrivato che esse credono il fidanzato degno di lei, con esclamazioni di meraviglia. È Paolo, venuto per mandato del fratello. Essi si arrestano e il loro sguardo si incontra per la prima volta. Francesca presaga dice a Samaritana: «Fa cessare il tumulto dell’anima mia». Paolo nel cortile incontra Francesca e le si avvicina offrendole una rosa. [!] Il momento è musicalmente denso di poesia. È intorno una atmosfera morbida, soavissima. Un lieve tremolìo degli archi ondeggia nell’orchestra, mentre i suonatori della loggia scandono dolcemente. La viola pomposa si abbandona ad un canto soavissimo, accorato, al quale risponde l’oboe, quasi gemebondo. Il ritornello risuona ancora, lievemente evocativo, nella sua semplicità. È un atto pieno di dolcezza.

Atto secondo Alla serenità succede il fervore guerresco. Nella piazza d’una torre rotonda nelle cade sei Malatesta si combatte con la macchina infernale: il fuoco è lanciato e propagato dalla pece greca. Giunge il nemico e uni strepito d’armati risuona per l’aria sanguigna tra il lamento dei feriti e l’urlare dei combattenti, che si azzuffano in una mischia orrenda.

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L’atto è molto movimentato, pieno di contrasti e dissonanze tra un fragore di suoni. Due episodi concedono un po’ di tregua: la scena fra Paolo e Francesca, nella quale si ritorna in modo suggestivo alla trama dello sguardo; e l’arrivo di Malatestino ferito. Qui la figura sanguigna di Malatestino è resa con un contrasto abbastanza significativo.

L’atto terzo Quando il velario si alza al terzo atto Francesca è intenta a leggere. Le donne sedute sulle predelle in fondo trapungono gli orli di un sopraletto ascoltando Francesca. Dopo la sera perigliosa, essa non ha più veduto Paolo, che il Comune di Firenze volle capitano del popolo. È questa la parte veramente lirica dell’opera. Una sonorità fluida e leggera corona il quadro, mentre musiche tenui vengono dalle loggie. Nell’insieme, si ha l’impressione di un’atmosfera profumata e tutta cosparsa di poesia. Le ancelle cantano. La voce si distende sugli arpeggi dei violini, che avvolgono il canto in una armonia soffusa, quasi insensibile. Di molta sostanza melodica è giudicata l’aria dello stornello che caratterizza la prima parte di quest’atto. La situazione saliente è però nella seconda parte, nel dialogo tra Francesca e Paolo arrivato or ora. La situazione può soggiogare qualunque musicista. Zandonai più che l’onda travolgente della passione vuole seguire il lungo indugio di Francesca, parola per parola, e dai morbidi tocchi di colore dell’inizio, salire solo in fine alla vera esplosione che presto dilaga nell’eco lontana delle voci interne. È un duetto che conquide e che entusiasma. L’atto è giudicato il più suggestivo dell’opera.

L’ultimo atto La tragedia volge trucemente all’epilogo. La cupa figura di Gianciotto è sorpassata in brutalità da Malatestino. Anche egli ama Francesca e ucciderà Gianciotto purché ella lo voglia. Anche qui la sinfonia si distende pervasa da quello spunto ritmico che già aveva accompagnato Malatestino, e qui nel lungo silenzio passa come un senso di sgomento. La morte!...

Impressioni critiche La musica del M° Zandonai è, e si deve dire, eminentemente italiana; chi segue l’onda melodica che pervade a diversi tratti tutta l’opera con una varietà e ricchezza stragrande, deve riconoscere nello Zandonai il musicista geniale dalla vena inesauribile, che mai ricorre alle rievocazioni tematiche senza che lo richieda la situazione del dramma; il giovane maestro non ha bisogno di ricorrere a tali espedienti che, per quanto velati del nome straniero di leit-motif, spesso servono a coprire l’aridità del compositore. Lo Zandonai è sempre nuovo ed originale nella invenzione tematica; è sempre efficace nel significato descrittivo della frase musicale. È un dominatore dei suoni; egli sa trarne qualunque effetto, sia che voglia descrivere la gaiezza e la loquacità di giovani ancelle, sia che si voglia infondere un senso di mestizia col canto interno della viola o col tema della canzone di Francesca, sia che vi voglia trasportare in una mischia feroce ed incomposta che si batte da un torrione; grida feroci, lamenti di donne, squilli di buccine; e in mezzo a questo sfondo tetro e spaventoso, il Maestro sa trovare la sua bella frase, simpatica, dolce per l’incontro di Gianciotto con Francesca dopo la battaglia; il feroce combattente diventa agnello all’apparire della sua sposa e

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l’orchestra lascia il suo clamoroso e discordante fragore, il solo quintetto d’archi con qualche accenno dei legni descrive questo momento patetico. Si vede chiaramente l’alto pregio del M° Zandonai, il quale mai dimentica il quadro dell’azione, ma lo segue nei suoi più minuti dettagli, con una precisione ed un effetto descrittivo veramente ammirevoli. Tutte le risorse dell’istrumentale moderno sono a lui note; ed egli le impiega con una mano abilissima e sicura, da rendere la sua musica afferrabile anche ai meno colti per l’effetto suggestivo che produce nel suo complesso; il dotto può seguire tutti i singoli dettagli musicali e la coesione ritmica delle singole frasi; l’indotto invece subisce tutto l’influsso di quell’insieme organico di suoni, e segue quasi inconsciamente quella forza irresistibile che lo solleva in un mondo nuovo. E noi ora ammiriamo questa natura così privilegiata, che in sì poco tempo ha saputo acquistarsi il primo posto tra i moderni compositori italiani (così hanno giudicato i critici Londinesi); questa natura così ricca ed esuberante nelle doti intellettuali, che ora si manifesta anche abilissimo direttore d’orchestra, senza averne fatto il lungo e faticoso tirocinio.

La cronaca della serata Il successo fu grandioso: cinque chiamate al primo atto, sei al secondo, compresa una al M° Veneziani. Il terzo atto fu interrotto alla canzone «Perché volete voi» detta con molta espressione dal tenore Crimi e si chiuse con ovazioni entusiastiche. Il M° Zandonai è stato chiamato con gli artisti otto volte alla ribalta. Alla fine di quest’atto ebbe anche una sincera ovazione i Comm. Tito Ricordi riduttore del libretto, che assisteva da un palco di 2a fila. Anche il quarto atto raccolse il favore entusiastico del pubblico. Quattro chiamate. Il M° Zandonai salutato al suo apparire da una triplice ovazione è stato per tutta la serata l’idolo del pubblico. Fu insomma una rappresentazione indimenticabile non soltanto per il Maestro, ma anche per i pesaresi che hanno potuto festeggiare la manifestazione più potente della inesauribile vitalità del compositore concittadino. I pesaresi devono al pari di Zandonai andare orgogliosi di simile trionfo! L’esecuzione fu magistrale sotto ogni rapporto. L’orchestra suonò con slancio e precisione e fu perfetta. Il M° Zandonai seppe ottenere dai professori tutto ciò che volle. La soprano Maria Wrobleuska [Wroblenska] fu una «Francesca» ideale, piena di poesia e di passione. Ebbe accenti drammaticissimi e cantò con voce soave, calda, intonatissima. Dotata di doni preziosi e di tutte le risorse teatrali, ha valorosamente contribuito al successo dell’opera. Anche il tenore Giulio Crimi è un «Paolo» perfetto. Ha voce pastosa, fresca, intonatissima e sa con semplicità passare dalla note liriche agli accenti vibranti e drammatici. Ed è anche un bravo attore quale la difficile parte richiede. È stato applauditissimo nella romanza del terzo atto. Il baritono Giacomo Rimini ha una voce possente ed intona ed interpreta il cupo personaggio di «Gianciotto» con sincerità sottolineando ogni frase degna di risalto e rivelando ogni intenzione del musicista. Ha ottenuto uno schietto successo personale. Il tenore Salvatore Papaccio fa degna corona agli altri artisti principali e interpreta il quarto atto nella parte di «Malatestino» con

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vero intuito artistico e con chiara voce, completando così un raro complesso primario. Anche le parti secondarie sono ottime. Assai bene il quartetto delle ancelle di Francesca (Valpondi, Magnoni, Budassi, Timitz); ottimi anche il Baldassarri (il Giullare), Orlandi (Ser Toldo), Pellegrini (Ostasio), la Ferluga (Smaragdi). I cori sotto la direzione del M° Veneziani resero con sincerità la scena della guerra. Ammiratissime le splendide scene ed i costumi (del Caramba). In complesso uno spettacolo del quale possiamo andare orgogliosi, e che poche volte è dato avere anche nei sommi teatri. La sala naturalmente era magnifica; teatro delle grandi occasioni. Tutta Pesaro signorile erasi data convegno alla grandiosa festa d’arte: non v’era un posto vuoto. Erano presenti anche moltissimi forestieri e varie personalità fra le quali notammo il Comm. Tito Ricordi editore dell’opera, il Commendator Clausetti al quale spetta gran merito per il grandioso allestimento dell’opera, il Duca Visconti di Modrone della Scala di Milano, il Conte Broglio Grabinskic della celebre agenzia omonima teatrale, il M° Rodolfo Ferrari, la celebre soprano Gemma Bellincioni, il tenore Bassi, le soprano Maria Leacer, Giuseppina Baldassare e tanti altri di cui ci sfugge il nome. Un particolare: Alla fine del 2° atto il prof. Cicognani e il comm. Ferrari vanno ad ossequiare e complimentare il M° Zandonai. Questi, presentando il Cicognani al Ricordi presente, dice: «Ecco il mio maestro». -----------------------------------------------------------------------------------------