Benedetto Croce Storia d Italia Dal 1871 Al 1915

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Storia d’Italia dal1871 al 1915

di Benedetto Croce

Storia d’Italia Einaudi

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Edizione di riferimento:Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Roma-Bari1973

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Sommario

Avvertenza 1

I. Polemiche politiche in Italia dopo il 1870 erealtà storica

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II. L’assetto dello stato e l’avviamentodell’economia nazionale (1871-1887)

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III. La vita politica e morale (1871-1887) 64

IV. La politica estera (1871-1887) 108

V. Il pensiero e l’ideale (1871-1890) 129

VI. Ripresa e trasformazione di ideali(1890-1900)

147

VII. Il periodo crispino (1887-1896) 165

VIII. Conati di governo autoritario erestaurazione liberale (1896-1900)

197

XI. Il governo liberale e il rigoglio economico(1901-1910)

214

X. Rigoglio di cultura e irrequietezza spirituale(1901-1914)

237

XI. La politica interna e la guerra libica(1910-1914)

256

XII. La neutralità e l’entrata dell’Italia nellaguerra mondiale (1914-1915)

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Annotazioni 287

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AVVERTENZA

È questo lo schizzo di una storia dell’Italia dopo la con-seguita unità di stato: ossia, non una cronaca, come sene hanno già parecchie in materia, e non una narrazionein un senso o in un altro tendenziosa, ma appunto il ten-tativo di esporre gli avvenimenti nel loro nesso oggettivoe riportandoli alle loro fonti interiori. Il racconto com-prende un tratto di quarantacinque anni, di quelli che sichiamano «di pace», ma che mostrano il loro moto e illoro dramma a chi non ripone queste cose unicamentenegli urti fragorosi e nei grossi fatti appariscenti, e anzi,anche davanti a spettacoli di guerre e rivoluzioni, cercasempre il vero moto e il vero dramma negli intelletti e neicuori. La conoscenza di questo tratto di storia ha, senzadubbio, importanza particolare per noi italiani, ma glie-ne spetta un’altra più generale in quanto esso è parte eriflesso insieme della recente storia europea.

Sono consapevole che per taluni punti da me toccatimancano ancora i desiderabili lavori preparatorî; e tut-tavia non c’è altro modo di farli nascere se non di por-ne l’esigenza con lo studiarsi di disegnare il quadro com-plessivo.

Mi sono arrestato al 1915, all’entrata dell’Italia nellaguerra mondiale, perché il periodo che si apre con que-sta, per ciò stesso che è ancora aperto, non è di compe-tenza dello storico, ma del politico. Né io vorrò mai con-fondere o contaminare l’indagine storica con la polemi-ca politica, la quale si fa, e si deve certamente fare, ma inaltro luogo.Napoli, novembre 1927.

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In questa nona edizione non sono altre modificazioniche lievi ritocchi, come già nelle precedenti ristampe.Viene essa fuori quando ormai, da circa quattro anni,l’Italia, crollato il funesto regime che è stato una tristeparentesi nella sua storia, respira di nuovo – pure tra ledifficoltà del presente e i pericoli – nella libertà, dellaquale io, scrivendo questo libro nel 1927, procurai damia parte che non si perdesse il ricordo e il desiderio.Perciò questo libro fu allora caro a molti, ed è semprecaro a me, che non senza commozione ne ho ora riletto lepagine. Possa anche nell’avvenire restare testimonianzadei sentimenti e dei pensieri delle tre operose generazionidi cui volli narrare la storia.Marzo 1947.B. C.

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I. POLEMICHE POLITICHE IN ITALIA DOPO IL1870 E REALTÀ STORICA

Nel 1871, fermata la sede del regno in Roma, si ebbe inItalia il sentimento che un intero sistema di fini, a lungoperseguiti, si era a pieno attuato, e che un periodo sto-rico si chiudeva. L’Italia possedeva ormai indipendenza,unità e libertà, cioè le stava dinanzi aperta la via al libe-ro svolgimento così dei cittadini come della nazione, del-le persone individuali e della persona nazionale; ché ta-le era stato l’intimo senso del romantico moto delle na-zionalità nel secolo decimonono, strettamente congiuntocon l’acquisto delle libertà civili e politiche. Non si ave-va altro da chiedere per quella parte, almeno per allora;e si poteva tenersi soddisfatti.

Ma ogni chiudersi di periodo storico è la morte diqualche cosa, ancorché cercata e voluta e intrinseca al-l’opera chiaramente disegnata ed energicamente esegui-ta; e, come ogni morte, si cinge di rimpianto e di ma-linconia. Non più giovanili struggimenti di desiderio edivampanti ardori per un ideale nuovo ed alto e remo-to; non più sogni ondeggianti e sconfinati, così belli nel-la vaghezza del loro scintillio; non più acre e pur dol-ce tormento dell’amore contrastato; non più trepidar disperanze come nel quarantotto e nel cinquantanove; nonpiù gare generose e rinunzie ai proprî concetti partico-lari per raccogliersi in un fine comune, e accordi taciti oaperti di repubblicani e di monarchici, di cattolici e dirazionalisti, di ministri e di rivoluzionari, di re e di co-spiratori, e dominante e imperiosa in tutti religione del-la patria; non più scoppi di giubilo come nel sessanta daun capo all’altro d’Italia, e il respirare degli oppressi e ilritorno degli esuli e l’affratellarsi delle varie popolazioni,ormai tutte italiane. Il rimpianto, come suole, avvolge-

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va perfino i pericoli, i travagli, i dolori sostenuti, le bat-taglie a cui si era partecipato, le persecuzioni, l’affanno-so trafugarsi, i processi, le condanne, le carceri e gli erga-stoli. Molti sentivano che il meglio della loro vita era sta-to vissuto; tutti dicevano (e disse così anche il re, in unodei discorsi della Corona) che il periodo «eroico» dellanuova Italia era terminato e si entrava in quello ordina-rio, del lavoro economico, e che alla «poesia» succedevala «prosa». E sarebbe stato inopportuno e vano ribatte-re che la poesia ossia il profumo di idealità e gentilezzanon è nelle cose ma nel cuore dell’uomo, il quale la in-fonde nelle cose che esso tratta, e che la nuova prosa po-teva ben essere poesia, diversa dalla prima ma non me-no bella: ne dava esempio allora Nino Bixio, una sortadi Achille omerico, facendosi armatore e procurando diacquistare all’Italia l’industria dei trasporti commerciali,e morendo in questa ultima battaglia, egli che era rima-sto salvo nelle altre. Sarebbe stato vano e inopportunosorridere degli irrequieti e impazienti, che accusavano il«vuoto», che, secondo essi, si avvertiva nei dibattiti delparlamento italiano, e si domandavano se l’Italia si fossefatta perché non facesse nulla, e la vedevano già vecchiaprima di esser diventata giovane; e lamentavano l’incer-tezza nelle cose da imprendere a petto della chiarezza enettezza che si era avuta nel periodo precedente. E nonsarebbe giovato somministrar loro le ragionevoli rispo-ste, che era pur fortuna che non ci fosse più uopo di eroiribelli e guerreschi, dolorosi in una patria dolorosa; chenon era poi una grande disgrazia che il parlamento aves-se poco da fare; che la lineare semplicità dell’azione pre-cedente doveva condurre alla intricata complessità dellapresente, come sempre che si scende dal generale ai par-ticolari. Si era dinanzi a uno stato d’animo affatto natu-rale, e la cui mancanza sarebbe stata, essa, contro na- tu-ra. Ma non è né superfluo né inopportuno rammenta-re che quello stato d’animo, formatosi dopo la cueillai-

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son du rêve, non val nulla come criterio di giudizio, e cheperciò i paragoni per espresso o per sottinteso istituiti tral’Italia del risorgimento e quella che seguì alla compiutaunità, e i giudizi che reggono e concludono quei para-goni e descrivono il nuovo periodo del quale narriamo,che va dal 1871 al 1915, come meschino o inferiore o ad-dirittura di decadenza rispetto all’antecedente, sono daritenere privi di fondamento.

Un altro giudizio ha l’aria invece di muovere da un cri-terio, e anzi da un grave criterio storico; cioè che l’Italia,dopo il 1870, venne meno al proprio programma o al-la propria missione, alla giustificazione stessa del suo ri-sorgere e perciò alla grandezza di lei sperata; e fu me-diocre e non sublime. Quale fosse quella «missione», ri-maneva di solito indeterminato; ma taluni la determina-vano nel dovere di promuovere e compiere la redenzio-ne di tutti i popoli oppressi della terra, essa che era statagià tra gli oppressi; o nell’altro di affrancare il mondo dalgiogo spirituale della Chiesa cattolica; essa che ne ave-va ora infranto li potere temporale, e creare una nuovae umana religione; o nell’altro, infine, di fondare la «ter-za Roma», da emulare nella eminenza mondiale e supe-rare nella qualità dei pensieri e delle opere la Roma an-tica e quella cristiana: echi ed avanzi degli impeti e dellecredenze già intrecciatisi al mazzinianismo, al garibaldi-nismo, al giobertismo e agli altri moti del Risorgimento.Anche Teodoro Mommsen domandava concitatamentea Quintino Sella: «Ma che cosa intendete fare a Roma?Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza propo-siti cosmopolitici»; e il Sella gli rispondeva che il propo-sito cosmopolitico dell’Italia, a Roma, era «la Scienza».Il quale aneddoto del Mommsen mette sulle tracce del-l’origine di quel falso giudizio, da ritrovare nella storio-grafia romantica, che, artificiosamente generalizzando lestorie passate, assegnava ai varî popoli missioni specialie non concepiva popolo che ne fosse privo senza essere

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privo per ciò stesso della dignità di popolo. Onde non fad’uopo sottoporre a critica e rifiutare l’una o l’altra dellemissioni escogitate per l’Italia, neppure quella detta dalSella o altre da noi non ricordate; ma bisogna criticare erifiutare il concetto stesso delle «missioni speciali», dellequali i popoli dovrebbero caricarsi. In effetto, i popoli,non diversamente dalle persone singole, non hanno altramissione se non quella generale che è di vivere umana-mente, cioè idealisticamente, la vita, operando secondole materie e le occasioni che loro si offrono e riportandodi continuo lo sguardo dalla terra al cielo e dal cielo allaterra; e, così facendo, avviene loro di esercitare, nei varîtempi e circostanze, una o altra azione o «missione» piùo meno spiccata, e perfino in certe epoche assai spicca-ta e primeggiante le altre, ma non mai una missione an-ticipata e prefissa, determinabile secondo una fantasticalegge storica. Questa sarà tutt’al più un mito, che, comesempre i miti, ora indirizza ora svia, ora anima ora depri-me, ora arreca vantaggi ora danni; ma in nessun caso è ingrado di porgere criterio storico, e porge anch’essa unamisura arbitraria che nega o sfigura i fatti, e, insomma,non li lascia intendere bene.

Continuando nel togliere preliminarmente talune om-bre e falsi riflessi che turbano nel generale la visione diquesto periodo storico, ci s’incontra, proprio al suo ca-po, con quella caduta del partito di Destra dal governodel paese, che, sentita come ingratitudine, ingiustizia ecalamità dagli uomini di quella parte e dai loro molti af-fezionati, è stata poi ritenuta, nel giudizio ammesso e co-mune, una discesa di più gradi nel tono della vita poli-tica italiana, che non mai più risalì a quell’altezza. Am-mirata, recata a modello, invano sospirata e richiamatanei decenni seguenti, la Destra ha preso le sembianze diun’età aurea, di un buon principio dell’Italia parlamen-tare, caduto presto e per sempre a vil fine; e il 18 mar-zo del 1876, giorno del voto che l’abbatté e che parve se-

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gnare la data di una vera e propria rivoluzione, di una«rivoluzione parlamentare», è rimasto nelle memorie co-me giorno infausto, più ancora del 6 giugno 1861, chestrappò all’Italia, ancora bramosa e bisognosa di essa, laguida del genio di Camillo di Cavour; perché questa per-dita fu una crudeltà della natura e l’altra una prova del-la poca serietà morale del suo popolo. Anche qui il sen-timento che si è fatto e si rifà vivo non soffre obbiezioni,ché di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblicaun’eletta di uomini come quelli della vecchia Destra ita-liana, da considerare a buon diritto esemplari per la pu-rezza del loro amore di patria che era amore della virtù,per la serietà e dignità del loro abito di vita, per l’inte-rezza del loro disinteresse, per il vigore dell’animo e del-la mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sinda giovani e serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmo-ra, il Lanza, il Sella, il Minghetti, lo Spaventa e gli altri diloro minori ma da loro non discordi, componenti un’ari-stocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di pienalealtà. Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scrit-te, sono fonti perenni di educazione morale e civile, e ciammoniscono e ci confortano e ci fanno a volte arrossi-re; sicché deve dirsi che, se cadde dalle loro mani il fug-gevole potere del governo, hanno pur conservato il du-raturo potere di governarci interiormente, che è di ognivita bene spesa ed entrata nel pantheon delle grandezzenazionali.

Ma fu forse, quella catastrofe del 18 marzo ’76, oltrel’esclusione di alcuni uomini dal governo diretto ma noncerto dall’operosità politica, da loro non intermessa, ildisfacimento dell’opera loro e l’abbandono dei loro con-cetti politici? Fu, per contrario, a guardare i fatti, il ras-sodamento di quell’opera, il mantenimento e la prosecu-zione di quei concetti, adottati dai loro stessi avverersarî,successori nel governo. Avevano essi voluto un’Italia ches’inserisse sul tronco di un passato ancora robusto e ver-

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de, epperò erano stati propugnatori della monarchia deiSavoia; e i loro successori, e anche di essi gli antichi re-pubblicani e i recenti convertiti, lasciarono cadere le vec-chie idee di sovranità popolare e di costituente, e si di-chiararono e dimostrarono col fatto fedeli e devoti allamonarchia e, prima ancora di giungere al potere, si era-no staccati dal proprio passato, contrapponendo a una«Sinistra storica» una «Sinistra giovane», senza utopie evelleità rivoluzionarie. Avevano voluto laico lo stato, maprudente a non venire a rozzo e violento contrasto conle credenze cattoliche della maggioranza del popolo ita-liano, e perciò osservante delle libertà garantite alla chie-sa dallo statuto e da una legge speciale; e i loro succes-sori non toccarono niente di queste loro leggi, e supera-rono con prudenza e vigore la prova del primo conclave,che si svolse tranquillo e senza impacci in Roma non piùpapale, e, quanto a rappresaglie e procedimenti di guer-ra, sarebbe difficile dire che ne usassero di più gravi diquelli già usati al bisogno dalla Destra, quantunque la-sciassero maggiore sfogo alle manifestazioni anticlericali,rispondenti, del resto, al temperamento stesso del papaPio IX, che pareva compiacersi nell’eccitarle con le suesmanianti invettive. Avevano voluto forte l’autorità dellostato, non solo contro quel che resisteva rabbiosamenteprotestando del partito reazionario e clericale, ma con-tro le superstiti minoranze repubblicane e i recenti nu-clei degli internazionalisti e socialisti; e i loro successo-ri furono in ciò ben fermi, e talvolta più aspri o menoriguardosi che essi non erano stati, e se altre volte, perconvincimenti dottrinarî, tentarono altri metodi, non pe-rò cangiarono fine, e quei metodi stessi smisero, quan-do l’opinione pubblica e gli amici loro stessi giudicaronoche non avessero dato buon frutto. Avevano voluto unapolitica estera saggia e cauta, condotta dai gabinetti mer-cé la diplomazia, resistente all’interferenza delle forze ir-responsabili, che, per essere riuscite una volta felicemen-

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te ad accelerare l’opera dell’unità con l’impresa dei Mil-le, minacciavano di diventare quasi un’istituzione, paral-lela a quella dello stato; e i loro successori, che un tem-po erano stati garibaldini e del partito d’azione e fauto-ri di popolari spedizioni, furono tanto cauti e saggi da fi-nir con lo stringersi in alleanza con le potenze conserva-trici della media Europa. Avevano voluto il «pareggio»,la salda costituzione finanziaria dello stato italiano, che ireazionarî susurravano incapace di bastare alle spese del-la propria unità; e il capo del partito opposto, venuto inalto fra le acclamazioni e le speranze dei popoli troppotassati, inaugurò il suo governo col dichiarare che nonavrebbe rinunziato a una lira sola delle entrate, e, ren-dendo omaggio al bilancio formato dalla Destra, si mo-strò attento a non abbandonare il punto da questa fatico-samente raggiunto. Avevano voluto la ponderatezza del-le risoluzioni; e chi fu più ponderato, incline piuttosto alnon fare che al troppo fare, di quello stesso uomo, il De-pretis, che tenne il governo con poche interruzioni neldecennio seguente? Si passi a rassegna ogni parte dell’o-pera della Sinistra al potere, e si riscontrerà dappertut-to la medesimezza di concetti effettuali con l’opera dellaDestra, che, dunque, non fu né disfatta né abbandonatacon la rivoluzione parlamentare del marzo ’76.

Gli stessi uomini di Destra non disconvenivano di ciò,osservando che «il governo della Sinistra era lo stesso diquello della Destra», ma (soggiungevano) «peggiorato».E in questa accusa di peggioramento si annidava, in veri-tà, la differenza tra i due partiti, che non stava già nel-la conservazione e nel progresso, essendo noto che laDestra fu tanto e forse più arditamente riformatrice del-la Sinistra, e molto meno nella pratica del «cesarismo»,che essa avrebbe appresa dal terzo Napoleone, che le erastato amico, e in altrettali appassionate ingiurie e calun-nie, allora lanciate e ripetute; ma nel diverso abito di vitapubblica, nel diverso modo di trattare progresso e liber-

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tà, e, per dirla in breve, era la differenza tra «liberalismo»e «democrazia» (o «radicalismo», «demoliberalismo», ecome altro si denomini). Per quelli della Destra, la liber-tà importava la spontanea autorità del sapere, della retti-tudine, della capacità, riconosciuta da uomini che eranoin grado di scegliere con spirito di pubblico bene i lororappresentanti, e richiedeva il coraggio della verità, l’o-pera razionale della discussione e dell’accettata conclu-sione, la coerenza tra il pensiero e l’azione, sdegnandoessi come ciarlatanesimo l’oratoria dei demagoghi e co-me arte di corruttela la combinatoria degli interessi indi-viduali o regionali o di gruppi. Per queste ragioni si strin-gevano tra loro, respingendo quei personaggi politici chestimavano non irreprensibili moralmente, se anche abilie audaci e vantanti servigi effettivamente resi alla patrianelle cospirazioni e nelle guerre; per queste ragioni rifug-givano dall’allargare il corpo elettorale, che già, ristrettocom’era, pareva a loro troppo largo, considerata la qua-lità dei suoi componenti; e, per conseguenza delle stes-se ragioni, gli avversari li screditarono «consorti» e «au-toritari», e che volessero tenere il libero popolo italiano«sotto tutela», e contrapponevano al loro sistema quellodella «democrazia» o del «progressismo», come , lo chia-mavano. Erano i loro avversari, in genere, di origine in-tellettuale diversa dagli uomini di Destra, questi antichineoguelfi, giobertiani, romantici, idealisti, storicisti, essiilluministi e giacobini e mazziniani; di minore o inferiorecultura; di diversa tradizione nel costume pubblico, usicome uomini di cospirazioni e sommosse a non guarda-re pel sottile nella scelta degli alleati, e perciò pronti a ti-rarsi dietro anche i ritinti borbonici del Mezzogiorno egli scontenti del nuovo ordine, a non darsi troppo pen-siero di promettere quel che non si poteva mantenere, oa darsi l’aria di acconsentire per logorare via via quan-to di impossibile era nelle domande, a non schivare at-ti e contatti che mettessero a rischio il decoro del conte-

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gno: che è (senza bisogno di più oltre particolareggiare)quello appunto che è noto come metodo democratico.

Senonché il rapporto di liberalismo e di democrazia odemoliberalismo non è già rapporto di due realtà empi-riche, sibbene di un ideale e di una realtà empirica, diun concetto regolativo e di un’attuazione, dove la forzadell’ideale e del concetto regolativo sta nella sua presen-za, nell’efficacia che spiega nell’attuazione, con la qualenon mai coincide a pieno. Se al demoliberalismo venissea mancare quell’interno concetto regolativo, esso si con-vertirebbe in tirannide piazzaiola e faziosa, e in tiranni-de si converte più o meno, secondo la maggiore o mino-re misura di quel mancamento, che tocca talvolta il limi-te estremo, ma, di solito, si mantiene in confini tollera-bili e lascia che nei fatti si rispecchi, senza eccessive de-formazioni, l’ideale del governo liberale. Gli uomini del-la Destra, educati nella tradizione della monarchia di lu-glio, alla quale era stato legato anche il Cavour, par cheignorassero questo carattere regolativo e pensassero il li-beralismo come realtà empirica; e in ciò commettevanoerrore. Non era possibile non tenere alcun conto dei bi-sogni, delle passioni, e sia pure degli interessi particolarie delle ignoranze e delle illusioni del popolo italiano, cosìcome l’avevano conformato i secoli e usciva dalla recenterivoluzione, e immaginare e presupporre un paese diver-so dal «paese reale»; non era possibile avere in gran di-sdegno i compromessi e le clientele, quando ben si sape-va di non potersi appoggiare su classi conservatrici, sullanobiltà e il patriziato, che più non esistevano, e sul chie-ricato che li aborriva e che essi combattevano; non erapossibile far di meno dell’abilità e delle arti della combi-natoria elettorale, e, come uno di Destra, il Bonghi, di-ceva a difesa e lode del proprio partito, provvedere al-le «cose» (ai grandi interessi pubblici) e non alle «coset-te» (agli interessi spesso piccini degli individui, dei grup-pi e delle regioni), lasciando sfruttare questo campo da-

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gli avversari; non era possibile, soprattutto, non badarealle condizioni del mezzogiorno d’Italia, che erano com-parativamente peggiorate per effetto della nuova econo-mia e dei nuovi scambî, e in cui si agitavano pericolosa-mente troppi disoccupati; non era possibile, infine, datala libertà all’Italia, restringere l’esercizio elettorale, in unpopolo di ventotto milioni, a un mezzo milione di citta-dini, dimenticando quel che pur era scritto a chiare no-te nei libri nei quali essi avevano studiato, che non si ètrovato finora altro modo di educare i popoli alla liber-tà, cioè di educarli senz’altro, che quello di concedere lo-ro la libertà e di far che imparino con l’esperienza, e ma-gari col fiaccarsi la testa. C’era nelle loro pretese, alta-mente ispirate che fossero, un tratto involontariamentecomico, che fu ben còlto dal Martini col paragonarle allasemplicità di Arlecchino, il quale, distribuito ai suoi ra-gazzi un dono di trombette e tamburelli, li ammoniva didivertirsi, ma non far rumore.

Una sembianza di realtà, non certo senza perturba-zioni, ebbe l’ideale della Destra nel decennio del com-pimento dell’unità, quando l’istintiva assennatezza ren-deva accorti a non distrarre le volontà dal duplice finedell’acquisto di Venezia e di Roma; e nei primi anni do-po il settanta, quando incombeva pur sempre lo spet-tro del fallimento, e la stessa assennatezza, anche negliavversarî, faceva che si lasciasse alla Destra, pur contra-standola, il compito di tassare ferocemente per raggiun-gere il necessario pareggio. Ma, risoluto il problema diRoma, raggiunto il pareggio, quelle che erano state av-visaglie nelle elezioni del 1865 e del 1874 con l’avventoalla Camera dei cosiddetti «uomini nuovi» e l’esclusio-ne di molti vecchi patrioti, dovevano prendere forma piùintensa e conclusiva: la sollevazione degli interessi offe-si, specie nelle provincie meridionali, non poteva più fre-narsi; il «paese reale» sobbolliva contro l’«Italia legale»,e, alla prima scaramuccia parlamentare, la Destra cadde.

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Cadde cioè, non semplicemente come partito che lasci ilgoverno per ripigliarlo in altra vicenda, rinfrescate le sueforze merce l’opposizione; ma nella sua stessa idea, co-me quella pretesa di perfezione, che riteneva dell’astrat-tezza. Di che non ebbero allora, né per lungo tempo di-poi, consapevolezza gli uomini della Destra e quelli stessidella Sinistra, appunto perché né agli uni né agli altri erachiara l’indole del puro liberalismo, quantunque quelladefinizione di «rivoluzione parlamentare», allora foggia-ta dal sicuro intuito generale, dovesse indurli a meditaree a cercare più in fondo.

Anche quella caduta fu, dunque, non una decadenzadella vita politica italianii, ma un trapasso dallo straordi-nario all’ordinario. Né per ciò si perse l’idea liberale, chesopravvisse non solo in quegli uomini di Destra che an-cora parteciparono alla vita pubblica e talvolta operaro-no da freno e tal’altra aiutarono al trionfo di buone leg-gi; ma nei loro antichi oppositori, costretti, ora che ave-vano la responsabilità del governo, a tener fiso l’occhio aquell’ago polare; sicché di volta in volta essa fu fatta vale-re per ripigliare negli urti e scosse della lotta politica l’e-quilibrio che sempre si squilibra e sempre si riequilibra.Contro i malanni o, come fu allora chiamata, la «corrut-tela della vita pubblica, dovuta a un troppo largo uso deimetodi democratici, levò la voce, tra gli altri, il De Sanc-tis, nella sequela di frementi articoli che scrisse nel Dirit-to tra il ’77 e il ’78, e che parvero atto di accusa contro ilpartito stesso a cui era ascritto, e certo miravano a talunirappresentanti di questo e a taluni modi di sentire e di fa-re che si diffondevano e stavano per diventare costuman-ze. Tra i giovani, che erano andati in grandissimo nume-ro a sinistra, si venivano raccogliendo quelli del «centrosinistro», che poi era anche un «centro destro» ed espri-meva esigenze di Destra. Il Depretis era assai spesso diaccordo con gli avversarî, che in suo cuore assai stimava;e rammento che una volta, nel 1885, avendo lo Spaven-

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ta definito in una lettera a un giornale la vita politica del-l’Italia un «pantano» tra gridìo di proteste e contumeliedei zelanti del ministero, una sera gli udii raccontare cheil povero Depretis, a certe indiscrete domande e pressio-ni dei suoi, aveva esclamato: «Ha ragione Spaventa: stia-mo in un pantano, fino agli occhi!». Certo non pochi de-gli uomini di Destra e di coloro che avevano il medesi-mo loro temperamento e carattere non vollero in alcunmodo piegarsi alle necessità del diverso avviamento del-la vita pubblica: come mai avrebbe potuto piegarvisi unLanza, che aveva un tempo assai sofferto di quella cheegli giudicava «duplicità» nella politica del Cavour, e siera poi doluto di talune promesse che la Destra aveva fat-te nella lotta elettorale del 1874; o uno Spaventa, incrol-labile nei suoi convincimenti, inesorabile nelle sue con-danne morali, e di una rigidezza che talora sfiorava l’or-goglio? L’uno e l’altro erano di coloro che, per iscrupo-lo di onestà e timore di cedere agli affetti, accolgono lerichieste degli amici con maggiore diffidenza e maggio-re disposizione adir di no che non quelle degli avversa-rî e nemici. Ma si sa che la politica è quella che è, e chiprova ripugnanza a certi accomodamenti, a certe manie-re, a certe qualità di persone, ben si comporta col trar-sene da parte o farne solo quel tanto che può senza ri-pugnanza, sia per rispetto verso sé stesso, sia perché tut-to il rimanente non potrebbe, per mancanza di attitudi-ne, farlo se non contro voglia e goffamente. D’altronde,quella che si chiama la politica in senso stretto è solo unaparte, se anche la più appariscente, dell’attività politica,nella quale vanno compresi altresì l’autorità morale chesi acquista verso i concittadini, gli insegnamenti e gli am-monimenti che loro si forniscono e che non troverebbe-ro altrove, la buona scuola che con l’esempio si fonda esi tiene viva. E se una taccia deve darsi ai vecchi uomi-ni della Destra è di aver tentato dapprima, e vanamen-te, di conservare, dopo il ’76, il loro partito come parti-

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to di governo, nel quale sforzo non riuscì neppure coluiche elessero per loro capo e che passava per assai abile, ilSella; e, poiché la logica dei fatti ebbe pronunziato la suasentenza, di essersi lasciati andare ai sarcastici dispregi eal nero pessimismo, gettando attorno a sé, senza volerlo,lo sconforto negli animi, in luogo d’intendere ed eserci-tare il loro ufficio meramente regolativo, l’ufficio del saleche, se diventa insipido, non c’è modo di salarlo. Ma co-testa era una conseguenza del non inteso carattere idealedel puro liberalismo.

Se la caduta della Destra mosse allora grande amba-scia e ingenerò sfiducia in moltissimi e porse argomentoa giudizî di riprovazione sull’Italia, che ancor oggi con-fondono e nascondono i veri lineamenti di quei tempi,consimile e maggiore effetto produsse un altro processoche allora fece il suo corso: il dissolvimento dei grandipartiti politici, il cangiamento di colore o piuttosto i varîcolori che via via assunsero i loro rappresentanti, lo sfu-mare via di ogni particolare significato nei vecchi nomi;non sostituiti da altri che l’avessero più preciso. Qui ilpessimismo non era più dei soli uomini di Destra e deiloro fautori, ma di tutti; e il giudizio non concerneva lamaggiore o minore levatura morale e intellettuale degl’i-taliani, ma la stessa loro capacità a reggersi secondo leleggi della vita libera e parlamentare. La pubblicistica diquegli anni, tra il 1876 e il 1886, si aggirò principalme-hte su questo punto; i discorsi elettorali e i dibattiti deigiornali vi tornavano sopra con insistenza; un dotto del-la materia, venuto in Italia nel 1878, il De Laveleye, tro-vò che se ne discuteva in tutti i molti salotti che egli ebbeoccasione di frequentare tutti gli uomini politici coi qua-li conversò, e da tutti gli intelligenti. L’ascesa della Sini-stra al potere, – onde si dié lode al re per avere, chiaman-do gli oppositori di lunghi anni e in buona parte di ori-gine repubblicana, al posto dei governanti da lunghi an-ni schietti monarchici, attestato la sua fiducia nelle isti-

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tuzioni liberali e nella vicenda parlamentare, – invece direndere più salda la compagine di quel partito e del suoopposto, e più reciso il distacco, scompose quelle com-pagini e cancellò le linee distintive, che prima c’erano osembrava che ci fossero. Invero, per l’innanzi, un pro-blema aveva dominato sugli altri tutti, quello del compi-mento dell’unità, nel quale potevano dividersi all’incir-ca due partiti, il partito del fare rapido e arrischiato, el’altro del più lento e sicuro, il partito che chiedeva chel’Italia facesse da sé o che si lasciasse fare al suo popolocioè ai suoi garibaldini, e l’altro che stimava che l’Italiadovesse ben fare i conti con le potenze europee e adope-rare la diplomazia e stringere alleanze e alle armi ricor-rere solo nel momento buono; e la divisione era durataancora dopo il settanta, tra coloro che procuravano eco-nomie e tassavano, egli altri che volevano minori tasse emaggiori spese: il quale contrasto arieggiava in immagi-nazione quello dei due partiti classici della conservazio-ne e del progresso. Ma neppure tale parvenza reggevapiù quando bisognava dare un senso proprio, e non me-taforico e non fittizio, alla conservazione e al progresso,perché allora si mostrava chiaro che l’uno è l’altro parti-to, la Destra e la Sinistra, erano tutt’insieme conservato-ri e progressisti nel loro indirizzo generale, e che il diva-rio sorgeva solo su questioni concrete e particolari, nellequali ciascun componente di quei presunti partiti era inaccordo o in dissenso coi suoi, in dissenso o in accordocon gli avversarî; cosicché, nei particolari, ogni proble-ma aggruppava e divideva diversamente gli uomini poli-tici. L’allargamento del suffragio era chiesto dal Cairoli edal Crispi come suffragio universale, con l’accompagna-mento del Senato elettivo, della indennità ai deputati, e,residuo del passato, l’ombra della Costituente; ma, nel-lo stesso loro partito, di affatto diverso avviso era il De-pretis, che pensava a un moderato allargamento, e il Ni-cotera, che forse avrebbe fatto a meno anche di questo,

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mentre, tra quelli di Destra, il Sella gli era favorevole, e,del resto, quando alfine fu attuato non produsse nessunodei disastri profetati, e la qualità degli eletti non solo nonpeggiorò, ma in generale divenne migliore Sulla questio-ne della tassa del macinato il Sella era rigido nel ritenerlaindispensabile, ma il Minghetti inchinevole all’abolizio-ne, e, quando si voleva abolirla in ogni parte troppo ra-pidamente, fu un ministro di Sinistra, il Grimaldi, que-gli che si ribellò e si dimise, dichiarando che «l’aritmeti-ca non è un’opinione». Circa le relazioni tra stato e chie-sa, laddove il Lanza e il Minghetti si attenevano alla for-mula cavouriana della chiesa libera nello stato libero, loSpaventa era risolutamente per lo stato contro la chiesa,cioè per lo stato moderno contro lo stato antiquato o (sepiace dire diversamente) per la chiesa moderna control’antica; e il Sella, giurisdizionalista, vedeva nella chiesail «pericolo immenso» della società moderna, temendoche lo stato si spogliasse troppo spensieratamente dellearmi di difesa e offesa che ancora possedeva contro diessa, e approvava il disegno di legge del ministro di Sini-stra, il Mancini, sugli abusi del clero. Nella sempre ripro-posta e non mai affermata di proposito né risoluta que-stione del decentramento, quelli di Destra erano altret-tanto discordi e perplessi quanto quelli di Sinistra. Nellequestioni economiche, come in quella dell’esercizio delleferrovie, liberisti che le preferivano affidate all’industriaprivata, e monopolisti che le assegnavano ai compiti del-lo stato, si trovavano nell’uno e nell’altro campo. Nel-la politica interna, il Nicotera, che mantenne il domici-lio coatto e l’istituto dell’ammonizione e proibì comizi ecelebrazioni repubblicane o semirepubblicane, e sciolsesocietà operaie e mandò alle isole i promotori di scioperi,e poi il Crispi, davano dei punti ai più autoritarî ministridella Destra, laddove lo Zanardelli, geloso della libertàdi riunione e tenace nella massima del reprimere e nonprevenire, non avrebbe discordato dal Ricasoli e da altri

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puri liberali di Destra, i quali, per altra parte, non pote-vano non plaudire al rispetto scrupoloso che quest’uomodi Sinistra sempre dimostrò per l’indipendenza della ma-gistratura. La domanda di garanzie contro le prepoten-ze dei governi di partito nell’amministrazione, che ebbeprecipuo proponitore e sostenitore lo Spaventa, fu accol-ta e tradotta in un istituto, la quarta sezione del Consi-glio di Stato, da niun altro che dal Crispi, che di essa vol-le presidente e ordinatore proprio lo Spaventa. La leg-ge della perequazione fondiaria fu opera di un ministerodi Sinistra, con la valida collaborazione del Minghetti edi altri della Destra. L’obiezione costituzionale, sollevatadallo Spaventa contro il Crispi sulla illegittimità di crea-re o abolire ministeri per decreto, fu accolta da altro go-verno di Sinistra e finì col diventare più tardi legge dellostato. Così procedevano i fatti, per chi guardi ai fatti.

Eppure senza una netta distinzione di partiti, senza idue grandi partiti della conservazione e del progresso,lottanti tra loro e avvicendantisi nel governo, un sano re-gime parlamentare era, per comune convincimento o co-mune preconcetto, impossibile. Donde l’affanno a impe-dire che essi mescolassero le loro acque, i gridi di orro-re quando ciò accadeva, le esortazioni e le invocazioni afar rientrare ciascuno dei due in quello che si presumevadovesse essere il suo letto, o l’invito a scavarsi un proprioletto. Il «programma della Sinistra», l’«ideale della Sini-stra» erano richiamati a ogni istante, senza che avesseroforza di arrestare la reciproca compenetrazione delle dueschiere. Il Depretis, fin dal suo primo Ministero, fu assa-lito così dalla estrema Sinistra legalitaria del Cairoli comeda quella repubblicana del Bertani, per aver rotto fede al«programma della Sinistra», e peggio ancora nei suoi se-guenti ministeri, pei quali cercò appoggi nel centro e adestra. Si giunse a ridare, nell’uso corrente, significatoeulogico e positivo al nome di «Sinistra storica», che erastato foggiato propriamente per designare la Sinistra an-

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tiquata e morta. Il Crispi, discorrendo alla Camera il 7dicembre del ’78, diceva: «Non so ancora la ragione percui taluni uomini di Destra abbiano creduto di scompor-re il loro partito per disordinare il nostro... Io mi ap-pello al patriottismo di tutti perché, facendo tacere i ri-sentimenti, possiamo accingerci alla ricomposizione del-le due parti politiche del parlamento, affinché ciascuno,entro la cerchia del suoi amici, faccia il debito suo». Main quello stesso discorso, avendo egli rimproverato alloZanardelli, a proposito dei circoli di repubblicani e in-ternazionalisti, di non adoperare, per timore di scapita-re nella popolarità, i mezzi di polizia che erano a sua di-sposizione, ne ebbe per risposta: «Il suo è linguaggio diDestra: vada a sedere a destra!». Si spiava ogni occasio-ne che sembrasse propizia alla divisione bramata e si so-spirava quando la si vedeva fuggire senza che se ne fossetratto profitto a quel fine. Già nel 1866 il Minghetti cer-cava «una grande idea, un gran principio intorno ai qua-li si formi una maggioranza e una minoranza», e credevadi averla presente nella questione, che allora si dibatte-va, dei rapporti tra stato e chiesa. Per disperati, si carez-zò più volte, e da più parti, l’idea, o si effuse il van desìoche entrassero nella Camera italiana i cattolici, i quali sene tenevano fuori per ordine del Papa, a operare da rea-gente chimico per la divisione dei partiti: come se i cat-tolici, partecipando ai dibattiti e alle combinazioni parla-mentari, avessero potuto portare altro che qualche mag-giore complicazione e ritardo nelle questioni particolariche si trattavano, o produrre altro che qualche aggiuntatransazioncella: un’opposizione di principî allo stato li-berale essi non potevano farla se non fuori del parlamen-to, in quanto clericali, con professioni di fede, cospira-zioni e moti rivoluzionarî; né più né meno dei repubbli-cani e poi dei socialisti, che, entrati nel parlamento e giu-rata fedeltà alle istituzioni, erano afferrati nell’ingranag-

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gio delle combinazioni parlamentari, e via via cessavanonel fatto di essere repubblicani e socialisti.

Non ostante lo spasimo di questi sforzi e di queste ari-de escogitazioni, i due partiti non si cristallizzavano, e ri-manevano fluidi, e continuavano a mescolare, peggio diprima, le loro acque. Uomini di Destra entravano in ga-binetti di Sinistra, frazioni di Destra sostenevano siffat-ti gabinetti, frazioni della Sinistra si combattevano tra lo-ro: lo stesso Crispi, il 15 marzo dell’80, domandava con-to e ragione di come mai si fossero uniti il Depretis eil Cairoli, che pure rappresentavano «due gradazioni di-verse», e quale dei due avesse piegato all’altro. Il con-tegno reciproco degli uomini dell’una e dell’altra parte,che era stato ostilissimo nei primi tempi, durante le ven-dette e persecuzioni operate particolarmente dal Nicote-ra (talché prefetti di Destra presentarono nel 1876 le di-missioni e i giornalisti dei giornali opposti non scambia-vano il saluto, e gravi accuse di carattere personale fu-rono prodotte, come quella della Gazzetta d’Italia con-tro il Nicotera), si venne facendo più mite e cortese: nel1878, l’ Opinione e il Diritto discutevano amicamente delmodo di formare un nuovo partito con la fusione di ele-menti dei due antiquati. Rimaneva qualche vecchio ran-core negli uomini vecchi, si opponeva da parte di qual-cuno un assoluto rifiuto a conciliazioni con qualche al-tro; ma, insomma, l’atteggiamento vicendevole era mu-tato. Il Sella, che si era trovato a destra forse solo perchésu quella parte poteva contare per la sua severa politicafinanziaria di tasse e di economie, disegnava, nel 1881,di comporre un ministero di accordo fra elementi di De-stra e quelli di Sinistra più temperati; e che cos’altro vo-leva fare (si osservava) se non quello che fece trent’anniinnanzi il Cavour col «connubio», e che era stato per ac-cadere nel 1873, quando la morte del Rattazzi troncò letrattative per un ministero di larga base, e che in quellostesso anno aveva riproposto il Minghetti? E se il dise-

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gno del Sella era ancora prematuro e fu impedito, egli neriaffermava la necessità, nontando che Destra e Sinistrasi dividevano ormai non per diverso indirizzo di idee, maper effetto di tradizioni e di uomini; e fu, infatti, ripresoda altri. Sorgevano nuove parole, oggetti di scandalo, matuttavia sintomi del processo in corso: in luogo delle de-nominazioni secondo gli ideali della conservazione e delprogresso, i gruppi si designavano secondo i capi che sitenevano capaci di formare i ministeri, depretisini e cri-spini e nicoterini e zanardelliani e selliani, e simili; pocodi poi, seguì la parola che dava la coscienza della disso-luzione avvenuta, una parola che parve brutta o addirit-tura vergognosa, e con senso di pudore e di ribrezzo cor-reva per le labbra di tutti: «trasformismo». Con le ele-zioni dell’80 si era costituito il centro sinistro; con quelledell’82 si ebbe la nuova maggioranza del Depretis, quellaappunto del «trasformismo», che egli chiamava il «gran-de nuovo partito nazionale». Il Minghetti, l’ultimo pre-sidente del governi di Destra, nel suo discorso di Legna-go, vi aderiva, andando per troppa foga forse di là delnecessario; lo Spaventa l’avrebbe accettato se, invece diuna incondizionata dedizione come quella del suo ami-co, si fossero poste condizioni e il Depretis avesse fattopassi verso la Destra, smettendola di «vezzeggiare i radi-cali»: ma questo né il Depretis né altri poteva, e menoancora quegli poteva riconoscere la Destra come alcun-ché di esistente quando, nel suo intimo pensiero, non ri-conosceva come tale neppure la Sinistra. Nell’altro cam-po, irremissibili come lo Spaventa, riprovanti come luie il Depretis e il Minghetti, parvero il Crispi, il Nicote-ra, lo Zanardelli, il Cairoli, il Baccarini, che costituironola «pentarchia»; ma questa non operò nulla di pratico epresto si sgretolò, e, comunque sonassero le sue parole,il Crispi doveva fare poco dopo anche lui politica di tra-sformismo, e quando nel 1891, caduto dal potere, cer-cò di ripigliare nella Camera l’antica canzone, il trasfor-

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mato a sua volta Nicotera gli rispose che venire a parlaredi Destra e di Sinistra non era più cosa seria, e che me-no di tutti aveva diritto di parlarne lui, Crispi. Il Bonghi,non solo ex-ministro e deputato, ma autorevole pubbli-cista e vivacissimo polemista della Destra, si domandava:«Come faremo noi a fare un’opposizione seria a un mini-stero, che cammina sulla nostra medesima via, nel modostesso o meglio che avremmo potuto far noi?».

Dopo il 1885, il trasformismo si era così bene effettua-to che non se ne parlò più, e il nome stesso uscì dall’u-so. Ma sempre quel nome, quando fu ricordato, parverichiamare qualcosa di equivoco, un fatto poco bello e lacoscienza di una debolezza italiana; e l’eco di quel senti-mento perdura nei libri degli storici, degli storici che so-no di solito professori o altra candida gente, tutta smar-rita al susseguirsi dei mutamenti ministeriali, al continuofallire della loro sospirosa speranza di un «governo sta-bile», e, insomma, al cangiamento delle cose, perché, se-condo il segreto desiderio del cuor loro, le cose dovreb-bero restar ferme; e non riflettono che in questo caso nonavrebbero più storie da scrivere, neppure come quelleche di solito scrivono. Senonché, ciò che per questa par-te accadde in Italia, accadeva allora in tutta Europa enella stessa Inghilterra: i libri dei professori di altri pae-si sono pieni degli stessi lamenti che in Italia si faceva-no al ricordo del parlamento subalpino, notandosi l’infe-riorità nel decorso e nell’oratoria dei parlamenti dell’80a confronto di quelli di cinquant’anni prima in Francia ein Inghilterra, o dell’assemblea di Francoforte del 1848,quando personaggi insigni dibattevano in nobili duelli ipiù alti problemi. Chi metteva il capo fuori dell’usciodi casa propria, ne riportava la notizia dello scadimentodell’istituto parlamentare non solo in Italia, ma in tuttal’Europa. Il vero è (come gli esperti sanno) che, allora,né in Italia né fuori scadde la vita libera e parlamentare,ma si dissipò, invece, semplicemente un’arbitraria dot-

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trina politica, che, sebbene si fosse radicata in supersti-zione, non si poteva sostenere né innanzi alla logica del-le idee, né, di conseguenza, innanzi a quella dei fatti; ese il dissiparsi di quella teoria produsse smarrimento piùgrande in Italia che altrove, la ragione era in ciò, che ladelusione da noi seguiva troppo dappresso l’inizio del-la vicenda parlamentare. Certo, il ritmo della vita e del-la storia si svolge con quei due momenti, della conserva-zione e del progresso, e con la loro sintesi; ma, appuntoperché quei momenti sono in ogni singolo atto e moto,non è lecito mitizzarli in due anime diverse e materializ-zarli in due programmi in ogni punto diversi e contrap-posti. La dottrina politica, nel porre i due partiti «rego-lari», commetteva lo stesso errore della teoria dell’arte,quando poneva i generi letterari e artistici con le rispet-tive regole, e poi si confondeva nel trovarsi davanti ope-re regolari che non erano opere di poesia e opere di poe-sia che non erano regolari, e nel vedere la gente corre-re non dove trovava regolarità, ma dove trovava poesia,cioè vita.

Il medesimo accadde nell’esperienza della vita politi-ca, nella quale nessuna forza poteva impedire agli uomi-ni di accordarsi o discordare non su astratti e vuoti pro-grammi, ma su questioni e provvedimenti concreti, e se-guire i capi che via via davano speranza di attuare quel-lo che ad essi pareva buono e plausibile: che era la realtàdella lotta politica. Perché gli italiani avrebbero dovutosbigottirsi delle frequenti mutazioni ministeriali, le qua-li ai sopradetti storici suggeriscono l’immagine dell’infer-mo che non trova posa sulle piume, ma che erano invececontinui adattamenti e riadattamenti soliti in ogni ope-ra, e segnatamente in una così complicata come è il go-verno di un gran paese, e non turbavano, o assai lieve-mente, il normale andamento della loro varia operosità?Perché avrebbero dovuto tendere tutti i loro muscoli pertenere in alto i cartelli di Destra e Sinistra, trascurando

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le importanti cose che quelli non rappresentavano o rap-presentavano in modo assai vago e fiacco? Perché nonavrebbero dovuto contentarsi di quei governi, che, purnella loro instabilità, davano loro all’incirca quelle liber-tà, quell’ordine e quell’amministrazione che rispondeva-no al bisogno ed erano praticamente possibili? Perchénon dovevano lasciar fare al Depretis, buon monarchi-co, uomo d’ordine, con certo cuore popolare, che ave-va promesso quello che pochi chiedevano, l’allargamen-to del suffragio, e l’aveva attuato, aveva promesso l’aboli-zione dell’imposta del macinato, poco caritatevole o sen-tita come tale, e in varie tappe l’aveva abolita, aveva pro-messo l’abolizione del corso forzoso e più o meno felice-mente lo faceva cessare; e che, avvertendo col suo buonsenso non esservi in Italia materia di pericolosi contra-sti sociali e politici, annunziava nel 1882 di metter pau-sa alle riforme più propriamente politiche per attende-re all’amministrazione? Nondimeno, anche la lunga per-manenza del Depretis al governo, i suoi otto ministeri,dal 1876 al 1887, quella che fu chiamata la sua «dittatu-ra», formava per gl’itaiani argomento contro sé medesi-mi e sembrava indizio della loro pochezza politica: quasiche in quegli undici anni altri uomini non si fossero pro-vati alla direzione dello stato, come il generoso e cavalle-resco Cairoli, e non si fossero dimostrati inferiori al De-pretis nell’accortezza, e altri, come lo schietto e capacis-simo Sella, non avessero dovuto deporre il mandato rice-vuto dal re, non riuscendo a superare le difficoltà parla-mentari e le persistenti passioni settarie e personali. Gio-sue Carducci, in quei tempi, recandosi come soleva a Ro-ma, e dallo spettacolo della vita politica di colà e dalle di-spute che udiva intorno a sé cercando rifugio nella con-templazione dei monumenti dell’Urbe, scoteva via tuttaquella piccina umanità:

Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Strabella

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mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?E se il lungi-operoso tessitor di Biella s’impiglia,ragno attirante in vano, dentro le reti sue?

Ma erano impressioni da poeta, il quale poi, come poe-ta, e vi avesse rivolto il pensiero e l’affetto, forse si sa-rebbe preso di umana ammirazione per quel «vinattierdi Stradella», per quel vecchio settantenne, che, in te-nore di vita modestissimo e quasi povero, tutto il vigo-re del corpo e dell’ingegno, per oltre quarant’anni, con-sumò nella passione del pubblico governo, e per quel«tessitore di Biella», mente chiara, animo sereno e lieto,scevro di livori, sempre temperato, sempre giusto, cheaveva salvato l’Italia dal gettarsi nel baratro della guerrafranco-prussiana, l’aveva risanata finanziariamente pren-dendo sopra di sé l’odio dei sacrifici imposti, l’aveva vo-luta allenata all’operosità industriale e fisicamente più ro-busta e alacre educandola all’amore delle montagne, ave-va procurato la trasformazione della capitale in grandecittà moderna, e in Roma aveva fondato una grande sededella scienza, e, poco stante, moriva ancor giovane, fiac-cato dalle fatiche. Cose queste che avevano il loro pro-prio valore, anche accanto alle vetuste pietre dell’arco diTito.

Infine, e per terminare questa rassegna d’idola conuno che attiene a una generica considerazione metodo-logica, giova mettere in guardia a non convertire in giu-dizî storici i giudizî che s’incontrano nella pubblicisticapolitica, la quale dava allora, come suole, descrizioni del-le «condizioni d’Italia», che erano in apparenza quadri direaltà storica, ma in sostanza quadri di desiderî dei loroautori: lo stesso fissamento della dinamica storia in stati-ci «quadri di condizioni» dimostra che si tratta della vi-sione non d’una realtà per sé stessa, ma di una realtà inrapporto a un desiderio, negata più o meno nel deside-rio. Le polemiche e le proposte della pubblicistica politi-

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ca, non che essere storia, sono poco più che materia bru-ta per lo storico, il quale scevererà tra esse quelle che fu-rono germi che si schiusero in fatti, e le moltissime altre,germi invalidi e caduti su terreno disadatto, destinati adisseccarsi e perire: ché il desiderio umano procede nondiversamente dalla sempre desiderante natura, la qualeprofonde miriadi di germi per dar vita a poche creature.Così in Italia, allora, assai si trattò delle autonomie am-ministrative e dell’autogoverno all’inglese o all’america-na, e parve che in ciò fosse una grande nostra manche-volezza e insieme l’aspettazione di un sommo beneficio.Ma lo storico deve dire che, se di tali istituzioni ci fossestato il bisogno, l’Italia se le sarebbe create, e le voci deirichiedenti e proponenti non sarebbero rimaste, come ri-masero, lodate e inascoltate, perché sarebbero venute inaiuto di un processo già in corso; e che, d’altra parte,l’ammirazione suscitata da quelle istituzioni di altri pae-si (non perpetue, del resto, ma anch’esse transeunti) nondeve nascondere agli occhi tutto l’autogoverno che ci èsempre nelle intraprese economiche e sociali e nelle ope-re della cultura e della scienza e dell’arte e simili, e cheallora, in Italia, con la vita libera, crebbe e non diminuì.Il nuovo avviamento sociale e la divisione del lavoro ren-devano sempre più difficile, qui come altrove, quella sor-ta di delegazione ai cittadini di talune parti della pubbli-ca amministrazione, che si era mantenuta e aveva pro-sperato in altre e più semplici e meno mobili condizioni.Coloro che la pensavano altrimenti facevano benissimo adire il loro avviso, ma non si può imputare a colpa del-l’Italia che i loro disegni non fossero tradotti in atto. Pa-rimente c’erano di coloro che, passando ad ammirare ilnuovo popolo assurto allora all’ammirazione mondiale,il tedesco, avrebbero desiderato che l’Italia prendesse unabito più disciplinato, più militare e bellicoso, e maga-ri si ritemprasse in un «bagno di sangue», e smettesse lesue sciolte consuetudini e i suoi affetti umanitarî e le sue

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ripugnanze per le durezze dei castighi e per la pena dimorte; e anch’essi esercitavano un loro diritto e compie-vano un loro dovere così manifestando i loro non bassiideali e desiderî, e potevano anche produrre qualche be-ne col correggere certi eccessi delle disposizioni italiane;ma sarebbe poi strano che si volesse far colpa al popoloitaliano di non essere stato il popolo tedesco.

Fuori di tutti codesti idola si muove la semplice storiadi quel che l’Italia fu e fece e sentì e immaginò, dal 1871al 1915, e che ora prendiamo ad esporre con ordine, ri-collocando ai loro posti per accenni, o meglio determi-nando, quei tratti di essa, che abbiamo stimato conve-niente in qualche modo anticipare.

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II. L’ASSETTO DELLO STATO E L’AVVIAMENTODELL’ECONOMIA NAZIONALE. (1871-1887)

L’opera nazionale e politica, giunta a termine nel 1870, èstata più volte, e dagli stranieri più che dagli italiani, giu-dicata mirabile; quale (si disse) soltanto la genialità italia-na, ardita e sennata, idealistica e insieme realistica, pote-va delineare ed eseguire, imprimendole, come alle gran-di opere della sua arte, il suggello della innata classici-tà. Queste espressioni e modi immaginosi, nati da me-raviglia e ammirazione, e perciò lirici e poetici, discon-vengono, non meno di quelli satirici, al calmo pensieroindagante e intendente, che non conosce se non proces-si logici o «naturali». E nondimeno, anche alla più fred-da critica, quel «risorgimento» d’Italia, quel suo impetonazionale, quel suo rapido raccogliersi e fondersi in uni-tà statale, si dimostra una delle più felici, delle più chiareattuazioni di quanto lo spirito europeo, da oltre un mez-zo secolo, si era proposto a fine dell’opera sua e amavacome la bella creatura del suo sogno. Preparato nel mo-to delle riforme del secolo precedente, aveva acquistatocoscienza di sé nelle esperienze della Rivoluzione france-se e dei rivolgimenti che le tennero dietro in Italia; da il-luministico e cosmopolitico era diventato nazionale, sen-za perdere nobiltà di umano e universale sentire; avevaprovato i mezzi delle sétte e delle congiure, e, ritrovatilinon abbastanza efficaci e moralmente non giovevoli, ave-va messo al loro luogo l’aperta cospirazione della culturae la preparazione delle menti e degli animi; aveva persi-stito per alcun tempo a vagheggiare la repubblica unita-ria di tradizione giacobina, ma si era discostato da quel-la idea per risvegliato senso storico, che lo portava a ten-tare la federazione dei molteplici e tradizionali stati ita-liani, tra i quali era quello del Pontefice; aveva, in ulti-

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mo, abbandonato anche l’idea federale per effetto delleesperienze del quarantotto e pel maturato senno politi-co, stringendosi attorno alla monarchia dei Savoia. Re-ligione, letteratura, vigore di pensiero e di studi severi,apostolato di redenzione nella libertà, semplice e gene-roso cuore popolaresco, chiaroveggenza di uomini poli-tici dal sagacissimo intelletto, sangue e sofferenze di mar-tiri e sacrifizî d’ogni sorta, cautela di diplomatici, caval-leresco intervento guerriero di una vecchia stirpe regiacon l’esercito a lei devoto, idealità monarchica e ideali-tà repubblicana, queste varie e diverse forze e virtù ave-vano concorso con discorde concordia all’opera; e l’Eu-ropa guardava con commosso compiacimento l’Italia co-gliere il frutto dei suoi lunghi e nobili sforzi, congiungereal suo passato di gloria un vivo presente. Con quali pa-role questa nuova e antica sorella fu salutata nelle assem-blee dei paesi liberi di Europa! Con quale dolore, an-che negli stati e popoli nemici, fu compianta la sparizio-ne della luce di Camillo di Cavour nel punto stesso chesi avvivava di più fermo splendore! Con quale entusia-smo venne festeggiato Garibaldi in Inghilterra nel 1864!Esercitò anche, allora, l’Italia ufficio di maestra in poli-tica, e l’Unione nazionale italiana fu esempio e modelloa quella che con intenti analoghi fu fondata in Germanianel 1859, e il Cavour poteva rispondere, nell’ottobre del’60, all’inviato di Prussia circa le proteste di quel gover-no contro le annessioni italiane, che un giorno la Prussiasarebbe stata grata al Piemonte della via mostratale pereffettuare l’unità germanica (lezione poco dopo messa inpratica); e Mazzini e Garibaldi infiammarono le anime einsegnarono i metodi della lotta alle nazioni oppresse, eancora ai nostri giorni quei nomi risuonano nella lontanaIndia e quegli uomini hanno colà i loro discepoli.

A oscurare questo carattere e valore dell’opera com-piuta si formò e diffuse un giudizio (e non, come quel-lo ammirativo, da parte degli stranieri, ma da parte de-

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gli italiani stessi) che essa si dovesse piuttosto a fortunache a virtù di uomini e di popolo e, come si diceva, al-la buona «stella d’Italia»: al «mirabile» degli spiriti poe-tici veniva sostituito il «miracolo» degli spiriti supersti-ziosi. Quasiché ogni cosa che accada al mondo non pos-sa ascriversi, con pari diritto, alla fortuna, e non pure ilrisorgimento italiano, ma la civiltà ellenica, l’impero diRoma, la grandezza britannica, qualsiasi più grandioso opiù modesto avvenimento: sebbene, in realtà, niente leappartenga davvero e tutto sia degli uomini e della Prov-videnza che li ispira e li conduce e li fa. Chi fantastica suipossibili – se l’Austria nel ’59 non fosse caduta nel giuo-co del Cavour, dichiarando per prima la guerra; se il redelle Due Sicilie avesse in quell’anno, o nei primi del se-guente, accettato di allearsi col regno sabaudo; se la cro-ciera borbonica avesse incontrato e catturato nel ’60 lenavi che portavano i Mille; se l’Austria e lo stesso Napo-leone III, che l’unificazione d’Italia contrariava nei suoidisegni, si fossero interposti in quell’anno, come ce n’eraminaccia; se nel ’70 l’Italia si fosse trovata non in disar-mo ma in pieno assetto militare e si fosse gettata nel ba-ratro della guerra, – vede sempre tutto a un pelo dall’an-dare in rovina e salvato solo per fortuna o «miracolo»;ma, appunto, a questo modo non si fa se non fantastica-re. La «virtù» degli uomini sta nel saper cogliere le occa-sioni, e quella dei popoli nel secondare e non opporsi al-l’azione delle minoranze elette. E, quanto alla «stella d’I-talia», varrebbe la pena di rintracciare chi primo foggiòquesta immagine; ma certo la si ritrova sulla bocca di reVittorio Emanuele, che dichiarava, nell’aprile del ’63, di«aver fiducia nella stella d’Italia» e sempre nei suoi det-ti di quegli anni espresse questa sua fiducia e sicurezza.Era forse in lui, nella forma, una reminiscenza dell’astredel vecchio motto sabaudo, ma, nella sostanza, la virileespressione di chi si sente in tacito accordo con la logi-ca delle cose, con la necessità dei tempi, col proprio do-

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vere: nel qual senso quella «stella» splendeva allora nelleanime di tutti gli italiani e veramente li guidava.

Nei due anni, tra il 1859 e il ’61, le varie parti del nuo-vo stato furono saldate fra loro con una vera rivoluzio-ne, che non solo sovvertiva totalmente i trattati del 1815,ma sforzava la volontà dell’Inghilterra e più ancora dellaFrancia, che avrebbero voluto la federazione e non l’uni-tà, o almeno due regni, dell’alta Italia e della meridionale;eppure tutto ciò fu condotto con tanta avvedutezza cheparve come se si facesse così risolutamente e in fretta perla sollecitudine di impedire il dilagare dello spirito rivo-luzionario e contribuire all’ordine in Europa. Era la lineasegnata dal Cavour, alla quale i suoi successori si atten-nero; sicché Napoleone III nel ’60 consentiva all’occu-pazione delle Marche e dell’Umbria per timore che l’im-presa di Garibaldi sboccasse in un movimento repubbli-cano; il Palmerston, nel ’61, esprimeva pubblicamente lasua soddisfazione, augurando al popolo italiano di gode-re i beneficî che il popolo inglese aveva tratti dalla mo-narchia costituzionale; il cancelliere russo Gortschakoffnel 1862, nel riconoscere il nuovo regno, lo dichiaravaelemento conservatore delle monarchie contro le rivolu-zioni. E mentre a questo modo si venivano tranquillandoe conciliando le potenze e le loro cancellerie, allo spintodemocratico si dava sfogo e soddisfazione merce le noncontrastate insurrezioni e le agevolate accolte di volonta-ri e le solennità giuridiche dei plebisciti. A disfare quel-la unità, nessuno aveva più la forza efficace né l’interes-se effettivo: l’Austria si era rassegnata, dopo il ’66, al di-stacco delle provincie italiane, che ormai i suoi uominipiù saggi giudicavano irreparabile e da non tentar di ri-parare, e scambiavano concetti d’intesa con la potenzaformatasi sulle sue spoglie, ed entrambe avrebbero pro-babilmente combattuto da alleate nel ’70, se la Russianon avesse guardato, in quell’anno, le spalle alla Prussia;l’imperatore Napoleone III, premuto da ragioni di po-

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litica interna, si restringeva a mantenere discosto l’Italiada Roma, cercando di differire quello che egli stesso sen-tiva, un po’ prima un po’ dopo, fatale; la Prussia traevail suo vantaggio da questo dissidio, e, come aveva contri-buito a spingere il Garibaldi a Mentana, così non si op-poneva all’acquisto di Roma. La quale situazione diplo-matica rese possibile l’entrata nella città, nove anni pri-ma proclamata capitale del Regno, e l’abbattimento del-la sovranità temporale del Papa, che restava come un cu-neo nel mezzo: cosa che era tenuta assai ardua e tuttaviapassò quasi senza obiezione o senza gravi obiezioni. –Ma nell’undicennio dal ’59 al ’70, oltre a costituire que-sto corpo statale affatto nuovo perche l’Italia non era sta-ta mai nella storia (neppure al tempo dei Romani, nep-pure a quello degli Ostrogoti!) integralmente una e in-dipendente, si provvide al suo organamento interno, conl’estensione dello statuto piemontese a tutto il regno; conl’ordinamento amministrativo, ossia con la legge comu-nale e provinciale del 1859 del Rattazzi; con la fusionedegli eserciti dei varî stati e di quello garibaldino, che ilFanti effettuò superando le difficoltà che erano nella di-versa provenienza, e nelle gare e gelosie che ne nasceva-no; con l’unificazione dei debiti pubblici e con quella tri-butaria, che ebbe luogo tra il ’62 e il ’65; con l’unificazio-ne legislativa e i codici del ’65, con la legge sull’asse ec-clesiastico del ’67, con quella di pubblica istruzione del’59, anch’essa estesa a tutto il regno, con le altre minoridi beneficenza, di assistenza sanitaria e simili; e, strumen-to di esecuzione, con la formazione di una classe di im-piegati fedele e adatta al nuovo ordine. Il lavoro era statoenorme, segnatamente durante la presidenza del Lamar-mora (1864-65), quando il Lanza tenne il ministero degliinterni. Nello stesso tempo, si sostenne, oltre le guerre,la lunga e dolorosa guerriglia del brigantaggio, inacerbi-tosi nell’Italia meridionale, come di solito nelle rivoluzio-ni e nei passaggi di governo, e che fu domato finalmen-

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te e per sempre: cosicché la parola «brigantaggio» potéa poco a poco dissociarsi dal nome del paese d’Italia, alquale era stata congiunta forse più che ad altra parte diEuropa, almeno nei tempi moderni.

Delle grosse questioni internazionali una sola restavaal principio del 1871: quella dei rapporti del regno d’I-talia col pontificato romano, nella quale quasi tutte le al-tre potenze avevano interesse maggiore o minore e perònon si poteva negar loro il diritto di metter bocca, sia chesi lasciasse al Papa poca libertà sia che gliene si lascias-se molta, perché la molta poteva esser troppa e la pocatroppo poca nelle relazioni delle varie potenze con que-sta singolare potenza internazionale, che era poi nient’al-tro che il sopravvivente antico Impero romano, conver-tito in ispirituale e teocratico. Di questa realtà di fatto ilgoverno italiano aveva coscienza, e si disponeva in con-seguenza a regolare quei rapporti con atto internaziona-le, e ne anticipò in qualche modo il pensiero. Ma poichéle varie potenze, affaccendate in altro o schive delle diffi-coltà in cui si sarebbero intricate, non si mostrarono sol-lecite a raccogliere la spontanea offerta, il governo italia-no la lasciò cadere nel silenzio generale, e regolò, com’e-ra assai più logico al concetto dello stato moderno e al-la dignità dell’Italia, quella materia con un atto interno,con la legge delle «guarentigie» (13 maggio 1871), cioècon la prima parte di questa. Nella quale si dichiaravasacra e inviolabile la persona del Pontefice, concedendo-gli onori e prerogative regie, gli si assicurava la piena li-bertà nel suo ministero religioso e nelle comunicazionicoi cattolici di tutto il mondo, e perciò speciali uffici po-stali e telegrafici, si riconoscevano ai rappresentanti deigoverni esteri presso la Santa Sede le immunità e prero-gative diplomatiche, si stabiliva pel Pontefice una rendi-ta annua sul bilancio dello stato italiano, quale era sta-ta già in quello dello Stato romano, gli si lasciava il go-dimento del Vaticano e di altri palazzi e ville, e il diretto

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governo dei seminari e degli altri istituti cattolici in Ro-ma, fatti esenti dalla vigilanza delle autorità scolasticheitaliane. La legge non fu né negoziata né accettata dalPapa, che volle che rimanesse, rispetto a lui, col caratte-re di una legge di guerra, imposta dal vincitore brutale einsidioso. Il che gli permise di atteggiarsi agli occhi deicattolici del mondo intero come il «prigioniero del Vati-cano», ma anche addolorò molti italiani, cattolici-liberalio liberali temperati e miti e prudenti; c’erano, pure tra gliuomini di qualche levatura, di quei sentimentali e fanta-siosi che, come avevano sperato che Pio IX si sarebbe ar-reso alle persuasioni di re Vittorio Emanuele prima del-la breccia di Porta Pia, così sognavano ancora ad occhiaperti che, all’entrata del re in Roma, il vecchio Papa glisarebbe uscito incontro, lo avrebbe benedetto e abbrac-ciato, e benedetta e abbracciata con lui e in lui l’Italia, inun profluvio generale di lagrime d’intenerimento. E intutti costoro perdurò il desiderio della «conciliazione»,che era stata ideata e cercata dal Cavour e da altri quan-do si doveva tentare quella via per agevolare il concorsoe l’appoggio della Francia, e più volte, dopo il ’70, quan-do più non c’era questo bisogno di una politica transa-zione, rimise ali, e si effuse in disegni e proposte. Ma nelgenerale buon senso si fece presto chiara l’idea che quel-la conciliazione, fondata su pezzetti di territori da rita-gliare per foggiare al Papa un giocattolo bambinesco distato temporale, era altrettanto poco decorosa per il Pa-pa quanto per l’Italia; e, più ancora, che al Papato, isti-tuto politico internazionale qual è, non conveniva di rap-pattumarsi con lei e anzi non poteva, per non accresce-re agli occhi del mondo il suo carattere italiano, che giàera cospicuo; e che doveva prendere il contegno di chiha soggiaciuto alla forza, dell’oppresso e del sacrificato,e sempre protestare, in modo pio irato dapprima, menoirato ma non meno reciso pio tardi, e non abbandonaremai l’asserzione del suo violato diritto. Cosicché, a poco

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a poco, lo si lasciò dire, senza più oltre discutere né ri-battere le proteste: riconoscendo i perspicaci italiani cheessi, al posto del Papa, non avrebbero potuto compor-tarsi diversamente, e sentendo in quello un italiano co-me loro, pratico e diplomatico come loro. C’era voluto ilgran fracasso delle guerre della Repubblica e dell’Impe-ro per mettere a tacere le rivendicazioni di cose ben piùpiccole, come Avignone e la contea Venassina e la chineache offrivano in omaggio i re di Napoli. La non avvenu-ta conciliazione, a causa del potere temporale, turbava,è vero, qualche anima di buon cittadino e di osservan-te cattolico; ma troppe altre cose turbavano o avrebberoturbato quelle anime nell’andamento preso dalla socie-tà italiana, e quella non era tra le più gravi, ché tutti piùo meno avvertivano che la libertà del Papa non sarebbecresciuta col possesso di Roma e che non mai era statagrande in forza di quel possesso. I conclavi, radunati inRoma, si svolsero tutti senza ombra di impacci, senza al-cuna dimostrazione ostile, senza nemmeno la malevolen-za degli astanti, a cominciare dal primo, che, per la no-vità del caso, aveva dato luogo alle maggiori precauzio-ni: gli altri divennero fatti ordinarî, ai quali non si ba-dò, cioè li si guardò come li guardava ogni altro popo-lo. Nei rispetti delle potenze estere accadde quello chenon si prevedeva, e pur era da prevedere, che l’unica vol-ta in cui il punto della libertà del Papa si affacciò alla di-scussione fu quando, nel più acceso della «lotta di cultu-ra», il Bismarck provò la rabbia dell’impotenza per nonpoter inviare al Papa, a Civitavecchia, una nave da guer-ra e minacciargli il cannoneggiamento, e mosse le sue ri-mostranze al governo italiano, con non altro effetto chedi arrecare ottimo argomento alla polemica italiana, al-la quale fu messa in mano la prova che non mai il Papaera stato tanto libero. Come potevano gli italiani impedi-re al Papa gli eccessi verbali contro la Germania e il suocancelliere, se non potevano impedirli contro sé stessi?

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E non era meglio toglierli in pazienza? Questa non eral’opinione proprio di tutti, perche non mancavano alcu-ni che gridavano: – Abbasso le guarentigie! – o propo-nevano alla non lontana morte di Pio IX di renderne piùstretti i vincoli; ma fu l’atteggiamento costantemente ser-bato dalla classe dirigente e responsabile, confortata dal-l’opinione generale. Che poi la mancata conciliazione, eil modo in cui è stata regolata la posizione del Papato,sia per l’Italia uno dei punti scoperti alle eventuali feritenei casi di conflitti internazionali e di guerre, è cosa cer-ta, ma a questo, finché il tempo non l’avrà ben copertodel suo usbergo, non si rimedierà mai in altro modo checol difendersi nei conflitti e vincere nelle guerre; e, delresto, ogni potenza ha i suoi punti scoperti e vulnerabili.

Certamente, nei primi anni dopo il ’70, i partiti catto-lici degli altri paesi, e soprattutto quelli di Germania e diFrancia, premevano l’uno sul Bismarck e l’altro sui va-ri governi che si succedevano e sulle varie combinazio-ni tentate nei dibattiti circa la forma politica che la Fran-cia doveva prendere, di monarchia borbonica, orleanisti-ca o bonapartistica o di repubblica radicale o conserva-trice, affinché intervenissero contro l’Italia per la resti-tuzione del mal tolto. Ma nessuno di questi agitamentiassurse a minaccia seria, non favoriti ne dalle condizioniinterne di quei paesi, ne dalla situazione internazionale.Il Bismarck, anziché farsi crociato e campione del Papa-to, impegnò con esso una fierissima lotta, e ne volle all’I-talia perché non si mise al suo fianco, aggiungendo rigo-ri e persecuzioni a quelli che egli adoperava in Germa-nia e che non gli dettero partita vinta. In Francia, non-ché il volterriano Thiers e l’anticlericale Gambetta, nep-pure forse il conte di Chambord, se fosse asceso al trono,avrebbe potuto imprendere una guerra contro l’Italia perridare Roma al Papa, e, in ogni caso, il conte di Cham-bord non divenne Enrico V e le preoccupazioni per que-sta parte si attenuarono e dileguarono, se anche, come si

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è notato, non era possibile strapparne fin le ultime radi-ci. Un rancore d’altra natura nutriva non il governo mail popolo francese contro l’Italia, cioè l’«ingratitudine»,di cui questa si sarebbe resa colpevole col non correrein suo aiuto nel ’70: motivo affatto popolare e volgare,che non saliva fino alle menti degli uomini politici, i qua-li sapevano che l’Italia, per effetto della politica roma-na di Napoleone III, che aveva alienato gli animi di tut-ti e inferocito i democratici e il partito d’azione, e per lacondizione di disarmo in cui si trovava, non aveva potu-to condursi diversamente, e che, per quel che riguarda-va il desiderio di venire in soccorso alla Francia, ce n’erastato più di quanto si sarebbe aspettato, e, prima che inaltri, grandissimo nel re. Solo atto poco amichevole daparte dell’Italia, allora, poté giudicarsi la proposta «legadei neutri», di cui Inghilterra e Russia si affrettarono adadottare ed eseguire l’idea, e che agli uomini di stato ita-liani fu dettata forse dal timore che non fosse facile te-nere a freno il re nella sua gran voglia di prendere le ar-mi. Molta era, in quei primi anni dopo il ’70, la stima chesi faceva dell’Italia: «una nazione saggia (si diceva), gui-data da uomini abili»; e Carlo Cadorna, ambasciatore aLondra, confermava, nel 1872, la «reputazione di assen-natezza e di una decisa superiorità politica» che gover-no e popolo italiano godevano in Inghilterra e in Franciapresso gli uomini di giudizio; e il Massari osservava nel-lo stesso anno: «L’Italia non ha mai occupato nella con-siderazione del mondo un posto più alto: non avete chea recarvi all’estero per raccogliere attestati di simpatia edi rispetto da per ogni dove, basta che vi diciate italia-ni». Anche la sua casa regnante era circondata da questasimpatia, e, come una figliuola del re d’Italia era andatasposa all’erede della corona del Portogallo, così un suofiglio fu chiamato al trono di Spagna. A suggello della ri-putazione di saviezza seguirono, nel 1873, le visite del red’Italia all’imperatore d’Austria a Vienna e all’imperato-

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re di Germania a Berlino, ricambiate poi dal primo nel-la sua già imperiale Venezia, e dal secondo a Milano, evi-tando di comune intesa la visita a Roma per non eccita-re vieppiù i risentimenti dei cattolici tedeschi ed austria-ci. Le rispettive legazioni dei tre stati furono innalzate al-lora al grado di ambasciate. Intanto il governo franceseritirava dalle acque di Civitavecchia la nave che vi avevatenuta per più anni a disposizione dell’antico suo protet-to pel caso che si risolvesse a lasciare il suolo di Roma:alla qual cosa, veramente, né il Papa né i cardinali pen-savano, come mossa molto rischiosa e che poteva met-ter capo a una umiliazione della Santa Sede. L’opinionepubblica, come il governo, desiderava che si stringesse-ro più intime relazioni con le due potenze centrali senzadarvi carattere di ostilità verso la Francia, e solo cercan-dovi contrappesi ed appoggi, dopo che l’esperienza de-gli ultimi anni della politica napoleonica aveva mostra-to la malsicurezza di una quasi dipendenza della Franciaa causa del clericalismo colà potente e anche di un cer-to naturale contrasto d’interessi tra essa e il confinante econcorrente nuovo stato. Ma l’alleanza, che il Bismarckavrebbe voluta e che sarebbe riuscita solo a una garanziaper la Germania contro la Francia, parve l’offerta di un«marché de dupe», e non ne fu coltivata l’idea.

Cosicché l’antico detto romano di risolutezza e di fi-ducia, ricordato nell’insediarsi in Roma: Hic manebimusoptime, non era stato pronunziato invano; e il re, col suoconsueto buon senso, diceva nel 1874: «Tutte le nostrequestioni sono ormai questioni interne e possiamo deci-derle tra noi, e in qualche modo ce la caveremo sempre».Ma neppure a una questione interna poteva dar luogo laforma presa dall’Italia così per quel che si atteneva all’u-nità come nei riguardi della monarchia. La possibilità direstaurazione degli antichi principi e delle antiche parti-zioni non aveva avuto, negli anni dopo il ’60, altra real-tà che nelle speranze di taluni ligi ai vecchi regimi, alma-

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naccanti sugli effetti di guerre e complicazioni interna-zionali, e aveva occupato talora l’inquieto animo, divisotra il volere e il non volere, tra le ideologie e la ragion distato, dell’imperatore dei francesi. E definitivamente erastato sepolto il disegno neoguelfo, ripreso da NapoleoneIII nel 1859, di una federazione italiana presieduta dalPapa. Il federalismo di alcuni solitarî come il Cattaneoe il Ferrari, di reminiscenza comunale-medievale, avevaorigine e tendenza repubblicana, e in altri repubblicani,come il Mario, si appoggiava agli esempi della Svizzera edegli Stati Uniti d’America; e, a ogni modo, restava nel-la cerchia delle dottrine, privo di efficacia pratica e senzaneppure molta eco teorica. Il regionalismo, ossia i con-trasti d’interessi, che già allora si accennarono tra alcu-ne regioni, specie tra mezzogiorno e settentrione, e rice-verono maggiore rilievo più tardi, non divenne mai con-trasto politico, neppure come vago desiderio di separa-zione o di diversa unione. L’idea repubblicana, del re-sto, aveva avuto la sua forza in Italia nella concezione ri-gidamente unitaria, sorta nel crollo delle Repubbliche ci-salpina, cispadana e partenopea, e continuata precipua-mente dal Mazzini con la Giovine Italia; e, per avere ri-posto il punto saliente nell’unità, rese agevole il passag-gio di molti dei suoi uomini principali e della maggio-ranza dei seguaci all’unità attuata per mezzo della mo-narchia. Queste conversioni, che trovarono il loro mot-to nelle parole del Crispi sulla «monarchia che ci ha uni-ti e la repubblica che ci dividerebbe» si accrebbero tra il’60 e il ’70 e si accelerarono ancora dopo il ’70, e si fece-ro più esplicite e nette dopo il ’76: quando proprio mol-ti degli antichi repubblicani ascesero al governo, e giài vecchi monarchici piangevano la monarchia «venuta aman degli avversarî suoi», e antivedevano la sua fine, alpiù tardi, alla morte di re Vittorio Emanuele II: mentreinvece, quegli antichi repubblicani si dimostrarono tra ipiù zelanti monarchici e anche, a volte, alquanto corti-

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giani, quali non erano stati gli uomini della Destra. Inva-no i repubblicani puri, per bocca di Alberto Mario, sa-lutarono l’avvento della Sinistra come un «ponte» versola repubblica: con che riuscirono soltanto a rinfocolarele diffidenze e a ridestare la vigilanza dei vecchi monar-chici; ma quell’avvento, francamente voluto dallo stessore, e l’atteggiamento che, come si è detto, presero subi-to gli uomini della Sinistra, perfino i più a lungo repub-blicani come il Cairoli, dissiparono le speranze e i timo-ri del «ponte». I repubblicani nel parlamento, coi lorocapi, come il Bertani, si restringevano alla dignitosa pro-fessione di fedeltà a un ideale, piuttosto che dell’avveni-re o dell’avvenire prossimo, del loro personale passato,e prestavano, intanto, giuramento alle istituzioni monar-chiche e nella cerchia di esse operavano: la stessa costi-tuzione di un’estrema Sinistra repubblicana nel 1877 fueffettivamente la costituzione di un’estrema Sinistra de-mocratica, e non il segno di un più energico propositorepubblicano. L’esempio della vicina Francia, conserva-trice e autoritaria, anziché accendere gli animi a imitarnela forma di governo, dava luogo al giudizio che la monar-chia italiana fosse la migliore delle repubbliche, più libe-rale della più larga di queste. Il Garibaldi, che parlavapur sempre di repubblica e figurava in cerimonie e par-tecipava a comizî per quell’idea e mandava in giro episto-le ora pastorali ora furenti, e salutava e auspicava il «so-cialismo», da lui non molto inteso ma battezzato il «so-le dell’avvenire», e intanto faceva e restituiva visite ai so-vrani e ai principi reali, era considerato un sopravvissu-to, e si mormorava che la sua vita si era protratta trop-po per la sua gloria. Nel 1881 il figliuolo di lui, Menotti,voleva costituire, per l’addestramento militare, gli «allie-vi volontarî», che furono vietati dal ministro della guer-ra. Moti se ne ebbero qua e là, soprattutto nelle Roma-gne; ma furono semplici e circoscritti perturbamenti diordine pubblico, repressi coi mezzi ordinarî, come nello

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stesso tempo quelli di altra e non politica natura in Sici-lia; e anche i moti di carattere politico, piuttosto che al-la tradizione repubblicana, s’ispiravano al socialismo ri-voluzionario o anarchico del Bakunin. Il quale aveva tra-sportato il suo comando in Italia e aveva dimorato peroltre due anni, tra il ’65 e il ’67, a Napoli, allora princi-pale focolare italiano degli internazionalisti, che vi fon-darono una sezione e pubblicarono giornali. In Italia ilBakunin trovava quel seguito che non vi trovava CarloMarx, troppo critico, troppo economista, troppo sarca-stico e troppo scarsamente umanitario. Ma quei desiderîe quei moti non si appoggiavano realmente su masse pro-letarie, operai nelle città e contadini nelle campagne, ederano affare privato di pochi ideologi, spesso di nobilis-simo animo, con qualche commisto avventuriere e intra-prenditore di rivolte. Carattere sociale-religioso, e si di-rebbe di reviviscenza medievale, ebbe la propaganda diDavide Lazzaretti sul Monte Amiata, finita nel 1878 conla morte del suo capo e di altri in un conflitto con la for-za pubblica: che fu un caso isolato e piuttosto curiosoche non storicamente significante. Il socialismo era con-siderato come una minaccia che si addensava sull’Euro-pa, ma lontana assai dall’Italia, la quale doveva darsenepensiero solo in quanto apparteneva anch’essa alla socie-tà europea. Si trascinarono quei conati talvolta nelle for-me di iniziate e presto fallite rivolte con bande armate,come, dopo quella di Imola del ’74, l’altra del ’77, con acapo il Cafiero, a Pontelandolfo; più spesso, con la costi-tuzione di circoli sovversivi, repubblicani e internaziona-listici, che si fregiavano del nome del caporale Barsanti,fucilato nel 1870 per aver preso parte a un tentativo maz-ziniano di sommossa. Ma gli stessi repubblicani, come ilMario, riprovavano con simili dimostrazioni, sentendo-le ripugnanti alla coscienza morale; e molto più manife-starono il loro orrore per gli atti terroristici, accaduti aFirenze, a Livorno e in qualche altro luogo, con lanci di

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bombe, e per gli attentati regicidi: il primo dei quali, chesi ebbe in Italia, nella serie dei parecchi seguiti allora inEuropa, quello del 1878 del Passannante contro re Um-berto, pose termine qui ai moti sovversivi per la risolu-ta e universale condanna della pubblica coscienza e valsealla popolarità del ministro già repubblicano, il Cairoli,che col suo corpo aveva protetto il re ed era rimasto feri-to, dibattendosi con l’assassino. Qualche straniero, me-more del modo in cui si erano attuate le rivoluzioni inFrancia, nel Belgio e altrove, osservava che all’Italia, persua ventura, mancava una «capitale rivoluzionaria», talenon essendo Roma; ma, in verità, mancava ancor più lamateria rivoluzionaria.

La monarchia, così saldamente assisa in Italia, era, in-trinsecamente, una creazione affatto nuova, improntatadel carattere finemente culturale che fu proprio del Ri-sorgimento italiano: espressione del bisogno di rannoda-re la nuova alla vecchia Italia, la forma che l’idealità mo-rale prende nei tempi moderni a quella onde si era rive-stita nei secoli, il progresso alla veneranda tradizione, laquale, rinvigorita dalla libertà, dava il più efficace presi-dio alla libertà. Come tale fu compresa dalla parte elet-ta e intelligente della nazione, come tale fu più o menolargamente sentita dal popolo, come tale fu vagheggia-ta e cantata dal poeta che essa ebbe, unico ma grande,da un poeta che era stato per lunghi anni repubblicano eche, per questo stesso, con maggiore freschezza ne accol-se la singolare e complessa poesia e ne celebrò il profon-do significato: Giosue Carducci. Doveva perciò mancar-le il sostegno su cui altre monarchie poggiavano e fidava-no in Europa, di vecchia aristocrazia, di superstiti nucleifeudali, di clero e di popolare religiosità, di superstizio-si sentimenti e di irrazionali fanatismi; e ciò la fece giu-dicare alquanto artificiale e astratta e malferma nella ba-se. Ma questa apparente debolezza, dedotta da un falla-ce paragone, nascondeva la sua forza vera; e né artificia-

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le né astratta poteva considerarsi un’istituzione nata dapensiero ed esperienza, da un pensiero dialettico e sto-rico, dalla riconosciuta astrattezza e artificialità delle al-tre forme politiche. È vero che la natura stessa del pen-siero che l’aveva creata lasciava anche intravvedere nel-l’avvenire la sua non eternità; ma tutte le istituzioni uma-ne sono mortali, e le monarchie altrimenti sostenute nonsi sottraevano a questo fato, e forse i loro sostegni eranomeno sicuri e resistenti, perché meno sicuri e meno resi-stenti sono sempre le forze irrazionali della superstizio-ne e dell’abitudine, quantunque sembri talvolta il con-trario. Un repubblicano, che fu poi ministro del re, par-lò come di cosa possibile o alla lunga certa di un «placi-do tramonto», e in discorsi di questa sorta un altro mini-stro intrattenne un giorno il re Umberto, il quale lo ascol-tò senza dir motto: che cosa obiettare, infatti, alla terrache si gira e al sole che tramonta? Intanto, nel presentee nel prevedibile avvenire, la monarchia appariva la for-ma necessaria dello stato italiano; e questo praticamentebastava. Lo stesso pensiero onde era sorta le dava la li-nea di azione e di svolgimehto, e configurava sempre piùil re come il «primo magistrato dello stato», eletto a quelposto non da una assemblea ma dalla storia, «per graziadi Dio», dunque, e «per volontà della nazione». Vitto-rio Emanuele II aveva serbato non poco del vecchio redi razza, la qual cosa conferiva al suo prestigio presso ilpopolo, che trovava rispondente al proprio concetto diun re il suo aspetto e piglio soldatesco, il suo abito digentiluomo campagnuolo e cacciatore, la franchezza e lasprezzatura dei suoi modi, e perfino quel che si bisbiglia-va delle sue relazioni col bel sesso. Anche nella politicausò operare direttamente, facendo pesare la sua volontà,conducendo maneggi e intese personali, fino al 1870: erafiero, e lo mostrò più volte verso l’imperatore Napoleo-ne, e ancora, nel ’71, si rifiutò di andare a incontrare ilThiers a Modane; ma poi si era sempre più conformato

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alla regola del re costituzionale, che regna e non gover-na; e contro voglia, ma perché tale era il suo dovere po-litico, si dispose nel 1873 al viaggio a Berlino, dove, ap-pena giunto, non lasciò, a quanto si narra, di dichiarareall’imperatore Guglielmo che egli, nel ’70, era stato sulpunto di sfoderare la spada contro di lui, se non glieloavessero impedito i suoi ministri: dichiarazione di un ca-valleresco sovrano a un altro che aveva animo pari. Scru-poloso osservante dello statuto e del regime parlamenta-re fu il suo successore, che volse le sue precipue cure al-la politica estera e alla congiunta preparazione dell’eser-cito, re di spiriti militari e generosi, cui toccò di regnarein tempi di pace e di non propizie vicende internaziona-li e di non fortunate imprese coloniali. Con lui, il cangia-mento del numero, ond’egli, diversamente da suo padreche era rimasto Vittorio Emanuele II, non fu UmbertoIV ma Umberto I, segnò (e il segno alquanto radicale fuvoluto dal Crispi e dispiacque ai conservatori) il distaccotra la figura dei vecchi duchi di Savoia e re di Sardegna,e quella dei re d’Italia.

Lo statuto piemontese del 1848, esteso alle altre regio-ni d’Italia man mano che seguivano le annessioni, non fuformalmente mutato, nonostante che da parte democra-tica si seguitasse a parlare per qualche tempo di una ri-forma da promuovere per opera di una speciale assem-blea, ora che si aveva dinanzi non più il piccolo Piemon-te ma l’Italia intera; ma esso ricevette, per altro, le mo-dificazioni e gli adattamenti che si effettuano con la con-suetudine, e il governo dello stato trapassò da semplice-mente costituzionale a parlamentare e come tale fu con-sacrato dal re nella crisi del 1876. Anche al corso dellecose si dovette la scemante forza del Senato, che pur neiprimi anni del governo della Sinistra respinse leggi trop-po radicali, come quella del Mancini sugli abusi del cle-ro, e non temé di entrare in una sorta di conflitto con laCamera dei deputati, opponendosi alla troppo frettolosa

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abolizione dell’imposta del macinato. Ma la sua compo-sizione non fu più quella onde un tempo accolse il fioredella nobiltà piemontese e degli uomini preclari; e via viasi venne riempiendo di ex-deputati che si ritiravano dal-le lotte elettorali o non riuscivano più eletti, e d’impiega-ti o ex-impiegati; sicché la Camera dei deputati, e i mi-nisteri che esprimeva dal suo seno, poterono facilmentedominarlo e confinarlo a un ristretto ufficio di controlloe di critica. Per converso, diventate le nomine dei sena-tori cosa dei governi, il Senato, per difendersi dagli abusiche in esse talvolta si commettevano, prese sin dal 1892 aesercitare nelle convalide un giudizio di merito, che nongli spettava ai termini dello statuto, e fu come un’esten-sione correggitrice di un’estensione. La sola mutazioneformale e importante per quel che concerneva il poterelegislativo, si ebbe con la riforma elettorale, promulgata,dopo lunghe esitazioni e svariati disegni, nel 1882, perla quale il diritto del voto fu allargato dai venticinque aiventun anno, il censo richiesto da quaranta a diciannovelire, e il requisito di cultura alla licenza di seconda classeelementare: con la sostituzione inoltre (che durò pochianni) dello scrutinio di lista al collegio uninominale. Co-sì gli elettori si accrebbero da poco più di mezzo milionea circa tre milioni, e l’Italia, conforme all’indole sua pro-pria e all’avviamento generale della civiltà, prese anda-mento più democratico. L’amministrazione rimase stret-tamente accentrata con la legge comunale e provinciale,modellata su quella francese o piuttosto belga (che, comefu notato, derivava storicamente da istituti olandesi), laquale divideva lo stato in provincie, non sempre in mo-do conforme alle ragioni storiche e territoriali, tutte im-mediatamente sottoposte alla vigilanza del governo cen-trale. Un diverso disegno, quello del Minghetti del 1861,che costituiva invece sei regioni, non andò innanzi, e fusempre ricordato e rimpianto come tale che avrebbe ri-sparmiato gli inconvenienti e i danni dell’accentramento.

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Si osservava infatti che le varie parti d’Italia erano troppodiverse di storia, di tradizioni, di costume, di economiada essere amministrate tutte allo stesso modo, dal cen-tro; ma l’argomento provava troppo, perché se ne infe-riva che l’autonomia, buona forse per alcune parti, nonera buona per altre, e, non potendosi darla a tutte, eragiocoforza non darla a nessuna, cioè amministrarle tuttedal centro. Che era in fondo il motivo pel quale il dise-gno del Minghetti incontrò pochi sostenitori tra gli uo-mini del suo stesso partito: il dubbio cioè che la recenteunità dello stato fosse per essere messa a pericolo. Par-ticolarmente per l’ltalia meridionale, travagliata dal bri-gantaggio o appena uscita da quel travaglio, e per la Si-cilia, in cui si durava fatica a ristabilire la sicurezza pub-blica, c’era timore che i fautori dei Borboni rialzasseroil capo, che i contadini insorgessero, che i liberali fosse-ro soverchiati, che la borghesia o piccola borghesia del-le provincie, ineducata e prepotente, lasciata a sé, pro-vocasse coi suoi soprusi qualche grosso scompiglio. Neiprimi tempi, le accuse contro l’accentramento si confon-devano con quelle al «piemontesismo», cioè agli impie-gati piemontesi che non conoscevano e non intendevanoil costume e il carattere delle altre popolazioni, e ai rego-lamenti piemontesi, che mal si adattavano a quei caratte-ri e costumi. E si soleva rammentare, quasi simbolo dellaprecipitosa e dannosa unificazione, una lettera del Fari-ni da Modena, del novembre ’59: «Ho fatto il colpo. Hocacciato giù i campanili e costituito un governo solo. Adanno nuovo, da Piacenza a Cattolica, tutte le leggi, i rego-lamenti, i nomi, ed anche gli spropositi, saranno piemon-tesi». Ma quel «piemontesismo», per effetto del trasferi-mento della capitale prima a Firenze e poi a Roma, e del-l’afflusso di impiegati da ogni parte d’Italia, e del rime-scolìo tra essi, era già un remoto passato, del quale si nar-ravano gli aneddoti curiosi o comici; e col «piemontesi-smo» erano caduti molti dei malumori contro l’accentra-

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mento. Il quale non dove pesare troppo, né essere trop-po disforme dall’indole e dai modi di vita delle popola-zioni, se la polemica in proposito rimase dottrinale e nonsi concretò mai in chiare e urgenti richieste di riforme, ele parole «discentramento» e «autonomia» riecheggiaro-no nei programmi dei vari partiti come un ritornello chesi ripeteva senza che vi si prestasse fede e al quale nes-suno dava un senso determinato. Della burocrazia si usafare la satira, non più e non meno che di ogni altra pro-fessione, dei medici, degli avvocati, dei preti: ma la sa-tira non è un giudizio e il giudizio comincia quando siconsidera che tutto il lavoro allora e poi ideato dagli uo-mini di governo italiani fu eseguito appunto dalla buro-crazia, il cui miglioramento qualitativo si accompagnò aquello generale del paese, scelta come fu solitamente perconcorsi, con sempre maggiori requisiti di cultura, e for-nita di dignità morale assai maggiore al confronto degliimpiegati dei vecchi governi.

L’opera principale di amministrazione, che riempié iprimi anni dopo il ’70, andava in certo senso oltre l’am-ministrazione, perché era sentita come di vita o di mor-te pel nuovo stato: il pareggio del bilancio. Bisogna-va smentire coloro che, in Italia e all’estero, giudicava-no che l’Italia, aiutatasi con l’abilità e la fortuna politica,si sarebbe rotta nello scoglio finanziario; o, per lo meno,si sarebbe disonorata, suscitando la generale diffidenzadel mondo finanziario; e, d’altra parte, senza un bilancioin pareggio non era dato provvedere nemmeno alla dife-sa dei confini. «Quale è la grande questione che possaessere sorgente di forti e irreparabili dissidî? – scrivevanel ’73 un uomo politico. – La politica estera? No: si èsicuri che continua ad essere diretta con prudenza. L’in-terna? Nemmeno, non avendo a temere più di attentaticontro la libertà, né d’imprevidenza nella tutela dell’or-dine. La questione grossa, al cospetto della quale le al-tre si eclissano, per quanto importanti, è la finanziaria.

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Tutte le principali questioni di credito, di corso forzoso,di esercito, di difesa nazionale, di istituzioni, di sviluppoeconomico, ad essa si rannodano». Coi cinquecento mi-lioni di entrate, che era tutto quello di che disponevano isette vecchi stati italiani, non si era potuto fare fronte néalle spese delle guerre necessarie per l’unità né alle ope-re della vita civile, e anzitutto alle comunicazioni tra levarie parti del paese e alle costruzioni ferroviarie; sicchégià nel 1862 il disavanzo del bilancio assommava a quat-trocentottanta milioni, nel triennio seguente si tenne in-torno ai quattrocento, nel 1866 superò i seicento. Il de-bito pubblico, dai poco più che due miliardi degli anti-chi stati, era cresciuto, per effetto delle spese e dei disa-vanzi dei bilanci, a oltre otto miliardi nel 1871. L’eroe,che impersonò la lotta per il pareggio, fu il Sella, il qua-le, fin quasi dal suo affacciarsi alla vita pubblica, ne inte-se l’importanza capitale, ne divenne quasi ossesso comeaccade agli uomini che debbono adempiere una missio-ne, e v’impegnò tutte le sue forze, con tenacia pari solo alcoraggio di superare ogni sorta di ostacoli e reggere allestrida dolorose dei tassati e all’odio che gliene veniva. E,mentre esercitava quella che egli chiamò «economia finoall’osso», ritagliando perfino sulla lista reale nonché su-gli stipendi dei ministri, insisteva, finché nel 1868 vinse ilpunto, per una imposta indiretta a larga base, l’impostadel macinato; e non solo questa tenne ferma, ma, nel suolungo ministero insieme col Lanza (1869-73), tra le spe-se necessarie e inaspettate degli armamenti e poi della ri-forma militare, continuò a imporre e a tassare (aumentodella fondiaria, dell’imposta sui fabbricati, di quella perla ricchezza mobile), riducendo via via il disavanzo, chediscese a cento milioni. L’opposizione di Sinistra, comesi suole in questi casi, strepitava, quasi esistessero mez-zi, solo ad essa cogniti, di risanare il bilancio e accresce-re le spese senza nuove imposte; nella stessa maggioran-za di Destra, c’erano dissensi tra quelli che non crede-

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vano urgente il definitivo pareggio e avrebbero preferitotemporeggiare, e gli altri che, col Sella, giudicavano cheil temporeggiamento avrebbe peggiorato la situazione, eche già malamente si era fatto temporeggiando in passa-to e cedendo in qualche modo al gridìo dell’opposizio-ne. Comunque, nel quinquennio dal ’70 al ’75 le entrateordinarie s’ingrossarono di dugentotrentaquattro milio-ni, laddove l’aumento delle spese non toccò i quaranta; eil ministero Minghetti, avendo continuato nello sforzo diraggiungere il pareggio, pore annunziarne il compimen-to nella sua ultima esposizione finanziaria del 16 marzo1876. Il Minghetti, nei dieci anni che ancora visse lon-tano dal governo e non più sollecitato o sperante di ri-pigliarlo, fu confortato dal ricordo di quell’opera, per laquale veramente gli parve di non esser vissuto indarno.Ma eroi non furono soltanto quegli uomini del governo,sì tutto il popolo italiano, che, entro un decennio, si ad-dossò pesi come forse non mai altro popolo e divenne ilpiù tassato d’Europa: eroico come un esercito di quel-li che si dicono eroici, che, anch’essi, ora hanno impetigenerosi (simili al pronto consenso e concorso, nel 1864,al pagamento anticipato della rata fondiaria, da parte diparecchi municipî italiani, primo nell’esempio quello diBrescia), ora mormorano o danno in atti d’impazienza ein episodi di stanchezza e di scoramento, e nel tutt’in-sieme ubbidiscono alla coscienza di non poter fare altri-menti; e pur giungono alla vittoria. La Sinistra non po-té disconoscere il gran beneficio recato dalle operazionichirurgiche della Destra e ne accettò il bilancio, che, ne-gli anni seguenti, dal ’76 all’81, nonostante le molte nuo-ve spese e le abolizioni o trasformazioni d’imposte (ridu-zione della tariffa del sale; soppressione dei due decimidi fondiaria: nell’80 fu affatto abolita la tassa; del maci-nato), si mantenne in avanzo, salito nell’81 a cinquanta-tre milioni. Ma l’avviamento della sua amministrazioneera, per il prevalente democratismo, di necessità meno

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severo di quello della Destra; il principio di non delibe-rare nuove spese senza prima essersi assicurati delle en-trate o di aver aggiunto nuove entrate non fu sempre ri-spettato, preferendosi di soddisfare le richieste e girarele difficoltà politiche del momento col rimandarle accre-sciute a un avvenire più o meno lontano; e solo a raffre-nare alquanto, ma non a impedire, questo metodo nonbuono, valsero le critiche degli uomini di Destra e degliesperti di finanza, nella Camera e nel Senato, dei Sella,dei Minghetti, dei Saracco, dei Perazzi. Un ministro cheper dieci anni (dal ’78 all’88) quasi ininterrottamente go-vernò le finanze, il Magliani, di vivo ingegno e di mol-ta scienza, e di abilità anche troppo grande nella esco-gitazione degli espedienti, fu come l’antitesi del Sella e,impiegato proveniente dall’amministrazione napoletana,si sentì quasi impiegato verso i ministeri di cui fece par-te, inchinevole ad agevolarne la contingente politica, sa-crificando quel superiore pensiero così forte nel Sella enei suoi compagni di governo. Il disavanzo, nonostanteil continuo aumento delle entrate dello stato (da milio-ni 1301 nel 1882 salite a 1449 nel 1887-8), si venne rein-troducendo e crescendo fino a toccare nell’88 i dugento-cinquantatre milioni e piu, e il Magliani uscì dal gabinet-to sotto le critiche dei vecchi uomini della Destra e del-la Sinistra e del giovane Giolitti, e si riaperse la crisi delbilancio, che si trascinò per parecchi anni. Certo quel-la finanza che fu detta «allegra» nei rispetti della Sinistragovernante (e veramente, corrispose a un periodo di ge-nerale prosperità dopo la crisi del ’73, e specie dal ’78in poi), e di «prestidigitazione» nei rispetti del Magliani,non mancò di buoni effetti nella vita economica e civile,giacché le spese che essa lasciò fare tornarono per mol-ti riguardi utili e fruttuose; ma come finanza fu condan-nevole e disperse ricchezze, il che si vide, tra l’altro, nel-l’abolizione del corso forzoso, la quale, non sostenuta darigida amministrazione, finì col ripristinamento del cor-

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so forzoso. Pure, le altre burrasche finanziarie non ebbe-ro più il carattere di quelle del primo quindicennio del-l’unità; né il salvamento della nave, che poi si fece, parveil salvamento dello Stato, come allora; e questi alti e bas-si, per perniciosi e dannosi che fossero, rientravano nellevicende dei bilanci di tutti gli stati.

Con l’unità, si era formato per la prima volta un eserci-to italiano, del quale il nucleo si aveva in quello piemon-tese, bene ordinato e glorioso di lunga tradizione; ondeal re fu attribuito il concetto, che egli avrebbe manifesta-to all’imperatore Napoleone nel 1861, di «italianizzare»il Piemonte e «piemontizzare» l’esercito; le quali paro-le, in ogni caso, descrivevano la situazione ed esprimeva-no un proposito savio. Per fortuna, il corso degli avve-nimenti politici del 1860-1 risparmiò il contrasto in pie-no dell’esercito piemontese con l’altro esercito principa-le della vecchia Italia, quello del regno delle Due Sici-lie, quantunque, come si è accennato, fossero inevitabi-li a principio talune gare e gelosie e reciproche accuse dideficienze tra gli ufficiali provenienti dall’uno e dall’al-tro, accusando i piemontesi di rilassatezza e scarso spiri-to militare i napoletani, e questi i piemontesi di grettez-za, pedanteria e ignoranza. Dall’esercito delle Due Sici-lie, nel quale gli ufficiali delle armi dotte erano eccellentie per la più parte di sensi liberali, il nuovo esercito italia-no ebbe uomini che tennero in esso uffici dominanti, co-me il Cosenz, il Pianell, i due Mezzacapo, il Primerano,il Milon, il Marselli, nella marina l’Acton; e qualche al-tro valido e capace gli venne fornito dai minori eserciti edai volontarî del Garibaldi. S’intende che l’opposizionedemocratica, soprattutto quella di estrema democrazia erepubblicaneggiante, non tralasciò la sua rettorica invo-cazione della «nazione armata», anch’essa una mera fra-se, priva di significato assegnabile, quando quello che siera formato e si educava era appunto un esercito nazio-nale, composto di tutti i cittadini di tutte le classi socia-

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li. Il fascino dei volontari era stato grande per la perso-na del Garibaldi e per l’impresa dei Mille, ma era ancheevidente quel che essi presentavano di poco solido, e, aogni modo, di affatto inadeguato alla difesa di uno statomoderno; e su questo punto si erano già fragorosamenteurtati il Garibaldi e il Cialdini. Quel fascino stesso dimi-nuì nelle posteriori guerre, e in ispecie per il fatto d’ar-mi di Mentana, dove i volontari si lasciarono sconfigge-re dai papalini e dalla sopraggiunta truppa francese; e iltracollo ultimo fu portato dalla guerra franco-prussiana,la quale non solo spazzò via le illusioni sui volontari e su-gli eserciti improvvisati, ma con le sue lezioni rese neces-saria in Italia, come altrove, una larga riforma degli ordi-namenti militari. A quest’opera si accinse, nel ministeroLanza-Sella, con mente esperta degli ordinamenti germa-nici ma pur libera da imitazione servile, il Ricotti, che sta-bilì il sistema delle due categorie e della milizia territoria-le e del volontariato di un anno, serbò come corpo scel-to i bersaglieri e formò quello degli alpini, e, per le stes-se cautele che avevano impedito il sistema delle regioni eil discentramento, escluse il reclutamento regionale. Po-co dopo, nel 1876, fu abolita la guardia nazionale, resi-duo delle garanzie che i moti costituzionali e liberali sierano date e delle quali non si sentiva più il bisogno, tan-to che quell’istituzione, che pur fu di qualche uso nellalotta contro il brigantaggio, si porgeva oggetto di celie.Con la riforma condotta a termine dal Ricotti nel 1873,l’Italia ebbe un esercito permanente di trecentocinquan-tamila uomini, diviso in dieci corpi d’armata, che in ca-so di guerra si sarebbe più che duplicato. Continuò perla stessa via del Ricotti il Mezzacapo, e poi, nel 1882, acausa degli armamenti cresciuti dappertutto in Europa,si aumentarono i contingenti di prima linea e di miliziamobile, e i corpi d’armata salirono a dodici. Si era ve-ramente trasfuso nell’esercito italiano lo spirito di quel-lo del vecchio Piemonte; e i competenti, tra i quali quel

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colonnello austriaco Haymerle che diede il grido d’allar-me contro l’animo austrofobo dell’Italia, ammiravano ilcontegno, l’intelligenza e la disciplina dell’esercito italia-no. Nel 1878 furono deliberate le opere militari intornoa Roma. Anche la marina da guerra ebbe allora un gran-de impulso per opera del Saint-Bon e per quella del Brin,ingegnere navale e per più anni ministro; onde la flottaitaliana prese uno dei primi posti e possedette i maggioricolossi del mondo, l’Italia, il Duilio, il Dandolo, la Lepan-to, e gli altri. Gli arsenali di Spezia e di Taranto furonoarmati, e per l’educazione degli ufficiali di marina venneistituita nel 1881 l’accademia di Livorno. Alla difesa del-lo stato, alla prosperità economica della nazione e anchealla sicurezza interna (poiché il brigantaggio era favori-to dalla mancanza di strade), importavano le costruzio-ni ferroviarie, che si posero come il terzo còmpito fon-damentale e urgente all’amministrazione italiana. L’Ita-lia, nel 1860, non solo era poverissima di ferrovie, macirca una metà di quelle esistenti appartenevano alla so-la regione piemontese, e il regno di Napoli ne possedevameno di cento chilometri. Dai 1758 chilometri del 1860si era già nel ’65 saliti a 4200, che nel 1876 divennero7438 in esercizio oltre 349 in costruzione, e nell’85 circa10.000, mentre nel 1871 si era aperto il traforo alpino delFréjus e nell’82 si aprì quello del Gottardo per le comu-nicazioni più dirette con l’Europa occidentale e centra-le, e la valigia delle Indie passava da Brindisi per l’Italia.Dopo un primo periodo di concessioni a società priva-te, lo Spaventa, ministro dei lavori pubblici nel gabinet-to Minghetti, propose il principio dell’esercizio statale, enon già come un semplice modo più o meno economicodi gestione, ma come attribuzione necessaria, risponden-te alla sicurezza e alla dignità dello stato; e con questo in-tento furono riscattate nel ’73 e nel ’75 le ferrovie romanee meridionali e negoziata la convenzione di Basilea pel ri-scatto di quelle dell’alta Italia. Ma i liberisti e sostenitori

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dell’esercizio privato, che avevano contribuito alla cadu-ta del governo della Destra, combatterono quel concettodello Spaventa e fecero adottare il principio opposto. Etuttavia per più anni non seppero attuarlo, e studî e com-missioni d’inchiesta si susseguirono, finché si giunse al-le convenzioni ferroviarie del 1885, strette con tre socie-tà, per le quali lo stato, proprietario della massima partedella rete ferroviaria, ne serbava la proprietà ma ne davain appalto l’esercizio, assumendo le società la vigilanza,il traffico e la manutenzione per una quota del prodot-to rispondente a quella che aveva rappresentata la spesanell’esercizio di stato. La marina mercantile, nella qua-le conveniva compiere la sostituzione del vapore alla ve-la, passò dalle diecimila tonnellate a vapore che possede-va nel 1862 a un milione nel ’77, e prese il terzo postodopo le marine dell’Inghilterra e della Francia, sebbenenell’82 decadesse al quinto posto. Lo stato sovveniva lecompagnie (la Ribattino di Genova, la Trinacria e poi laFlorio di Palermo) prima pei servizi marittimi interni epoi per le linee internazionali; e, nell’81, le due maggioricompagnie si unirono a comporre la Navigazione genera-le italiana. La decadenza, che si è detta, portò ai provve-dimenti del 1885 «a favore della marina mercantile» coipremi di navigazione; onde i noli, anche per la concor-renza estera, calarono ad assai miglior mercato. I lavo-ri del porto di Genova, che languiva per la concorrenzadi quello di Marsiglia, furono agevolati dalla munificen-za di uno dei figli di quella città, del duca di Galliera; eintanto si provvedeva a quello di Venezia e ad altri.

Per l’abbattimento delle barriere doganali dei vari sta-ti, per il sistema liberistico già seguito dal Piemonte eche fu rassodato tra il ’60 e il ’70 mercé trattati di com-mercio, e, bisogna aggiungere, per effetto dei mutamen-ti e delle crisi del commercio mondiale al quale ora l’Ita-lia più vivamente partecipava, l’agricoltura italiana ebbenuovi avviamenti. Dapprima la guerra d’Oriente, che fa-

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ceva mancare i grani russi, e poi quella americana di se-cessione, che fece mancare i grani americani, spinsero aestendere la coltura granaria; e nell’Italia meridionale siprocedette rapidamente a dissodare le terre a pascolo delTavoliere di Puglia e ne fu scossa la tradizionale agricol-tura patriarcale, rivolta quasi per intero al consumo in-terno e locale e familiare. Poi, scemando la richiesta deigrani, premendo in tutta Europa la concorrenza transo-ceanica, si allargarono i vigneti, che i crescenti profittidell’esportazione dei vini da taglio in Francia, dove la fi-lossera aveva largamente devastato, indussero a moltipli-care con non minore rapidità che anni innanzi le dissoda-zioni, in particolare nelle Puglie. Ma erano labili favoridella fortuna, slanci e tentativi audaci e rischiosi: un ve-ro progresso nei metodi, un intensificamento della colti-vazione, la manifatturazione dei prodotti grezzi, non eb-bero luogo. Nel corso dell’età del Risorgimento, la solle-citudine per l’agricoltura, continuando in ciò una tradi-zione che era cominciata nel secolo delle riforme, avevaaccompagnato l’opera politica; e società agrarie e scritto-ri di cose agrarie erano sorti, soprattutto nell’Italia me-dia e superiore, ma anche nella meridionale. Pure, nonostante questi studî, persisteva la non discussa premessache l’Italia fosse il «giardino della natura», come diceva-no i suoi poeti, una terra naturalmente fertile e ricca, ne-gletta per l’ignoranza dei suoi agricoltori e per colpa deicattivi governi. Ma gli studi ripresi dopo l’unità, primiper larghezza e importanza quelli dell’inchiesta agrariaproposta nel 1872 dal Bertani, deliberata nel ’77 e pre-sieduta dal Jacini che né scrisse la relazione generale, ele indagini che la precessero, accompagnarono e segui-rono del Franchetti, del Sonnino, del Fortunato, i qua-li ebbero l’occhio alla Sicilia e all’Italia meridionale, nonsolo modificarono, ma quasi capovolsero quel giudizio,e resero familiare l’affermazione, che sonava come para-dosso, della «povertà naturale» dell’Italia. Al capovol-

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to giudizio tennero dietro proposte molteplici di ovvia-re, per quanto era possibile, a quella povertà; e un inte-ro programma di lavori e di altre provvidenze formava laconclusione dell’inchiesta agraria. L’esecuzione del pro-gramma era superiore alle forze di una o due generazio-ni, e per la generazione stessa che lo formulò incontravaimpedimenti non solo nell’imperizia degli esecutori e ne-gli interessi di partiti e clientele, ma anche, e principal-mente, nella insufficienza dei mezzi finanziari, che si è vi-sto come fossero tutti, fino all’estremo, impegnati nel pa-gare debiti, costruire ferrovie, preparare l’esercito e l’ar-mata, e nelle altre necessità vitali. Che se i mezzi fosse-ro abbondati, il primo e più efficace provvedimento permigliorare l’agricoltura si offriva nella diminuzione del-la pressione tributaria, che ostacolava e ritardava la for-mazione dei capitali da impiegare; e, invero, per alcunianni, dopo l’85, per effetto della crisi agraria si diminui-rono uno e due decimi della fondiaria, ma poi convenneristabilirli. Si iniziarono anche bonifiche, che produsse-ro benefizi nella valle del Po, nel Ferrarese e nel Raven-nate, ma assai minori nel Mezzogiorno. La legge foresta-le del 1877 promosse i rimboschimenti, ma l’opera riu-scì poco efficace, a giudizio degli intendenti, per la man-cata sistemazione degli alti bacini fluviali, e quella leggerimase, più che altro, un attestato di riprovazione controun danno che l’Italia si era inflitto da sé nel corso dei se-coli e più gravemente nei tempi di rivolgimenti, e che eracessato o era stato fermato solo quando non c’era mol-to ancora da distruggere. Si dettero cure all’insegnamen-to agrario con le scuole superiori di Portici e di Milano,con quelle di viticoltura ed enologia, di pomi ed orticol-tura, di zootecnica e caseificio, con l’istituto forestale diVallombrosa, con le stazioni sperimentali e con altre si-mili, sorte tutte tra il ’70 e l’85: frequenti erano i comi-zi e le esposizioni agrarie: la media dei raccolti annualicresceva notevolmente. Quel che è meglio, il problema

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dell’Italia agraria, una volta posto, non fu più dimentica-to. Insieme con esso si pose quello dell’Italia industriale,confutandosi l’altro pregiudizio, che l’Italia, poiché era(e in effetto non era) un gran paese agricolo, la magnaparens frugum, potesse astenersi dall’industria o tenerlain luogo secondario, mancandole il primo elemento del-la valida concorrenza, il carbon fossile: quasi che il car-bon fossile fosse l’unica e definitiva fonte di forza motri-ce o che esso fosse l’unico fattore della concorrenza in-dustriale. Certo, il cammino era aspro, e se nell’esposi-zione di Londra del 1862 l’Italia aveva tenuto il quartoposto dopo l’Inghilterra, la Francia e la Germania, nel-le seguenti era stata in molti rami sorpassata dall’Austriae da altri paesi. Ma l’esposizione di Milano del 1881, epiù ancora quella di Torino del 1884, coi suoi diciotto-mila espositori e con notevole partecipazione del Mezzo-giorno, e quella di Palermo del 1892, riuscirono di piùlieto augurio. L’industria cominciò a far sentire la vo-ce dei suoi bisogni e porse argomento a inchieste e stu-dî da parte degli organi dello stato: si citava l’esempiodella Francia, agricola e che pure si era fatta industria-le; si domandava perché non si potesse lavorare la seta inItalia anziche mandarla greggia a Lione, perché si doves-se far tessere il cotone a Manchester e la lana nel Belgio:le fabbriche di Biella e di Schio mostravano che si po-teva fare ciò in Italia. Nel 1878, con la riforma dogana-le, s’introdusse un temperato protezionismo industriale,che nel 1887, con la denunzia dei trattati di commerciofranco-italiani, si mutò in pieno sistema protezionistico.Allora veramente s’irrobustì l’industria italiana, come sivede dai numeri delle statistiche, che mostrano, tra il ’79e l’83 raddoppiata l’importazione del carbon fossile, cre-sciuta più che dodici volte quella del ferro, greggio e de-gli acciai, duplicate similmente e triplicate le altre dellalana e del cotone, e, indice del generale progresso indu-striale, il numero degli operai metallurgici, da men di sei

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migliaia che erano nel 1881, venuto, a circa quindicimilanell’89. Proprio allora, nel 1882, si ebbero i primi saggidi trasporro dell’energia elettrica, che la scienza italianaaveva preparato con le scoperte del Pacinotti e più par-ticolarmente di Galileo Ferraris; e in quell’anno sorse ilprimo impianto, primo in Europa, quello di Santa Rade-gonda a Milano, per l’illuminazione, opera del Colom-bo, e nell’85 l’altro di Tivoli, e nel ’92 si effettuò il pri-mo trasporto per scopo industriale, seguito alcuni annidopo dal grande impianto industriale di di Paderno. Ilcommercio estero, che nel 1862 era calcolato intorno aun miliardo, venti anni dopo si calcolava a due miliardi eun quarto. Nel 1883 si pubblicava un assai lodato codicecommerciale. Anche le statistiche postali confermavanoil ricambio sempre più vivo tra le varie parti del paese econ l’estero, coi settantuno milioni di lettere cresciuti nelventennio a centosessantotto, e a capo del secondo ven-tennio a trecentotrentaquattro, e dei telegrammi, che dadue milioni toccarono, nello stesso periodo, i settantatre.

La proverbiale accusa del «dolce far niente» degli Ita-liani è falsa per ogni età della loro storia, e dovuta a vagheimpressioni e fantasiose interpretazioni; ma anche quel-la più circoscritta, allora e poi ripetuta, che essi prefe-rissero gli impieghi amministrativi, le professioni foren-si e le occupazioni letterarie all’agricoltura, all’industriae al commercio, non era vera se non nella misura delladifficoltà e della lentezza con cui questi rami di attivitàprogredivano in Italia. L’ideale dell’operosità economi-ca era andato congiunto a quelli della libertà e dell’indi-pendenza, e il Cavour, coi suoi studi e le sue personali in-clinazioni e con la sua opera di ministro, lo rappresentòin modo vivo; ma anche il Garibaldi dava lo stesso esem-pio col suo disegno del 1875 per la bonifica dell’agro ro-mano, per la canalizzazione del Tevere e per far di Romaun porto di mare, e con l’altro del 1879 per raddrizzarein due grandi tratti l’alveo del Po dal mare verso Milano

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e da Pavia a Torino. Il Cavour voleva rigenerare i giova-ni italiani con l’insegnamento tecnico; e scuole e istitutitecnici e professionali si vennero aprendo accanto ai gin-nasî e licei classici, e scuole di applicazione, e, nelle Uni-versità, laboratori di chimica. La lotta contro l’analfabe-tismo aveva un lato economico oltre quello morale, e fucombattuta senza tregua; ma il male si dimostrò assai piùduro a risanare che prima non si credesse, per la stessavivace intelligenza delle popolazioni italiane e meridio-nali, che sanno far di meno dell’alfabeto: la gravissimamedia degli analfabeti, che era del settantotto per centonel 1861, si abbassò a settantadue nel 1871, a settantaset-te dieci anni dopo, e con lo stesso ritmo nei due decennîseguenti. Nel 1877 fu prescritto l’obbligo dell’istruzioneelementare, già proposto dal Bonghi, quantunque la leg-ge, allora e poi, non poté essere sussidiata da serie sanzio-ni. La ricchezza generale cresceva (da lire 1331 per abi-tante nel ’72-74 a 1646 nel ’75-79); e, sebbene fosse peruna parte cospicua falciata dalle crescenti imposte, si no-tava nondimeno con meraviglia che nelle casse di rispar-mio il mezzo miliardo che c’era nel 1872 era aumentatoa circa un miliardo dieci anni dopo. Cominciava, accan-to all’artigiano e in sostituzione dell’artigiano, a mostrar-si il nuovo operaio di fabbrica; si diffondevano le socie-tà operaie di mutuo soccorso (da poco più di un miglia-io nel 1873 a circa cinque migliaia nell’85), e, promossedal Luzzatti, le banche popolari; e, per opera del Sella,s’istituivano le casse postali di risparmio. Il cibo e le ve-sti dei contadini miglioravano: il moltiplicarsi dei medicicondotti nei comuni e le regole d’igiene e gli studi e l’a-postolato del Lombroso per la cura della pellagra, e, piùtardi, quelli di altri per la malaria, portarono alla riduzio-ne della mortalità, che, del 30 per mille nel 1872, era del28 nel 1887 e del 21 venti anni dopo. I risultati delle vi-site per la leva, dapprima sconfortanti, dettero anch’essimodo di misurare il miglioramento sanitario del popolo

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italiano; il quale dai circa venticinque milioni del 1861,era diventato, nel censimento dell’81, di ventotto e, ventianni dopo, di trentadue. La mobilità della popolazione,per ragioni d’impieghi e d’affari, e in particolare il servi-zio militare, che per più anni apprestò anche utilissimescuole reggimentali, toglievano via via le angustie e i pre-giudizî e gli abiti provinciali, e svegliavano il ceto conta-dinesco, nel quale introducevano nuovi bisogni, nuovosentire e nuove idee.

Questi progressi erano generali in ogni parte del pae-se, ma, di necessità, comparativamente diseguali e taloracompiuti a spese di una parte sull’altra. Donde contra-sti d’interessi, che, svaniti gli ultimi strascichi delle resi-stenze antiunitarie, si determinarono come economici findalle elezioni del 1874, e dettero nascita ai nomi di depu-tazione «piemontese», «ligure», «toscana», «meridiona-le», e via dicendo. Comparativamente sfavorita fu l’Italiameridionale che, a giudizio ormai concorde dei compe-tenti, dall’unificazione dei debiti pubblici, dalle alte im-poste, dalla messa in vendita dei beni ecclesiastici, ebbeassorbito gran parte del suo non molto capitale, mentreall’industria del settentrione, più ricco per natura e perragioni di storia civile, vieppiù arricchito per concentra-zione di uomini e di amministrazioni e di lavori richie-sti dalla difesa militare, si apriva un mercato nel mezzo-giorno, nel quale sparivano di conseguenza le industrielocali e quella domestica. Anche la città di Napoli, giàcapitale di un grande stato, sede di una fastosa corte enobiltà e unico emporio delle sue provincie, perdeva lavita economica della capitale e sentiva via via diminuireil concorso delle provincie che il disciolto legame politi-co e i nuovamente annodati legami ferroviarî volgevanoin parte, come gli Abruzzi, verso Roma, o, come le Pu-glie, verso settentrione; né, intanto, essa si trasformava incittà industriale e commerciale. Il malessere della picco-la borghesia meridionale si acuiva nel paragone con quel

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che essa vedeva altrove, e si sfogava nel darne colpa nontanto agli uomini politici del settentrione, quanto ai suoistessi del partito governante, ossia della Destra, che sem-bravano ligi a quelli o esclusivamente premurosi dell’Ita-lia generale ed astratta e troppo incuranti di quella parti-colare e regionale, che pure aveva i suoi diritti; onde cer-cava avidamente protezioni, raccomandazioni, impieghi,soccorsi. Le condizioni dei contadini perduravano mise-re, e insieme si sentivano più intollerabili, non essendoadeguato il compenso delle migliorate mercedi, cresciu-ti i bisogni col generale diffondersi dei nuovi comodi, enon reggendo, come si è detto, l’industria domestica al-l’offerta dei prodotti a buon mercato e più varî e più ap-pariscenti e moderni, che venivano dall’alta Italia. Il ma-lessere della borghesia meridionale fornì, come si è giàaccennato, la «massa di manovra» alla Sinistra per rove-sciare il governo della Destra; ma non poteva trovare inquel sollevamento elettorale il proprio rimedio e vi tro-vò, tutto al più, empirici e saltuari e individuali lenimen-ti, espressi dalla frase scherzosa, eppur tanto triste, delDepretis, che egli si guadagnava l’appoggio dei deputatimeridionali con non altro compenso che la concessionedi qualche spaccio di sale e tabacchi. I contadini, quan-do, agricoltura meridionale dové sempre più piegarsi allaprevalenza delle industrie nazionali, e la rottura dei trat-tati commerciali con la Francia fece perdere i capitali im-piegati nella cultura della vigna, e la stessa perequazionefondiaria si annunziava in generale assai meno giovevolenel Mezzogiorno e il protezionismo si aggravò, cercaro-no salvezza nell’emigrazione transoceanica. Verso que-sta si notava già la tendenza dal ’71, ma essa venne au-mentando dal 76 all’86, si raddoppiò dopo di allora e au-mentò ancora in seguito, dato l’esempio, fatta la strada,e non più solamente per la disperazione del vivere, comenel primo periodo. Erano queste le inevitabili ripercus-sioni e complicazioni del processo economico nel quale

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entrava l’Italia; ma non tolgono al movimento generale ilsuo carattere di svolgimento e di crescenza.

Tale carattere era confermato dall’aspetto con cui l’I-talia si presentava agli occhi degli stranieri, segnatamen-te di quelli che vi tornavano dopo lunghi anni, i qualinotavano tutti quanto fossero mutate le condizioni chesi chiamano «materiali» della vita. Tra gli altri, Gugliel-mo Gladstone, nel 1888, non riconobbe più la Napoliche un tempo gli aveva ispirato la sua accusa al gover-no borbonico: vi trovò una plebe non più scalza, rarol’accattonaggio prima tanto fastidioso, la città percorsada linee tranviarie, un’ottima acqua condottavi di recen-te, diminuzione del tifo e di altre malattie infettive, nuo-vi rioni in costruzione o disegnati, e iniziato il «risana-mento» o «sventramento» della vecchia e aggrovigliata elurida parte della città, la quale opera era stata stabilitaper legge e col concorso statale di cento milioni. Di granlunga maggiori erano stati l’ampliamento e la trasforma-zione di Roma da città papale a capitale dell’Italia unita(nel solo primo decennio vi si costruirono cinquantuno-mila stanze da abitazione), e di Firenze, così negli annidurante i quali era stata provvisoria capitale come dipoi,e di Torino che, diversamente da Napoli, poté cangiar-si da antica sede di corte e di politica in città commer-ciale e industriale, e di Milano, e di Palermo, che si fecedelle più magnifiche, e delle altre grandi città, e delle mi-nori, che tutte s’ingrandivano e diventavano importanti;mentre dappertutto sorgevano grandiosi edifizî pubblici,e nella Lombardia e nel Veneto e nel Piemonte, e spar-samente altrove, opifici ed impianti industriali. E a quel-li degli italiani, che non immersi e sommersi nella pas-sione dell’attimo presente solevano riandare e ripensarenel presente il passato, si riempiva il petto di non volgaresoddisfazione nel partecipare alle nuove maniere di vita,nel percorrere il paese dalle Alpi alla Sicilia, nel recarsi aRoma: a Roma, che, a ripensarvi e nonostante i detti dei

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poeti, pareva un sogno che fosse oramai il centro politicodel popolo italiano. Colà, accanto al Campidoglio, si ve-niva innalzando il monumento al Re, nel cui nome si eraacquistata l’indipendenza e l’unità, e l’Italia, da personaimmaginaria, si era fatta persona reale.

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III. LA VITA POLITICA E MORALE (1871-1887)

Ancor più che l’aspetto materiale o economico, il Glad-stone, nel 1888, considerava con compiacimento il nuo-vo aspetto civile e morale che l’Italia presentava, con can-giamento così totale e così rapido in confronto degli an-ni innanzi, che egli, frugando nei ricordi storici, non sa-peva paragonarlo se non alla trasformazione della Fran-cia tra il 1789 e l’Impero. In effetto, si era stabilita la vitadi libertà, e non con lentezza e stentatamente come pres-so altri popoli in passato, ma a un tratto, essendosi pre-se le mosse dal più alto grado altrove raggiunto; e il lun-go desiderio di un secolo e il fine ingegno e l’agile spi-rito di un popolo di antica cultura avevano permesso diappropriarsi i metodi altrove elaborati e maneggiarli sen-za sforzo e come cosa naturale. Sparito affatto il regimepoliziesco, coi sospetti, gli «attendibili» politici, lo spio-naggio, le vessazioni; dissipato quell’odor d’incenso e disagrestia, quella vigilanza pretesca e gesuitica, che s’insi-nuava e gravava in ogni parte della vita pubblica e del-la privata, e porgeva al braccio secolare il sussidio mali-zioso della mente ecclesiastica. In cambio, completa li-bertà nella stampa, nell’associazione, nelle pubbliche di-scussioni: una libertà a pieno garantita e che si garantivada sé col suo stesso esercizio, e sindacava l’amministra-zione, impediva la violazione delle leggi, rendeva pub-blico il controllo della giustizia. Fuggevole apparizionenei brevi periodi delle rivoluzioni del ventuno e del qua-rantotto, e durevole dopo quell’anno solo nel Piemonte,i giornali politici si erano diffusi dappertutto subito do-po la guerra e le annessioni del 1859-60, anch’essi sen-za dover passare per gli impacci delle cauzioni, dei bol-li e della vendita ad alto prezzo, ma prendendo subito laforma di giornali per tutti, a un soldo. E tra i loro diret-

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tori e scrittori si noveravano uomini di provata fede e divaria e spesso specifica cultura, venuti al giornalismo da-gli studi politici ed economici. Non mancavano a raffor-zare e attestare quella libertà del pensiero e della paro-la i giornali repubblicani, e i primi foglietti d’ispirazionesocialistica, e quelli fanaticamente clericali e papalini, e,a Napoli, i borbonici, legittimistici e autonomistici, chetutti quanti profittavano largamente, senza che si desseloro fastidio, degli ordinamenti liberali, da quasi tutti es-si vituperati e maledetti. Era come una grande conver-sazione, che si era accesa dall’un capo all’altro d’Italia,nella quale si apprendeva quanto giornalmente accadevanel paese e fuori, e si assisteva a scontri e dibattiti di idee,e si ascoltavano proposte, e il sapere e l’esperienza si al-largavano, e le menti si facevano esperte e acute. Uomi-ni politici e pubblicisti e oratori si recavano da una cittàall’altra per discorsi e conferenze; associazioni politiche,liberali, democratiche o repubblicane, si formavano; ri-trovi politici di varia tendenza e spesso eclettici, nei qualisi sentivano le ripercussioni immediate degli avvenimentie gli scoppî non meno immediati dei giudizî e delle pas-sioni, si accoglievano nei caffé, celebri alcuni, in ispeciedella capitale. E ritrovi più eletti avevano luogo nei sa-lotti, segnatamente in quelli degli uomini e delle fami-glie appartenenti alla Destra, dei Minghetti, degli Alfie-ri, dei Visconti-Venosta, dei Guerrieri Gonzaga, dei Pe-ruzzi, dove convenivano ministri ed ex-ministri e depu-tati e studiosi, vecchi e giovani, e vi passavano illustri fo-restieri visitatori dell’Italia, e vi si discorreva del presen-te e dell’avvenire, con piena informazione delle cose ita-liane e straniere, con elegante dottrina, elevatezza e sere-nità di animo, con spregiudicato e talora ardito spirito dibene. Si era venuto formando un nuovo carattere italia-no, non più di suddito, ma di cittadino, cosciente di po-ter sempre far valere e difendere e rivendicare i suoi di-ritti, di poter professare e sostenere le proprie opinioni; e

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l’intera società prendeva, più o meno spiccata, questa fi-sionomia. Finanche un critico assai difficile, che nel suodiscorso si riferiva a una popolazione italiana per certi ri-guardi tra le meno progredite, era costretto ad ammette-re che «il napoletano odierno è, si può dire, anche nel-l’incesso e nello sguardo, più uomo e procede più erettodi quello di prima del 1860».

La varia e generale partecipazione ai pubblici affariconseguiva al rivolgimento istituzionale, onde la politica,prima tutta del principe e della sua anticamera e della suaconsulta di stato, e ravvolta e segreta e scendente dall’al-to, e oggetto di dicerie paurose o trepide, si vedeva farsiall’aperto da ministri e parlamentari, a volta a volta elet-ti o respinti dalle urne, a volta a volta assumenti il gover-no o costretti a cederlo ad altri, applauditi o censurati,e, tra queste vicende, pur sempre operosi nella Camera enel Senato, nelle associazioni e nei giornali e nei comizî.Il punto, a cui si guardava, non erano più le stanze delpalazzo reale o il gabinetto del ministro d’interno e poli-zia (ai quali, del resto, nei vecchi tempi, appena si osavaguardare, e con paura piuttosto che con riverenza se nedistornava lo sguardo), ma Roma, dove a Montecitoriosi adunava la Camera dei deputati, a Palazzo Madama ilSenato, e ferveva la vita dei ministeri, e quella dei giorna-li e delle discussioni. Anche alla Reggia si guardava, ora,con schiettezza di riverenza, come alla sede del re che erastato acclamato «padre della patria», e del suo nobile fi-gliuolo, simboli della fondamentale concordia nazionalein mezzo ai contrasti delle discussioni e delle passioni, aisecondarî dissensi, che erano pronti a trarsi in disparteove fossero minacciate l’unità, l’indipendenza e la liber-tà, ove si vedesse in pericolo la digntà d’Italia, la qualenessuno poteva sentir meglio del Re, di un re della casadei Savoia sempre salda nella virtù e nell’onore, e a nes-suno dei cittadini d’Italia poteva essere con maggiore si-curezza affidata. Il giovane esercito, intento unicamen-

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te a quest’ufficio di spada dei supremi interessi della pa-tria, puro di ogni politica di partito, dai diritti stessi nonmai toccato o insidiato, s’irraggiava dalla sua persona egodeva della medesima simpatia e del medesimo rispet-to, che non aveva uopo d’imporsi con fierezza e durezzaprofessionali, ma nasceva spontaneo come quello pel re,che era rispetto non verso la «sacra maestà», ma verso ilgalantuomo e il gentiluomo. Ebbe a notare uno scrittoredi cose militari, che la figura del militare non veniva maiin Italia portata sui teatri, oggetto di scherzi, come pureaccadeva in Francia e da noi non si sarebbe tollerato. Leriviste militari, i vari delle grandi navi, facevano battere ilcuore di affetto per la patria: per la patria, di cui nessu-no allora revocava in dubbio la legittimità del culto, mache anche nessuno convertiva in idolo di nazionalisticaavidità e prepotenza, e tutti la intendevano, come va in-tesa, immagine di quanto di meglio è nelle umane aspi-razioni, il più alto e insieme il più vicino punto sociale diriferenza degli ideali morali.

Singolare pareva a prima vista che in Italia, nel paesedel Papato e centro un tempo della controriforma e rea-zione cattolica, il partito liberale non si trovasse di fron-te un partito cattolico e clericale, e che questa lotta nonoccupasse il primo piano e non dominasse e soverchiassele altre tutte. Non già che il paese non fosse, nella gran-de maggioranza, cattolico, e cattolici molti di quelli cheprendevano parte alla vita pubblica, e parecchi uomini distato autorevoli; ma l’abbattimento del potere tempora-le, e l’atteggiamento che il Papato aveva stimato di doverprendere, vietavano la formazione di una parte cattolica,che entrasse nel campo parlamentare: un’associazione li-berale cattolica, che cercò di costituirsi nel 1879, non eb-be fortuna, e d’altronde il Vaticano avversava ogni revivi-scenza di neoguelfismo. Il dissidio, a cui questa situazio-ne sembrava dovesse condurre, di chiesa e stato, di dove-ri religiosi e doveri civili, aveva dato e dava ancora mol-

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to pensiero a uomini di grande serietà morale; e ne eranovenuti fuori parecchi disegni per comporlo. Ad esso si le-gò già l’utopia neoguelfa, che, attuata, non avrebbe tan-to recato danno all’Italia quanto ferito al cuore il Papato,attribuendogli la presidenza di una federazione di mo-narchie e repubbliche italiane, come a dire la parte d’im-peratore di un impero d’Italia, conferendogli improntanazionale e per ciò stesso togliendogli quella universaledi capo della Chiesa cattolica, che sta di fuori e sopra ditutti gli stati. Poi si pensò variamente, dai Gioberti, daiRicasoli, dai Lanza, dai Pantaleoni, e da altri, a una ripre-sa o «rigenerazione» della Chiesa cattolica, ricondotta al-le sue origini evangeliche e insieme fatta progredire neisuoi concetti coi progressi della critica e della scienza; laqual cosa, nonostante le leali intenzioni che vi mettevanoi suoi ideatori, sarebbe riuscita a un rinnovato protestan-tesimo, distruttore della Chiesa stessa, ma in effetto si di-mostrò impotente, come ogni moto storico che si vogliaripetere artificialmente fuori del tempo suo. Questa im-potenza colpì altresì i molteplici sforzi che, sussidiati dal-le società bibliche, in ispecie nel primo decennio dopo il’60, si tentarono per diffondere in Italia le chiese evange-liche degli altri paesi, o quella valdese, che viveva in unangolo delle Alpi: non solo, anche in questo caso, perchéciò che non era accaduto al suo momento buono, nel se-colo decimosesto, non poteva accadere nel decimonono,ma altresì per la languente forza espansiva e culturale diquelle chiese, varie, divise e più o meno profondamentecorrose dal razionalismo moderno: tanto vero che spes-so fecero lega con la massoneria, che si andava ricom-ponendo in Italia, e i loro uomini appartennero alle uneed all’altra. All’estremo opposto, l’anticlericalismo, l’an-ticattolicesimo, il materialismo, l’ateismo premevano pertroncare il dissidio mercé la distruzione del cattolicismo,o addirittura di ogni credenza trascendente, nel popoloitaliano, fortificato dai concetti della ragione e dalle sco-

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perte della scienza; e, come quelli si perdevano nei sognidi cose pertinenti al passato irrevocabile, così essi spa-ziavano nei sogni dell’avvenire, e di un avvenire tropposemplicistico da essere mai possibile, e certamente tut-t’altro che prossimo. Tra questi estremi, la classe diri-gente italiana prescelse la via segnata dal Cavour con la«chiesa libera nello stato libero»: formola che è stata og-getto di scolastiche censure quasi fosse una formola spe-culativa o un criterio d’interpretazione storica, laddoveera semplicemente una formola politica, contingente co-me tutte le formole politiche, cioè adatta alle condizionidell’Italia d’allora e alle disposizioni del popolo italiano.Obiezioni di natura politica bensì le si movevano col pro-porre il dubbio che la libertà concessa alla chiesa potes-se diventare un’arma terribile, che questa avrebbe ado-perata contro lo stato italiano con la quotidiana ostilitàesercitata per mezzo del suo insegnamento, delle predi-che e del confessionale, e col mandare, quando le piaces-se, alle urne e ai parlamenti le sue ben disciplinate falan-gi; e si pensava che perciò sarebbe convenuto serbare oripristinare i metodi giurisdizionalistici, dei quali era vi-va la tradizione in ogni parte d’Italia come tanuccismo,giuseppismo e leopoldismo, invece di farvi rinuncia, co-me si era rinunziato, giudicandola anacronistica, alla re-gia Legazia sicula, che dava alla persona del re in Siciliadiritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello czarin Russia sulla chiesa ortodossa. Giuristi toscani e meri-dionali insistevano soprattutto in questo senso. A para-re il primo pericolo, il regime della libertà o separazio-ne venne praticamente temperato con alcuni espedientigiurisdizionalistici, essendosi serbati nel fatto il placet el’exequatur, non ostante l’abolizione di principio che neaveva decretata la legge delle guarentigie, perché quel-l’abolizione escludeva le moltissime chiese di patronatodella Corona e perché, per le altre, era condizionata dal-la redistribuzione delle rendite ecclesiastiche, sempre ri-

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tardata; e si ebbero casi di espulsioni di vescovi e arci-vescovi per non aver presentato le bolle all’exequatur, enel nuovo codice penale furono comminate pene controi preti che eccitassero alla disobbedienza delle leggi e ri-fiutassero i sacramenti per motivi non spirituali. Quan-to all’altro pericolo, per allora la Chiesa cattolica tenevalontani i suoi dalle lotte elettorali e parlamentari, col nonexpedit del 1874 e col «né eletti né elettori»; e se questogiovava ai fini del Papato nei suoi rapporti coi cattolicistranieri, giovava parimente ai fini dell’Italia, che ne gua-dagnava tempo e respiro per raffermare la sua vita lai-ca e per rendere non temibile l’urto di quelle tali falan-gi, quando più tardi si fossero risolute a scendere nell’a-gone. Era un altro caso di coincidenti interessi e di ta-cito accordo tra l’Italia e il Papato, pur nel fragore del-le invettive e delle controinvettive che l’uno e l’altra do-vevano recitare sul teatro del mondo. La cosa aveva taleevidenza che non isfuggiva non solo agni uomini politici,ma alla comune coscienza: nel 1874 il principe eredita-rio Umberto rivelava il segreto di tutti, conversando colGregorovius: «La irreconciliabilità della Curia è una for-tuna per l’Italia, perché permette di maturare al processoche condurrà a una soluzione della discordia». In que-sta discordia, la parte del liberalismo italiano consistevanel guardarsi dal suscitare una guerra di religione con ir-ritare e provocare la coscienza cattolica delle popolazio-ni e dar buon giuoco ai clericali, ma insieme nel non tra-lasciare di compiere quanto stimava utile ai fini della ci-viltà: donde l’incameramento della proprietà ecclesiasti-ca, la soppressione delle facoltà, teologiche nelle univer-sità e dei direttori spirituali nei convitti, la riforma delleopere pie, la vigilanza sulle scuole cattoliche, la facoltà,data alle famiglie, nel 1877, di richiedere o no l’insegna-mento catechistico nelle scuole elementari pei loro bam-bini, l’obbligo del matrimonio civile, l’abolizione del ce-rimoniale religioso nel giuramento, e simili. Non era pos-

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sibile impedire certe manifestazioni di violento anticleri-calismo o addirittura d’irreligiosità; sia pel rispetto do-vuto al principio della libertà d’opinione, sia per conce-dere talora sfogo e formare contrappeso alle non menoviolente manifestazioni del Papa e dei clericali. Alcuniuomini politici, per motivi di popolarità o per impulsodel proprio temperamento, dettero in parole eccessive,come il Cairoli, che nel 1877 sperava che il catechismofosse dichiarato «libro proibito», o il deputato Abignen-te, ex-frate, che alla Camera parlava della «nefandezza»della religione cattolica che egli avrebbe voluto spegneredi un colpo, o il romano ministro dell’istruzione Baccel-li che faceva professione di anticlericalismo, e, del resto,compié atto lodevole col chiamare a una cattedra univer-sitaria il filosofo Ardigò, ex-prete avversato dai clerica-li, e al Consiglio superiore dell’istruzione il Carducci, ilquale aveva maledetto e scomunicato nei suoi giambi ilPapa: qualche fatto deplorevole accadde, come i tumul-ti della notte del 13 luglio ’81 pel trasporto della salmadi Pio IX. La massoneria contraffaceva i gesuiti, che ilPapa nel 1886 aveva reintegrati in tutti i loro privilegi,e s’ingegnava d’imitarne i mezzi e i modi di lotta, e conciò accresceva soltanto la diffidenza e l’antipatia che giàl’avvolgeva come associazione segreta in tempi di liber-tà, a cui si attribuivano intrighi e malefatte. Ma per l’al-tro verso non si dié alcun ascolto ai consigli di abolire orestringere e ritoccare la seconda parte della legge delleguarentigie, allo stesso modo che si lasciò intatta la pri-ma; non si favorì la persecuzione dei clericali; non s’inco-raggiarono le prove isolate, che pur ci furono, di elezionipopolari dei parrochi; e una legge, a più riprese propo-sta nel 1881, nel 1884 e nel 1902, che era forse in contra-sto col saldo sentimento italiano della famiglia, ma assaipiù col sentimento cattolico, quella del divorzio, sebbenegiungesse sino all’esame delle commissioni parlamentari,non fu mai votata. La «conciliazione», non solo per quel

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che riguardava il potere temporale, ma per tutto il resto,nonostante gli stimoli e i disegni che vennero da parteecclesiastica, dell’Audisio nel ’76, del Curci nel ’78, delTosti nell’87, e nonostante qualche velleità di accordi daparte di uomini politici, non fu mai seriamente cercata ovivamente desiderata, e nel 1886 lo Spaventa pronunzia-va contro quell’idea un memorando discorso. Stranieri,non abbastanza conoscitori del fare italiano, immagina-vano che in Italia ardesse o covasse e potesse prorompe-re una guerra di religione, e deploravano che essa non sifosse conquistata la sua «pace religiosa», e stimavano chenon potesse ottenerla se non col reciso distacco dal cat-tolicesimo; ma il vero è che non mai l’Italia era stata tan-to lontana da guerre religiose, quanto dopo che la guer-ra parve dichiarata dal Papato; non mai lo svolgimentolaico e civile procedette tanto agevole, a segno che l’an-ticlericalismo, con le sue inutili parate e chiassate, desta-va fastidio ed era giudicato documento di volgarità e discarsa intelligenza. Come tutti intendevano che anche seal Papa si fosse ridata Roma, diventata ormai una gran-de e popolosa città moderna con moderni interessi, eglinon avrebbe saputo che cosa farsene e si sarebbe affret-tato a pregare l’Italia di ripigliarla, così sentivano che alfatale andare del pensiero non era dato porre divieti, eche, per intanto, si doveva lasciare ai morti di seppellirei loro morti.

Ciò che allora appassionava gli italiani era, invece, ilcontrasto, nel parlamento e nel paese, della Destra e del-la Sinistra, e il problema della costituzione o ricostituzio-ne dei partiti: delle quali cose già conosciamo la vera na-tura e sappiamo quali vapori di illusioni le avvolgessero,rendendo confuso, e perciò più acre e rabbioso, il con-flitto. Bisogna aggiungere che, laddove la Destra, guar-data fin d’allora con riverenza dalla parte eletta dei citta-dini, rifulge ancor oggi nel ricordo e spiega efficacia idea-le la Sinistra presto perdé, e non più riprese e non ritiene,

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questo splendore, priva com’era di un suo proprio conte-nuto ideale e di efficacia etica: il che conferma quel che siè detto, che il contrasto tra le due si riduceva a quello traun ideale puro e un ideale accomodato alla realtà empi-rica, il qual ultimo solo per poco tempo poté avere sem-bianza di cosa bellissima e quasi una condizione di bea-titudine. Alla caduta della Destra, il popolo italiano, unpo’ pei troppo gravi sacrificî a cui era stato sottoposto,un po’ per quel che gli si era fatto credere delle virtù mi-rifiche del «progressismo», acclamò delirante l’«era nuo-va», il «governo riparatore», il «raddrizzamento dei tor-ti», il «risanamento» di tutti i mali di cui si soffriva, dellapovertà, dell’ignoranza, dell’ingiustizia, il «rinnovamen-to» sociale; e attese fidente il prodigio promesso. Sonomomenti di ebbrezza, che s’incontrano nella vita dei po-poli, e che spiegano altresì le furiose persecuzioni, ancheallora accadute, contro i dissidenti e gli oppositori, con-siderati quasi spiriti del male, che, per cattiveria, impe-discano o si argomentino di impedire la felicità universa-le. Ma seguì assai presto il disebbriamento e la delusio-ne, mentre gli uomini, che avrebbero dovuto compiere ilprodigio, litigavano tra loro e reciprocamente si accusa-vano di tradimento all’ideale o al «programma», alla ve-ra e santa «idea» della Sinistra, e procuravano indarno,di tempo in tempo, di rianilnarsi col riprendere il gridocontro gli antichi avversarî, grido che destava sempre mi-nori echi, finché si spense del tutto con lo spegnersi del-la stessa Sinistra nel «trasformismo». Quel che agli occhidello storico resta, di là da questo torbido tumulto pas-sionale, dissipato il fumo della battaglia, è nient’altro chela naturale differenza dei temperamenti e delle disposi-zioni, pur nella medesimezza del generico ideale pratico,intransigenza e transigenza, rigidezza e flessibilità, caute-la e precipitazione, austerità e accomodamento, stomacodelicato e stomaco forte, che negli stessi individui varia-va secondo gli oggetti che venivano in questione, e per-

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ciò, come si è detto, non consentiva di mantenerli in unanetta dualità di parti. Né conviene darsi a credere che ladualità persistesse in quanto diversità di dottrine politi-che, perché le antitesi delle dottrine riguardano la storiadella filosofia politica e non già i pratici ideali e le pra-tiche lotte, da esse bensì dipendenti ma non riducibili ailoro astratti enunciati teorici. Che il Crispi tenesse fer-mo alla teoria della sovranità del popolo, il quale delegaallo stato, che per sé non ha alcun diritto, certi diritti acerti fini, e, se eccede in cotesta delegazione, non è de-gno di libertà; e che lo Spaventa accogliesse la teoria ger-manica dello stato etico, riflesso in forma filosofica dellecondizioni arcaiche della Prussia, e insieme riconosces-se che gli stati moderni sono fatti e disfatti dall’elemen-to radicale del pensiero; e che il Minghetti ragionasse lateoria dello stato diversamente da essi due; non basta dasolo a spiegare gli accordi e le discordie di questi uomininella loro pratica azione, ma (quando non serviva a da-re la misura del loro maggiore o minore acume specula-tivo, e della loro maggiore o minore cultura scientifica)era nient’altro che l’ombra teorica delle loro inclinazio-ni e delle loro azioni. E quel che anche resta del passag-gio dalla Destra alla Sinistra è l’allargamento del suffra-gio e un indirizzo alquanto più democratico in materiadi tributi, che furono le parti del programma di Sinistra,con molti temperamenti, attuate; e nel rimanente un’o-pera di governo, che è impossibile dire che fosse di Sini-stra piuttosto che di Destra, ed è difficile discernere fi-no a qual segno fosse effettuata dagli uomini di Sinistrae fino a qual segno dà quelli di Destra, poiché gli uni egli altri collaboravano, pur contrastandosi, nel parlamen-to e nel paese. Dei concetti di Destra sarebbero dovuteessere depositarie le Associazioni cosiddette «costituzio-nali», fondate in tutte le città, principale quella di Mila-no; le quali accolsero, per altro, molti timidi conservato-ri, di più che dubbi spiriti liberali, mentre quelle oppo-

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ste di Sinistra, inclinando alla democrazia, si smarrivanonel verso opposto: tanto è difficile rinserrare in accoltedi uomini quel che in qualibet parte redolet nec cubat inulla.

Se quelle parti del programma, che più strettamenteavevano carattere politico, furono presto esaurite, e ilDepretis, dando mano all’unione dei vecchi partiti e altrasformismo, dichiarava che ormai bisognava occuparsidella semplice amrninistrazione, si può ben pensare cheil partito repubblicano o di estrema sinistra non trovavamateria propria su cui lavorare e che dietro di esso nonerano masse repubblicane. Il Mazzini aveva ben vedu-to che il problema della società moderna, come di quelladi ogni tempo, è problema di educazione o rieducazionemorale, religiosamente morale, e perciò anche di ravviva-ta o rinnovata religiosità; ma invece di intendere che que-sto è il lungo e complesso processo di tutto il pensiero edi tutta la storia, al quale, nelle sue forme più elaboratee ricche, bisognava congiungersi per portarlo più oltre,si era fermato in una sorta di utopia organicistica di de-rivazione sansimoniana, indirizzandosi con prediche edesortazioni di generica religiosità a un ente d’inmagina-zione, il Popolo: cosicché era stato disertato dagli uominidi cultura, che lo giudicavano vago e vieto nelle sue con-cezioni, e disertato da quel che c’era di reale sotto il suoPopolo, ossia dagli operai, che preferivano di darsi al so-cialismo. I suoi superstiti seguaci in Italia abbrancavano,dunque, il vuoto; e non solo gli operai, ma anche i giova-ni delle università, si sentivano attirati non più dal mazzi-nianismo e dal repubblicanesimo, ma dal socialismo, cheil Mazzini e i mazziniani respingevano e aborrivano. Ilgiornale mazziniano Il Dovere cessò nel 1878 le pubbli-cazioni per mancanza di lettori, né visse a lungo la Legadella Democrazia, fondata nel 1880. Nei loro programmielettorali, come in quello del 1882, i repubblicani mette-vano suffragio universale, nazione armata, soppressione

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della legge delle guarentigie, confisca di tutti i beni ec-clesiastici, ricostituzione delle autonomie storiche (qui simescolavano al mazzinianismo le idee del Cattaneo e delMario), convocazione di un’assemblea costituente, e al-trettali cose che bene avrebbero dovuto sapere, e parec-chi di essi certamente sapevano, ineseguibili. Così il par-tito repubblicano divenne sempre più esiguo: se ne di-staccava circa il 1878 il suo poeta, il Carducci, con unaconversione che in lui, nella politica pratica uomo affat-to fuori posto, ebbe valore di una catarsi estetica, discio-gliendolo dalla poesia di tendenza e di polemica e di sa-tira, che fin allora aveva coltivata per concitazione d’ani-mo e dovere di partito, e facendolo volgere tutto alla verapoesia, a quella del desiderio, del sogno e della celebra-zione; ma gli rimanevano uniti i Rapisardi e i Cavallotti,coi loro poemi e drammi di maniera, ché altri diversi nonavrebbero saputo farne. Taluno degli anziani, assueto al-l’utile operosità, la venne variamente esercitando, comeil Bertani, che contribuiva ai lavori dell’inchiesta agraria,conforme alla sua competenza di medico, per quel cheriguardava le condizioni igieniche dei contadini, e, inca-ricato dal Depretis, studiava un codice sanitario, che fupoi in buona parte trasfuso nella legge del 1888: gli al-tri o spiegavano agli occhi del pubblico i drappi di unapomposa e talvolta splendida oratoria su punti dottrina-li e rievocazioni storiche, o si erano dati alla professio-ne di moralisti, di Catoni censori, di critici del costumepolitico e della vita privata degli uomini politici, compia-cendosi in quella che lo Spaventa acconciamente definì«ipocrisia dei partiti estremi», che si conoscono incapa-ci delle prove del potere o tanto da esse remoti da avere,in ogni caso, dinanzi a sé tempo sufficiente a far dimen-ticare le esigenze troppo alte poste prima dal loro puri-smo. Del resto, qualcuno dei giovani, più abile alla poli-tica pratica e bramoso di avervi parte, dopo esser passatoper il repubblicanesimo, si accostava ai gruppi di gover-

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no. Anche il socialismo andava superando l’ingenua etàdelle cospirazioni e delle rivolte, e si diffondeva, comedifesa e rivendicazione di diritti economici, tra gli ope-rai col crescere dell’industria e il formarsi di centri ope-rai, più che altrove in Milano: nel 1879 si ebbero i pri-mi accenni, da parte del Costa e di altri, all’avviamen-to legalitario o «evoluzionistico», come allora si diceva.Dopo la riforma elettorale dell’82, comparvero alla Ca-mera qualche deputato operaio e qualche socialista, cheformarono, più che altro, oggetto di curiosità, e soprat-tutto facevano parlar di sé quando, inaugurandosi la ses-sione parlamentare con l’intervento del re, si abbaruffa-vano con gli uscieri dell’assemblea per entrare in giacca,invece che col frack di prammatica, ed erano vinti nellapugna ineguale. Pure, quelle apparizioni erano i primisegni del socialismo, come si è detto, legalitario, e indi-cavano il mutamento avvenuto negli animi, e l’abbando-no del metodo delle bande, delle occupazioni dei palaz-zi comunali, del bruciamento degli archivî e di altrettalimezzi spicci di rigenerare il mondo.

Ma il socialismo, che ancora in modo così aneddoticopartecipava alle lotte parlamentari, e così poco si facevasentire ancora nelle lotte economiche, gravava fortemen-te sin da allora in Italia come in Europa, incubo paurosopei ricordi del’ 48 e in ispecie per quello recente della Co-mune parigina, che era stata interpretata come un esperi-mento socialistico, e i socialisti l’avevano presa o usurpa-ta come parte della loro storia ossia della loro leggenda;e da quando aveva fatto assai parlare di sé l’Internazio-nale dei lavoratori, corollario pratico di quel quarantot-tesco Manifesto dei comunisti, scritto dal Marx e dall’En-gels, che al suo apparire era rimasto quasi del tutto igno-rato; e mentre si ripetevano lanci di bombe e attentati aisovrani, e dalla lontana Russia veniva una nuova figura euna nuova parola, il mistico rivoluzionario che vuol rivo-luzionare tutto, il «nichilista». Tra gli uomini del Risorgi-

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mento ce n’erano che si stimavano felici di poter chiude-re gli occhi prima di assistere all’orrenda catastrofe, chesi preparava in Europa, a fronte della quale le barrica-te del giugno ’48 e le ninfe petroliere del ’71 sarebberostate un nulla. Altri, e tra questi il Crispi, osservavanoche in Italia non c’era da temere, perché non c’era (es-si dicevano) «la materia combustibile a tanto incendio»,mancando le grandi città operaie e non essendo l’opera-io italiano a tale altezza d’istruzione da seguire gli esempîstranieri: che, se era un modo di tranquillarsi, era un mo-do bene strano, argomentando sulla mancanza di ciò chedoveva augurarsi che ci fosse e al cui sorgere tutta la po-litica economica e l’amministrazione italiana intendeva-no col promuovere le industrie e istruire il popolo. I re-pubblicani dell’estrema sinistra avrebbero voluto inqua-drare e risolvere il movimento socialistico nel loro, pro-mettendo la ripartizione proporzionale del prodotto trai produttori e combinando altrettali frasi, povere di sen-so. Invece, gli uomini della destra e del centro, compren-dendo che il socialismo nasceva dalle viscere stesse del-la società produttrice, qual’era modernamente ordinata,pensosi dell’avvenire e perciò non disposti ad appagarsidella momentanea sicurezza e tranquillità, furono i pri-mi che ammettessero francamente la realtà e la legittimi-tà della «questione sociale», come allora si chiamava, edelineassero una politica preventiva, la quale prese na-turalmente il carattere che in Germania e in Inghilterrale davano il Bismarck e il Disraeli, e che i teorici defi-nivano «socialismo di stato» e gli avversarî, con riferen-za ai Gneist, agli Schmoller, ai Wagner e agli altri pro-fessori tedeschi suoi teorizzatori, «socialismo della catte-dra». Il Minghetti, che, fin da giovane, nei suoi studî dieconomia era stato avvinto non tanto dalle dottrine dellascuola classica e liberistica quanto da quelle del Sismon-di, e aveva scritto un libro sulle Attinenze della economiapolitica con la morale e il diritto, tra i motivi che lo por-

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tarono ad accettare e aiutare il «trasformismo», mettevain prima linea la necessità di «prendere coraggiosamentel’iniziativa di tutte le riforme», senza spaventarsi di cer-te idee, per non essere travolti dalla «marea demagogi-ca», alla quale «nessuna forza umana può ormai oppor-re una diga». Il Berti, passato da destra a sinistra perchécontrario alla tassa del macinato, e ministro di agricol-tura col Depretis dall’81 all’84, aveva ideato una legisla-zione sociale, e gli facevano eco lo stesso Depretis e altriuomini politici, tra i quali il Crispi nei suoi discorsi elet-torali, e un po’ tutti. Consimili riforme invocava già nel1878 l’Ellero; autore del libro intitolato La tirannide bor-ghese. Il Villari, moralista e filantropo, si dié a insisterecon molteplici scritti, raccolti poi nel volume delle Let-tere meridionali, sulla «questione sociale», alla quale nonbisognava (egli diceva) «chiudere gli occhi» per il brivi-do di terrore che dava lo spettro del socialismo, ma con-veniva guardarla e affrontarla risolutamente, apportandorimedî ai mali che la cagionavano. Circa quel tempo, sirWilliam Harcourt aveva pronunziato, nella Camera deiComuni, la frase diventata popolare: «Oggi siamo tuttisocialisti». Anche lo Spaventa, il cui interessamento erarivolto altrove e i cui studî erano piuttosto di giurista deldiritto pubblico che non di economista e sociologo, finìcon qualche accenno in questo senso, notando che, nellecondizioni del lavoro moderno, la libertà stessa è soven-te contraria agli sforzi che le classi operaie fanno per lapropria elevazione. I socialisti di stato, i moralisti dell’e-conomia, guadagnavano proseliti in Italia, non rattenu-ti dalle sarcastiche critiche dei liberisti con a capo il Fer-rara. Nel 1878 vide la luce in Firenze, e passò poi a Ro-ma, la Rassegna settimanale, diretta da Sidney Sonnino eda Leopoldo Franchetti, i due autori delle indagini sullecondizioni economiche e amministrative dell’Italia meri-dionale e della Sicilia, la quale aveva il fine determina-to di dimostrare l’esistenza anche in Italia della questio-

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ne sociale e l’urgenza di studiarla per provvedere ai mo-di di risolverla, e raccolse intorno a sé giovani di elettaintelligenza e di buoni studî, come il Fortunato, il Salan-dra e altri. La rivista continuò alcuni anni molto lodatae stimata, e contribuì a fare smettere alle classi colte ita-liane quell’istintivo movimento di «chiudere gli occhi»,del quale aveva parlato il Villari, e a introdurre la paca-ta discussione sul socialismo e sui doveri della borghesiaverso contadini e operai, e, in genere, a dare maggiore ri-lievo che prima non si usasse ai problemi sociali ed eco-nomici concernenti il benessere delle classi popolari. Findal 1883 era stata istituita la Cassa nazionale per gli in-fortunî sul lavoro, ma con assicurazione soltanto volon-taria. Il Minghetti e il Sonnino presentarono alla Came-ra proposte sul lavoro delle donne e dei fanciulli, e sullaresponsabilità dei padroni pei casi d’infortunio, che eb-bero nel 1886 sanzioni di legge; e altre proposte riguar-darono l’emigrazione, le pensioni per la vecchiaia, il ri-conoscimento giuridico delle società artigiane ed agrico-le di mutuo soccorso, la libertà di coalizione negli scio-peri, che il codice penale considerava reato, nelle qua-li tutte si mostrava la tendenza a uscire dal pavido con-servatorismo e dal non interventismo economico; il cheera anche confermato dalla legge sul bonifìcamento del-l’agro romano col diritto, da parte dello stato, di obbli-gare, nell’interesse generale, i proprietarî alla coltura dicerte zone, e, in caso d’inadempienza, di procedere all’e-spropriazione. Erano leggi spesso inadeguate, spesso po-co o male eseguite, ma che per intanto si proponevano esi votavano. Anche la «questione meridionale», di cui lasollevazione dei meridionali contro la Destra era stata unsintomo ma non già una consapevolezza, e perciò non siera innalzata a tesi politica, giunse allora a chiarezza dicoscienza e di definizione per opera precipua del Fortu-nato, con le congiunte questioni della malaria, dei montifrumentarî, dei demanî, dell’emigrazione. Le misere con-

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dizioni igieniche e morali del popolino di Napoli, i «fon-dachi», i «bassi», la «camorra», furono rese note dal Fu-cini, dalla White Mario, dal Villari; e ciò indirettamen-te concorse all’opera del «risanamento» della città, deli-berata dopo le stragi dell’epidemia colerica del 1884. Laletteratura e le arti figurative, in quegli anni, si riempiva-no di questo interessamento per le sofferenze, gli stenti,l’abiezione, il barbaro e selvaggio costume in cui viveva-no le plebi delle città e delle campagne, come si vede neiromanzi e nelle novelle del Verga, del Capuana, della Se-rao, in molte delle pitture e sculture che allora ebbero fa-ma, il Voto del Michetti, l’Erede del Patini, il Proximustuus del D’Orsi. Il De Amicis, che godeva grande popo-larità di descrittore e pedagogo, e si volgeva pronto ai va-rî moti del pubblico sentimento, lasciò stare il tema del-l’esercito, i suoi «bozzetti militari» del tempo in cui si do-veva rafforzare e compiere l’unità con l’opera dell’eser-cito, e, dopo aver dato il libro educativo Cuore (1886),trattò (Sull’Oceano, 1889) il tema dell’emigrazione, e poi(Il romanzo di un maestro, 1890) quello dei maestri ele-mentari, anch’essi una sorta di proletarî, negletti e mal-trattati in ispecie nei minori comuni e a favore dei qualiuna legge del 1886 cominciava a far qualcosa, obbligan-do i comuni ad aumentare il minimo degli stipendî e adare garanzie contro gli arbitrarî licenziamenti.

Tutto ciò in parte nasceva dall’assillo dell’incipientesocialismo, ma per altra e forse maggior parte era con-forme al sentimento umanitario, che allora ominava, ere-dità della compassione e dell’indignazione che i vecchie i giovani del Risorgimento avevano nutrite per gli op-pressi di ogni sorta, e della educazione romantica e sen-timentale, non ancora superata. La forza «irresistibile»della passione che accieca e trascina, la «riabilitazione»della donna caduta per l’insidia dei sensi o della pover-tà, la «riabilitazione» dell’uomo che ha commesso un de-litto e, condannato dalla legge, ha espiato, e simili mo-

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tivi, avevano le loro opere rappresentative nella lettera-tura italiana e nella francese, che assai si leggeva, e vive-vano negli animi come sentimenti approvati e correlati-ve disposizioni. L’amore stesso aveva sostituito nelle im-maginazioni alle purissime vergini del primo romantici-smo italiano, alle Ildegonde e alle Bici, la donna tocca-ta dall’impurità e dall’adulterio, la donna fragile, senti-ta con compassione e passione in questa fragilità. Il ve-rismo, che sopravvenne, e il positivismo, che ne era la fi-losofia, e in Italia dié origine, tra l’altro, alle teorie dellascuola positiva o lombrosiana del diritto penale, non val-sero a spegnere questi modi di sentire, sebbene traduces-sero i drammi della passione in termini fisiologici e pa-tologici e dessero spicco all’elemento naturale e impulsi-vo, e alle istanze del «cuore» sostituissero o aggiunges-sero quelle della «scienza», correggitrice e riformatriceper opera medica e d’igiene sociale. I giurati assolveva-no i delitti passionali o largheggiavano nelle «attenuan-ti»; la legislazione si fece più mite; non fu più sopportatala pena di morte, e, prima ancora che il codice l’abolis-se, era caduta in desuetudine, seguita sempre dalla gra-zia che la commutava nell’ergastolo. Anche quando unamano omicida si levò contro re Umberto, s’invocò la gra-zia, in parte spiegando quel gesto con l’ambiente politi-co di esaltazione rivoluzionaria che il governo dei Cairo-li e Zanardelli aveva per qualche tempo lasciato formareindisturbato, in parte ragionando la richiesta con la con-venienza di non permettere che i sovversivi facessero unloro «martire» di un povero «imbecille»; e il re, che sen-tiva a una col suo popolo, concesse la grazia. I dottrina-rî sostenevano la conservazione o l’abolizione della pe-na di morte con astratti raziocini, tutti alla pari invalidi;ma stava il fatto della ripugnanza che gli italiani provava-no per il patibolo e per la lurida figura del carnefice, perl’idea che ci dovesse essere ancora tra i cittadini italianiqualcuno che esercitasse legalmente tal mestiere. L’abo-

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lizione, dopo aver incontrato ostacoli e ritardi, fu, infine,consacrata nel nuovo codice penale dello Zanardelli, nel1889.

Questo culto degli affetti gentili si stendeva anche al-l’esercito d’Italia, ai «nostri bravi soldati», come allorasi diceva, che si vedevano accorrere pronti a ogni operadi soccorso, nelle inondazioni, nei terremoti, nelle epi-demie; e avvolgeva le persone dei sovrani. Il re Umber-to fu sempre accanto al suo popolo in ogni sventura, equando, nel 1884, si aggirò tra i colerosi di Napoli, nelpiù forte imperversare del male, alla commossa gratitu-dine degli italiani si unì l’ammirazione del mondo civi-le pel re d’Italia, che meritò ancora una volta il nome, di«buono». Del resto, in quella occasione, fu una gara difratellanza di tutte le classi di cittadini, napoletani e del-le altre parti d’Italia, che mandarono squadre di soccor-so, dagli uomini del clero agli anticlericali e repubblica-ni, guidati dal Cavallotti e dal Maffi. La regina Marghe-rita, che ebbe in quegli anni la grande stagione della suavita, congiungeva alla dolce pietà e all’incantevole sorri-so l’amore per le arti e per la poesia, e pareva essa stes-sa una creatura poetica, venuta a incarnare nel modo piùperfetto l’idea di una Regina d’Italia, della terra delle artie di ogni cosa bella.

Formava riscontro a questa generale umanità del sen-tire la ricerca, nell’istruzione e nell’educazione, dellasemplicità e della sincerità, proseguendosi anche qui eportandosi a conclusione l’opera pedagogica del Risorgi-mento e del suo particolare romanticismo, che, dal Man-zoni al De Sanctis, aveva mirato a srettoricare l’Italia, asgonfiare la tumidezza delle parole e dei convenzionalisentimenti, a togliere la separazione tra l’uomo e il let-terato, e l’opposizione tra il letterato e il cittadino, tra ildire e li fare. Nelle scuole medie dello stato, migliori diquelle private e confessionali e perciò frequentate da cre-scente numero di alunni, prevaleva l’insegnamento clas-

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sico; ma, caduto in discredito il tradizionale modo di es-so, lo studio fraseologico del latino e dell’italiano, le imi-tazioni, le esercitazioni rettoriche e poetiche, ossia metri-che, gli si erano sostituiti la libera composizione su im-pressioni ed esperienze della vita, la lingua parlata, lo sti-le piano, la prosa, riducendosi al minimo l’apprendimen-to della grammatica teorica e introducendosi quello del-la filologia, cioè dell’interpretazione storica delle lingue edegli scrittori. Assai contribuiva a questo diverso avvia-mento l’ultima lezione somministrata dal Manzoni, cheinculcava l’unità nella forma della lingua viva fiorentina:i libri del De Amicis, dello Stoppani e di altri manzonia-ni, e i giornali, come il Fanfulla, scritti da toscani, non so-lo e non tanto davano questa lingua, quanto l’esempio el’abito dello stile spontaneo e snodato, semplice e perfi-no tenue; egli antimanzoniani, come il Carducci, al qua-le non si confacevano quello stile e quei limiti, e coloroche accoglievano in sé una tradizione italiana più larga diquel che non fosse il mero fiorentinismo di conversazio-ne, come il Borgognoni e altri della scuola romagnola, ei lombardi e i meridionali che non volevano o non po-tevano assumere, con sforzatura e d’accatto, una pretesalingua tipica che era essa stessa un dialetto, nella sostan-za poi non discordavano né tra loro né dai manzoniani,risalendo ora al vigoroso popolaresco ora al trecentescoora all’arguto cinquecentesco delle lettere e della com-media, ora attingendo alle colorite parole e agli efficacimodi dialettali, ed erano tutti del pari antiretorici e anti-convenzionali. Difettava l’Italia (si era detto tante volte)di «libri leggibili», e tutti leggevano per intanto la requi-sitoria del Bonghi contro questo difetto, le sue lettere cri-tiche intitolate: Perche la letteratura italiana non è popo-lare in Italia, e procuravano di scrivere per farsi leggere,al qual fine il mezzo che allora si porgeva era appunto lasemplicità, la chiarezza, la scorrevolezza dello stile. An-che nei dibattiti del parlamento la rettorica non si gradi-

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va né si tollerava: qualche brav’uomo, reboante oratoredell’Estrema, finì con l’essere decorato dell’epiteto virgi-liano di «Eolo, padre dei venti»; si ammoniva scherzo-samente che nella Camera non fosse di buon gusto direla «patria», ma bisognasse dire il «paese». All’altra ma-nifestazione di rettorica, che era la tendenza celebrativae festaiola degli italiani, famosa negli ultimi secoli, e chepur testé li aveva fatti denominare dal Times «la nazio-ne carnevalesca», si procurò di opporre riparo, e in qual-che misura vi si riuscì. Quando si faceva un gran discu-tere degli apparecchi pei pubblici festeggiamenti nel pri-mo anniversario dell’entrata in Roma, una voce rammen-tò quel motto satirico straniero, e ammonì che «uno sta-to libero deve guardarsi dal seguire le abitudini dei go-verni assoluti, che hanno tutto l’interesse di divertire confeste i sudditi, perché non abbiano il tempo di pensareai casi proprî rimpiangere la libertà». Gli sbandieramen-ti, i proclami, l’oratoria, i giuramenti del ’48, non seguitida effetti, e ai quali degli scarsi effetti e degli errori com-messi s’imputava la colpa, avevano lasciato la loro traccianella parola «quarantottata».

Insieme con la sincerità dell’esprimersi, s’inculcavanoe si attuavano, nella scienza, l’attenta ricerca e lo studiodei fatti, l’astensione dalle facili generalità, la minuta co-noscenza dello «stato delle questioni» e del lavoro giàcompiuto sui varî argomenti dagli studiosi e scienziatiitaliani e stranieri. Le università, così quelle di antica fon-dazione, che erano state riformate e accresciute nelle cat-tedre, come le altre nuove, erano animate tutte da questospirito, e lo stato le provvedeva d’insegnanti mercé un li-berale metodo di concorsi aperti a tutti, e ne curava gliistituti secondo la propria capacità finanziaria, assai in-feriore a quella di altri paesi, ma che pur consentiva diaprire e ampliare gabinetti e laboratorî, e fornirsi di librie riviste e varie lingue di cultura, delle quali l’uso cresce-va e anzi diventava obbligatorio presso fisici e naturalisti

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non meno che presso giuristi e letterati, un tempo con-tenti al latino e a un po’ di francese. Lo «specialismo» ela «competenza» e il «metodo» e la «letteratura dell’ar-gomento» sonavano con certo orgoglio sulle labbra de-gli universitari, ed erano guardati come ideale dai giova-ni studiosi, che miravano a conseguire quella sorta di ari-stocrazia, distinguendosi dai «dilettanti» e dai «giornali-sti», e anche dalla buona gente della generazione che tra-montava, e che non aveva avuto, a causa dei tempi imma-turi, quel crisma, e troppo spesso (si diceva) aveva lavo-rato di fantasia con materiali insufficienti e non resisten-ti. In quel tempo, per quel che riguarda gli studi stori-ci, si fondarono in ogni regione società di storia patria, sirifrugarono gli archivî e le biblioteche d’Italia, si pubbli-carono con miglior metodo testi, cronache e documenti,si raddrizzarono molteplici errori tradizionali in materiadi fatti, si elaborarono storie filologicamente concepitee documentate, si ricercarono fonti e derivazioni, si per-fezionò nell’esterno e negli strumenti la storiografia, chedi tale disciplina aveva bisogno, e similmente nella sto-ria letteraria, col congiunto svolgimento della linguisticacomparata, della glottologia e della grammatica storica.Negli studi morali, preferiti furono quelli dell’economia,che seguirono i progressi delle nuove scuole, soprattut-to tedesche; gli studi di diriitto ebbero anch’essi il be-neficio della più accurata filologia; i problemi del dirittopubblico vennero dibattuti cori la conoscenza delle dot-trine e controversie straniere. L’avanzamento dei metodidell’indagine, la migliore informazione e il più rigorosoprocedere, si notavano in ogni campo, nelle scienze ma-tematiche e fisiche, nella zoologia, botanica e geologia,nella fisiologia e nella medicina.

Erano assai lette riviste come la Nuova Antologia, egiornali letterari come la Gazzetta letteraria di Torino, equelli che presto la sorpassarono per arte di scrivere ericchezza di cultura, il Fanfulla della domenica; la Dome-

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nica letteraria, la Domenica del Fracassa, tutti di quel to-no disinvolto e urbano che piaceva, e conversanti, senzaangustie accademiche e goffaggini provinciali, di lettera-tura italiana e straniera, del Carducci e delle sue Odi bar-bare, dei veristi francesi e nostrani, di Enrico Heine, cheallora fu assai amato e tradotto e imitato in grazia del suoradicalismo religioso e politico e del suo modo discorsi-vo e arguto, e del piccolo Heine italiano, che fu lo Stec-chetti, col suo verseggiare limpido e succinto, anch’essomolto imitato. Fatta la grande eccezione del Carducci, lalirica più largamente coltivata, dei Panzacchi e dei Mar-radi, dei Severino Ferrari e dei Mazzoni, era tutta su que-sto andare di brevi componimenti, spesso graziosi e an-che eleganti, garbatamente amorosa o leggiadra d’imma-gini e ricordi storici, o borghese e familiare. Nel teatro,il Cossa abbassava al tono borghese la vecchia tragedia;Paolo Ferrari e il Torelli trattavano la commedia a tesi suigià accennati dibattiti di amore e moralità, peccato e re-denzione; il Gallina e il Selvatico e il Di Giacomo davanoil dramma popolare, sentimentale o passionale; il Marti-ni e altri componevano «proverbi» su piccole situazionidi casistica amorosa del bel mondo. Nei raccomandatiprecetti di «scrivere come si parla», e di «dire quel chesi sente» e di «essere spontanei» e «naturali», trovavanocondizione favorevole le donne, disposte anche troppoda natura all’osservanza di quei precetti, le quali nei se-coli innanzi non entravano di solito nel mondo letterariose non prendendo abito virile, coltivandosi nelle scuole,rimatrici petrarchesche, pastorelle d’Arcadia o patriotti-che Vellede; e invece ora effondevano il loro cuore e nar-ravano le loro esperienze, come la Serao, Neera, Emma,la contessa Lara e molte altre. Anche l’educazione fem-minile si veniva trasformando, con le scuole normali perle maestre, con gli impieghi privati e pubblici ai quali ledonne cominciavano a partecipare, col comparire, raraavis allora, di qualche laureata universitaria in medicina

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o in legge. I «circoli filologici», dopo l’esempio di quellodi Torino fondati in ogni grande città, oltre ad agevolarel’apprendimento delle lingue straniere con le loro scuo-le, offrivano conferenze su tutti gli argomenti giovevolialla diffusione della cultura, ma soprattutto su cose let-terarie, e gabinetti di lettura e biblioteche circolanti. Legrandi esposizioni artistiche, e quelle annuali delle socie-tà promotrici delle belle arti; e le questioni artistiche, co-me quelle delle facciate del Duomo di Firenze e di Mi-lano o del monumento al re Vittorio Emanuele in Ro-ma, davano materia a vivaci e geniali discussioni. La cri-tica della letteratura e dell’arte, che si faceva nei ricordatisettimanali letterarî e nei quotidiani politici, si era distri-gata dalle regole e dai canoni, contro i quali tanto ave-va battagliato il romanticismo, e seguiva in genere, sen-za molto teorizzare, le impressioni del gusto; e il gusto simanteneva schietto e sano per la non intertotta tradizio-ne della buona letteratura italiana e della scuola umani-stica. Guardando in complesso, si deve riconoscere chela letteratura e l’arte di quella generazione, fiorita intor-no al 1880, furono assai più ricche e vive che non quel-le del periodo precedente, di tra il 1835 e il 1865, e han-no lasciato opere più modeste nell’aspetto, ma più soli-de che non forse il periodo seguente, iniziatosi all’incir-ca dopo il 1890, e che culminò tra il 1900 e il 1910, nelquale, come si vedrà, il vigore critico e speculativo fu digran lunga maggiore, ma la semplice bellezza andò qua-si affatto perduta, sicché quella può dirsi l’età artistica el’altra l’età filosofica della nuova Italia.

Parve talvolta che il culto dell’arte, l’intellettualità, ilsentimentalismo degli italiani peccassero di eccesso; edè notevole che quelli che provarono e manifestarono sif-fatto timore e avvisarono al rimedio, fossero uomini chevenivano dal pieno della cultura, come Quintino Sella,che, avverso all’ascesi cristiana e al disprezzo del corpo,fondò il Club alpino italiano e dette ai suoi connaziona-

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li il gusto delle ascensioni, esercizio di volontà, di previ-denza, di coraggio, di virtù morale; e Francesco de Sanc-tis, l’interprete dei grandi poeti italiani, il critico filosofo,che da giovane era stato romantico e leopardiano, e sa-peva i danni del troppo sognare e fantasticare, e, quandotornò ministro dell’istruzione, affermò la necessità, nongià, come si sarebbe aspettato, della filosofia e dell’este-tica, ma dell’educazione fisica, e prese a curare in modoparticolare l’insegnamento della ginnastica.

Tra questa varia opera pratica e culturale, e dei singolinon meno che dello stato, si veniva svolgendo un proces-so di somma importanza, sebbene non avvertito, la for-mazione di una comune vita italiana, cioè il superamentodelle vite regionali, chiuse ciascuna nel suo circolo e, traloro, se non ostili, estranee e indifferenti. Si suol dire chel’Italia già esisteva prima che pervenisse a unità statale;e, certo, esistevano una lingua e letteratura italiana, talu-ne comuni sebbene remote e in parte immaginarie origi-ni storiche, e, assai recenti, alcune aspirazioni politichesimili o analoghe, che cercavano di appoggiarsi le une al-le altre e prender forza dall’unione. Ma una vita sociale eculturale comune non è veramente effettiva senza la ba-se dell’unità statale, con comuni interessi politici, comu-ni fortune e sfortune, con la collaborazioòne delle varieparti agli stessi fini; la quale unità statale non ha interes-si ad ostacolare, ma anzi a promuovere la comunione intutto il rimanente. Non è meraviglia che il processo uni-tario italiano facesse udire, al suo principio, qualche stri-dore di contrasti; e meraviglioso è piuttosto che quellostridore fosse così lieve e così presto svanisse, contro leattese e le speranze, all’interno, di coloro che avevano dimal grado subito l’unità e tenevano impossibile che pie-montesi e napoletani e toscani e siciliani se ne sarebbe-ro stati in pace e in accordo, e di parecchi stranieri, che,innamorati della pittoresca varietà delle popolazioni ita-liane, e inferendo da essa radicali e insuperabili differen-

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ze, facevano non diverso prognostico. Quegli stessi pic-coli contrasti vennero segnatamente da uomini che, peraver trascorso una parte dei loro anni migliori nei vecchistati italiani, erano ricordevoli del passato, delicati nel-l’amor proprio regionale, corrivi a veder dappertutto of-fese di legittimi interessi e di cari e rispettabili sentimen-ti, e a giudicare superflui e dannosi, e fatti per cervelloti-ca smania di uniformità, i mutamenti di leggi e di istitu-ti; ma si dileguarono con quegli uomini e col rasserenar-si dei loro animi. Pure, anche quando il malessere eco-nomico del Mezzogiorno proruppe, non prese forma dirivolta o protesta regionale, ma di disfavore a un parti-to governante e di favore a un altro, che prometteva mi-glior governo e grandi beneficî a tutti gli italiani; e le cat-tive condizioni di quelle provincie furono svelate e pro-poste alla discussione prima da italiani di altre parti d’I-talia che da quelli del Mezzogiorno, e questi stessi trova-rono ascolto e consenso più nella grande vita italiana chenelle loro particolari regioni. Né si può attribuire alcu-na importanza alle querele, che son di tutti i popoli, suivantaggi maggiori o minori ricevuti da un regione rispet-to all’altra, querele che si confutano a vicenda e che qua-si tutte terminano col rimprovero, rivolto a sé medesimi,sulla propria inabilità e l’altrui abilità. Di tutti i popolisono altresì le censure e satire di una regione verso l’al-tra e che rimangono nella non scritta letteratura popola-re, perché il freno del pudore vieta di metterle in istam-pa; il qual freno in Italia si mantenne sempre assai forte,nonostante che anche in essa si potrebbe raccogliere sulproposito un folklore assai curioso. Il vero è che gli uffi-ci esercitati dalle medesime persone nelle più varie partid’Italia, gli agevoli e frequenti viaggi, l’amministrazione,il parlamento, la capitale, il commercio e i viaggiatori dicommercio, i giornali, la letteratura rendevano di giornoin giorno più familiari gli affetti, le costumanze, la psico-logia, le favelle di tutte le parti d’Italia a tutte le parti; e il

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servizio militare, come si è detto, non regionale, produ-ceva simili effetti tra i popolani e i contadini. Riprese afiorire la letteratura dialettale d’arte, che è, per l’appun-to, un moto centripeto e pon, come talvolta stortamen-te fu interpretato, centrifugo; e le commedie piemonte-si del Bersezio, e quelle veneziane del Gallina e del Sel-vatico, e quelle milanesi del Ferravilla, e altre di altri dia-letti, fecero ridere o lagrimare tutti i pubblici d’Italia, ele canzoni del Di Giacomo e degli altri canzonettisti na-poletani furono cantate dappertutto, e i versi romaneschidel Belli e del Pascarella dappertutto ripetuti e citati co-me motti e proverbî. La quale più stretta conoscenza re-ciproca non diminuì ma accrebbe le virtù e le attitudinidi ciascuno, e la Toscana fu maestra di temperanza e digarbo, la Lombardia di operosità industriale e commer-ciale, l’Italia meridionale di un modo più robusto e filo-sofico d’intendere i problemi della teoria e della pratica,e via discorrendo. Non si disciolsero gli antichi centri dicultura, perché la capitale politica non era in grado di at-tirare a se la vita spirituale della nazione, né tutta né nel-la sua maggiore e miglior parte: Milano per la quale sor-se allora la denominazione di «capitale morale» d’Italia,Torino, Bologna, Firenze, Napoli e le altre grandi cittàmantennero un loro proprio ufficio variamente specifi-cato, che è di gran vantaggio per la più ricca vita cultu-rale della nazione e che la troppo accentrata Francia sof-fre di non possedere; ma il loro chiuso carattere regiona-le venne grandemente scemando. Chi nacque ancora intempo da vedere quelle città tra il vecchio e il nuovo, econobbe quella generazione che era stata già suddita delre di Sardegna, del reale imperiale governo, del grandu-ca di Toscana, del papa e dei Borboni delle Due Sicilie,e godé gli ultimi strascichi di certe costumanze popola-ri, e ammirò la magnificenza dei palagi signorili e lo sfog-gio dei cavalli e dei cocchî, e ricevette le parole dei vec-chi dotti e letterati e magistrati e militari, i loro giudizî e

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i loro racconti, che recavano ancora le aure dei tempi na-poleonici e delle restaurazioni e del Ventuno, e perfinotalvolta le più lontane e quasi leggendarie del ’99, sentela dolcezza e insieme la malinconia del ricordo, ma provanient’altro che quello che sempre si prova allo spettaco-lo dei tramonti, e, fuori di questa nostalgia del sentimen-to, deve giudicare che al passato che tramontava succe-deva un presente più civile, più intelligente, più serio, eche al perduto fascino della vecchia Torino e della vec-chia Napoli era buon compenso il largo respiro della vi-ta italiana. Più attuali, e assai dolci, erano le conoscenzeche si legavano con uomini di tutte le parti d’Italia, e nel-le argute conversazioni il reciproco comunicarsi di noti-zie, e di quel che faceva. il Carducci a Bologna, il Boitoe il Giacosa a Milano, e il De Sanctis e il Morelli a Napo-li, e il Verga in Sicilia, e simili, e di quel che si preparavadagli uni e dagli altri, e i disegni di opere comuni.

La distanza tra le varie classi sociali non era stata maigrande, neppure nei vecchi tempi, in Italia; e diminuì an-cora nella nuova società. Alla nobiltà d’origine baronalenon solo erano venuti meno i privilegi nei riguardi eco-nomici, politici e militari, ma anche la sua superiorità difatto e le prerogative di consuetudine non perdurarono,circolando la ricchezza senza remore di primogeniture efedecommessi più rapida, aperti alla concorrenza tutti ipiù alti posti dello stato, assente nella gara molta par-te della nobiltà, perché ligia ai vecchi governi o clericale,poco capace un’altra arte, perché avvezza agli ozî e incol-ta. Tuttavia, dapprima, col suffragio ristretto che dava lapreponderanza alla proprietà terriera, quella parte di es-sa che aveva favorito o accettato il nuovo ordine italianoe liberale ebbe qualche rappresentanza nel parlamento;e tutta insieme poi ritenne autorità nelle amministrazionidelle grandi città, dove l’astensione dei cattolici non eracomandata dal Papa, e la generale fiducia del popolo an-dava spontanea ai gentiluomini del patriziato, ai princi-

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pi, duchi e marchesi, per il lustro degli storici nomi, perl’abitudine che si aveva da secoli a vederli a quei posti,perché parevano offrire, a confronto della gente nuova,maggiore garanzia di disinteresse, di rettitudine e di amo-re pel pubblico bene e pel decoro delle loro città. Altre-sì essa era naturalmente chiamata a presiedere istituzionidi beneficenza e di educazione, comitati per gare e festedi arte o di scherma o di corse e simili: ché l’aristocraziadel danaro non esisteva ancora e non poteva sostituirla inqueste cose. La borghesia, che non aveva avuto in Italia,nei tempi moderni, odî profondi e urti sanguinosi con lanobiltà, e aveva abolito o veduto abolire quanto ancoraavanzava di istituzioni politiche medievali non solo sen-za grande resistenza ma spesso col concorso della nobiltàstessa, rischiarata dai lumi del secolo, era disposta versodi lei alla considerazione e al rispetto, non soffrendo, percagion sua, di alcuna esclusione. Esclusa restava, se mai,dai salotti e dai circoli cosiddetti aristocratici, che nonhanno nulla da vedere con la nobiltà nel significato stori-co e sociale, e rientrano piuttosto in quello che poi è sta-to definito «il mondo dello snob»; e gli inclusi, e gli esclu-si che guardavano desiderosi, erano snobisti contro sno-bisti, e i secondi si consolavano col far ricercare negli ar-chivî o foggiare titoli nobiliari, o borghesemente col sol-lecitare onorificenze cavalleresche, delle quali l’Italia lar-gheggiava, conforme al motto che si attribuiva al re Vit-torio Emanuele, che «un sigaro e una croce di cavalie-re non si rifiutano a nessuno». Quanto al popolo, salvoquello che sempre e dappertutto cova da parte dei pove-ri contro i ricchi (e che, come ebbe già uno scoppio nellaSanta Fede e nel brigantaggio, così poteva erompere inaltre opportunità), neppure si mostrava astio tra esso e laborghesia, nonostante gli episodici accenni d’internazio-nalismo e anarchismo in talune provincie. Non era an-cora apparso sull’orizzonte italiano, neppure tra i com-ponenti delle società operaie, l’«odio di classe», che fu,

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piuttosto che uno stato d’animo spontaneo, un teorizza-mento imposto e coltivato, e solo in parte convertito inistato d’animo. La naturale gentilezza e cordialità italia-na, quel che sempre era mancato di rigide divisioni e ce-rimoniali, quel che sempre c’era stato di abito democra-tico e che riappariva ora nel contegno e nel modo di vi-ta dei ministri e nelle relazioni coi deputati e dei depu-tati tra loro, e dei deputati e degli impiegati con le po-polazioni, rendevano quasi senza senso le parole «classesociale», il cui senso, come si è detto, conveniva appren-dere più tardi su esempi forestieri e trasportarlo in Italiaper convenzione e per partito preso.

Anche i dissidî, che si possono chiamare di fede, s’at-tenuavano; perché i legittimisti, i granducali, gli austria-canti, e, soli che avessero qualche importanza per la gran-dezza dello stato a cui erano appartenuti e che nella sto-ria d’Italia aveva formato sempre un corpo separato, iborbonici delle Due Sicilie, dapprima, smesse le cospi-razioni, si erano tirati in disparte, e poi a poco a pocoentrarono in relazione con la società italiana, e, se nonproprio essi, i loro figliuoli, non legati dalle stesse ragio-ni di sentimento o di dignità o di dispetto dei loro pa-dri, e che non potevano rinunziare agli uffici e alle am-bizioni. L’amministrazione delle città fu uno dei trami-ti di questi avvicinamenti; ma più ancora vi ebbe effica-cia la pratica della libertà, e il lasciar parlare e il conver-sare e il discutere e il tollerarsi scambievole. Nuove di-visioni di fede politica non si disegnavano o non eranoestese né sostanziali; e quella tra Destra e Sinistra tentòdapprima di prendere un sembiante d’intransigenza, manon poté mantenerlo; le più effettive, verso repubblica-ni e socialisti, si mitigavano e addolcivano nella consue-tudine parlamentare, e qualche terribile sovversivo, fat-to deputato, divenne in ultimo vicepresidente della Ca-mera, carezzato e riverito dai colleghi di tutte le parti, ealtri smise finanche la guerra contro l’aborrito frack. Gli

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israeliti, che, in particolare nel Veneto, dove si trovava-no in maggior numero, avevano dato mano all’opera delRisorgimento, non risparmiando fatiche e sacrificî, e cheil Cavour aveva guardati d’assai buon occhio, prendeva-no parte alla vita degli affari e a quella pubblica, e altre-sì a quella scientifica, sebbene scarsissima alla poesia eletteratura, e ricomparvero anche nell’Italia meridiona-le, dove da circa quattro secoli non se n’erano più visti,da quando gli spagnuoli ne avevano a lor modo purgatoqueste terre. Qualche osservazione si accennava circa illoro carattere e le loro attitudini, e lo Spaventa mi dicevadella nuova esperienza da lui fatta nel trattare per la pri-ma volta, quando fu ministro dei lavori pubblici, con fi-nanzieri ebraici; e stupito notava che solo israeliti come ilsuo amico Luzzatti potevano sentire il pathos e cantare lalirica della moneta. Anche si mostrava la loro preponde-ranza nella massoneria: cosa affatto naturale, perché gliebrei dovettero il principio della loro redenzione al seco-lo dei lumi e alla ideologia della eguaglianza e fraterni-tà, e dell’anticlericalismo e del vago deismo, che la mas-soneria tuttora rappresentava. Ma, per fortuna, non c’e-ra indizio di quella stoltezza che si chiama antisemitismoe che consiste, dopo avere con le persecuzioni rafforzatola separazione e la solidarietà degli ebrei contro le altregenti, nel pretendere di domare le conseguenze di quel-le persecuzioni con la ripresa delle persecuzioni, cioè colriprodurre la causa del male, invece di fidare sulla lentae sicura opera agguagliatrice dell’intelligenza e della ci-viltà. Più difficile, e in certa misura, ossia intrinsecamen-te, impossibile, l’avvicinamento e fusione coi clericali: ilmondo cattolico, col suo Vaticano, con le sue case reli-giose, coi suoi seminarî, con le sue opere di devozione epietà, rimaneva un mondo a parte, del quale si prendevanotizia solo in quanto cercasse di interferire in certi mo-menti della politica italiana; e formava talvolta oggetto dicuriosità, onde qualche giornalista, come il De Cesare, se

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ne fece un campo speciale di competenza quale informa-tore e notiziere. In verità, interessava poco, perché nonlo si scontrava in nessuna parte della vita ordinaria comenemico e concorrente; ed esagerata e fanatica sembravala massoneria, che si era assunto l’ufficio di combatterlocon guerra di sterminio. Le scuole italiane per la miglio-re qualità, che si è detta, di quelle dello stato e per esse-re nelle mani di questo gli esami e i diplomi, non davanoluogo alla differenza e al contrasto, come in Francia, trale deux jeunesses, l’una educata dalle scuole laiche, l’al-tra dalle congregazioni. Del pari che in Napoli e in Sici-lia l’aristocrazia borbonica, in Roma quella «nera» si eratirata da canto e chiusa in sé contro la «bianca» e la «mi-sta»; ma non splendeva ne di capacità ne di cultura, e ta-luni dei suoi membri, poiché non disdegnarono gli affarie le speculazioni, e li condussero con inesperienza, rovi-narono anche economicamente, come i principi Borghe-se. Pure, i clericali più temperati, attraverso le ammini-strazioni delle città che più volte conquistarono nelle ele-zioni e in cui quasi sempre ebbero i loro rappresentanti,si avvicinavano alle autorità dello stato e ai liberali, e fu-rono possibili alleanze, ora coperte e ora aperte, tra essie i liberali conservatori; senza dire che anche l’astensio-ne dalle elezioni politiche era assai più formale che rea-le, non potendosi i clericali, e nemmeno i preti, disinte-ressare di quel che accadeva nei rispettivi collegi, e par-tecipando assai vivamente, specie nell’Italia meridiona-le, alla politica delle famiglie e delle clientele. C’eranopoi sempre, a riempire lo spazio ideale tra i due campidiversi, i superstiti del neoguelfismo: i monaci cassine-si (insigne l’abate Tosti), che l’abolizione degli ordini re-ligiosi aveva rispettati per le loro medievali benemeren-ze verso la civiltà e per le più recenti manifestazioni ver-so l’Italia e la libertà; i cattolici liberali e i liberali cattoli-ci, che pubblicavano tra l’altro, a Firenze, una loro rivi-sta, la Rassegna nazionale; i rapporti tra uomini di studio,

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specialmente nel campo dell’erudizione, come era il casodel padre Guglielmotti, innamorato delle cose marinare-sche e storico ella marina militare, assai frequentato e te-nuto caro dagli ufficiali della marina italiana; le opere dibeneficenza, come in Napoli quelle del frate francescanoLudovico da Casoria, che ebbero fautore e difensore an-che il battagliero anticlericale Settembrini, e le altre dellaLourdes italiana, della Nuova Pompei, fondata da Bar-tolo Longo, che ebbero visitatore ed elogiatore l’ironicoRuggero Bonghi. E come si poteva dimenticare del tut-to quello che si era sognato e amato nell’anno quarantot-to? La morte di Pio IX, del papa del Sillabo, della infal-libilità, del non possumus e delle contumelie contro l’Ita-lia, ma che era stato pure il papa di quella primavera ita-lica, fece rifluire negli animi l’onda dei sentimenti di al-lora; e l’uomo che gli italiani avevano nonostante tutto,amato, ed erano persuasi che egli li amasse, l’uomo ge-neroso e furioso e profondamente buono, fu dai liberalicompianto e commemorato con nobili parole. La sepa-razione rigida non era possibile se non tra gli estremi, trai rappresentanti le gerarchie dell’uno e dell’altro mondo.E anche questi talvolta erano portati a contatto; e, quan-do, nel già ricordato coléra di Napoli, dell’84, re Umber-to s’incontrò presso i letti degli infermi con l’arcivesco-vo cardinale Sanfelice, uniti nello stesso pensiero e nel-lo stesso zelo, un fremito di affetto percorse l’Italia, co-me sempre che, rimovendo per un istante i complicati edarmati ostacoli interposti dalle dure lotte confessionali epolitiche, il cuore umano si ritrova col cuore umano, e lapovera umanità piange come Achille con Priamo.

Tali erano le civili condizioni che si erano formate inItalia, e tali le vie nelle quali essa andava innanzi. E non-dimeno chi avesse domandato allora a un italiano, e nondiciamo a quelli che dappertutto sono sempre d’avvisoche le cose vanno malissimo, ai Bouvard e ai Pécuchet,ma a un italiano appartenente ai gradi elevati, a un uo-

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mo politico, a un pubblicista, a un letterato, ne avrebbeudito parole di scontento e di sconforto e giudizî ama-ri. Per oltre un cinquantennio si era stati intenti alla lottaper la formazione di un nuovo ordine politico-nazionale,trascurando in gran parte tutto quanto di necessità veni-va in secondo luogo, sia che non bastassero le forze perl’ulteriore lavoro che avrebbe richiesto, sia che, per l’ap-punto, fosse nelle mani dei governi da abbattere, retri-vi, ignoranti e cattivi; e anzi si era propensi a credere chei mali di cui si aveva conoscenza (talvolta anche questamancava o era difettiva) sarebbero cessati di per sé conl’instaurazione del nuovo ordine. Ed ecco che quei malinon cessavano e, guardati da vicino, si svelavano in mag-gior numero e più gravi che non si fosse pensato, e la vi-ta della libertà, anziché purificare il paese, ne veniva essastessa inquinata e compromessa. Pazienza che ci si fossecreduti ricchi e ci si scoprisse, meno che modestamenteagiati, poveri e miserabili, con troppa terra sterile, arre-trata agricoltura, scarsa industria, imperizia tecnica; mal’analfabetismo era enorme e ostinato, e dava vergognaal cospetto del mondo civile; le plebi, cittadine e rurali,pronte al coltello, – e il loro sangue bagnava quotidiana-mente le zolle d’Italia, – legate e asservite ad associazionidi prepotenti, di «teppa», di «camorra» e di «mafia»; la«criminalità» tra le più alte di Europa; il sentimento delpubblico interesse e la partecipazione alla politica, assaidebole e quasi assente in larghe regioni; le amministra-zioni locali, specie quelle dei piccoli comuni che la leggeamministrativa trattava alla pari dei grandi, lasciate so-vente sfruttare, soprattutto nel Mezzogiorno, da gruppiavidi e prepotenti, che depredavano demanî comunali,beni ecclesiastici, fondazioni di beneficenza, redditi co-munali. Nei primi anni dopo il ’60, parve quasi che idea-le e realtà stessero per diventare una cosa sola, e si ebbe-ro degne scelte elettorali, gravi e patriottiche discussioni,e i comuni stessi furono generalmente bene amministrati

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con l’aiuto dei prefetti e di commissarî regi e di personedi buona volontà; ma poi si era precipitato. L’elettorato,che doveva risanare tutto, aveva dato origine ai brogli ealle clientele e faceva dei deputati gli uomini di affari deiloro capielettori, spingendoli a intervenire nelle pubbli-che amministrazioni con raccomandazioni e pressioni, econ conseguenti ingiustizie o «favoritismi», e a dare il lo-ro voto a tutti i ministri in cambio di quei favori eletto-rali. Quelli della Destra, che erano austeri e avevano am-ministrato bene, erano stati buttati giù; quelli della Sini-stra, col contrasto tra promesse e adempimenti, tra le pa-role e i fatti, ingeneravano il sentimento dell’impotenzae del fatale andare dei mali. Le rampogne e le lamenteledei migliori uomini politici sulla mancanza di program-mi e di fede nei programmi, e sulla dissoluzione che nonsi riusciva a frenare dei partiti, conducevano al giudiziodell’incapacità italiana nell’osservare la legge dell’ordina-mento parlamentare e al correlativo sconforto. L’autori-tà dello stato non dava sufficiente segno di forza: la de-magogia minacciava di scuoterla; il socialismo, del qua-le si vedevano i primi lampi e che rumoreggiava in tuttaEuropa, minacciava addirittura la spogliazione degli ab-bienti, la tirannia delle masse ignoranti e brutali, l’anar-chia sociale, e lo stato italiano, all’urto, non sarebbe ri-masto in piedi. Si ripeteva da tutti i ben pensanti il det-to del D’Azeglio al formarsi dell’unità statale: che «l’I-talia era fatta, ma che bisognava fare ancora gli italiani».E questa formazione era assai lungi dal compiersi, e anzinon era neppure avviata, e piuttosto pareva che sì fossesviata. Gli uomini stessi, che mafieggiavano la cosa pub-blica, non andavano esenti da sospetti; il patriottismo,di cui traevano vanto, era un patriottismo veramente pu-ro? Troppi «patrioti» avevano trovato il loro tornacon-to in quella sorta di speculazione: avevano «fatto l’Ita-lia» (si satireggiava volgarmente) «per poi divorarsela».E quelle benemerenze patriottiche erano sempre reali o

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non, assai spesso, gonfiature e menzogne? Si cominciavaa sorridere delle «camicie rosse» e dei loro cortei: quan-te di quelle camicie rosse coprivano petti di guerrieri? IlGaribaldi appariva un povero cervello con le sue lette-re e i suoi discorsi sconclusionati, e si circondava di gen-te equivoca, e aveva accettato una dotazione sul bilanciodello stato, col pretesto che, rifiutandola dai reazionaridella Destra, poteva riceverla dai progressisti e repubbli-caneggianti di Sinistra; e i clericali gli avevano mutato ilnome da «eroe dei due mondi» in «eroe dei due milioni».Il Nicotera, che vendicativamente perseguitava gli uomi-ni della Destra e li calunniava a tutto potere, era stato asua volta fatto segno di atroci sospetti per la parte avutanella spedizione del Pisacane, e ne era seguito uno scan-daloso processo con la condanna degl’ingiusti accusato-ri, ma anche con l’ombra che sempre lasciano queste co-se. Il Crispi aveva dovuto dimettersi da ministro, perchétacciato di aver abbandonato la donna che gli era statacompagna nell’esilio e nei travagli, e di aver commessobigamia. Il Depretis si era procacciato la nomea di cini-co, curante solo di mantenersi al potere, ricorrente a tut-te le arti della corruttela: egli aveva convertito la Camera(dicevano i più temperati) «in un vasto Consiglio provin-ciale, in cui ogni deputato rappresentava il suo collegio,e il governo solo pretendeva rappresentare la nazione».Il livello del governo d’Italia «si abbassava ogni giornopiù (diceva lo Spaventa) sotto quello medio dei governie delle amministrazioni civili di Europa»: alla fine, ci sisarebbe trovati con «istituzioni decrepite e disfatte». Se-gno di questo discredito gettato sulla vita pubblica italia-na fu l’ascolto, il credito, il plauso, il séguito che ottenne-ro triviali censori e cervelli squilibrati, il tribuno Cocca-pieller, che pubblicava un suo foglio, l’ Ezio II, e tra l’82e l’86 fu eletto più volte deputato di Roma, e il professo-re Sbarbaro, del quale il giornale Le Forche Caudine eraletto avidamente negli stessi anni, e che anch’esso dal fa-

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vore del pubblico e degli elettori fu liberato dal carceree mandato alla Camera nel 1886. I libri sulle condizionidell’Italia, dovuti spesso a uomini di dottrina ed intellet-to e pieni di ardore del bene, il Cantalupi, il Turiello, ilMosca, il Siliprandi, avevano tinte nerissime e lasciavanopresagire il peggio. Anche la letteratura veristica ritraevasotto quell’aspetto la vita pubblica, come può vedersi incerti romanzi del De Roberto, del Rovetta e di altri.

Ciò che acuiva la coscienza d’inferiorità e d’impoten-za, e accresceva lo sconforto, era l’insistente confrontocon le condizioni di altri popoli e stati, e specialmen-te con la Germania, che quasi al tempo stesso dell’Ita-lia aveva scosso l’egemonia dell’Austria e si era compo-sta a unità: la Germania, ammirata dai Minghetti, dai Sel-la, dagli Spaventa, dagli studiosi e scienziati, dai filologie giuristi e fisici e fisiologi e altri insegnanti di universi-tà, dai militari, dai tecnici, e della quale si proponevanoin esempio le opere e si imitavano gl’istituti e i metodi esi accoglievano i concetti, com’era naturale e giovevole,sebbene non altrettanto naturale e non altrettanto giove-vole fosse l’imitazione a volte di cose sue non buone onon adatte al nostro popolo, e alquanto puerile la super-stizione per tutti i suoi libri, anche i più mediocri, e lacongiunta credenza che essa sapesse tutto bene, e perfi-no, si diceva, le cose nostre meglio di noi. Anche il suo«stato di diritto» parve un gran progresso e quasi l’ulti-ma parola della scienza politica, laddove tale certamen-te non era nello svolgimento della vita politica europea,e per di più si legava a condizioni affatto particolari del-la Prussia. Ma quale differenza tra le due gemelle dellarecente storia europea! Quanto fervore e quanta energiain Germania, e compitezza d’istruzione nel suo popolo esentimento di disciplina, e laboriosità indefessa, e avan-zamento rapidissimo e incessante in ogni campo dell’in-dustria non meno che del sapere, quanta fiducia e quan-to ardimento! Quale pigmeo, l’Italia, a paragone di quel

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gigante! E s’insinuava un dubbio umiliante, un dubbioche presso molti si cangiava in triste certezza, e che eraeffetto di immaginazioni che la boria tedesca e la sua fi-losofia e storiografia avevano foggiate e coltivate, dandoad esse armatura di verità scientifica documentata e com-provata. Non era l’italiano un popolo che già da secoliaveva recitato la parte sua nella storia del mondo, un po-polo vecchio anzi decrepito, a cui il sogno e l’audacia dipochi individui avevano ridato qualche superficiale guiz-zo di vita, e che dalla fortuna era stato ritinto a popolomoderno, ma sotto quella vernice di modernità mal cela-va l’interno fracidume, il quale veniva fuori ora che si eradissipato il fumo degli entusiasmi e delle illusioni? La li-bertà era nata nelle selve di Germania, e popoli davve-ro liberi potevano essere soltanto quelli di razza germa-nica, che avevano saputo staccarsi da Roma e compierela riforma religiosa. Ai popoli di razza latina conveniva lasoggezione spirituale alla Chiesa romana e, nella politica,in penosa altalena, ora l’ordine dell’assolutismo, ora il di-sordine della demagogia. Il mondo moderno non si apri-va più innanzi a loro, campo di azione e d’impero, scet-tici com’erano in religione, fiacchi nel sentimento dellostato, nell’opera del pensiero, perfino nella freschezza eoriginalità della poesia: buoni, tutt’al più, a far da grae-culi nella nuova Europa. E se pur la Francia, per la suaantica e salda costituzione unitaria, e per quel tanto disangue germanico che le era corso nelle vene, aveva pe-sato nella politica e nelle guerre europee e dominato nel-la cultura, e ancora non poteva considerarsi quantità tra-scurabile quale sarebbe fatalmente diventata via via, taleera da tenere l’Italia, che mal si reggeva sulle gambe: l’I-talia, che attirava bensì i visitatori, e gli studiosi, ma co-me un museo, del quale si guardano le statue e i quadrie non i custodi. Erano coteste teorie e conclusioni cono-sciute in Italia dagli addottrinati, che non sapevano con-futarle o le confutavano in modo malcerto e procurando

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di scacciare una falsa scienza con una non buona retto-rica; e, in fondo, molti si sentivano tratti a consentirvi ese ne attristavano. Ma qualcosa ne penetrava anche fuo-ri della cerchia dei dotti, e si diffondeva in comune con-vincimento, onde si ripeteva assai di frequente il detto:«noi siamo un popolo troppo vecchio», anche da quelliche non ne sapevano l’origine e non si rendevano pienoconto del velen dell’argomento.

Qualche rara voce protestava talvolta contro il pessi-mismo dei correnti giudizi recati dagli italiani sulle co-se italiane: tra le quali voci è da notare quella di una in-glese, che aveva partecipato alla spedizione dei Mille e siera fatta italiana, la White Mario, e che, sebbene di pa-rentele ed amicizie fosse stretta agli oppositori di tutti igoverni che si erano succeduti dal 1860, non resse all’of-fesa verità e volle, col lume del buon senso e della ele-mentare giustizia, fugare le fantasime orrende che ad al-tri piaceva evocare e intrattenere. E disse con molta sem-plicità che, se il Risorgimento italiano era stato un’assaibella «poesia», la «traduzione in prosa, fattasene dopo il’70, era pure «traduzione fedele allo spirito dell’origina-le»; e notò il gran cammino che l’Italia aveva percorsodal 1848 al 1888, e passò a rassegna la serie degli avan-zamenti nel costume e nel sentire, e l’accresciuta cultu-ra, e la diminuita superstizione, e il matrimonio civile, ela leva militare, a cui nessuno più ripugnava, e le casse dirisparmio e le cooperative, e le scuole popolari, e via di-scorrendo; e rammentò che, se l’Italia aveva le sue piaghee i suoi pericoli, la Germania del Bismarck era costrettaa imporre la pace all’Europa minacciandola con più mi-lioni di soldati, e invano si sforzava di premere nel suoseno il socialismo irrompente, che l’Inghilterra non riu-sciva a sciogliere il problema dell’Irlanda spopolata dal-la carestia e dall’emigrazione, che la Francia, dopo aversofferto l’onta del secondo Impero ed esserne uscita vin-ta e mutilata, si agitava inquieta, priva di alleati e di ami-

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ci. E altro si potrebbe dire ora da noi, e che quelle teoriesulla vecchiaia dei popoli latini e dell’italiano in ispecie, esulla incapacità di esso alla libertà e al produrre origina-le erano stoltezze, non fondate né in filosofia né in isto-ria: e che l’aforisma del D’Azeglio valeva poco, perchénon c’era un’Italia fatta e gli italiani da farsi, ma l’Italiasi faceva con gli italiani e questi con quella; e che, nel ti-rare i conti, si esageravano le partite dei mali e si omet-tevano quelle dei beni, e che molti di quegli asseriti malierano falsi allarmi per effetto di errati giudizi o per trop-po amore e desiderio, e altri erano comuni a tutti i popo-li e a tutti i tempi, generali debolezze umane, che non sicomprende perché si pretendesse che non dovessero es-servi in Italia, e a quel tempo; e che, in pratica, se i fat-ti erano inferiori agli ideali, anche il male era spesso in-feriore alle apparenze, e i deputati, nella loro opera po-litica, si dimostravano assai meno dipendenti dai priva-ti interessi dei loro elettori, e perfino con certi loro ma-neggi giovavano a scansare il peggio, pagando il pretiumemptae pacis; e che altre accuse amplificavano cose pic-cole e individuali, perché, per esempio, la moralità de-gli uomini di governo in Italia, di quelli di Sinistra comedi quelli di Destra, fu, salvo rarissimi casi, irreprensibi-le, e tutti essi osservarono sempre un assai semplice co-stume e non lasciarono mai ricchezze agli eredi; e, infine,che la maggior parte delle sdegnose e dolorose asserzio-ni che si udivano non avevano contenuto logico, ma sol-tanto psicologico, come voci e gridi e gemiti degli sfor-zi che si compiono nell’azione. La vivace e pungente co-scienza dei mali era già per sé stessa segno che quei malivenivano sempre in qualche modo contrastati e combat-tuti, e spesso anche validamente vinti o raffrenati, comecomprova l’azione nel suo aspetto conclusivo e positivo,ossia quel che si è in precedenza esposto dell’opera com-piuta dagli italiani, in quel periodo, nelle varie parti dellavita politica, economica e civile.

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Pure, quel pessimismo, per ingiustificato che fosse enon resistente alla critica, era anch’esso un fatto, unacondizione di debolezza, che non va trascurata. Con im-magine opposta a quella del «popolo vecchio» si solevaanche dire che l’Italia era una «nazione giovane» o uno«stato giovane», e la gracilità e le malattie dell’adolescen-za non si possono negare nell’Italia di quel tempo. Lesue libere istituzioni non avevano dietro di sé una lun-ga storia, di varie prove e di molteplici travagli e vicen-de, ed erano state ottenute tutto in una volta, come l’in-vocata grazia di un’abbondante e benefica pioggia; ondela non piena consapevolezza del loro pregio e del lavoroche chiudevano in sé, nonostante che gli anziani rimbrot-tassero i giovani ignari di «quanto esse erano costate», eprofetasseero di possibili pericoli di «reazioni» o di «dit-tature alla messicana». Le nuove generazioni dimentica-no facilmente le esperienze di quelle che le hanno prece-dute, e la tradizione di certe verità non si stabilisce neipopoli se non dopo ripetuti e gravi e memorabili casi.Poiché, per intanto, quelle istituzioni non vacillavano edavano il modo di vivere e operare sicuri, pareva inno-cuo trattarle come cose senza importanza, e anche met-terle in burletta, e intorno ad esse mancava il sentimentoreligioso, l’horror sacer, e solo qualche spirito profondosi mostrava geloso di quanto le potesse anche in minimaparte ferire, facendo questione circa la correttezza e co-stituzionalità di questo o quell’atto e procedimento. Cor-reva, naturalmente, anche in Italia il vezzo di schernire ilparlamento e i troppi discorsi dei deputati, e, nel ripete-re siffatti triviali giudizî, prendere aria di fastidio o rim-piangere i tempi nei quali si andava per le spicce e non cisi lasciava soffermare dalle chiacchiere. Del pari, per in-sufficiente esperienza e conoscenza, per non aver intesola differenza tra schema giuridico e concretezza storica,per astrattezza di ideali, l’opera delle minoranze dirigen-ti, che effettivamente tengono e tirano i fili delle azioni

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e governano, e le passioni e gli interessi privati che con-corrono nei pubblici e che somigliano a metallo di qua-lità inferiore che fa lega con l’oro e lo rende adoperabi-le, venivano interpretati, invece, come la brutta realtà, el’unica realtà, nella bella illusione; e al pessimismo di taleinaspettata e male interpretata scoperta seguiva la dispo-sizione a prendere il mondo come viene, ad accomodar-si, a fare come fanno gli altri, cioè come si crede che fac-ciano gli altri, e come fa il volgo, il che si spingeva finoa una sorta di cinismo. I vecchi notavano con ribrezzoquesti segni di cinismo, rimpiangevano il diverso sentiredei loro tempi, ammonivano e scongiuravano i giovani dipensare all’Italia e di scacciare le basse voglie e smette-re le utilitarie tendenze e innalzare gli animi. Ma i giova-ni sorridevano spesso dei vecchi, come di gente candidache si era nutrita di credenze dottrinarie e di costruzio-ni fantastiche, e avevano l’aria di chi la sa lunga, e nonricusavano già di continuare nell’uso della convenziona-le fraseologia di «libertà» e «popolo» e «patria» e «pro-gresso» e «democrazia» e «indipendenza delle nazioni» esimili, ma mirando attraverso di essa, che era una fraseo-logia, al pratico e al solido. Perfino nel mondo letterariosi ebbe allora un caso che doveva dar da pensare: l’azio-ne che tra il 1882 e il 1886 al tempo stesso dei Coccapiel-ler e degli Sbarbaro, esercitò in Roma l’editore Somma-ruga, coi suoi libri, giornali e altre imprese, immoralistacoi romanzi e le novelle, ultramoralista con le Forche cau-dine, di cui si fece editore, pronto a tutto ciò che potes-se avere profittevole «successo». Era assai mista la com-pagnia che si raccolse intorno a lui, e vi comparve il Car-ducci, da lui allettato con le belle edizioni e che fu unodei suoi autori; ma, nel generale, quella società e le ten-denze letterarie e morali che manifestava, rompevano af-fatto con la tradizione del mondo letterario del Risorgi-mento, con l’editoria, poniamo, di un Barbèra, e davanoa vedere spiriti rapaci, indifferenza per il sacro di ogni

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sorta, risolutezza a godere in qualsiasi modo e farsi in-nanzi e pervenire con qualsiasi mezzo, superiorità scher-nitrice verso chi avesse diverso animo e tenesse diversastrada. Nel circolo del Sommaruga fu accolto, e da quel-l’editore ebbe sostegno e divulgazione, il giovanissimoGabriele d’Annunzio, col quale risonò nella letteraturaitaliana una nota, fin allora estranea, sensualistica, feri-na, decadente, chiarissima anche in quelli dei suoi pri-mi versi e delle sue prime prose che imitavano le formedel Carducci e dei veristi. Si preannunziava nelle fanta-sie l’eroe voluttuario Andrea Sperelli, che doveva schiu-dere il fondo della sua anima, definendo i soldati italia-ni caduti a Dogali, quel primo sangue italiano versato inguerra dopo anni di pace e pel quale tutta l’Italia patriot-ticamente dolorava e chiamava vendetta: «quattrocentobruti, morti brutalmente».

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IV. LA POLITICA ESTERA (1871-1887)

Il generale pessimismo degli italiani sulle cose della loropatria si ripiegava sopra di sé più sconsolato e amaro perla conferma che pareva venirgli dal corso della politicaestera dopo il 1876, dal poco o niente che l’Italia contavanel mondo, e dai danni e dalle beffe – così si diceva – cheregolarmente le toccavano a ogni suo atto o desiderio.

La serie delle mortificazioni era, per questa parte, co-minciata alcuni anni innanzi, dalle sciagure della guer-ra del 1866, le quali fecero cadere di colpo la fiducia ela quasi baldanza che per le imprese del ’59 e ’60 l’Ita-lia aveva acquistata delle proprie forze. E quando si vo-gliano intendere taluni riposti motivi della vita italiananel cinquantennio che precesse la guerra mondiale, e an-che alcuni aspetti della sua partecipazione a questa guer-ra, non si deve perdere di vista che l’Italia portava nelpetto, sempre bruciante, la piaga di Custoza e di Lissa,e sempre sognava di cancellare quell’onta, e pur dubita-va della fortuna e di se stessa. I popoli sono fatti così,e così saranno fino a quando ci saranno guerre e batta-glie, e leggende ed epopee s’intesseranno sopr’esse, cheli preparino alle nuove guerre e battaglie. Quanto impe-to, quanta sicurezza, quanto generoso entusiasmo, quan-to giubilo, nel 1866, all’annunzio dell’attesa e bramataguerra contro l’Austria per la liberazione del Veneto! Etanto più gravi furono gli effetti della delusione, i qua-li risvegliavano i giudizî appena sopiti intorno allo scarsofulgore delle virtù guerriere degli italiani nei secoli dellastoria moderna, dalla discesa di Carlo VIII in poi, o ad-dirittura dalle invasioni barbariche. intorno alla pover-tà loro di glorie militari, di cui essi molto si affliggeva-no e che gli stranieri non lasciavano di rammentare conpungenti detti. Questa gloria, ora che erano tutti uniti,

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neppure avevano saputo acquistare, essendo stati battu-ti, per terra e per mare, da un nemico inferiore di for-ze, mentre l’alleata Prussia l’acquistava grandissima, fo-riera di altre maggiori, e vinceva la guerra e concludeval’armistizio senza curarsi dell’alleata di cui sprezzava l’i-nettezza e perfino osava sospettare la lealtà; sicché il Ve-neto non veniva ceduto direttamente dall’Austria all’Ita-lia, ma come donato da Napoleone III, a cui l’Austria neaveva fatto consegna. Pareva quasi dimostrato che ci fos-se, per questa parte, nella natura degli italiani, un difettoo un limite invincibile: il qual pensiero era, senza dub-bio, uno dei soliti giuochi d’immaginazione e di fantasti-che interpretazioni storiche, ma pur tormentava. Anchele imprese del ’59 e ’60 si scolorirono per l’ombra getta-tavi dai nuovi casi; e si venne riflettendo che si era vin-to allora con l’aiuto potente della Francia, e non il po-polo italiano ma solo il piccolo esercito piemontese e al-cuni manipoli di volontarî avevano combattuto la guerranazionale; e che il Garibaldi si era trovato di fronte l’e-sercito del re delle Due Sicilie, anch’esso tutt’altro cheadorno di lauri guerrieri, e che il sangue versato era statopoco: correggendo così le esagerazioni di un tempo conesagerazioni in senso opposto, e non considerando che lebattaglie valgono non solo per il numero dei combattentie per la grandezza delle stragi, ma anche per il significatoche esprimono e la qualità di coloro che vi partecipano.Poi sopravvenne la guerra franco-germanica, nella qualefu saggezza, ma nient’altro che saggezza, starsene in di-sparte; e a quelli che prima di altri seppero dimentica-re Mentana e le vantate meraviglie compiute colà dai fu-cili francesi contro i volontari italiani, parve, checché siargomentasse, non bello che l’Italia non andasse in aiu-to della sorella latina; né il rimorso di questo mancato ri-cambio di aiuti venne acchetato dall’intervento del Gari-baldi coi suoi, che era per la causa repubblicana mondia-le e non per quella francese. Lo schiacciamento, che se-

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guì, della Francia da parte delle genti germaniche, e l’e-segesi storico-filosofica che ne dettero i pensatori e pro-fessori d’oltre Reno, sembrarono avvolgere nel funebresudario tutte le razze latine: la battaglia di Sédan pren-deva l’aspetto di una nuova finis Romae. Vero è che, trale fortune di quella guerra, si era entrati nell’urbs aeter-na, nella capitale del destino; ma in qual modo? Profit-tando delle vittorie e delle sconfitte altrui, quasi di furto;come cantava il Carducci nel canto dell’Italia che sale alCampidoglio:

Zitte, zitte! Che è questo frastuonoal lume de la luna?Oche del Campidoglio, zitte! Io sonol’Italia grande e una...

E della lode di saggezza, di prudenza e di abilità do-vette contentarsi l’Italia, e sopr’essa fondare la sua repu-tazione: come uno che proceda grave e lento e dignitosonon per altro che per avere inferme le gambe; ma anchequesta dubbia lode le venne meno per effetto della nuo-va guerra, quella russo-turca, e dei maneggi del congres-so di Berlino, dal quale tutte le potenze europee usciro-no con ingrandimenti territoriali o con altri vantaggi, e lavicina Austria occupò la Bosnia-Erzegóvina, laddove l’I-talia non ottenne neppure quello che per giusto compen-so di tale occupazione chiedeva, il Trentino, quel lembodi terra italiana, nel quale già si era avanzato il Garibal-di nella campagna del ’66, e invece scapitò nella repu-tazione di saggezza, e fece persino ridere alle sue spal-le. «Come mai l’Italia pretende a un acquisto di terri-torî? – diceva un diplomatico russo al Bismarck. – Haforse perduto qualche altra battaglia?». Ulteriore conse-guenza del congresso di Berlino fu il veder bruscamentetroncata un’altra speranza italiana, quella della Tunisia,che è di fronte alla Sicilia, che i suoi figli avevano qua-si colonizzata, e che pareva spettarle come campo di at-

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tività nell’Africa e per la stessa sua sicurezza nel Medi-terraneo, ma che, invece, nel 1881 le fu portata via dal-la Francia, la quale si era procurato un consenso delle al-tre potenze, e procedette senza complimenti e con cosìsfacciato pretesto di voler soltanto respingere dai confi-ni dell’Algeria le incursioni e i fastidi della tribù dei Kru-miri, che suonò come uno scherno. Eppure l’Italia nonpoté se non sdegnarsi e agitarsi e gridare, non essendonemmen da pensare, isolata com’essa era e col Papa im-placabile nemico, a una sua guerra contro la Francia; e,per giunta, dové tollerare le insolenze francesi e la cacciadata in Marsiglia ai lavoratori italiani!

Intanto, le mal consigliate e impotenti agitazioni irre-dentistiche avevan portato a un pelo, nella pasqua del1880, da un’irruzione dell’Austria in Italia, con l’assen-so della Germania, che non aveva nessuna ragione di ri-sparmiare l’Italia, la quale, nonostante tutto, non si risol-veva a passare tra gli avversari della Francia, sempre le-gata verso questa da simpatie e speranze di buona intesaed amicizia, e quando appunto il Bismarck aveva chiu-so la sua lotta con la curia di Roma e le avrebbe lascia-to ripigliare, se le riusciva, il dominio temporale. Svanitoquesto pericolo, soprattutto per l’avvento dei liberali algoverno dell’Inghilterra e per la caduta del Disraeli, chefavoriva Austria e Papa, all’Italia, dopo la scossa ricevu-ta per gli avvenimenti di Tunisi, e il senso da cui fu presadel suo isolamento, e le rinnovate insidie papali, non ri-maneva se non ingoiare l’amaro calice, rinunziare alle viesegnate dalla tradizione liberale e trattare con le poten-ze conservatrici dell’Europa centrale. E furono trattati-ve non molto grate all’amor proprio, perché essa si tro-vò costretta a dar prova di buona volontà, mandando, alcenno del Bismarck, il suo re in visita a Vienna, a una vi-sita che poi non fu restituita, non potendosi, per le noteragioni, dall’imperatore d’Austria restituirla in Roma, enon volendosi ormai dagli italiani riceverla in altra città;

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e si udì in quei giorni dal Kállay, in un discorso alla dele-gazione ungherese, che la visita era avvenuta nell’interes-se dell’Italia, non avendo l’Austria-Ungheria «niente dachiedere a lei e niente da temerne»; e a stento le vennefatto di sottrarsi, nel trattato che si concluse di alleanzadifensiva, il primo trattato della Triplice del 20 maggio1882, a impegni che le si volevano imporre di politica in-terna conservatrice o reazionaria, dei quali, per altro, re-stò qualche traccia nei preliminari del trattato. L’amorproprio italiano non trovò molti riguardi nel Bismarck,che prima adoperò svariati mezzi di pressione e minac-cia, e poi si lasciò andare a dire che non faceva moltoassegnamento sulla forza dell’Italia, ma che gli bastavaun bersagliere italiano sulle Alpi per distornare, in casodi guerra, una parte dell’esercito francese dalla frontieraorientale; e gli storici-filosofi tedeschi, col consueto po-co senso di opportunità, volendo accompagnare la prosadel Bismarck con la lirica delle idee, non mancarono diparlare dell’antico amore onde la gente germanica si sen-tiva attirata verso la terra del sole: il che, dati i preceden-ti storici, era come un ricordare lo sviscerato amore dellupo verso il bianco grazioso agnello. Il trattato stesso,non negoziato in buone condizioni, perché troppo sol-lecitato da una delle parti, l’Italia, in quel momento as-sillata da timori, la impegnava assai più in vantaggio al-trui che non impegnasse le altre due potenze, la Germa-nia e l’Austria, in vantaggio suo, non dandole esse alcunaassicurazione per: eventuali mutamenti né nella penisolabalcanica né nel Mediterraneo. E questo si vide subito,pochi mesi dopo, quando l’Italia ebbe dall’Inghilterra in-vito di cooperazione militare in Egitto e di occupazionedei possedimenti che intendeva sgombrare lungo il MarRosso, e non poté accettarlo, non tanto perché non le ba-stassero le forze terrestri e navali, e non solo per il rischiodi ogni società coi troppo potenti, e neppure per l’avver-sione del sentimento umanitario italiano contro gl’ingle-

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si dopo il bombardamento di Alessandria, ossia per tuttequeste cose insieme, ma anche perché le alleate dell’Eu-ropa centrale seguivano altra linea in quella questione enon l’avrebbero sostenuta in contrasti che ne sarebberosorti con la Francia, dalla quale, d’altra parte, l’economiae la finanza italiana ancora assai dipendevano. Qualcheanno dopo, l’Italia accolse un’altra istigazione inglese, eoccupò Massaua; ma quale concetto la portasse a que-st’impresa non si riuscì a veder chiaro, e, se un concettovi fu, venne certo frustrato dagli eventi; e la prima spedi-zione fu accompagnata da prove di singolare insipienza,onde rimasero famosi i pesanti cappotti dei soldati cheandavano sulle spiagge ardenti del Mar Rosso, e l’istru-zione data dal ministro della guerra allora comandantedi fare nel caso, nientemeno da Massaua, «una punta suKartum». L’occupazione di Massaua, estesa verso l’in-terno, involse l’Italia, senza alcun suo sperabile profitto,in una guerra col solo stato militarmente forte dell’Afri-ca, con l’Abissinia; e, nel 1887, si ebbe un primo disa-stro coloniale, con la sorpresa e distruzione della colon-na del De Cristoforis a Dogali, per opera delle bande diRas Alula.

È questo il quadro della politica estera italiana in quelperiodo, come fu dipinto dagli affetti e come rimane nel-le memorie e si legge nelle storie; ma, come altri simi-li, che abbiamo rievocati o dovremo rievocare, non è unquadro storico, che richiede anzitutto l’allontanamentodegli affetti o, per dir meglio, l’assoggettamento di essi algiudizio. Il vero è che, nel 1870, mentre l’Italia portavaa compimento la sua unità con l’acquisto della capitale,la politica europea mutava indirizzo, gli ideali che l’ave-vano guidata sin allora si dissolvevano o prendevano untemporaneo ma lungo riposo, e, come scrisse il De Sanc-tis nell’ultima pagina della Storia della letteratura italia-na, che allora appunto egli terminava, pareva come se,«formata l’Italia, si fosse sformato il mondo intellettua-

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le e politico, da cui essa era nata». Se si voglia rivede-re quel mondo coi suoi vivi colori, si ripercorrano i gior-nali e le litografie e le altre stampe figurate degli anni in-torno al 1860 e si ripensi a qualche composizione poeti-ca come i Sette soldati dell’Aleardi e a qualche episodiocome l’addio che, nel gennaio del ’61, dettero i volontariillirici, croati, serbi, dalmati e montenegrini dell’eserci-to garibaldino, in nome delle nazionalità ancora oppres-se, ai loro commilitoni italiani, «le cui vittorie nel Mez-zogiorno d’Italia facevano balzare ogni nobil cuore sullerive del Danubio e della Sava». L’imperatore Napoleo-ne III, quale che fosse la parte da lui rappresentata nel-la politica interna della Francia, aveva nella politica este-ra continuato lo spirito delle rivoluzioni liberali, asseren-do con forza il principio di nazionalità, quasi a correg-gere l’errore commesso per questa parte dal primo Na-poleone. Ma, nel 1870, Napoleone III era sopraffatto esostituito dal conte di Bismarck, che rappresentava nongià la «politica realistica» (rappresentava anche questa,contro i romantici alla Federico Guglielmo IV e i demo-cratici sognatori alla Mazzini, e non certo contro un Ca-vour, sommamente realistico e non punto a lui inferiorein diplomatica genialità), sibbene quella reazionaria delgoverno semiassoluto e burocratico, col vecchio re e colvecchio Dio, più o meno biblico. Tale il significato spe-cifico della «forza», di cui egli parlava, ossia non la for-za che è di ogni politica seria, ma la forza degli antichiregimi e degli antichi istituti e costumi e dei loro uomi-ni, signori di spiriti e costumi feudali e soldati del re edell’imperatore. Senonché (e qui stava il punto nuovo eoriginale del suo carattere e del suo pensiero) la sua eti-ca avversa all’etica liberale, straniera agli ideali della so-cietà moderna, operava con franchezza il congiungimen-to con l’economia del mondo moderno, con la tecnica,l’industrialismo, il commercio, la banca, l’espansione il-limitata, la scienza promossa, l’istruzione diffusa, e per-

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fino col suffragio universale e col socialismo nella formadi leggi sociali o socialismo di stato. Ciò dava al sistemada lui inaugurato una forte presa sul mondo moderno,tanto che in molte sue partì fu riprodotto in Inghilterradal Disraeli, conservatore a lui affine, ed ebbe efficacia inogni paese, generando una nuova disposizione degli ani-mi e un nuovo fare e un nuovo linguaggio. Finanche unGambetta, nel 1876, professava a rinunzia da parte del-la recente ricostituita Repubblica francese al cosmopoli-tismo e al proselitismo, e con ciò l’implicito ritorno allaragion di stato di prima della rivoluzione dell’89. La fe-de nei trattati era resa mal sicura per la sottintesa clau-sola che la loro validità durava finché convenisse; la leal-tà dei negoziati, dal sospetto per il metodo ammesso del-le trattative dilatorie. I plebisciti per le annessioni, caria Napoleone III, venivano rigettati anche nel loro ufficiodi finzioni giuridiche o di atti simbolici; e il Bismarck di-ceva brutalmente che gli era indifferente che gli alsazia-ni e i lorenesi amassero o no i tedeschi, perché l’annes-sione di quelle terre era per la Germania una necessitàgeografica. I problemi di nazionalità, non risoluti primadel 1870, non furono risoluti nei decennî che seguirono:il «gran lavoro della ricostituzione delle nazionalità» (co-me avvertiva il Crispi nella Camera italiana) aveva avu-to, con quell’anno, «una sosta». Il sistema bismarckia-no rispondeva agli interessi e alla psicologia degli uomi-ni d’affari, perché lasciava prorompere e potenziare l’im-peto produttivo della ricchezza.

Ora questo indirizzo, a cui inaspettatamente si volge-va la politica europea, era una realtà di fatto che l’Italianon aveva essa creata e che anzi, se fosse stato per lei,non avrebbe mai messa al mondo, con l’opera della suamente e del suo volere, e alla quale la sua anima repugna-va. In molte parti di Europa l’apparizione del bismarcki-smo aveva suscitato orrore e terrore; ma forse in nessu-na quanto in Italia. Gli articoli dei giornali e le lettere di

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quegli anni dei nostri uomini politici ne offrono copio-se testimonianze. Il Bonghi, nel momento in cui la Fran-cia era a terra premuta dal ginocchio del vincitore, scri-veva nella Nuova Antologia: «Davanti a questo eccessod’uso della forza si vede tutta l’Europa allibita e dall’acreinteresse di ciascuna nazione spezzato il consorzio mora-le di tutte»; e, in quegli stessi mesi, esaminava in un suosaggio il «bismarckismo», mercé cui «l’idea della forza,che avevamo lavorato durante cinquant’anni a soggetta-re all’idea del diritto, ci si è rizzata dinanzi colla beffasulle labbra, e ci ha chiamati bambini, e ci ha mostratocoi fatti che le avevamo opposto una fantasima»; e met-teva in contrasto l’astuzia e il sogghigno e la prepotenzadel Bismarck con l’equità del Cavour, che aveva cedutola Savoia e Nizza alla Francia per dimostrare come «il di-ritto delle nazioni dovesse aver luogo di effettuarsi nellasocietà europea, non per turbare durevolmente tutti glistati, ma per costituirli stabilmente»; e finiva col negareallo statista tedesco vera grandezza, augurando che pre-sto, di sotto l’«abilità fortunata» di lui, venissero messia nudo «lo spirito volgare e l’uomo funesto». Altri, leg-gendo le condizioni di pace dettate alla Francia, non po-teva non pensare che «le massime sulle quali si fonda-vano le pretensioni della Germania erano quelle medesi-me per le quali l’Italia fu sempre calpestata e taglieggia-ta dagli stranieri»; e altri, come il Cialdini, avvedendo-si dell’accordo del Bismarck col cancelliere Gortchakoff,temeva per l’Italia dall’unione delle due potenze reazio-narie dell’Europa. Non meno del sentimento morale eraoffeso il sentimento politico da quella mutilazione inflit-ta alla Francia di due sue provincie, consigliata da mili-tari intelligenti al Bismarck, la quale rendeva precaria lapace europea. Ma, per riprovevole che fosse giudicato lospirito bismarckiano, per ingrato che apparisse l’aspet-to che prendeva la società europea, per malsicuro che sisentisse l’avvenire, non c’era possibilità di cangiare quel-

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la politica: la vittoria della Germania, la costituzione ingrande stato di un gran popolo, il vigore che questo spie-gava in ogni sorta di attività, la consacravano. Il Sellascorgeva il lato, se non bello, sublime di quanto era acca-duto; e ammirava questi uomini della forza, questi «uo-mini e popoli fatali, che nessuno arresta», e che eranoquasi il rovescio degli italiani, nei quali di solito «predo-mina il sentimento». I più non ammiravano, ma ricono-scevano la nuova situazione che si era formata, la nuovaregola di giuoco che si doveva osservare, piegandosi adessa non senza tristezza, e con la speranza nel cuore chenon sarebbe durata sempre o a lungo. «L’Europa – dice-va il Visconti-Venosta – è diventata un campo militare;passati sono i tempi del Cobden e di Henry Richard, enon trovano più base loro ragionamenti, che supponeva-no uomini pacifici e ragionevoli: aspettando che tali es-si ridiventino alla fine del secolo ventesimo, bisogna cer-care di non esser divorati nel decimonono». Ma c’eranoanche non pochi, specie tra gli uomini che non avevanola responsabilità degli affari, specie tra i giovani, che nonsi rassegnavano al fatto, non ammettevano il bismarcki-smo e coltivavano i generosi concetti dei loro padri, il di-ritto dei popoli all’indipendenza e alla libertà, il doveredi aiutare gli oppressi; e i loro animi furono a volta a vol-ta commossi e sdegnati e infiammati dalle stragi bulgaree armene, e dalle dolorose sorti di tutti i popoli cristianidominati dai turchi, e da quelle del popolo polacco e delrusso, gementi sotto l’autocrazia degli czar, e delle na-zionalità tenute strette dall’Impero austro-ungarico; e gliitaliani che si erano già battuti per la Grecia, per la Spa-gna, per la Polonia ebbero i loro ultimi successori nei vo-lontarî, che accorsero negli anni dipoi a Creta, in Greciae in Serbia.

Come avrebbe dovuto comportarsi l’Italia in un mon-do così profondamente mutato nelle azioni e nello spiri-to? Allora e poi le venne più di una volta posto dinanzi

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l’esempio dei piccoli stati neutrali e l’immagine della lorofelicità. «L’Italia – diceva un belga al Minghetti, – sepa-rata dal resto del continente da una frontiera geograficamirabilmente netta, l’Italia, alla quale nessuno dei suoivicini pensa a togliere una provincia o il minimo pezzodi territorio, perché vi si oppone il principio di nazio-nalità generalmente ricevuto, l’Italia che tutte le nazioniamano come la seconda madre della nostra civiltà, l’Italianon avrebbe niente da temere da alcuno se si contentassedi una posizione simile a quella della Svizzera o del Bel-gio, che è la più favorevole alla sicurezza e alla prosperitàdelle nazioni. Perché si lascia trascinare ad alleanze com-promettenti e pericolose, che possono un giorno costar-le assai caro?». Ma il Minghetti gli rispondeva che «ungran paese non può chiudere in questo modo la sua atti-vità in sé stesso. Il bisogno di espansione della giovinez-za, se non gli si aprono talune grandi prospettive, si ina-cidirà, si volgerà in corruttela e in malcontento. A pare-re di un membro ragguardevole del parlamento inglese,bisogna lasciar cuocere gli egiziani nel loro sugo. Vi con-fesso (concludeva il Minghetti) che, pel mio paese, un av-venire simile non mi sorride: lo stufato potrebbe sentirdi bruciato». E, in effetto, il proposito dei politici dellaDestra non si orientava in niun modo verso quell’idealedi astensione e di quieto vivere, tuttoché, nella condizio-ne che si era andata formando dopo la guerra del 1870,si sentisse la convenienza di frenare le aspirazioni e am-bizioni italiane, rimandarle all’avvenire e ottenere per in-tanto quello che si poteva, senza attizzare peggio il fuo-co che covava in Europa. Vittorio Emanuele aveva avu-to nel 1875, a Venezia, un calmo scambio di idee col-l’imperatore Francesco Giuseppe, che gli aveva fatto no-tare, circa le frontiere italiane, che, quanto a Trieste, sitrattava di questione non austriaca solamente ma germa-nica, e che solo un bouleversement général poteva darlaall’Italia, ma che, quanto a un altro punto della frontie-

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ra, cioè il Trentino, poteva venire il momento che l’Au-stria, per ampliamento di dominio altrove, fosse in gradodi cederlo amichevolmente.

L’atteggiamento prudenziale fu messo alla prova du-rante la preparazione e il corso della guerra russo-turcae del congresso di Berlino. Il Visconti-Venosta, negli ul-timi mesi del governo della Destra, lo aveva riafferma-to, partecipando all’accordo delle potenze circa l’integri-tà da rispettare dell’impero ottomano e il miglioramentoda esigere nelle condizioni dei popoli in esso compresi. Ilgoverno del Depretis, nel cui tempo si combatté la nuo-va guerra d’Oriente e l’accordo delle potenze venne me-no, stette guardingo a non prendere impegni di sorta, erifiutò gl’inviti che gli vennero dall’Inghilterra e dall’Au-stria per intese, temendo che potessero trascinare l’Italiain guerre, dalle quali il giovane stato, in pieno processodi assodamento, doveva tenersi lontano, in guerre per in-teressi non suoi o non vitali o non urgenti. Adottò cosila politica che si disse della «libertà dagli impegni» e del-le «mani nette», che era pure una politica, e anzi la solache le condizioni generali dell’Europa e particolari del-l’Italia consigliassero; e questa fu attuata dal Corti (uo-mo di Destra, come di Destra erano quasi tutti i diplo-matici nostri di allora), ministro degli esteri nel gabinet-to Cairoli, che rappresentò l’Italia al congresso di Berli-no. E tutti gli spiriti equi, allora e poi, giudicarono sa-via e buona questa politica, e nessuna persona di sennone avrebbe non solo tentata col fatto, ma neppure dise-gnata un’altra diversa. La taccia, che si dette per questaparte ai governanti d’allora, fu altra; che essi, dopo aver-la adottata, ne guastassero l’effetto morale, e nocesseroall’autorevolezza e dignità dell’Italia, col mescolarvi o la-sciare che vi si mescolassero motivi d’altra sorta, con pa-rer di farla contro voglia e mostrando il broncio per quel-lo che pure conveniva accettare e si accettava, col rima-nere, per questa disposizione d’animo, fuori delle intelli-

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genze che prendevano tra loro le potenze e che si strin-sero senza nostra saputa, col non por fine risolutamen-te alle manifestazioni popolari contro l’Austria e alle agi-tazioni dell’Irredenta, la quale, formatasi allora, provocòuna naturale reazione dell’Austria, l’allarme dell’opusco-lo Italicae res del colonnello Haymerle, e, come si è det-to, un’apertura, che parve imminente, di ostilità. Il ricor-do della parte avuta dall’Italia nella questione d’Orientee nel congresso di Berlino rimase incerto, tra le lodi di ta-luni uomini di stato europei per il suo contegno «conser-vatore e insieme umanitario», e la definizione che di leidette il Bismarck nel 1879, come una «jeune et inquiètenation».

In effetto, il Depretis consentì che, nell’estate del1877, il Crispi, presidente della Camera, facesse un giroper le capitali d’Europa, ricercasse colloquî col Bismarcke coi ministri inglesi, e tentasse di ottenere per l’Italia ces-sioni di territorî formanti parte dell’Impero austriaco, acompenso dell’occupazione che questo aveva fatta dellaBosnia-Erzegóvina; e il Crispi incontrò dappertutto re-cisi rifiuti e offerte insidiose di compensi da prendere inAlbania o in Tunisia, che o non giovavano all’Italia o l’a-vrebbero costretta a romperla con la Francia. Così an-che il Corti, nel congresso di Berlino, dové, solo fra tut-ti i plenipotenziarî, muovere obiezioni, rimaste senza ap-poggio e seccamente rimbeccate dal rappresentante au-striaco, per quell’occupazione della Bosnia-Erzegóvina,e dare a vedere, infine, che l’accettava «con riluttanza».Erano atti incoerenti, che dimostravano incertezza e de-bolezza nel Depretis e nel Cairoli, e torbidi concetti nelCrispi, il quale avversava la Francia e dichiarava enfati-camente che un conflitto dell’Italia con la Francia sareb-be simile non a una guerra di nazione con nazione, ma auna guerra civile; diceva che l’Austria era indispensabi-le e che le spettava una missione incivilitrice in Oriente,e voleva vessarla quando, con quell’occupazione nei Bal-

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cani, l’Austria si difendeva dal pericolo di un grosso sta-to slavo sorgente alle sue spalle; voleva l’accordo con lepotenze conservatrici e voleva il trionfo del principio dinazionalità nei Balcani e dappertutto; e si metteva in giroper l’Europa col bel frutto che s’è visto, e per udirsi di-re a Vienna dall’ambasciatore italiano Robilant di guar-darsi bene dal toccare il tasto delle cessioni, perché, se-condo la teoria degli uomini di stato austriaci, l’occupa-zione fatta nei Balcani era semplicemente un peso chel’Austria si era addossato a servigio della pace europea.La Destra, la cui politica estera il Crispi soleva vilipen-dere e bistrattare, avrebbe serbato certamente ben diver-so e più logico e dignitoso contegno; ed avrebbe ancherepresso con prontezza le manifestazioni dell’Irredenta,non permettendo dubbî all’estero intorno alla chiara vo-lontà dello stato, che solo rappresentava legalmente lanazione, e non lasciando che gli attriti giungessero fino auna preparata o disegnata spedizione preventiva dell’Au-stria. La grande maggioranza del paese stava dalla par-te del governo e lo incorava a questa severità, pensandocol Marselli che per l’«Italia irredenta» non bisognasseporre a rischio di rovina l’«Italia redenta».

Senonché, pure reprimendoli, avrebbe potuto la De-stra distruggere i sentimenti e le tendenze che quellemanifestazioni esprimevano? Erano esse, senza dubbio,opera di giovani, d’ingenui, d’ideologi, di gente che con-tava poco: vi soffiavano dentro i repubblicani, sempre incerca di qualcosa da fare o piuttosto da declamare: neera capo, o tra i capi principali, un uomo di purissimocarattere ma fanatico, di una famiglia di fanatici, MatteoRenato Imbriani (il cui odio pei tedeschi era cosiffattoche, negli ultimi suoi giorni, malato, si rifiutava di andara cambiar aria a Capri, avendo udito che il miglior bat-tello che faceva il tragitto apparteneva a una compagniatedesca!); e l’Imbriani, coi suoi opuscoli e coi suoi gior-nali, il Pro patria e l’Italia degli italiani, gridava contro il

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«delitto di Berlino», rinfacciava l’«onta dell’Italia», chie-deva «sangue per riscattarla», e pareva nella sua alta enobile figura dal guerresco profilo (era stato ufficiale deigranatieri) Trieste e Trento fatte persona, e rimproveran-ti e incitanti l’Italia. E tuttavia in quel mito dell’Irreden-ta viveva, nella forma spasmodica e disperata che i tem-pi gli facevano prendere, il principio della indipendenzae libertà dei popoli, animatore del Risorgimento italiano,che si rivoltava e protestava contro l’odioso «bismarcki-smo» e la politica brutale e mercantile prevalente in Eu-ropa: protesta che proruppe violenta quando si vide, nelcongresso di Berlino, tutte le potenze europee occupareterritori a loro vantaggio militare e commerciale, e solal’Italia rimanere a mani vuote, l’Italia la quale desideravanient’altro che quello che era suo diritto di nazionalità, enon voleva rapinare, ma continuare da sua parte a mette-re nel mondo un po’ più di giustizia. Non era certamen-te, cotesta, politica attuale, perché non è mai politica at-tuale la parola dei profeti disarmati. Ma in un popolo civogliono i politici attuali e quelli inattuali, e, se i primisono giudicati savî e i secondi matti, ci vogliono i savî e imatti; e guai ai popoli che hanno solo i savî, perché spet-ta di solito ai matti porre e coltivare i germi della politi-ca avvenire. E quando l’irredentismo ebbe il suo marti-re, quando, nel 1882, il giovane Oberdan pensò di com-piere il suo gesto e gettare tra l’Italia e l’Austria a perpe-tuo ricordo il suo sacrificio, si formò in Italia uno statod’animo che, nonostante ogni alleanza, impediva nel fat-to, salvo casi straordinari e disperatissimi, agli italiani discendere mai in campo a fianco degli austriaci, e fu con-servata e alimentata la fiamma di un ideale che dovevacondurre, nonostante che gli uomini politici di Destra edi Sinistra tenessero per articolo di fede la necessità perl’Italia dell’esistenza di un Impero austro-ungarico, alladissoluzione di questo Impero.

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Per allora, le imprudenze irredentistiche, e il soprag-giunto affare di Tunisi, condussero invece l’Italia allaTriplice alleanza, non avendo essa potuto o saputo man-tenere il primo proposito, che il Visconti-Venosta chiu-deva nella formola: «indipendenti sempre, isolati mai».Ma non è vero che con quel trattato l’Italia deviasse dallasua politica liberale, non solo perché essa respinse ferma-mente ogni clausola che la impegnasse nella sua politicainterna, ma anche perché uno dei fini principali pei qua-li lo strinse, fu appunto la difesa contro l’illiberale po-tenza del Papato, a cui per quell’alleanza venne infatti amancare l’eventuale appoggio contro l’Italia della catto-lica Austria e della protestante ma politicamente spregiu-dicata Germania bismarckiana. E neanche è vero che l’I-talia abbandonasse la parte che rappresentava nella poli-tica delle nazionalità, per l’ovvia ragione che, allora, tut-ta l’Europa aveva abbandonato quella politica, compre-sa la Francia repubblicana, la quale a sua volta aveva ap-preso la diversa lezione del cancelliere tedesco; e l’Italiapoteva bensì desiderare, ma non avrebbe trovato allea-ti per continuarla. Con quella alleanza, essa, che non in-tendeva restringersi al modo di vita dei piccoli stati neu-trali, accettava la necessità di partecipare a un aggruppa-mento di potenze europee, che, tutto ponderato, le of-friva i minori danni e i maggiori vantaggi. Vero, invece,è che il trattato fu conchiuso sotto l’imperio di una irre-sistibile spinta dell’opinione pubblica, dei più autorevo-li deputati, senatori, pubblicisti, compresi tra loro i su-perstiti dei processi di Mantova e delle carceri austria-che, come il Cavalletto e il Finzi, che tutti consigliavanoe premevano in quel senso; e contro l’avviso dell’esperto,giudizioso e fiero ambasciatore italiano a Vienna, il con-te di Robilant, che stimava meglio conducente a ristabi-lire il «prestigio dell’Italia, alquanto scosso negli ultimitempi», comportarsi con prudenza e lealtà non disgiun-ta da fiducia nelle proprie forze, migliorare le condizioni

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economiche, finanziarie e militari del paese, e non cerca-re per allora alleanze, aspettando di esserne ricercati, co-me non tarderebbe ad accadere; e perciò mosse obiezio-ni anche al viaggio di re Umberto a Vienna. Ma il Robi-lant, che fece il possibile perché nel 1882 il trattato nonfosse negoziato, e, a cose fatte, giudicò che con esso laGermania e l’Austria avevano conseguito il fine di ren-dere l’Italia impotente contro di loro, e che il Bismarckera ancora una volta riuscito nel giuoco suo solito, con leblandizie d’imprese coloniali e distraesti, verso la Fran-cia, e con le minacce d’isolamento, verso l’Italia, di «pa-ralizzare» i suoi avversarî, fu anche colui che, ministrodegli esteri, si rifiutò di rinnovarlo alla vicina scadenzadei cinque anni, non volle recarsi a visita e colloquio colBismarck e lasciò che il superbo cancelliere tedesco fa-cesse lui gli approcci e aprisse le trattative: sicché, nel-la forma che l’alleanza ebbe nel 1887, parve al Robilantdi «aver messo l’Italia in una botte di ferro». Si stabili-va infatti, negli atti firmati il 20 febbraio di quell’anno,che qualunque occupazione temporanea o permanentedell’Austria-Ungheria o dell’Italia nei Balcani o nelle co-ste e isole ottomane non potesse aver luogo senza un ac-cordo precedente tra le due potenze, fondato sul prin-cipio di una compensazione reciproca dei vantaggi otte-nuti, e che se la Francia estendesse sotto qualunque for-ma il suo dominio nella Tripolitania o nel Marocco, e l’I-talia fosse costretta a impedirlo con le armi, ciò avrebbecostituito, a richiesta dell’Italia, un casus foederis. Tan-to più il trattato garantiva gli interessi italiani, in quantodi quella combinazione entrò indirettamente a far partel’Inghilterra, mercé un accordo con l’Italia circa il Me-diterraneo, che assicurava alla Triplice il concorso dellaflotta inglese. Così quella alleanza, mentre dette all’Ita-lia le garanzie contro il Papato e contro la preponderan-za francese che le erano necessarie, concesse all’Europatrent’anni di pace, dei quali l’Italia doveva giovarsi per

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rinvigorirsi economicamente e militarmente, e svolgerela sua vita di cultura.

Neppure la perdita delle speranze tunisine fu tutta unapura perdita, perché, col carezzare quelle speranze, e sof-frire quella delusione, l’Italia sentiva, e tra le prime inEuropa, quella che si disse la missione europea nell’A-frica e si disponeva a rivendicarne la sua parte. Risolutoil problema dell’unità, si cominciò infatti a parlare, e sene parlava più assai intorno al 1878, del bisogno di co-lonie, le quali per lei, come per la Germania, non si sa-rebbero potute trovare altrove che nell’Africa. Si obiet-tava bensì che a ciò ancora le mancavano le forze, e chel’Italia non era ben preparata; ma, se i desideri doves-sero tacere e i tentativi aspettare il momento della pie-na preparazione, avverrebbe proprio come a colui checautamente si proponeva di apprendere a nuotare primadi entrare nell’acqua. Si dubitava del profitto di similiimprese; ma qui la critica riguardava l’Europa tutta, chele aveva innalzate a uno dei suoi oggetti precipui, obbe-dendo a un impulso che rientra in quelli che un tempo sichiamavano gli oscuri disegni della Provvidenza, e per-ciò sono sottratti al calcolo utilitario. La prima mira del-l’Italia, la Tunisia, involgeva risoluzioni gravissime, del-la qual cosa erano perfettamente consapevoli gli uomi-ni di stato francesi e quelli italiani, come il Mac Mahon,che, alle istigazioni del Bismarck di occupare la Tunisia,aveva esclamato: «Ils veulent maintenant naus foutre l’I-talie sur le dos!», e il Corti, che, alle simili offerte du-rante il congresso di Berlino, aveva risposto: «Est-ce quevous voulez nous brouiller avec la France?». L’Italia po-teva da ciò essere costretta a passare, come infatti accad-de, nel campo delle potenze avversarie della Francia, e laFrancia veder sorgere in Europa, dopo quella della Ger-mania con l’Austria, un’altra alleanza per conservare im-mutato lo status quo, che era quello formatosi sulle scon-fitte del ’70 e che essa ragionevolmente doveva bramare

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di vedere sovvertito o modificato. Ma il contrasto d’in-teressi tra Francia e Italia circa la Tunisia era così fattoche si poteva forse ritardarne per qualche tempo l’urto,ma non si poteva evitarlo; e troppo larga parte si è attri-buita, in quel che accadde, all’abilità che parve inferna-le del Bismarck, il quale, in fondo, continuava un’astu-zia, sempre da lui adoprata e non sempre riuscitagli, dioffrire altrui quel che non gli apparteneva e che stimavaindifferente per gl’interessi tedeschi, e un’astuzia troppogrossolana da dovervi cader dentro, se proprio la neces-sità non vi ci avesse spinto. La necessità era grande per laFrancia che, con le fatiche di un mezzo secolo, con mol-to sangue e molta spesa, aveva conquistato l’Algeria, diannettersi la Tunisia, dove intanto il numero e l’operosi-tà degli italiani e l’influsso italiano crescevano; e per lei,che aveva maggiore efficienza internazionale e maggioriforze, stava la giustizia storica, che è diversa dalla giusti-zia dei tribunali, la quale non ha niente da vedere in que-sti casi, e stavano i concorrenti interessi di altre poten-ze, tra le quali l’Inghilterra, a cui non poteva piacere chela Tunisia venisse in possesso di chi aveva la Sicilia. Sta-va per l’Italia, invece, l’appello a un astratto e per alloraalmeno immaginario tribunale, che ripartisse i beni tra ivarî popoli e tenesse equamente in conto il lavoro già im-piegato dagli italiani in quella terra; e, posti questi termi-ni del conflitto, l’Italia doveva soggiacere. Ma il soggia-cere stesso e l’irritazione che ne nacque, le procuraronosubito, e a più riprese, nel 1884 e nel 1888, da parte del-la Francia, l’offerta della libera occupazione della Tripo-litania; e, quel che è meglio, la indussero a una politicameno fantasiosa e più «realistica», badando a preservar-si da ulteriori mutamenti a suo svantaggio nel Mediter-raneo mercé la Triplice egli accordi con l’Inghilterra; einoltre le fecero volgere il pensiero ad altre imprese afri-cane, nelle quali doveva fare le sue prime prove colonia-li.

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È uno dei segni della generale crescenza italiana inquegli anni l’operosità dei suoi viaggiatori ed esploratori,soprattutto nell’Africa, che si fece intensa e come febbri-le intorno al 1880, quando agli Antinori, ai De Albertis eai Beccari si aggiunsero i Piaggio, i Gamperio, i Gessi, iGasati, i Ghiarini, i Gecchi, i Giulietti, i Bianchi ed altri,arditi e intelligenti, molti di essi periti di ferro o di morbinell’ostinazione delle loro imprese. Fin dal 1867 era sta-ta fondata la Società geografica italiana, e poi quella distudi geografici e coloniali di Firenze, e, più speciali, laSocietà africana di Napoli e quella di esplorazione geo-grafica e commerciale di Milano, con l’intento di far co-noscere le vie migliori di commercio con l’Africa. L’a-zione dello stato si veniva fissando sulle coste del MarRosso, sin da quando l’apertura del canale di Suez ave-va dato a quel mare nuova importanza; e nel 1881 si fa-ceva acquisto della baia di Assab, già da oltre dieci anniposseduta dalla Società di navigazione Rubattino, e nel1882 se ne affermava e allargava il dominio mercé un ac-cordo con l’Inghilterra. E sempre per accordi partico-lari con l’Inghilterra, che tenevano il luogo di quelli chele altre potenze prendevano tra loro per ripartirsi l’ Afri-ca, e preparavano l’accordo maggiore del quale si è par-lato, onde attraverso l’Italia fu ottenuto alla Triplice l’ap-poggio inglese, nel 1885 venne occupata Massaua, sgom-brata dagli egiziani, probabilmente con un disegno piùampio, subito rotto dalla caduta di Kartum con la mortedel Gordon, e dall’abbandono che il governo inglese do-vé fare del Sudan: onde l’Italia si trovò a dover allarga-re la sua occupazione dalla costa verso l’interno e a rivol-gere le sue forze verso l’ Abissinia, e ne segui l’eccidio diDogali. Fin da principio gli errori commessi per inespe-rienza così politica come militare furono parecchi, e piùgrossi se ne commisero in séguito; ma, per dolorosa chesia questa triviale osservazione quando gli èrrori costanosangue e mortificazioni, non altrimenti si riesce ad impa-

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rare, e il più saggio metodo tenuto poi nell’Eritrea e nel-la Somalia, e la ben diversa: previdenza e risolutezza concui fu condotta l’impresa di Tripoli, non furono possibi-li se non per il ricordo di quegli errori. Né è da dimenti-care neppure qui che parecchi di tali errori furono com-messi per un difetto di non bassa origine, pel sentimentodi mitezza e umanità che l’Italia portava anche dove nondoveva.

Cosicché, concludendo, par che sia, se non da rove-sciare, da correggere l’ordinario giudizio su quel perio-do che si disse di sciagurata politica estera italiana, se inesso l’Italia, con l’irredentismo, con le aspirazioni afri-cane, cogli accordi inglesi, con gli impegni presi e rice-vuti nel trattato della Triplice, con le clausole di caute-la contenute in questo, pose tutte le premesse della suafutura politica internazionale, sboccata, in ultimo, nellapartecipazione alla guerra mondiale.

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V. IL PENSIERO E L ’IDEALE (1871-1890)

Dove veramente si sarebbe potuto notare in Italia unadecadenza rispetto all’età precedente era nel vigore enella larghezza del pensiero. Decadenza, se così si vuolchiamare, e meglio si direbbe una «crisi», generale intutta Europa, della quale sarebbe fuor di luogo esporrequi il complicato processo, risalendo alle origini; maimporta notare che, come queste origini sono di naturaloro religiose, così quella crisi si assommava in una crisidi fede o d’ideali etici. Il che si vedrà chiaro, ancheristretta la considerazione al periodo seguito al 1870 ealla sola Italia; e di tra le circostanze e i tratti particolariitaliani apparirà il carattere generale e comune, e coloroche rammentano quel che avvenne nella vita intellettualedegli altri paesi di Europa, troveranno forse che le stessecose valgono, con pochi mutamenti e ritocchi, anche perquei paesi a quel tempo.

A una rinascita cattolica, quale si era delineata nelprincipio del secolo col romanticismo e con la reazio-ne allo spirito volterriano, e quale era stata vagheggia-ta, insieme con l’unione politica del Papato e dell’Italiaindipendente e liberale, dal neoguelfismo, non era più dapensare. Gli ultimi neoguelfi sopravvivevano in una so-cietà affatto diversa, col ricordo sempre più evanescen-te delle speranze di un tempo: si trovarono ancora a ce-lebrare, nel 1876, il centenario della Lega lombarda e diLegnano, tra le punture della nuova critica storica, cherestituiva a quei fatti la semplice realtà di una rivolta dicomuni contro il loro signore feudale; ma non tramanda-vano alcuna virtù riformatrice e avvivatrice di religione,e già era molto se riuscivano a mantenere in sé medesi-mi una certa armonia di cattolicesimo e libero pensiero,rispondente piuttosto a nobiltà di sentire che a una so-

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da logica. Gli ultimi tentativi di solitarî, come il Bertini eil Berti, per affinare e ammodernare la religione tradizio-nale, mettevano capo a un dissolvimento del cristianesi-mo nella pura filosofia. Le speculazioni intorno ad artifi-ciali «religioni dell’avvenire» non meritavano, e non eb-bero, alcuna attenzione. Accanto, dunque, all’ortodossiacattolica, che non si esauriva tutta nel clericalismo e con-tinuava a confortare e guidare anime nelle vie del bene,ma non era in grado di fornire un sistema adatto alla par-te viva e dirigente della nazione, non rimaneva se non lacorrente del pensiero moderno, che era stata già umani-smo, riforma, razionalismo, criticismo, dialettica, storici-tà, crescendo sopra sé stessa attraverso queste successiveesperienze, e nella prima metà del secolo decimonono,allargandosi magnificamente, aveva fecondato, per mol-teplici canali, l’opera politica e civile dappertutto in Eu-ropa, e, più forse che altrove, in Italia.

Ma appunto questa corrente si era arrestata e stagna-va, dopo il mezzo del secolo, per l’ostacolo postole con-tro non tanto dal materialismo (che non aveva molta for-za e, nel suo povero e goffo modo, era pure idealismo efede, e si coronava di alcuni bagliori illuministici e uma-nitarî), quanto dal naturalismo col suo agnosticismo. Pereffetto di esso, non solo ai valori umani; alle idee e agliideali veniva a mancare la giustificazione che solo l’unitàdel principio e la coerenza del sistema possono dare, maquei valori stessi e quegli ideali erano sminuiti, inquinati,negati, perché li presentava e teorizzava come fatti di as-sociazione psicologica, di riflessi fisiologici e patologici,di eredità, tutti, il pensare e il volere, la fede e l’amore,la bontà e la bellezza, e perfino l’anelito verso Dio; e nel-la nuova visione non c’era già l’uomo vero e intero, nelquale sia risoluto il dissidio di spirito e corpo, ma l’uo-mo animalizzato, sempre e solo corpo e carne, nonostan-te parvenze e illusioni d’impeti generosi e di rapimentisublimi, che, scrutati, si dimostravano fremiti di nervi o

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addirittura effetti di nevrosi. In lontananza, si collocavanon propriamente il mistero, il sacro mistero, che con-tiene in sé tutti quei valori dei quali non svela l’enigma,ma il non sapere, l’ignoranza più o meno provvisoria, colsottinteso che forse un giorno si sarebbe trovata qualchecombinazione di atomi, o altro simile, che avrebbe spie-gato ogni cosa, e dato il modo di ottenere nei gabinetti ilvivente e tutti quegli altri prodotti chimici che si chiama-no volgarmente creazioni spirituali.

In Italia la negazione della filosofia, o più veramen-te lo sforzo di sostituire alla filosofia idealistica una fi-losofia naturalistica ed agnostica, e al metodo specula-tivo quello estraneo della fisica e delle scienze naturali(che contaminava l’altro e ne era a sua volta contamina-to), seguì più tardi che altrove. L’ondata penetrava inpiù luoghi, specie nella Lombardia e nella Toscana, do-ve rinfrescava vecchie tradizioni, ma incontrava opposi-zione soprattutto a Napoli, dove la rinnovata universi-tà raccoglieva i migliori studiosi di filosofia formatisi ne-gli ultimi decennî del Risorgimento. Parve anzi che so-lo a Napoli restasse accesa la fiamma del pensiero specu-lativo europeo, egli hegeliani di Germania, che, come la-mentosamente confidavano ai loro correligionarî di Na-poli, si vedevano nella condizione di una ecclesia pres-sa, posarono più volte a conforto e speranza gli sguar-di su quel manipolo napoletano, ripromettendosene aiu-to alla riscossa e alla vittoria. Ma anche a Napoli la re-sistenza, quantunque tenace, non dimostrò di possedereforza da sconfiggere gli avversarî e riprendere il dominioperduto. I suoi rappresentanti erano uomini maturi, cheavevano già dato o venivano dando il meglio che pote-vano e che era frutto del lavoro e della fede dei loro an-ni giovanili: la nuova generazione, che essi cercavano diindirizzare, sfuggiva loro dalle mani, correndo al richia-mo dei problemi e dei metodi di moda, filologia, psico-logia, neocriticismo, positivismo. Essi stessi erano pre-

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si talvolta da suggezione al reciso negare e allo sprezzan-te giudicare di quei giovani, e da dubbî e da disaffezio-ne pei proprî lavori e pei disegni che ancora portavanoin mente. Qualcuno sentì sfiorarsi dalla tentazione del-la nuova contro la vecchia fede e provò come un brivi-do di terrore alla insidiante apostasia; qualche altro sce-se a transazioni; talun altro, dei meno anziani, si conver-tì addirittura al naturalismo e positivismo; e chi non si ri-tirò nel santuario a recitare il credo e a mormorare gia-culatorie, e volle rimanere in campo, dové prendere untono moderato, stare ad ascoltare quel che era, in verità,poco degno di filosofico ascolto, ad esaminare quel chenon francava la spesa dell’esame, restringersi ad obietta-re, e, tutt’al più, sfogarsi in ironie e sarcasmi. Presto, inItalia, grandeggiò la riputazione di Erberto Spencer colsuo codazzo di positivisti inglesi e francesi. Il «germane-simo», che si stabiliva nelle università e in tutte le scuoleitaliane, non aveva più nulla o quasi della Germania clas-sica, che a ragione si considera la patria ideale del mo-derno filosofare, ma rispecchiava la Germania di dopoil ’48, filologica, tecnica, scientifistica, rinnegatrice dellapropria tradizione speculativa; onde poté solamente ap-portare un positivismo meno inerudito, quale il neokan-tismo, una «filologia» (come fu argutamente detto) po-sta al luogo di una «filosofia». Un positivismo nostra-no venne elaborato da un ex-sacerdote, l’Ardigò, filoso-fo del «fatto». Pochi avevano l’ardimento di contrastare,ma anche quei pochi negavano bensì, cioè accusavano ditanto in tanto certe enormità di filosofico infantilismo edi stravaganti spropositi, ma non sapevano costruire o ri-costruire. Il nome di «filosofo», la parola «filosofia», se-colarmente riveriti anche per il concetto che vi si univadi serenità e superiorità morale, divennero nome e paro-le di scredito, ora deprecati come segni di sviamento deicervelli, ora fatti oggetti d’insipidi motti e di lazzi trivia-li. Quasi più nessuno osava dire che attendeva a indagi-

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ni e meditazioni filosofiche, e tutti invece si vantavano difare «scienza» e di comportarsi da «scienziati».

Per quel che ancora perdura nel comune sentire diquel discredito e di quello scherno, sembrerà che alla fi-losofia e al suo maggiore o minore nerbo, al suo fioriree al suo avvizzire, si dia soverchia importanza col discor-rerne in una storia, com’è questa, dello stato e della so-cietà italiana, e con l’attribuirle una parte efficiente prin-cipale. Ma la verità è che proprio questa parte le spettae non può non spettarle; e le conseguenze, che tennerodietro allo scadimento filosofico, si videro subito chiare,in primo luogo in tutti i rami degli studî, in tutta la sferadella cultura di quegli anni. La storiografia politica e ci-vile, che aveva spaziato nei grandi problemi della storiaitaliana e universale, come erano stati posti dal romanti-cismo e dall’idealismo, Pontificato e Impero, Germane-simo e Latinità, Comuni e Signorie, l’origine degli sta-ti moderni, le lotte tra Chiesa e Stato, e simili, legando-si con questi problemi storici ai problemi pratici e attua-li del moto della libertà e civiltà e dell’indipendenza deipopoli, e aveva perciò avuto efficacia morale e politica,ed era stata accompagnata dall’interessamento generale,si distaccò via via da quelli e simili temi o li continuò pi-gramente, e, peggio ancora, si distaccò dalla vita, e si fe-ce cosa da eruditi e filologi, e il pubblico si distaccò daessa e non ne volle più sapere. Divenne contributo acca-demico, scrittura da archivî storici, monografia da pre-sentare nei concorsi per le università e pei licei; si mos-se non (come si suol dire) nei particolari, che nei parti-colari deve muoversi sempre la storiografia, la quale nonconosce minuzie o minime determinazioni che le restinoestranee, ma nei particolari non riferiti al loro centro, eperciò disgregati e non animati, maneggiati ma non in-tesi, senza significato, senza interesse, che appassionava-no, tutt’al più, i ricercatori stessi, nella loro caccia al do-cumento, nella ricerca per la ricerca, e per qualche mo-

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mento incuriosivano il pubblico, quando si atteggiava-no a paradossi contro i racconti tradizionali e a rivelazio-ni più o meno scandalose su uomini e fatti del passato.I giudizi, quando pur si doveva giudicare, erano super-ficiali e convenzionali, arbitrarî, generici, contradittorî,e, nei punti essenziali, dati sempre a contraggenio, per-ché giudicare vale affermare concetti e compromettersi,e questo ci si studiava di evitare a tutto potere. Anchela storia recente, quella del Risorgimento, oscillava nel-le menti tra l’aneddoto, il pettegolezzo e il panegirico, dirado gravemente meditata. La storia della poesia e del-la letteratura prese a trattare di ogni altra cosa che nonfosse la poesia e la letteratura, della biografia degli auto-ri, della materia delle opere, delle loro fonti e derivazio-ni, delle somiglianze e dissomiglianze tra le varie operecirca la materia o circa la forma astratta e materializzata;e anche di queste altre cose, nel modo della restante sto-riografia, cioè senza riuscire neppure a dare, in cambiodella storia della poesia e della letteratura, una storia ci-vile e morale su documenti letterarî, una degna biografiadell’uomo nel suo aspetto volitivo e pratico se non quel-la ideale del poeta; ché le varie forme della storiografia sicondizionano tra loro e la fiacchezza dell’una è fiacchez-za delle altre tutte. Anche nella storia letteraria e artisti-ca i giudizi erano di solito miserandi. L’unica opera cri-tica sulla poesia italiana che si possedesse, retaggio dellagenerazione precedente, i Saggi e la Storia della letteratu-ra del De Sanctis, serviva ai nuovi scienziati della lettera-tura come bersaglio di frizzi, roba da esercitarvi la com-miserazione e additarla in esempio di vuoto dilettanti-smo agli scolari, perché ne fuggissero lontano. Poco do-po l’80, questo spoetizzamento della storia della poesiaraggiunse la sua eccellenza e si costituì una propria for-tezza che chiamò, per non dar luogo all’ingiusto sospet-to che potesse trattare di poesia e arte letteraria in quan-to tali: «Giornale storico della letteratura italiana». Nelle

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parti della filosofia, che più immediatamente si legano allavoro storiografico e par quasi che stiano tra esso e la fi-losofia propriamente detta, gli studî di filologia e lingui-stica appesantivano gli schemi della grammatica storica,si sottomettevano più di prima alle scienze naturali, cre-devano più che mai alle «leggi fonetiche», all’etimologi-smo semplicistico e meccanico, alla meccanica ricostru-zione dei testi: non solo la genialità di un Herder o di unHumboldt, ma neanche le larghe concezioni storiche diun Cattaneo trovarono continuatori. Di teoria della let-teratura e dell’arte, salvo il residuo rettorico nei manua-li per le scuole, non rimaneva ombra: ancor più diffa-mata e sbeffeggiata che non quella di «filosofia», la pa-rola «estetica»; e, quando i positivisti adoperavano que-sto nome, era per negarne il contenuto, scoprendo sot-to i «fenomeni estetici», come li chiamavano, la realtà difatti respiratorî, auricolari, ottici, utilitarî, voluttuarî, ses-suali e sadici. Nei problemi della vita morale, che assaidi rado, per la qualità di religione che era prevalsa e pelmancato lievito della Riforma, avevano richiamato sopradi sé in Italia anime pensose, languì e andò disperso an-che quel tanto che ne avevano agitato e proposto il Man-zoni e il Leopardi, e altri minori della generazione pre-cedente, il Capponi, il Lambruschini, il Tommaseo. Lapedagogia, si riempì di igiene e medicina e si vuotò divalori spirituali, nonostante le astrattezze dello herbarti-smo, alle quali, conforme a una moda tedesca, taluni siattenevano. Gli stessi studî di economia, che erano col-tivati alacremente e con dottrina, non produssero nulladi veramente originale, e non sempre seppero mantene-re o ripigliare coscienza del loro metodo proprio; tan-to che, per lo scotimento cagionato da esempi stranie-ri, corsero rischio di smarrirlo, andando dietro alle mol-lezze logiche della cosiddetta «scuola storica», e poi diquella evoluzionistica e sociologica. Negli studî di poli-tica e di diritto pubblico c’era non poca dottrina, e lar-

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ga conoscenza di libri forestieri, e, per effetto delle vi-cende parlamentari italiane, un vivo discutere; ma il di-fetto di filosofia e di storia adeguata, cioè di conoscen-za dello spirito umano, e del modo in cui si viene attuan-do nei fatti, e della sua costanza nel perpetuo cangiare esvolgersi, impediva di percepire con chiarezza e definirecon esattezza, e lasciava disorientati e perplessi tra la ve-duta, preveduta e temuta decadenza delle istituzioni li-bere e parlamentari, e la non meno evidente impossibili-tà di sostituirle con altre che fossero migliori. Si aprivaqualche scuola di scienze politiche e amministrative, madel tutto tecnica. I più dei polemisti e riformatori si da-vano a escogitare meccanismi istituzionali da sostituire ameccanismi istituzionali, ritocchi da introdurre nell’ordi-namento parlamentare o limitazioni di questo; e, in que-sti loro pensieri, restavano come esclusi dalla realtà, im-potenti a operare sopr’essa, inascoltati o ciascuno ascol-tante sé stesso, perché ciascuno aveva la sua propria co-struzione o costruzioncella. A quegli studi, a quel difettofondamentale, toccava per gran parte la colpa della con-fusione degli intelletti e del turbamento degli animi in-nanzi al cadere e dissolversi del partito di Destra e poidi quello di Sinistra, e al «trasformismo»: tutti proces-si fisiologici, che furono interpretati, non solo dai profa-ni ma dagli scienziati, come patologici; e toccava in ge-nerale la colpa di alimentare la disposizione alla sfiduciae al pessimismo, così pronto a spargersi, come si è vedu-to, sul presente, sull’avvenire e, indietro, sul passato, aogni caso avverso, a ogni difficoltà resistente, a ogni ma-lanno sociale. Il solo forse che concepì un’idea feconda,riportando, per virtù di meditazione storica, l’attenzio-ne dalle forme giuridiche alla realtà politica, dal sistemacostituzionale e dal metodo parlamentare alla classe di-rigente o «politica», il Mosca, era anch’esso poco dispo-sto agli approfondimenti filosofici, e, in quella prima af-fermazione della sua dottrina, acre nei giudizî e pessimi-

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stico, e, a ogni modo, né quella sua sincera ansia di ve-rità, né quel suo bisogno di cercare un concetto che fos-se nuovo lume e guida, né quel concetto stesso ben vali-do a tal fine, e capace di elaborazione e di estensione edi arricchimento, ebbero presso i contemporanei effica-cia alcuna. Le discipline fisiche e naturali, conforme al-la loro speciale natura, seguitavano bensì ad accumulareesperienze e a fare «scoperte»; ma non è da dimentica-re che il loro intimo impulso era dato tutto dalla filosofiadei secoli moderni, e non solo dall’antiscolasticismo diGalileo e dalla logica dell’induzione e dello sperimento,ma anche, più recente acquisto, dal concetto che tutte lecompenetrava della «evoluzione» e della «lotta per l’esi-stenza», che erano poi il «divenire» e la «dialettica» del-la filosofia idealistica e storica; e, a durare a lungo chiusenei gabinetti e tra gli strumenti, c’era rischio che prestoo tardi inaridissero per l’inaridimento e invecchiamentodi quei concetti, non ravvivati da nuove speculazioni; edi ciò si credeva di scorgere segni premonitori.

L’università è di sua natura tradizionalistica e conser-vatrice, adatta a trasmettere notizie e metodi e costuman-ze, e a preparare professionisti e pratici. Non può dun-que aspettarsi da essa ne il nuovo pensiero, che è ope-ra della personalità geniale, anche quando, come la lin-gua italiana acutamente dice, «faccia» (e non già «sia»)l’insegnante e il professore; e neppure la manifestazionedei bisogni e degli stimoli al nuovo pensiero, che vengo-no non dalla sua chiusa cerchia, ma dall’intera vita so-ciale, e spesso dai punti più lontani e ripugnanti a quel-la cerchia. La «scuola», che fosse insieme «vita», qua-le se ne ebbe saggio a Napoli poco prima del ’48, erascuola libera, guidata da rivoluzionarî che rivoluzionava-no insieme gli studî e la politica, e non si può e non sideve cercarla in istituti statali. Qualche rimasuglio, chese ne vide per più anni nell’università napoletana, comela scuola del repubblicano e deputato e privato docente

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Bovio, che parlava dell’«Ateneo» quasi un Vaticano lai-co da contrapporre al papale, e nella quale c’era bensìl’apostolo e il tribuno, ma non punto il critico e il mae-stro di metodo, non giovava, e si avvertiva cosa estranea,di cui non era desiderabile l’imitazione. E nondimeno,messo ciò in chiaro, l’università italiana era allora più di-visa dalla vita di quel che porti l’indole dell’istituto; piùdivisa in ragione appunto della dottrina che trasmetteva,e che non era la tradizione di quella speculativa e idea-listica, ma la dottrina positivistica, astratta nella sua ap-parente concretezza, che arrivava fino all’intelletto calco-lante e classificante, ma non penetrava nel centro, assaipiù riposto, dello spirito umano. Qualche voce di quellatradizione, per esempio il De Sanctis, che cessò dall’in-segnamento nel 1876, si spense senza effetti o con effet-ti solo momentanei ed estrinseci: i suoi ultimi scolari di-ventarono tutti filologi e positivisti. Altri, come il Car-ducci, serbava, in poesia, la tradizione della grande poe-sia; ma, quanto a pensiero cedeva alla moda e dispettosa-mente rigettava estetica e speculazione, e lavorava e rac-comandava di lavorare da eruditi e positivisti, solo cor-reggendo la rozzezza letteraria, a costoro consueta, colbuon gusto del giudizio e con l’eleganza dello stile.

Ma il difetto di pensiero svolgeva le sue conseguenzeanche oltre la sfera degli studî storici e politici e morali efilologici, nella letteratura d’arte è in quella che si chiamaamena e di trattenimento, nei romanzi, nelle novelle, neidrammi. Più rari che non si creda sono gli animi che go-dono, e più rari i momenti nei quali si gode l’arte in quelche la fa arte, la poesia come semplice poesia, abbando-nandosi a lei, lasciandosi sollevare da lei sopra gli affet-ti pratici, sopra le verità dell’intelletto. I più, o più d’or-dinario, cercano nella poesia e nell’arte unicamente quelche vi si trova di elementi intellettuali e stimolanti, con-cetti, giudizî, sentenze, esortazioni, incitamenti; e consi-mile bisogno dà altresì origine alla speciale letteratura se-

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miartistica di propaganda, trattenimento e divulgazione,con la quale si è più vicini a quanto si sente e si desiderae si vuole nella vita pratica. In Italia, letteratura d’arte eletteratura di trattenimento, pur serbando certi motivi eun certo fondo romantico, avevano lasciato cadere i so-gni e le figure del romanticismo sentimentale ed eroico,gli scenarî medievali, le armi e gli amori, i cavalieri e lecastellane (l’estrema manifestazione di siffatta letteraturasi ebbe in forma talvolta manierata, ma tal’altra gentile epoetica, nel Piemonte), e si erano date tutte all’osserva-zione della vita borghese, popolana, contadinesca, degliistinti e degli affetti inferiori e violenti, impulsi sessuali,scoppî di ferocia, cupidigia e ingordigia, bassezza e cor-ruttela di poveri come di ricchi, e via discorrendo. Que-sta osservazione sociale e morale era animata dallo spiri-to medesimo che animava il naturalismo e il positivismo,e il suo programma si condensò nella parola «verismo»,una di quelle allora più risonanti e che aveva il suo mag-giore rappresentante in Francia nello Zola, assai letto eimitato in Italia, il quale quasi ogni anno dava fuori unnuovo romanzo e porgeva alla considerazione della gen-te un nuovo «pezzo» di realtà osservata, l’alcoolismo, laprostituzione, i contadini, il commercio, la borsa, le fer-rovie, gli scioperi, la guerra, l’umana bestialità, e poi an-cora il lavoro, la superstizione, la natalità, e si era propo-sto d’illustrare in una serie di «romanzi sperimentali» lalegge dell’eredità, studiata in una famiglia da lui imma-ginata eseguita nelle sue ramificazioni per più generazio-ni. L’intento sperimentale, assurdo che fosse e per noioggi tanto trasparente in questa sua assurdità che si duraquasi fatica a intendere come si potesse pur manifestar-ne il proposito e discorrerne sul serio, entrava nell’atto difede dei nostri romanzieri, e vi credette anche il Verga.Con quell’anima e questo intento la letteratura veristica,arieggiando all’opera del medico e del chirurgo che dia-gnostica tumori e denuda piaghe, era tutta oppressa dal-

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la gravità dei mali, dal comprovato cieco egoismo uma-no, dalla comune turpitudine e abiezione, e sfiduciata eaffannata circa i rimedi, di una sfiducia che ora si mutavain rassegnazione e indifferenza, ora cedeva luogo al sem-plicismo delle ideate panacee. Grandi pensieri, problemimorali e politici e religiosi, simili a quelli che riempironoe travagliarono Alfieri e Foscolo, Leopardi e Manzoni,non appartenevano più al generale interessamento, so-stituiti quasi unicamente da problemi «sociologici», os-sia d’igiene, economia e politica; e questi, privi degli al-tri, prendevano proporzioni enormi, occupavano tutto ilcampo visivo, e mancava il modo e la forza di dominarli,collocandoli alloro giusto posto e rischiarandoli dall’al-to. La letteratura veristica nei suoi motivi intellettuali epratici non era certamente quella che il Goethe avrebbechiamata «tirtaica», che incoraggia e rafforza gli uomininelle battaglie della vita; e della vita dava piuttosto il di-sgusto. Insistiamo nel parlare di elementi intellettuali epratici, cioè di quelli che operavano socialmente e forni-vano argomento ai libri, sotto forme artistiche, di carat-tere didascalico, ed erano comuni alle opere buone, me-diocri e cattive. Ché quando, e accadde più volte, quel-la letteratura assurse a schietta poesia, in essa e negli ani-mi che come tale l’apprendevano, si effettuava la catarsi,che è catarsi nella piena umanità. Ma qui guardiamo, edobbiamo guardare, non al suo aspetto poetico, al qua-le già abbiamo accennato notandone il pregio e l’impor-tanza in quel tempo, ma solo ai suoi varî aspetti morali ecivili.

Come la letteratura non è per sé filosofia, così non èfilosofia la politica, e tuttavia nell’una e nell’altra la filo-sofia pura, e nella politica la sua presenza o assenza ap-pare come chiaroveggenza o cecità, nettezza o confusio-ne di concetti, e la sua varia qualità come interessamentoper l’azione in un verso piuttosto che in un altro. Tuttoquesto inconsapevolmente, ossia con consapevolezza af-

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fatto diversa nel politico che non sia nel filosofo, il qua-le conosce le verità nella loro genesi critica e storica, e ilpolitico le riceve come conclusioni dall’ambiente socialein cui vive, e talvolta le ritrova nel suo buon senso, bel-le e fatte, e cioè non fatte da lui, ma pronte in lui comebase di azione. Questa condizionalità della filosofia perla politica è dimostrabile in ogni punto della storia, an-che quando filosofia era quella dello stregone e del, bar-barico sacerdote; e, per quel che riguarda l’inconsapevo-le traduzione che ne accade nella pratica, si può veder-la in tutti i personaggi politici e uomini di stato. Per re-stare in tempi a noi vicini, non solo è dato osservarla inun Cavour, la cui formazione si è venuta scoprendo assaicomplessa e ricca di non prima sospettati elementi cul-turali, indirettamente e talora direttamente filosofici; maanche in uomini come il Lanza e il Sella, i quali, medicol’uno, ingegnere l’altro, alieni l’uno e l’altro da specula-zioni, e il secondo tutto scienze naturali e matematica epersuaso dell’omnia in numero, pondere et censura (fin-ché un giorno non ebbe a confessare di essersi avveduto,con gli anni, che vi sono altre cose che muovono gli uo-mini con migliore virtù), l’uno e l’altro si dimostrano, intutte le loro risoluzioni e le loro opere e l’indirizzo del-la loro vita, sotto l’efficacia del pensiero che vigeva nel-la loro gioventù e in cui avevano respirato. Anche i vec-chi uomini della Sinistra ritenevano del grande e scatta-vano sempre alle idee generose; e non invano erano sta-ti mazziniani e sognatori di etico e religioso rinnovamen-to della società civile. Ma la nuova generazione, che ven-ne crescendo intorno al 1880, era prosaica e angusta; ilche non vuol dire che non abbondasse di onesta gente edi buone intenzioni, spesso più capace dei vecchi nellecose tecniche e più ordinatamente istruita, meglio infor-mata nei particolari, ma fatta così che, quando era purnecessario abbracciare con l’occhio vaste distese, s’inti-midiva, e quando bisognava riportare al loro principio e

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ridurre a logica coerenza le massime spicciole dell’azio-ne, s’imbrogliava e scantonava. Camminavano abbastan-za bene in pianura: le montagne davano loro affanno evertigini, sicché riluttavano alle ascensioni. Perciò non èmeraviglia che nei momenti difficili o gravi, innanzi al-le cose avverse o resistenti, non soccorsi da quel pensie-ro che è fede, si accasciassero nel pessimismo. Pessimi-sta pareva che fosse diventato anche un uomo come loSpaventa, che non itendeva in ogni parte il processo sto-rico dei nuovi tempi, e, in fatto dl filosofia, se ne stavaa quel che ne aveva meditato da giovane; ma quale dif-ferenza tra l’amarezza degli altri e quella sua, contingen-te, che non smarriva mai la fiducia nella virtù correggitri-ce del pensiero; quale differenza tra l’abito mentale de-gli altri e il suo, onde ogni problema egli poneva nell’uni-versalità delle relazioni, e ogni proposta e provvedimen-to particolare ragionava sistematicamente! La tesi dell’e-sercizio di Stato delle ferrovie, che egli mise innanzi e so-stenne da ministro e deputato, non era soltanto una te-si finanziaria e amministrativa più o meno utile, e non ènotevole soltanto perché anticipò la soluzione che, moltianni dopo, dové adottarsi, ma s’inquadrava in una com-piuta concezione politica e morale; il che fu intravisto al-lora da parecchi. E questo, e non semplicemente la suagioventù di rivoluzionario liberale e la condanna a mortee il decenne ergastolo e la sua fermezza di uomo di statoe la sua severità di amministratore e il suo rigore di ma-gistrato, conferiva alla sua figura un aspetto singolare, eispirava verso di lui riverenza anche da parte di coloroche non bene lo intendevano e si comportavano pratica-mente in guisa assai lontana dalla sua. Il suo ideale delpensiero forte per la forte azione era proprio quello cheallora era venuto meno, se non sempre nelle parole, ne-gli animi. Chi, nello scrivere queste pagine e nel rievo-care per esse i tempi della sua adolescenza, spesso si sof-ferma nello scrivere, commosso ed assorto nelle immagi-

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ni degli uomini e delle cose che non sono più, e sente lagratitudine di quel che allora apprese e che gli giovò di-poi, e pia indulgenza per quel che non gli fu altrettantogiovevole e di cui dové disfarsi, non è per altro così sof-fuso dal velo della nostalgia da non ricordare chiaramen-te che la società intellettuale d’allora era assai piccina, epenosa in questa piccineria, meschina finanche nei pro-blemi intorno a cui si affaccendava, inerte a ogni sfor-zo che cercasse di spingerla in sù, asintetica, superficia-le, confusionaria nei giudizî, corriva a spuntare le pun-te dei concetti e a cercare tra essi accomodamenti, e pie-na la bocca di «scienza» e di «metodo» e di «fatti», e ar-rogante e beffarda verso le «idee» e le «speculazioni» eil «sistema», che sprezzava come «metafisicherie» e «va-porosità»; ma, insieme, delle cose a cui queste parole siriferivano, ignorantissima.

Non già che in questo difetto tutto fosse difetto e nelmale tutto male, perché il movimento positivistico ope-rava una reazione contro certe frettolose costruzioni edestensioni analogiche, nelle quali aveva peccato la filoso-fia idealistica della generazione precedente, e le reazio-ni, quantunque nella loro furia gettino via con gli errorile verità, con le cose inutili e nocive le cose utili e saluta-ri, non per tanto non adempiono al loro fine principalee oggettivo. Così, per dare qualche esempio, la tendenzache si moveva nel fondo della filosofia idealistica a uni-ficare filosofia e storia, era, senza dubbio, feconda; mala forma in cui quell’esigenza si concretava, la cosiddetta«filosofia della storia», affatto sbagliata, ancora teologi-ca e medievale, agostiniana e gioachimita ed escatologicanel suo fondo. L’esigenza a comprendere la natura comeopera dello spirito era giusta; ma la «filosofia della na-tura», che entrava in concorrenza con le scienze fisicheed asseriva su queste una strana superiorità di revisionee correzione, insostenibile. La dialettica era un principiovitale del pensiero, ma quella che la scuola hegeliana ve-

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niva solitamente applicando e di cui aveva dato frequentiesempî lo stesso Hegel, si sarebbe dovuta chiamare nondialettica, ma meccanismo. Tutti cotesti e simili erro-ri vennero scacciati dal naturalismo e positivismo, nonveramente con una critica logica, ma con una ribellionedi fatto, per una sorta di sazietà e di nausea; e, comun-que scacciati, non sono più tornati, e si sono viste poile ragioni per le quali non dovevano più tornare. Inol-tre, il naturalismo, il positivismo, il filologismo, pur van-tando il metodo delle scienze, continuavano a vivere diparecchi motivi dell’idealismo e del romanticismo, dimi-nuiti e impalliditi, ma efficaci anche in questa diminuzio-ne, e, tra molte stravaganze, asserivano pure cose ragio-nevoli. Era stravaganza che il genio fosse malattia e fol-lia, ma era ragionevole l’altra tesi del Lombroso che, poi-ché leggi e tribunali si occupavano dei delinquenti, con-venisse studiare da vicino i cosiddetti delinquenti e co-noscerli quali veramente sono nella loro psicologia e pa-tologia, sia per non far loro troppo torto, sia per non nu-trire sul conto loro illusioni. Infine, i metodi raccoman-dati, quantunque estrinseci, servivano a disciplinare l’in-dagine, se anche di essa la sola parte parimente estrinse-ca e strumentale, ma non per questo trascurabile o di po-co rilievo; e le indagini che si compivano, per quanto an-ch’esse estrinseche, cavavano fuori, come si è detto, da-gli archivî e dalle biblioteche, e ammucchiavano, un co-spicuo materiale di notizie e documenti, prima non co-nosciuti. Il lavoro eseguito allora in Italia, nelle universi-tà e fuori, fu molto: allora noi imparammo a non rispar-miare fatiche nelle nostre indagini e ad esser diligenti edesatti; e, in quell’angustia mentale, pur c’era una sortadi entusiasmo, e gli accumulatori di schede e i costrutto-ri di cronologie si sentivano sacerdoti dell’augusto veroe, in quanto sacerdoti, tenevano lungi da sé, sdegnando-lo, il profano volgo. Il male era che agli errori abbando-nati non si sostituivano principî che li superassero e in-

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verassero, e ai metodi estrinseci e meramente strumenta-li non si accompagnavano quelli intrinseci e concluden-ti; ché di questo si trattava e non già di una impossibilerestaurazione della filosofia idealistica e della sua storio-grafia, e dei metodi sommarî e approssimativi della pri-ma metà del secolo. Era una crisi, ma la crisi si prolun-gava troppo. Il malcontento e l’insoddisfazione prorom-pevano di volta in volta e da più parti: il positivismo, cheingenerava pessimismo, si faceva pessimistico su sé stes-so, e si moveva lamento che in Italia non si scrivesseropiù libri di storia che si potessero leggere e che riuscis-sero civilmente istruttivi ed educativi; che gli studi sul-la poesia e sull’arte si perdessero in una erudizione frate-sca, dove non soffiava alito di poesia e d’arte; che le spie-gazioni associazionistiche e fisiologiche non spiegasseroniente e lasciassero i problemi al punto di prima; che ivecchi uomini, ancor pieni di fede, educati ad altra scuo-la, via via sparissero, e i giovani fossero scettici e gelidi;e, poiché non si andava oltre il malcontento, si sospira-va a quella che abbiamo detta restaurazione impossibi-le, lodando talora le opere della generazione precedentee ponendole a modello. Ma il modo di tirarsi fuori dallacrisi non si vedeva e i nuovi concetti che rinfrescassero,ravvivassero e rendessero attuali gli eterni ideali dell’uo-mo, non accennavano ad apparire. Il pensiero radeva lebassure, e le ali dell’anima non si spiegavano ai voli.

Solo uno spiegò in quel tempo ali d’aquila, e traevadietro a sé noi giovani, e non fu un pensatore, ma unpoeta, Giosue Carducci, che, sorto al confine di due età,accolse l’intimo spirito dell’una e lo trasfuse e fece vive-re in seno all’altra. Romantico nella partecipe contem-plazione del passato e della storia, e in ciò rispondenteai concetti dell’immanentismo idealistico; romantico al-l’italiana o alla latina nel culto della libertà e della nonmai esausta forza creatrice di nuova vita che è nella ra-gione; italiano nell’affetto col quale, nella visione della

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storia universale, si stringeva a quella particolare d’Italia,risentendola tutta, nel lungo corso dei suoi secoli, in tut-ti i suoi più varî aspetti, in tutti i suoi eroi e i suoi uomi-ni; severo nella tradizione della lingua e dello stile, di unatradizione così certa di sé e insieme così plastica da poterricevere e intonare quanto le veniva incontro dalle lette-rature moderne e straniere; epico cantore, e pur tragicoed elegiaco, soffrente l’umana passione, sdegnoso dell’u-mana viltà, ma non mai pascentesi d’odio e di dispetto,malinconico ma non triste di delusione e di abbattimen-to: la sua poesia, che crebbe in albero robusto tra il 1875e il 1890, è quanto di più nobile abbia lasciato nel domi-nio dei sogni l’Italia di allora. E la sua grandezza fu sen-tita, se anche non compresa a pieno, dai contemporanei;e a lui, nella letteratura e poesia di quell’età, si riconobbesempre un posto in disparte e alto su tutti. E si può cre-dere anche che rimanesse solitario, chi guardi alla genteche ebbe intorno, ai prossimi scolari, agli imitatori, co-si da lui diversi, e al tono generale della società italianadei suoi tempi; ma la virtù spirituale della poesia comedel pensiero lavora nel profondo e non nelle apparenzeo nelle apparenze solo apparentemente; e molti che eglinon conosceva pur di nome, e taluni che riprovavano oavevano riprovato i suoi atteggiamenti nella politica pra-tica, e taluni altri che non accettavano i suoi metodi dicritico e si apprestavano a contrastarli o già li contrasta-vano, erano toccati e scossi e innalzati e fortificati dallasua poesia, che trasportava «dei secoli sul monte», spa-ziando nei cieli, e veneravano l’anima dalla quale sgorga-va impetuosa. A quella poesia, come a fonte di etico vi-gore, si dovrà tornare e si tornerà, come si torna semprealla poesia di Dante e di Tasso, di Alfieri e di Foscolo: aquella poesia, che è fin oggi l’ultima e classica – classicanel suo romanticismo – grande poesia italiana.

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VI. RIPRESA E TRASFORMAZIONE DI IDEALI(1890-1900)

Le descritte condizioni psicologiche, l’incertezza dei fi-ni da perseguire, il dubbio sui mezzi, il vuoto nelle idee,tutte queste cose di cui assai si soffriva, danno il modod’intendere perché mai, circa il 1890, s’accendesse co-sì forte nei giovani italiani l’appassionamento per le dot-trine del socialismo, che rapidamente crebbe e si diffu-se lungo quel decennio. Era anche questo un movimentodi carattere europeo, ma ebbe in Italia, dove apparve piùtardi che in altri paesi, un proprio andamento ed effettiparticolari, come si vede nel ripercorrerne la storia.

Fin allora, il socialismo – in quanto socialismo genui-no e non già socialismo statale, che è aggettivo negatoredel sostantivo, cioè un metodo per dominare e risolvereil primo – mal si distingueva, in Italia, dal rivoluzionari-smo democratico e repubblicano, dall’utopismo anarchi-co o di altra fattura, a al riformismo umanitario, ed era dipertinenza di uomini, che, nonostante l’entusiasmo del-l’apostolato, e anche una certa precorrente sagacia in-tellettuale in taluno di essi, stavano ai margini della vitanazionale e culturale: spostati, fanatici o bizzarri, senzadisciplina di studî, autodidatti insufficientemente e ine-gualmente preparati, o studenti di quelli che non studia-vano molto. I loro giornaletti e opuscoli e volumi spun-tavano, vivacchiavano e morivano, non degnati di alcunconto nei circoli della letteratura e della scienza. L’operadel maggior pensatore socialistico, che era stato creato-re di quella nuova «religione delle genti» come Paolo diTarso fu di quella del cristianesimo, si conosceva di no-me, alla lontana, per vie indirette, e poi in rapsodie chele toglievano la forza peculiare, come quelle del Loria,le quali trovarono ammirazione nel mondo accademico,

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non abbastanza esperto in questa parte e, in ragione dellastessa sua pedanteria, ingenuo a lasciarsi abbagliare daiprestigiatori. Il Capitale era stato tradotto nella Bibliote-ca degli economisti, e andava con gli altri libri di econo-misti o di vecchi socialisti, come l’Owen, e, pei meglioinformati, come il Mario. Un filosofo, Antonio Labriola,che veniva dalla scuola napoletana, già hegeliano e poiantihegeliano, uomo di vivacissimi spiriti e di moltepliciinteressi, e sempre alacre a tenersi al corrente degli stu-di, mosso da «disgusto» (così diceva) «per la corrutte-la politica», e da sfiducia verso la germanica «idea eticadello Stato», aveva fatto trapasso, verso l’85, dal conser-vatorismo di Destra al radicalismo, e di là al socialismo;ma non poneva questa sua affermazione politica in ter-mini filosofici, ignaro com’era anche lui, in quel tempo,dell’opera del Marx.

Ma, circa il 1890, il Labriola scoprì da sua parte ilMarx; e, nei corsi di filosofia della storia, che teneva nel-l’università di Roma, e nei quali dapprima aveva ondeg-giato tra le teorie dei fattori storici, della etnopsicologia,della concettualizzazione naturalistica sul tipo della lin-guistica, si dié a insegnare, con lo zelo di chi abbia fi-nalmente trovato la fede per lungo tempo invano cerca-ta altrove, la filosofia marxistica della storia, il «materia-lismo storico», conforme al modo in cui era stato conce-pito dal maestro e sistemato dall’Engels e dai suoi segua-ci tedeschi; e con sentimento quasi religioso venne risa-lendo fino agli incunabuli della dottrina, agli scritti deiDeutsch-Französische Jahrbücher del 1843 e alla HeiligeFamiglie del 1845 e agli articoli della Neue RheinischeZeitung del 1848, e si mise in corrispondenza col vec-chio Engels e con gli altri superstiti, apostoli e testimo-ni della prima ora. Contemporaneamente, e in più largae varia cerchia, a Milano, Filippo Turati, democratico al-la lombarda, poeta come parecchi altri di quella demo-crazia che vantava il Cavallotti, autore di opuscoli sulla

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criminalità e la quistione sociale, consigliato da una gio-vane donna, la russa Anna Kuliscioff, la quale leggeva laletteratura rivoluzionaria internazionale ed era consape-vole della vigoreggiante reputazione in cui saliva l’operadel Marx, prese a dirigere, ispirandosi alla nuova dottri-na, la rivista Critica sociale (1891). Al direttore e ai colla-boratori di questa rivista si dovettero principalmente ladivulgazione del Manifesto dei comunisti e di altri opu-scoli del Marx e dell’Engels, e la formazione di una let-teratura marxistica italiana di schiarimenti e discussioniteoriche e propaganda, e anche di indagini sulle condi-zioni agrarie e sui contadini e le regioni del Mezzogior-no, e altrettali. Nel 1895, il Labriola si risolse a rincalza-re la parola dell’insegnante con la penna dello scrittore, epubblicò un saggio In memoria del Manifesto dei comuni-sti, aristocratico nello stile e nell’erudizionei, ricco d’im-peti eloquenti e di sarcastici e satirici motti e figurazioni,quasi una sintesi in iscorcio della dottrina, con riferimen-ti all’Italia; e a quello, negli anni seguenti, tennero dietrol’altro più dottrinale, Del materialismo storico, e le lette-re Discorrendo di socialismo e filosofia, letti, commentati,discussi appassionatamente. Parecchi si abbonavano allaNeue Zeit, che era la principale rivista marxistica di Ger-mania; diretta dal Kautsky, e forse meno agile e viva del-la Critica sociale, e al Vorwärts! di Berlino; e dal 1896 sipubblicò a Parigi il Devenir social, rivista marxistica fran-cese, nella quale gli italiani tennero parte cospicua e qua-si preponderante, e annodarono nel comune lavoro rela-zioni con Giorgio Sorel, lui pure, in quegli anni, passatoal marxismo e scrittore quasi più italiano che francese, ecerto più noto e amato in Italia che in Francia. I giornalisocialistici settimanali, come la Lotta di classe di Milano,si scrivevano ormai da penne più esperte: e crescente erail numero e migliore la qualità dei loro lettori; il quotidia-no Avanti!, sorto nel 1896 e diretto dal Bissolati gareg-giava coi maggiori degli altri partiti, e a volte li superava

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nella gravità delle idee che veniva propugnando o propo-nendo alla discussione. Socialisti e inclini al socialismo, ea questo simpatici, non erano più gli sparsi individui deiquali abbiamo accennato la fisionomia, ma studenti uni-versitarî di ogni facoltà, quelli di più sveglia intelligen-za, e molti insegnanti di economia, e anche di diritto e distoria e di scienze; e letterati giovani, e altri della gene-razione già matura e che in esso si ringiovanivano, con acapo Edmondo de Amicis, il quale ora consacrava al so-cialismo l’arte dei suoi bozzetti e delle altre sue scritture;e altri di varia professione, che dischiudevano la mente aquel che si presentava oggetto di nuovo fervore e trava-glio spirituale. Nel 1897, con esempio unico forse in tut-ta Europa, un’accademia napoletana d’illustre tradizio-ne, la Pontaniana, poneva a tema di concorso una mo-nografia espositiva e critica sul terzo volume del Capitaledel Marx, di recente venuto a luce postumo. Quando sipassi a rassegna la società intellettuale di quel tempo, sideve concludere che, se anche non tutti coloro che furo-no portati al socialismo erano anime elette (giacché quel-la moda, come ogni moda, attirava e trascinava ogni qua-lità di gente), tutta o quasi tutta la parte eletta della ge-nerazione giovane vi fu portata; ed era certo indizio d’in-feriorità restarne intatti e indifferenti, o disporvisi con-tro scioccamente ostili, come taluni facevano. Oltre co-testi poveri senza spirito, frigidi nel sentimento dell’uni-versale e intenti alle private utilità, ne rimanevano lonta-ni (e non senza parecchie eccezioni) gli uomini della ge-nerazione che tramontava, educati e chiusi in altri pen-sieri; ma non già interamente i cattolici, che vi rivolge-vano l’attenzione nei loro giornali e periodici, particolar-mente nella Rivista internazionale di scienze sociali e po-litiche, e, dopo la pubblicazione dell’enciclica Rerum no-varum (1891), si apparecchiavano a fondare associazionioperaie e a dare avviamento a una democrazia cristiana.

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Il socialismo marxistico veniva a riempire il vuoto chevaneggiava nel pensiero e negli ideali italiani sotto l’azio-ne dissolvitrice del positivismo e del correlativo pessimi-smo, e che i giovani sentivano e di cui assai pativano, bra-mosi di una luce dall’alto, di un fuoco per le loro anime,di un fine a cui tendere le forze, che non fosse alcuno deipiccoli fini della vita pratica e professionale, di un fineche avesse valore universale ed etico. Ma sarebbe erra-to considerarlo semplicemente come siffatto riempitivo,perché i riempitivi possono essere a volte pessimi, l’idolodiabolico prendere il posto del Dio assente e il vuoto ap-parentemente colmarsi con un prodotto dei nervi e delleimmaginazioni eccitate, che è un altro e peggior vuoto eserve solo a togliere a quello precedente l’austera inquie-tudine della manchevolezza e lo sforzo di risanarla. La ri-cezione del socialismo marxistico in Italia e il fermenti acui dié luogo furono, per contrario, un complesso di cor-rezioni, di restituzioni o restaurazioni, di migliori avvia-menti, di maggiori approfondimenti, che ridié contenutoalla cultura italiana, la raccolse floscia e cascante e l’ap-poggiò a un’ossatura, la quale, quantunque provvisoria,era pur sempre un’ossatura e, se non ricondusse l’animaitaliana a quello che essa era stata nelle età del romanti-cismo, dell’idealismo e del Risorgimento, perché al pas-sato non si torna e le condizioni del mondo affatto muta-te richiedevano altro lavoro, certamente la sollevò dalladepressione in cui era caduta dopo l’esaurimento di quelmoto spirituale.

Per opera del marxismo, nelle cose politiche fu caccia-ta al secondo piano la considerazione delle forme giuri-diche degli istituti, sostituita dalle indagini sulla produ-zione e distribuzione economica, e sui bisogni che quel-le forme esprimevano e tutelavano, e sugli altri che im-pedivano o reprimevano; non lasciandosi più sviare dalmero suono della parola «libertà», uso vocale del qua-le troppo si era abusato per trascorrere con quel mot-

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to sui problemi reali o per nasconderli agli occhi con uncolpo di mano, come in un giuoco di bussolotti; non la-sciandosi più sedurre dalla immagine folgoreggiante del-la Repubblica e dalle sublimi apostrofi dei repubblica-ni, e tendendo a guardare sempre alla realtà effettualedi là dalle apparenze. Già la convenienza delle indaginisulle condizioni reali delle società moderne e del popo-lo italiano era stata avvertita negli anni innanzi da queisennati uomini della Destra, da quei giovani politici delCentro, da quegli economisti del socialismo cattedratico,che avevano ammesso l’esistenza di una questione, nondi meccanismo istituzionale o di ristretti provvedimen-ti particolari, ma sostanziale e comprensiva, della «que-stione sociale»; e la scossa, che essi non erano stati capa-ci di dare agli intelletti distratti o pigri, la dettero i marxi-sti, che possedevano ben altra pienezza di convincimen-ti e irruenza di fede. Il codice civile e penale non fu ri-guardato più come una sorta di diritto naturale, o di ap-plicazione del diritto naturale, ma come il presidio di de-terminati interessi economici, storicamente condizionatie storicamente transeunti, e tali da dover cedere innan-zi ad altri interessi più forti o più meritevoli di protezio-ne. Al superficiale discutere intorno ai partiti di Destra edi Sinistra, e di estrema Sinistra e di Repubblica, alle in-dustrie da Sisifo di elaborare programmi e disegnare ag-gruppamenti e divisioni parlamentari, fu contrapposto ilconcetto delle classi sociali tra loro concorrenti e lottan-ti, e della classe dominante, il qual concetto forniva assaispesso la parola dell’enigma per intendere Che cosa gia-ceva sotto quelle discussioni e formole e che non si vo-leva dire, e che cosa sarebbe dovuto esserci e non c’era.Certo, la lotta delle classi economiche, e la classe domi-nante teorizzata come classe economica, non coglievanonel giusto la verità delle lotte politiche e del governo de-gli stati; ma pure erano un’approssimazione a quella ve-rità, un entrare sul terreno nel quale conveniva cercar-

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la, lasciando la fallace via delle astratte forme; e, poichénon era stato afferrato e lavorato e intrecciato il buon fi-lo porto da qualche pensatore col concetto della «clas-se politica», giovava che almeno venisse innanzi quest’al-tro della «classe economica dominante» e dei rappresen-tanti che essa delegherebbe ai parlamenti e ai governi.Parimente giovava che si lasciassero un po’ stare, insie-me con la parola «libertà»; le altre di «umanità», «frater-nità», «giustizia», e simili, non perché non designasserotutte esse cose belle, ma perché ogni cosa è bella nel suoluogo, e quelle parole erano state spostate dal loro luo-go, fino a ipostatare, mercé di esse, una sorta di aeropa-go, collocato in un punto ideale, presieduto da un Dio ouna Dea, che avrebbe regolato, raddrizzato e risoluto, oavrebbe dovuto regolare, raddrizzare e risolvere, le con-tese degli uomini, e al quale se ne poteva rimettere la cu-ra, bastando solo rivolgergli istanze ed appelli: quasi chele idee sussistano altrimenti che come lavoro del pensie-ro e della volontà umana e si attuino altrimenti che conl’opera del braccio. In cambio, riprese rilievo il concet-to di «forza», cioè della effettualità degli ideali, che tuttisono tali davvero solo quando si traducano in forze: for-ze del presente e dell’avvenire, ma sempre possenti a in-dirizzare gli animi, a muovere le azioni, a porre alla fa-tica e allo sbaraglio i corpi; e, quando non sanno piega-re a propri mezzi la realtà del presente o preparare, peradoperarla, la realtà dell’avvenire, segno è che hanno lasostanza stessa delle chiacchiere e lamentele, che i per-ditempo usano fare su ciò che dev’essere e non è. Chequesto concetto della «forza» si simboleggiasse in quel-li dei suoi modi che sono più rozzi e appariscenti, e que-sta immagine facesse perder di vista gli altri modi e l’in-terezza del concetto, era certamente un errore; ma un er-rore che valeva meglio dell’errore di una concezione po-litica nella quale era stata spezzata alla politica la mollasua propria e alla storia tolta la sua realtà, a beneficio di

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astrattezze illuministiche. Col marxismo ritornava in Ita-lia quel Machiavelli, che si diceva dagli stranieri che gliitaliani avessero sempre in mente, e che, invece, gl’italia-ni avevano abbandonato e dimenticato sin dalla metà delsecolo decimosettimo, e in ultimo era capitato nelle ma-ni dei professori, che nell’esporne il pensiero gl’infligge-vano prediche moralistiche e lo avrebbero voluto saggioe moderato come loro.

Non minore giovamento venne da quel fervore sociali-stico alla vita morale, la quale non è profondamente dan-neggiata dalle esagerazioni, dagli eccessi e dai fanatismi,ma è gravemente depressa, e può essere spinta alla cor-ruttela, dallo sconforto e dalla sfiducia, dal pessimismo,dalla caduta dell’entusiasmo e dalla irrisione agli entu-siasmi. Tutti i mali che si tenevano prima invincibili, lamiseria e l’ignoranza, la cattiveria che è di queste, l’altrapeggiore che è dell’ozio e del lusso, l’ingiustizia, l’oppres-sione, la razza di Caino che sempre stringe alla gola quel-la di Abele, le spietate lotte tra le classi non meno chetra gl’individui, le guerre stesse tra i popoli e il disordinee l’errore che è nel mondo, si svelavano, in ultima ana-lisi, effetti del capitalismo, ossia della proprietà privatadei mezzi di produzione; e, tolta la causa, tolto l’effetto,tutti sarebbero spariti con la fine di questo sistema eco-nomico: fine che non si presentava più come uno sforzoda compiere contro la natura ma come opera della sto-ria, che aveva formato quel sistema e nel suo corso ulte-riore lo avrebbe sorpassato, sicché agli individui spettavail dovere di cooperare a questo superamento, di agevola-re il processo in corso, di aiutare il parto maturo a veni-re in luce, e, anzitutto, di condannare il già condannatodalla storia. La volontà non si sente mai così libera comequando sa di confluire col volere di Dio o con la neces-sità delle cose; l’operosità si raddoppia con la chiarezzadel fine prefisso, con la sicurezza della riuscita. C’era, intutto ciò, il solito miraggio dell’illusione, e di una troppo

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grande illusione, che non poteva durevolmente mante-ner saldi gli animi alle prove; ma non pertanto l’entusia-smo era molto e schietto e generoso, e questo si tocche-rà con mano quando sarà venuto il tempo di pubblicarelettere e documenti e memorie, e di comporre le biogra-fie degli uomini di quel periodo, di molti umili e oscu-ri, oltreché dei famosi, oscurati e offuscati anche questi,assai spesso, dai misconoscimenti, dalle diffidenze, dal-le iniquità, di cui furono fatti segno nelle varie vicendepolitiche.

Il risveglio filosofico, che, contro il positivismo sover-chiante, i sopravviventi della classica filosofia idealisticaavevano invano tentato di promuovere per essersi valsidi concetti non più sostenibili o invecchiati nelle forme,e per essere invecchiati e fatti timidi quegli uomini stes-si, e perciò scarsi d’impeto, che è sentimento della pro-pria forza e ragione, si effettuò invece primamente in Ita-lia attraverso il marxismo e il suo materialismo storico, ilquale, nato dallo hegelismo, ne serbava in se il concet-to fondamentale della storicità dialettica. Quegli ultimiscolari si erano persi dietro la parte caduca e meno origi-nale dell’idealismo, il suo residuo teologico, la cosiddet-ta relazione del pensiero con l’essere, della natura e del-lo spirito col Logo o con Dio, e simili; e, anche quan-do non avevano omesso di enunciare la dialettica storica,non l’avevano intesa (ché altrimenti si sarebbero, in vir-tù di essa, spacciati e purgati di ogni teologismo), e l’a-vevano lasciata inoperosa e inerte. Nel materialismo sto-rico, questo elemento energico investiva di nuovo la sto-ria delle società umane, e procurava di spiegarla nel suointrinseco e congiungerla col maggiore problema praticoe morale dell’età nuova. Persistevano nella concezionedel Marx tracce rilevanti della schematica ed escatologi-ca filosofia della storia, e le mancava il necessario com-plemento e correzione in una logica non più formalisti-ca, e che soddisfacesse le esigenze, sentite dal Kant e dal-

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lo Hegel, di una logica speculativa: e tuttavia, con quelvizio e con questo difetto, essa era cosa calda e viva, lad-dove la filosofia degli ultimi epigoni hegeliani era statafredda e morta. Tanto vero che il positivismo, resisten-te ai colpi di costoro e costringente i deboli oppositoria patti e transazioni, non resistette al materialismo sto-rico, e presto giacque disteso a terra. Erberto Spencer,che tutti leggevano e citavano come somma autorità, co-nosciuto che fu in Italia il Marx, non fu più né citatoné letto, e discese in un completo oblio. Solo qualchepositivista di recente convertito al marxismo, mescolan-do, come il mago del Tasso, in uso pio e profano le dueleggi a sé mal note, cercò di «armonizzare», a suo dire,Marx, Spencer e Darwin; ma gli venne addosso tale ura-gano di censure, che neppur uno dei suoi alberelli rima-se sul suolo nel quale aveva pensato di piantarli. Il carat-tere antipositivistico del marxismo fu fortemente affer-mato e difeso dal Labriola, che non risparmiò il «tenue,vacuo, prolisso e noioso ragionatore» Spencer, che «pa-reva a volte un kantiano inconsapevole, a volte un He-gel in caricatura». La storiografia, che abbiamo detto aquali estremi per l’azione del positivismo fosse ridotta, sidestò dal sonno, sgranchì le membra, ripigliò coscienzadell’esser suo, che è di guardare il passato dal presentee spiegare il presente col passato, e, insoddisfatta dellecronache e dei cataloghi eruditi e disdegnosa dell’aned-dotismo senza significato, cominciò a narrare storie eco-nomiche di popoli, indagò la schiavitù e il salariato, l’e-conomia naturale e l’economia monetaria, il feudalismoe il sorgere dei comuni da bisogni e lotte economiche, e,da simili angoli visuali, la storia della rivoluzione france-se, quella greca e romana, la primitiva e preistorica, i mo-vimenti religiosi e le ribellioni delle eresie, e altrettali se-rie di fatti. Improvvisatori si frammischiarono, in que-sto lavoro, agli addottrinati, e gli addottrinati stessi, unpo’ inebbriati della nuova dottrina redentrice, nell’appli-

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carne il metodo improvvisarono alquanto; eppure quel-la storia, buona o cattiva, pregevole o di niun pregio cri-tico, aveva sempre il pregio di presentare come l’abboz-zo o l’idea di quel che, nel suo fine, la storia deve essere,sia che poi praticamente la traducesse in effettiva costru-zione storica, sia che si appagasse, come in parecchi ca-si, di una sorta di mito o di favoletta allegorica. Il difet-to era pur sempre nella concezione troppo ristretta dellastoria e della sua dialettica, e dello spirito umano impo-verito a spirito economico o attività produttrice dei beniche si dicono materiali; sicché l’economia si atteggiava arivelata «cosa in sé», a noumeno, e tutto il resto era trat-tato come fenomeno, trascurabile o secondario rispettoal primo. Ma, per altro verso, quella «cosa in sé» era nonuna cosa ma un’attività, una speciale attività dell’uomo, el’averla posta, anche sola o tiranna delle altre, importavapur sempre che l’attività e non la passività, la finalità in-terna e non la causalità, lo spirito e non la natura, torna-va ad essere il centro della realtà, che, per materialisticache fosse definita nelle parole, si rifaceva, in effetto, idea-listica. Il rimanente sarebbe venuto poi di conseguenza,o ci si sarebbe pensato poi: per intanto, l’acquisto, anchein questa parte, era grande.

Così, insieme col sentire politico, tutto il pensiero e lacultura italiana furono compenetrati dal socialismo mar-xistico e rinvigoriti. Solo sulla letteratura e sulla poesiaesso non ebbe e non poteva avere efficacia, il che non eradocumento di scarso calore, ma conferma della sua forzacritica e pratica, che andava oltre gli stati d’animo poe-tici, e, quando procurava di ripigliarli, li ripigliava con-forme alla sua natura, non più come fini autonomi, macome mezzi di manifestazione e di educazione rivoluzio-naria, cioè esercitava una sorta di oratoria sotto forma dinovelle, romanzi, drammi, liriche, poemi, tutte cose chedovevano necessariamente riuscire impoetiche e nasceremorte. Il vecchio Engels, in una sua lettera premessa alla

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traduzione italiana del Manifesto dei comunisti, augura-va che come l’Italia, che fu la prima nazione capitalistica,dette in Dante l’ultimo poeta dell’evo medio e il primodi quello moderno, così da lei sorgesse l’atteso Dante delsocialismo. Ma Dante era uno spirito doloroso, in con-trasto coi suoi tempi, e rivolto romanticamente al passa-to, e perciò fu poeta: i socialisti italiani, giovanilmentelieti e baldi, teorizzavano, polemizzavano, agitavano, la-voravano nel presente con lo sguardo a un sicuro e pros-simo avvenire e non indugiavano nei sogni del sentimen-to e della passione: il loro sogno era, tutt’al più, la pro-saica e calcolata e circostanziata utopia alla Morris o al-la Bellamy. Il momento poetico del socialismo era statogià vissuto, senza che vi si badasse, nel periodo dell’incu-bazione e dell’oscuro travaglio passionale, nella lettera-tura romantico-veristica, per esempio, in Giovanni Ver-ga. Così bisognò, allora, contentarsi dei versi di propa-ganda di una maestra elementare socialista, Ada Negri,e aspettare lunghi anni il romanzo sul Primo maggio, alquale, con molta buona volontà, si era accinto Edmondode Amicis, che, per De Amicis che fosse, ossia semiar-tista e pedagogo, non cavò le mani dall’assunto, e nonpubblicò mai il romanzo promesso. Anche un piccolocorrettore di stamperia, Pompeo Bettini, socialista e tra-duttore del Manifesto dei comunisti, ma che aveva unaschietta vena di poesia, nei suoi versi cantò, dolcemen-te e tristemente sorridendo, di se stesso e non del socia-lismo, se non forse una volta per celiarvi intorno, mentreun’altra volta, sconvolto da rabbia patriottica, prorup-pe finanche in accenti di guerra e di sangue. La poesianon si lascia addomesticare. Le non molte opere di poe-sia addomesticata, di cui allora si diede saggio, romanzie drammi «sociali», come troppo intenzionali, non pro-dussero né fiamma né luce, passarono poco osservate al-lora e son ora dimenticate. La poesia e letteratura italia-na continuava la sua strada indipendente dal socialismo e

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dai suoi atti e fatti, e, da sublime nel Carducci, dolorosa etriste nei veristi, si cangiava in sensuale e impressionisticanel maggiore suo nuovo rappresentante, Gabriele d’An-nunzio, che abbiamo già veduto affacciarsi col suo parti-colare temperamento di tra i letterati e artisti nel circoloromano del Sommaruga. Dopo quel tempo, assai egli siera complicato, ma punto mutato sostanzialmente: ave-va via via tolto a suo uso, dopo quelli carducciani e ve-ristici, elementi preraffaelitici, e poi mistici alla russa, epoi nietzschiani (del Nietzsche si cominciò a parlare, inItalia, intorno al 1892), e poi anche guerreschi e garibal-dini, ma sempre li aveva profondamente trasformati perfarne oggetto di sensuale dilettazione, per la gioia degliocchi, dell’orecchio, del tatto, dell’olfatto, di tutti i sensi,e, se a qualcosa aveva teso come a proprio ideale, era unnuovo senso totale o diverso da quelli che l’animale uo-mo già possiede. In questa cerchia, egli era artista splen-didissimo, e talune delle liriche del Canto novo e dellaChimera, e molte pagine del Trionfo della morte e di al-tri romanzi, certe scene della Figlia di Jorio, e le maggio-ri liriche del libro di Alcione, saranno ricordate nella sto-ria della poesia, se non della grande poesia, italiana: ché,per la grande, a lui mancava la pienezza di umanità, lavirilità carducciana o foscoliana. Ma questa conversionedel romanticismo e verismo verso il sensualismo non fudi lui solo, e, per restringerci a personaggi rappresenta-tivi, accadde parimente nel Fogazzaro, che non volle es-sere né mistico alla russa né nietzschiano, ma cattolico li-berale e ammodernato e ragionante, una sorta di Man-zoni, ma ahi! quanto diverso dal modello, perché, dovenon tratteggiò tesi e non impiantò discussioni ma effuseil suo sentire, si avvolse in un sensualismo ossessionan-te, peccaminoso e tormentoso, che mescolava il sacro colprofano e sempre attraverso il sacro era attirato dal pro-fano; e quest’aura sensuale spira anche nel più schiettodei suoi libri, il Piccolo mondo antico, e s’insinua nell’a-

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more coniugale dei due protagonisti, che è insieme dissi-dio di credenza e miscredenza, anche qui credente e sen-suale l’uomo, miscredente la donna desiderata. E il me-desimo a un dipresso accadde nel poeta, non più giova-ne, che salì in fama in quegli anni e che allora iniziò la suasempre più copiosa produzione lirica, il Pascoli, il quale,da discepolo del Carducci e dipintore di quadretti rusticie idilliaci in istile derivato dall’antica poesia popolareg-giante, volle ascendere a vate umanitario ed eroico e mi-stico, e risolse la primitiva sua secchezza e compostezzain un molliccio impressionistico, in cui l’umanità e la pa-tria e la mistica restavano nelle intenzioni e, sopra tuttequeste cose, regnava una voluttà di lacrime e di spasimi,una voluttà che non tardò a diventare una maniera. Era,tutta cotesta, dal più al meno, letteratura decadentistica,la quale può ben aprirsi il varco in una società nel suocomplesso o per altri rispetti non decadente; giacché, senon è vero che, come vuole una nota formola, la lettera-tura in quanto poesia «esprima la società», perché essain realtà esprime solo le anime dei suoi poeti, non è veronemmeno che, in quanto mera letteratura documentaria,documenti sempre tutta intera la società, per conoscerela quale bisogna di solito aver l’occhio anche ad altre ma-nifestazioni di vita. Decadentistica era quell’arte, ma ge-neralmente europea e non specificamente italiana: tantoche il D’Annunzio ebbe in tutto il mondo un’accoglien-za che così larga e favorevole la letteratura italiana nonaveva più goduta dopo il tempo del Metastasio, e il suodecadentismo fu salutato in Francia «renaissance latine».

Taluni motivi decadentistici potevano veramente ger-minare e svilupparsi, e si svilupparono più tardi, anchedal seno del marxismo, per quella sua diffidenza ver-so l’abusata parola «libertà», proclive a trapassare in di-sprezzo e in cinica asserzione del contrario, per quel peri-coloso e poco criticamente elaborato concetto della «for-za», e della «lotta» e della «dittatura», cose che, conce-

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pite in servigio di un rinnovamento sociale ed etico, ne-gli animi cupi, violenti e avidi di dominazione si distac-cavano dal primo sentimento e si alleavano ai loro pro-prî, e da mezzi s’idoleggiavano come fini: di che, a tor-to o a ragione, pareva al Mazzini, e ad altri che lo conob-bero e osservarono da presso, di scorgere qualche indi-zio nel medesimo Marx, nel quale, insieme con la vigoriafilosofica e critica e storica, concorrevano elementi irra-zionali di ebraico odio e spirito distruttivo contro la clas-sica e cristiana tradizione della civiltà europea, di semi-tico millenarisnio e di brutalità prussiano-feudale. Ma ilmarxismo italiano, quale fu interpretato e divulgato par-ticolarmente dalla Critica sociale del Turati e dagli altriscrittori di simile provenienza, nonostante le sue profes-sioni di rigida osservanza, è stato dagli intendenti giudi-cato «impuro»; e impuro era in effetto e a sua lode, ap-punto perché abbastanza puro nel suo sentimento fon-damentale, fede di uomini che avevano cominciato da re-pubblicani, democratici, liberali e, checché dicessero, ta-li si mantenevano nel loro fondo, gli stessi che, cinquan-t’anni prima, sarebbero stati patrioti del Risorgimento, eora, nelle nuove condizioni e innanzi ai nuovi problemi,si erano fatti socialisti. L’avere ascoltato, quegli italiani,la lezione sull’importanza della «forza», non pel tramitedel bismarckismo, e dei pubblicisti e storici tedeschi bi-smarckeggianti, a cui, come sappiamo, gli italiani ripu-gnarono, ma attraverso il socialismo e la sua promessadi una più felice e più giusta umanità, confermava l’in-tima loro disposizione. L’antipatriottismo, che discen-deva logicamente dalla concezione degli stati, anche deimoderni stati nazionali, come organi d’interessi di clas-se, e concludeva nell’esortazione rivolta ai proletari delmondo tutto di unirsi tra loro di sopra e contro le pa-trie dei capitalisti, era in Italia echeggiato a mezza voce,o gridato talvolta in fretta e furia come per obbligo dicoerenza, o espresso in sarcasmi e ironie false di suono,

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e per solito da gente rozza e di cattivo gusto, ma non col-tivato con energia, né veramente sentito: quei socialistierano patrioti non più ma forse non meno degli appar-tenenti agli altri partiti italiani e, come gli altri, dicevanomale della loro patria perché l’amavano, e il loro antipa-triottismo era piuttosto come infatti chiarivano, «antipa-triottardismo», cioè avverso alle ideologie patriottiche inquanto servissero a coprire col loro lustro e luccichio co-se non degne e non serie. Del resto, furono socialisti qua-si tutti quei giovani che andarono in Grecia nella guer-ra del 1897, e combatterono a Domokos; né (caratteri-stico segno psicologico) si poté mai impedire, nonostan-te i deliberati dei congressi, ai socialisti italiani di prati-care la cavalleria e battersi in duello. C’era bensì l’altrodomma dell’«odio di classe», da introdurre e manteneree acuire tra gli operai e contadini; ma i Marat non si ve-devano tra quei socialisti, e alla formola teorica e al co-lorito delle parole non rispondeva l’animo. Uno dei let-terati, che il Turati aveva chiamati al socialismo, non futranquillo se non quando, fatta una gita in Germania, al-la Mecca del marxismo, e interrogati operai tedeschi so-cialisti, poté riportare in Italia che, alla domanda se essiodiassero, gli avevano dato per risposta: «Noi non odia-mo, ma vogliamo». Il Turati, per le sue origini menta-li letterarie e democratiche, e per quelle familiari di bor-ghese e moderato, era forse quegli che meno di tutti cre-deva alle tesi dottrinali del marxismo, la teoria del sopra-valore e l’altra del materialismo storico, anzi neppure leintendeva bene, sfuggendogliene le premesse e le deriva-zioni speculative, e, scettico in questa parte, nella praticasi regolava col buon senso e con certa sua disposizioneonesta e conciliante, infrenata ma non soffocata dai do-veri dell’uomo di parte e di programma. Solo marxistarigido conseguente voleva essere e si persuadeva di esse-re, e pareva che fosse, Antonio Labriola; ma questi avevaocchio vigile agli interessi e alla fortuna d’Italia, alla sua

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industria e alla sua espansione coloniale (con quanta an-sia segui, e con quanto dolore, le cose italiane nell’Afri-ca!), e la sua mente critica non gli permetteva l’ortodos-sia senza congiunte fatiche di ermeneutica e inconsape-voli correzioni o avviamenti alle correzioni.

La conseguenza fu che, accanto al Labriola, un suoscolaro, avanzando per la strada da lui aperta, e contra-stato e disapprovato da lui per questo ardire, sottomi-se a revisione tutte le tesi principali del Marx, e giudicòantieconomico e antiscientifico il concetto del soprava-lore, riconoscendogli il solo ufficio di un paragone isti-tuito per motivi di polemica sociale tra un astratto para-digma e la realtà, e dimostrò fondata sopra una ignora-tio elenchi la legge centrale del terzo volume del Capita-le sulla caduta tendenziale del saggio di profitto e la fi-ne automatica del capitalismo per effetto del progressotecnico, e abbassò il materialismo storico a semplice ca-none empirico di storiografia, che suggeriva di dar mag-giore attenzione che non si solesse, nell’indagare la vitadelle società umane, alla produzione e distribuzione del-la ricchezza; e così via per tutte le altre tesi. Questa criti-ca fu accettata e convalidata dal Sorel, che anche lui stu-diava il maxismo con fede e speranza, ma anche lui conla debita spregiudicatezza; e operò nella distesa interna-zionale di quella scuola, e ne affrettò la cosiddetta «cri-si», che poco stante, fu accusata e dichiarata in Germa-nia dal Bernstein, il quale ammise di essere stato aiutatoall’uopo dalla critica e autocritica italiana. Altri scritto-ri socialisti lavoravano, come potevano e sapevano, allostesso fine: più tardi (si consenta questa anticipazione difatti che furono conseguenza delle premesse poste neglianni di cui qui si discorre), nel 1906, si udì nel congres-so socialistico di Roma, da parte del Morgari, l’attesta-zione che i socialisti italiani, accogliendo dal Marx il me-todo della lotta di classe, avevano sempre respinto tuttoil rimanente della sua dottrina, «pessimistica, catastrofi-

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ca, anarchica», e, non molto dopo, il Giolitti annunziavanella Camera italiana che Carlo Marx era stato dai socia-listi «riposto in soffitta». I giovani storici, preparati nellescuole di filologia delle università italiane, pur senza di-scutere direttamente la teoria, temperarono e modifica-rono le semplicistiche applicazioni che del materialismostorico si erano date in primo tempo, e tennero conto dialtri ordini di fatti, o di altri «fattori», come allora si di-ceva, e formarono una scuola di storiografia marxistica,anch’essa, con sua lode, «impura», che denominarono«scuola economico-giuridica».

A questo movimento teorico corrispose nella politicapratica un ’ulteriore trasformazione, e il socialismo, cheda rivoltoso era diventato parlamentare, da parlamenta-re del «tutto o nulla» e della perpetua negazione divennea poco a poco collaboratore con gli altri partiti ed evo-luzionistico e riformistico: cioè sviluppò i motivi liberalidella tradizione italiana sopra quelli antiliberali del mar-xismo. Ma, prima di narrare queste vicende, conviene ri-prendere il racconto della storia più particolarmente po-litica.

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VII. IL PERIODO CRISPINO (1887-1896)

Circa gli stessi anni, o poco innanzi che i giovani italia-ni si aprissero una via d’ideale e d’azione nel socialismomarxistico, l’Italia più particolarmente politica credettedi aver ritrovato anch’essa l’uscita dall’inerzia in cui lepareva di essere caduta all’interno e verso l’estero; e cer-tamente provò per alcun tempo il sollievo e la gioia delmalato, reale o immaginario, al quale si porga una ma-no robusta, annunziandogli che egli non è infermo comegli si era detto e aveva detto a sé stesso, e che, dunque silevi e cammini e speri e ardisca. Il periodo politico chesi configurava nell’opinione e nel sentimento come di ri-stagno e corruttela, riceveva simbolo e nome dal Depre-tis; e questo vecchio statista, che per un decennio ave-va governato l’Italia, dopo il caso di Dogali venuto qua-si a nuova e cruenta conferma dell’incapacità e impoten-za italiana, prostrato esso stesso dall’impensata sciagura,chiamava al suo fianco colui che era destinato a succe-dergli nella preminenza politica, Francesco Crispi, e di lìa qualche mese (29 luglio 1887) spariva dalla scena delmondo. Il governo fu assunto dal Crispi, che ritenne consé lo Zanardelli e prese, oltre la presidenza, i ministeridegli affari interni e degli esteri.

Il Crispi aveva sempre rinfacciato. ai capi dei governidi Sinistra, di non esservi tra essi l’«uomo energico» checi voleva a quel posto, l’uomo intorno e sotto al quale siriunissero altri uomini pronti e volenterosi, e che al po-polo italiano, vecchio e viziato da secoli di dispotismo,avrebbe ridato freschezza di gioventù, rendendolo serio,virtuoso, virile. Ed egli si sentiva quest’uomo, capace disalvare e innalzare l’Italia; e certamente possedeva que-sta bella forza interiore, la fede in sé stesso, che non eragià leggerezza di vanità, ma fede in una propria missio-

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ne, e perciò sicurezza e impeto insieme, e congiunto or-goglio verso gli oppositori e critici, tutti a lui inferiori,non come lui ispirati, non al pari di lui patrioti, e ai qua-li, e non mai a se stesso, riferiva la colpa di quanto acca-deva di avverso e del bene che a lui non riusciva di fare.Anche quando lo costringevano a ritirarsi temporanea-mente sotto il peso di accuse e di errori, non si sentivasminuito, rimaneva imperterrito, e aspettava che a lui l’I-talia si rivolgesse per soccorso, o che tornasse il momen-to in cui egli potesse accorrere a salvare la monarchia e lapatria. Né solo possedeva questa fiducia, ma la suscitavaintorno a sé: da molti anni si guardava a lui; la sua cadutada ministro una prima volta, nel 1878, per un incidentedi carattere privato, fu giudicata cosa deplorabile; si ri-peteva con convincimento che, esauritisi gli uomini dellaDestra, screditati dalle prove fatte quelli di Sinistra, egliera il solo che rimanesse e sul quale si potesse contare,il solo al quale spettava come di diritto la direzione dellacosa pubblica. Diventato capo del governo, ai suoi pri-mi atti o ai suoi primi gesti fu generale, nel mondo po-litico, il consenso e il plauso: ormai l’Italia si sentiva inbuone mani, fortemente governata; ormai era finito l’at-teggiamento remissivo e vile verso gli altri stati e popoli;il Crispi prometteva di dare, e già dava, quel governo cheda lungo tempo gli italiani bramavano invano. Ciò dice-vano uomini di ogni partito, anche antichi avversari o fe-deli alla Destra, uomini vecchi e maturi i più: un sensodi fiducia si diffondeva largamente nel paese.

Ma che cosa o quali cose il mondo politico italianochiedeva al Crispi? quali determinati bisogni egli avreb-be dovuto appagare, di quali idee o di quale program-ma avrebbe dovuto farsi rappresentante ed esecutore? Auna ricostituzione di partiti politici, a una rinata Destra ea una coerente e valida Sinistra, nessuno più credeva sulserio, essendo ormai cosa accaduta e irrevocabile la dis-soluzione dei due vecchi partiti, e quella sorta di eclet-

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tismo che prese il nome di «trasformismo» e che il Cri-spi adottò, checché affermasse in contrario, nel compor-re e rimaneggiare i suoi ministeri. Meno ancora si avevala mira a riforme dello Stato, nonché in senso reaziona-rio, neppure moderatamente autoritario, come di un riti-ra mento del governo parlamentare verso quello sempli-cemente costituzionale, con rafforzata autorità del prin-cipe e del suo primo ministro, o a una riforma elettoralecon suffragio indiretto per ottenere una Camera meglioscelta, o a una riforma di attribuzioni onde scemasseroquelle della Camera e si accrescessero quelle del Senato:che erano, tutt’al più, disegni e utopie di solitarî. Né tracoloro che mettevano le loro speranze nel Crispi si nove-ravano i radicali e repubblicaneggianti, i fautori di estre-ma democrazia, che anzi la maggioranza si accostava alui in quanto egli non era più l’uomo dei tempi lontani,e ai radicali e repubblicani si manifestava ostilissimo. Diuna lotta religiosa, in un senso o nell’altro, come restitu-zione del cattolicesimo nella nuova società italiana o co-me ripresa ardente di antireligioneria, non c’era nessunanecessità e nessuna voglia, essendosi ormai tutti, salvo lamassoneria e il gesuitismo, accomodati in proposito all’i-dea media e temperata. Anche nella politica estera, checosa gli chiedevano? Non certo un distacco dalla Tri-plice alleanza e un ritorno all’intesa con la Francia e al-la politica delle nazionalità e dell’irredentismo; ma nep-pure una revisione del trattato di alleanza per la miglioregaranzia degli interessi italiani, ché dei termini del trat-tato non si sapeva niente di preciso, e, a ogni modo, laconveniente revisione era già stata compiuta dall’ultimoministero del Depretis per opera del Robilant; e neppu-re un indirizzamento di quell’alleanza a fini bellicosi, co-me sarebbe stato di profittare del momento propizio percombattere contro la Francia isolata e ritoglierle la Tu-nisia malamente occupata, e magari qualche altra terra,Italiana di popolazione. Nelle cose economiche era an-

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dato prevalendo da alcuni anni il protezionismo, in Italiacome altrove, e gli interessi erano divisi tra quelli indu-striali e quelli agrarî; ma nessuna delle due correnti face-va del Crispi il proprio esponente, né d’altronde il parla-mento italiano mostrava quelle forti impronte economi-che, che si cominciavano a notare in alcuni parlamenti diEuropa. Che cosa gli si chiedeva, insomma? Nient’al-tro che la cosiddetta «energia», che per una parte si ri-duceva alla semplice richiesta di un più alacre andamen-to parlamentare e di un’amministrazione meglio condot-ta, ma per un’altra, e forse maggiore, era la vaga aspet-tazione di sommi benefici e di grandezza nazionale pervirtù di un individuo, che avrebbe concepito quei pen-sieri che il popolo italiano non sapeva concepire, scoper-to quelle vie che il popolo italiano non conosceva, ritro-vato in sé quella forza che il popolo italiano non posse-deva o che si sarebbe svegliata in esso col suo comandoe sotto la sua guida. In altri termini, pur senza nessu-na disposizione a mutare gli ordini costituiti, la richiestaera quella alquanto contradittoria di una sorta di dittato-re, che operasse entro quegli ordini e compiesse qualchemiracolo. Le speranze riposte nel Crispi erano, dunque,a ben guardare, non un segno di gagliardia, ma una par-ticolare manifestazione dello smarrimento e dello scon-forto che conosciamo, una manifestazione in senso posi-tivo, e non iniziavano il processo di nuove esperienze edi nuova vita, come pur facevano quei giovani che, quasicontemporaneamente, si volgevano al socialismo.

Dal suo canto, il Crispi non poteva offrire ai richie-denti se non proprio quella formale energia che gli do-mandavano: il che non reca meraviglia a chi sappia il cir-colo che corre tra un popolo e i suoi uomini rappresenta-tivi e dirigenti, i quali certamente sono la sua mente e vo-lontà sintetiche e non i suoi passivi riflessi, e perciò spes-so si spingono più oltre del loro popolo, ma non posso-no far sintesi di quel che non c’è ed eseguire opera di

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cui manchino le condizioni, e, ove mai troppo precorra-no col pensiero e col conato, non si chiamano più uomi-ni rappresentativi e pratici e politici, ma, appunto, pre-cursori, destinati a trionfare più tardi, nella maturità deitempi e in persona di altri. Il Crispi non era un precurso-re, ma un uomo politico, affatto chiuso nella società delsuo tempo, legato alla potenza e impotenza di essa, allasua volontà e alle sue velleità, capace com’essa di percor-rere certe vie, perplesso e incoerente dov’essa era per-plessa e incoerente. Il suo pensiero era rimasto illumi-nistico, tenendo egli fermo ai diritti innati, alla limitatadelegazione di tali diritti e al contratto sociale; e sebbe-ne, come accade a siffatti astrattisti, il suo temperamen-to e il suo agire fossero autoritarî, non mai egli si propo-se o vagheggiò un governo autoritario, o un cancelliera-to alla tedesca, come, per la sua ammirazione verso il Bi-smarck e l’ostentazione dell’intrinsechezza con costui, necorse voce. In fatto di politica religiosa ondeggiò sempretra i due estremi del più spinto razionalismo anticlerica-le e di una conciliazione con la chiesa di Roma, e dié ma-no ora all’uno ora all’altro dei due concetti e metodi op-posti. Nella politica estera si stratificavano in lui le duediverse ideologie, del rispetto e favore da dare alle na-zionalità e della ragion di stato con la congiunta politicadei gabinetti; della guerra definita come «delitto interna-zionale» e perciò del pacifismo, e del sogno di qualcheguerra di grandezza o di «magnificenza», come si dicevanella vecchia Francia di Luigi XIV. Triplicista era senzaalcuno sfondo di pensiero germanico-romantico, risen-tendo l’affetto giacobino per la Francia, onde una voltaparlò, a proposito della accettata Triplice, dei «matrimo-nî d’amore», a cui la necessità costringe a rinunziare perquelli «di convenienza». Ai problemi della nuova econo-mia mondiale era poco o nulla aperto, come uomo che siera formato in tempi eminentemente politici e con cul-tura non economica ma giuridica. Compensava e com-

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plicava questa poca profondità e saldezza logica con l’in-fiammabile e infiammata immaginazione, di quella chefinge e crede, come si vede dai suoi giudizî storici, neiquali, per dare qualche esempio, ripeté sempre tenace-mente che il Cavour non era da collocare tra i principa-li autori della nuova Italia, perché non altro aveva fattoche «diplomatizzare la rivoluzione», e fu sempre persua-so che la Destra, per servilità verso l’imperatore dei fran-cesi, avesse voluto perdere deliberatamente la guerra del’66, non combattendo sul serio a Custoza né dopo Cu-stoza, e arrestando Garibaldi nel Trentino; e più ancoradall’incubo che, nel corso della sua politica effettiva, lotiranneggiò di una Francia meditante d’accordo col pa-pa l’invasione dell’Italia e l’infrangimento dell’unità perricostituire accanto a se una debole federazione di state-relli; dall’allarme più volte dato per tale immaginaria ag-gressione; dalla credulità alle fandonie di bassi informa-tori e agenti, come quella del trattato che i socialisti sici-liani avrebbero stretto con la Francia e con la Russia perporre l’isola sotto il protettorato moscovita. Da tutti co-testi e altrettali pericoli e minacce egli era sempre vigi-le e attivo a salvare l’Italia, con la sua premura affanno-sa, col suo impetuoso intervento, con la sua «energia»,che produceva tanto più sicuramente il suo effetto, tan-to più agevolmente trionfava, in quanto il nemico controcui scattava non esisteva, e, non esistendo, lo lasciava nelmiglior modo padrone del campo. Non era scrupolosodi rigida correttezza in ogni parte della sua vita, e nonsplendeva di finezza e buon gusto; ma era, senza dubbio,di alti spiriti, di cuore generoso, sincerissimo nei suoi af-fetti e nel suo immenso amore per l’Italia, con la qualegli piaceva confondere sé stesso, così pel vivo ricordo diquanto aveva operato per lei nel passato, segnatamentenella spedizione dei Mille di cui fu la volontà determi-nante e la mente direttrice e che forma la sua vera glo-ria, come per quello che sentiva di poter fare lui solo per

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lei nel presente. Anche un certo suo amore pel fasto, chespiccava per contrasto sugli abiti modestissimi dei pre-cedenti ministri italiani, il suo disegno di un nuovo Pa-lazzo del parlamento con una solenne aula, dove sareb-be sorto un trono di bronzo e oro a simbolo della subli-mità e della stabilità della monarchia, e simili cose, cor-rispondevano al suo sentire grandioso. Taluno, a tuttoquesto émpito di fantasia e di parole e di gesti, scosse ilcapo, e, impensierito e sospettando alcunché di patologi-co, pronunziò la parola «megalomania», che circolò perl’Italia; e i giornali satirici e scherzosi ebbero dalla figu-ra e dagli atti del Crispi largo pascolo. Ma Giosue Car-ducci, che, come poeta, non era critico politico ed era in-vece sensibilissimo ai moti e ai lineamenti, comunque siaccennassero, della grandezza, vide nel Crispi l’eroe delsuo sogno, e si dette a lui con tutta la sua anima fervida:conquista spirituale che è documento d’onore per l’altez-za di passione che realmente era nel Crispi, ma insiemedocumento assai dubbio per tutto il resto, non essendobuon indizio dell’intelletto d’un uomo di stato quello digradire all’immaginazione dei poeti.

Con l’avvento del Crispi al potere parve che la politi-ca estera entrasse in un periodo assai fattivo, ed egli fulodato per aver dato valore all’alleanza della Triplice efatta udire la voce degli interessi e della volontà dell’I-talia. Così doveva parere quando, al principio del suoministero, nell’ottobre dell’87, lo si vide recarsi a collo-quio col Bismarck a Friedrichsruhe, colloquio circonda-to di mistero e che si stimò gravido di conseguenze, e chefu commentato dagli elogi e dalle adulazioni della stam-pa tedesca all’eccelso uomo di stato italiano, il quale be-ne intendeva quanto giovasse pel presente e per l’avveni-re la stretta unione d’Italia e Germania nella politica eu-ropea. Anche la stampa austriaca largì gli stessi plausi,soddisfatta pel rigore del Crispi verso gli irredentisti, chegiunse fino allo scioglimento dei loro circoli nel tempo

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stesso che il governo austriaco scioglieva in Trieste l’as-sociazione Pro patria, la quale non aveva veste politicama solo culturale: il Crispi accusava gli irredentisti di an-tipatriottismo, giudicando che con l’opera loro lavoras-sero ai fini del Papa. Né esitò a revocare sgarbatamen-te il suo ministro delle finanze, il Seismit Doda, quandoquesti assistette a Udine a un banchetto, dove si tennerodiscorsi irredentistici, senza dir motto di protesta. Nel1888, il giovane imperatore di Germania, Guglielmo II,si recò, primo tra i sovrani, a visitare in Roma il re d’I-talia, e fece anche una breve visita al Papa, ma studiatain modo che il colloquio confidenziale da questo inizia-to sul consueto metro delle lamentele venne, dopo pochiminuti, interrotto dal principe Enrico, al quale dié entra-ta il figliuolo del Bismarck, segretario degli affari esteri,che accompagnava l’imperatore.

L’impressione che qualcosa di grosso si preparasse eraconfermata e accresciuta dagli allarmi e dalle invettivedella stampa francese, e dal contegno del governo stes-so di Francia, che prese ad osteggiare l’Italia in Tunisia,in Abissinia e perfino a Massaua, dove levò pretese diprotezione sui sudditi greci, e dalla denunzia dei trattatidi commercio italo-francesi con la conseguente guerra diaspre tariffe, la quale certo non fu unicamente effetto delcontrasto politico, avendovi avuto la sua parte il preva-lente protezionismo, ma dal contrasto politico fu preci-pitata e inacerbita. Dal suo canto, il Crispi usò un pigliobrusco e un linguaggio diplomaticamente poco cortesenel rivendicare i diritti dell’Italia negli incidenti coi con-soli francesi di Firenze e di Massaua. In Italia e all’esterosi pensava che egli, diverso in ciò dagli altri uomini po-litici italiani, tutti di disposizioni pacifiche, vagheggias-se e tentasse «avventure internazionali»: presso i france-si aveva fama di misogallo, ricordando di lui, tra l’altro,lo zelo onde nel 1882 aveva promosso la celebrazione delsesto centenario dei Vespri siciliani. Pure, ora che meglio

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si conoscono i fatti di quel tempo, e parecchi documen-ti ufficiali sono venuti in luce, si ha chiara la prova che ilCrispi diceva il vero quando asseriva di non voler guer-ra con la Francia; che egli non rese in nulla più bellico-so il trattato della Triplice, rimasto quale l’aveva rinno-vato il Robilant, cioè soltanto difensivo contro un’even-tuale aggressione della Francia e di garanzia per gli in-teressi italiani in Africa, che la Francia potesse ulterior-mente offendere dopo l’occupazione della Tunisia; cheil colloquio col Bismarck del 1887 fu assai accademico einconcludente, e punto pericoloso, come del pari gli altridue che lo seguirono nel 1888 e nel 1889, e il colloquiocol Kálnoky; che, quando il Bismarck, a quel che sem-bra, pensò a un’unione con la Russia e con l’Inghilterra ea una guerra contro la Francia, il Crispi non partecipò aldisegno e non lo aiutò in nessun modo. Egli, in verità, fua più riprese sotto l’incubo, che si è detto, di un’aggres-sione francese e di un macchinato disgregamento dell’u-nità italiana: incubo che lo fece perfino travedere quan-do nel febbraio dell’88 credette a un improvviso aprir-si delle ostilità e ne dié il segnale all’Inghilterra, onde lanotte tra l’11 e il 12 di quel mese arrivò a Genova la flot-ta inglese, e l’ammiraglio Hewett domandò alle autoritàlocali notizie sulla dichiarazione di guerra; e, di nuovo,nel luglio dell’89, quando credette, sulla relazione di unoscuro informatore, a un attacco della frontiera e a duedivisioni che la Francia stava per sbarcare da Tolone e daAlgeri sulle coste dell’Italia meridionale, e mandò in fret-ta il Cucchi a Berlino e avvisò l’Inghilterra, incontrandol’incredulo sorriso del Bismarck e del Salisbury. Per que-sta sua agitazione d’animo, anziché servirsi del Bismarck,gli servì, agevolando, con l’inasprire pur senza volerlo ildissidio d’Italia e Francia, la politica tedesca di assicura-zione e di predominio; ed egli stesso doveva riconoscerepiù tardi l’infecondità o la scarsa fecondità della Triplicealleanza per gli interessi economici e coloniali dell’Italia.

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L’alleanza esisteva prima di lui e i francesi non vi senti-vano punte minacciose; esistette dopo di lui e non impe-dì buoni rapporti e intese con la Francia, senza che fos-se stato necessario modificarla o temperarla in alcun pat-to (la rinnovazione del 1891 introduceva qualche ritoccoconcernente solo gl’interessi africani dell’Italia), ma ba-stando ai suoi successori di dichiararne il carattere mera-mente difensivo e di adoprarla in quanto tale.

Certo, del peggio che sterile, incivile e immorale scam-bio di contumelie, che allora ebbe luogo tra popolo ita-liano e il francese, il Crispi, con la sua agitata immagi-nazione, non fu il solo autore; ché, per una buona metà,ne spettava la colpa alla Francia stessa, dove, tra uominipolitici e giornalisti e altra gente, si direbbe che esistes-se altrettanto «crispismo», altrettanta sconvolta immagi-nazione e credulità e passionalità e orgasmo di sospettoe di paura. E si coltivò in Francia la stolta idea di sforza-re l’Italia a uscire dalla Triplice, prendendola con la fa-me, ossia procurandole difficoltà economiche; cercandodi infliggerle scacchi e umiliazioni; intrigando col papaLeone XIII per mezzo dell’ambasciatore presso il Vati-cano; intervenendo presso i repubblicani e radicali d’I-talia, come fecero i deputati francesi Rivet e Gainard aMilano nel 1889, e nel 1890 il già rivoluzionario italianoe allora cittadino francese, il Cernuschi, il quale mandòdanaro per concorrere all’elezione del Cavallotti e di al-tri francofili; e, infine, sfogando l’odio contro gli italianicon le selvagge persecuzioni ed eccidî di operai italiani,come a Aigues Mortes nel 1893. Tutte cose che, diret-te contro la dignità italiana, dovevano ottenere l’effettoopposto, eccitare e sollevare lo sdegno nazionale e strin-gere più forti i legami con la Germania, abbondevole dicarezze e cortesie. Ma il popolo francese, o piuttosto ilbuon borghese di quel popolo, è fatto cosi, e, sul serio, incomplesse faccende di politica, pone la semplicistica do-manda se tale uomo o tale popolo «ami o no la Francia»,

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e istruisce il correlativo processo e commina le correla-tive sanzioni: come chi dica che a tutti gli amorosi chesono al mondo corra l’obbligo d’innamorarsi della stessadonna, e che la Francia poi sia una donna. La commediadegli equivoci riempì quasi intero il quadriennio del pri-mo governo del Crispi, al quale, del resto, nel 1890, il ri-tiro del Bismarck tolse un elemento necessario alla sua,si potrebbe dire non politica, ma rappresentazione poli-tica. Niente accade inutilmente nella storia, e quella lun-ga baruffa italo-francese maturò l’utilità di purgare unabuona volta italiani e francesi dei cattivi umori dell’acu-ta gallofobia e italofobia; coloro che esercitano il mestie-re di apprestare e rinfocolare i sentimenti d’odio tra i po-poli, ignorano che quel loro mestiere non solo è triste mavano, perché l’odio è atto soltanto ad accecare e a im-bestiare e inetto perfino a dar vigore nelle guerre da so-stenere, che si sostengono con altri sentimenti e con al-tri mezzi. Ma, fuori che in tal riguardo, cioè in quan-to liberazione per saturazione, il travaglio di allora nongiovò né alla Francia né all’Italia: a quella, perché nonvalse a distaccare l’Italia dalla Triplice; a questa, perchénon gliela rese più vantaggiosa di quanto già le era statae le fu poi. Vero è che, in quel tempo, da parte degli op-positori radicali e irredentisti, si pose innanzi la formo-la di una «lega latina», di un’alleanza «naturale» controle alleanze «innaturali», come si considerava quella conla Germania e l’Austria-Ungheria: formola allora vuotadi contenuto, ma che doveva ricevere la sua attualità diuso nel 1915; e da parte di conservatori, particolarmen-te del Bonghi, nel 1893, si manifesto diffidenza verso lapolitica della Triplice, da quando ne aveva preso la dire-zione il giovane imperatore, irrequieto, esaltato, ebbro diorgoglio, dalla mistica favella; che era anche un giudiziodestinato ad avere le sue lontane conseguenze.

Se, dunque, la politica estera del Crispi fu piuttostopassiva che fattiva, passiva del temperamento di quel-

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l’uomo, e produsse più rumore che danni, ma con questocertamente i danni di ogni fracasso è stordimento di cer-velli, una maggiore fattività sostanziale non si ebbe nep-pure nella politica coloniale. Che egli volgesse il pensie-ro, come gliene è stato dato vanto, all’occupazione ita-liana della Tripolitania, è naturale, perché questo pen-siero ci fu prima e poi negli uomini politici italiani, e ilcaso era preveduto nel trattato della Triplice del 1887,negoziato dal Robilant; ma quel pensiero restò allora, edoveva restare, un pensiero. Dell’impresa di Massaua ilCrispi era stato oppositore; senonché, non diversamentedalla grande maggioranza degli italiani, poiché si era an-dati colà, ripugnava a ritrarsene, specialmente dopo chesangue italiano aveva bagnato quelle terre: la quale di-sposizione d’animo avrebbe dovuto persuadere a tener-si a una ristretta occupazione e non impegnarsi a fon-do nelle cose abissine e contro l’Abissinia. La spedizio-ne, comandata dal generale Asinari di San Marzano, ave-va rioccupato e fortificato la zona di Saati, che il negusGiovanni, sceso contro gli italiani con un grosso eserci-to, non osò attaccare, onde si ritirò dopo un vano asse-dio (3 aprile ’88), ma in modo così coperto e rapido chegli italiani non ebbero la soddisfazione di molestarlo einseguirlo. L’occupazione fu estesa a Keren e all’Asma-ra nel 1889 dal generale Baldissera, che dié ordinamentoalla colonia e avviò la formazione di una milizia indige-na. Ma il Crispi con la sua tendenza alla grandezza for-male senza contenuto effettivo e mezzi adeguati, toglien-do occasione dalle discordie dei capi abissini, dalla mor-te in battaglia del negus Giovanni e dalla successione delnuovo negus Menelik, lasciandosi consigliare dall’Anto-nelli e invano sconsigliato dall’avveduto e fermo Baldis-sera, si piacque nell’immaginare una sorta d’impero abis-sino che egli avrebbe donato all’Italia, e col trattato dettodi Uccialli (2 maggio ’89) fece accettare dal nuovo negusil protettorato dell’Italia, o credette che questi l’avesse

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accettato, perché è dubbio se e in qual misura e da qualparte ci fosse inganno o errore, né forse preme troppodi schiarir questo punto, giacché, in ogni caso, un pro-tettorato in tanto si accetta e si osserva in quanto c’è lavolontà e la forza di imporlo e la convenienza di lasciar-selo imporre. In apparenza, tutto procedeva colà a gon-fie vele, sul mare della vanagloria nazionale: una missio-ne abissina venne in Italia; Menelik si lasciò rappresenta-re dall’Italia nella conferenza antischiavistica di Bruxel-les; la colonia fu, nel 1890, battezzata Eritrea; il generaleOrero, succeduto al Baldissera che aveva chiesto di esse-re richiamato, faceva di suo capo un’incursione fino adAdua, dove commemorò il terzo anniversario di Dogali.Ma l’edifizio, che si veniva costruendo, era di sola appa-renza, difettavano i mezzi finanziarî per rafforzarlo, e cisi lasciava cullare dall’illusione di conseguire grandi cosecon poche forze e poco dispendio. Il paese e la sua rap-presentanza politica erano scarsi di sentimento e di espe-rienza coloniale e, in fondo, indifferenti, ma insieme spe-ranzosi dei facili trionfi promessi: soffiava in Europa uncerto vento d’imperialismo, che si sentiva anche in Italiae investiva in ispecie i cosiddetti «africanisti». Cominciònell’89 anche la formazione dell’altra colonia, la Soma-lia, coi protettorati sui sultanati di Obbia e dei Migiur-tini e con l’acquisto del Benádir, onde il Crispi notificòalle potenze il protettorato su tutta la costa della Soma-lia, e nel 1891, mercé una convenzione con l’Inghilter-ra, furono delineate le rispettive zone d’influenza. Magià sulla fine del ’90 Menelik moveva obiezioni al mo-do con cui era stato interpretato il trattato di Uccialli, eagenti di potenze straniere, che la politica crispina si erainimicate, della Francia e della Russia (questa per effet-to dell’atteggiamento tenuto dall’Italia nella crisi bulga-ra e del riconoscimento che il Crispi volle fare del Co-burgo), prendevano a intrigare in Abissinia a danno del-l’Italia, e il governo italiano si disponeva, col nuovo co-

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mandante fu Eritrea, il generale Gandolfi, a entrare nelcattivo giuoco degli accordi coi capi ribelli al negus, e aimmischiarsi nelle cose del Tigré.

Come sognava di dare all’Italia un impero abissino,così il Crispi sognò di procacciarle una conciliazione colPapa: che era non solo un dono che proprio non sarebbedovuto in nessun caso venire da lui, zelante adepto dellamassoneria, ma di cui non si vedeva l’opportunità poli-tica, dopo che con la Triplice era stato posto saldo osta-colo alla politica di Leone XIII di rivendicazione del po-tere temporale, e meno ancora l’opportunità civile. Maegli era tirato dalla sua vaghezza per le cose mirande: lafiammata di quella idea gli splende nell’anima, quando ilPapa, nella sua allocuzione concistoriale del 23 maggio1887, parve accennare a mutato animo verso l’Italia, el’antico neoguelfo, il benedettino Tosti, storico della Le-ga Lombarda e sacro cantore nella guerra d’indipendenzadel ’48, si prestò intermediario tra il Crispi e il Vaticano.Il sogno visse lo spazio di un mattino: sfiori tra il mag-gio e il giugno, alacri a impedire la conciliazione da unaparte i gesuiti e dall’altra la massoneria, che proprio allo-ra, col gran maestro Lemmi, si era rinvigorita: il Tosti furinnegato dal Papa, che prima parve lo avesse confortatoall’opera. E allora il Crispi tornò ferocemente anticleri-cale: tra il giugno e il luglio di quell’anno fece approvarela legge che aboliva le decime ecclesiastiche per l’ammi-nistrazione dei sacramenti e altri servigi religiosi; l’annodopo, destituì il sindaco di Roma Torlonia, che aveva re-so visita al cardinal Parrocchi in occasione del giubileo diLeone XIII ; un decreto del ministro dell’istruzione tol-se l’obbligo dell’istruzione religiosa nelle scuole elemen-tari; nel nuovo codice penale furono inseriti articoli su-gli abusi del clero e sulle intemperanze della stampa cat-tolica; una legge regolò i beni delle Confraternite, un’al-tra più generale riformò le Opere pie; le scuole italianein Oriente furono tolte alle corporazioni religiose e rese

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laiche. E nel 1889, in Roma, a Campo di Fiori, nel luo-go dove il rogo arse, fu elevata contro il Vaticano la sta-tua di Giordano Bruno, con poco storica interpretazionedel pensiero del Nolano nei rispetti della Chiesa cattoli-ca, ma in modo conforme al simboleggiamento che nel-la figura di lui l’anticlericalismo e l’anticattolicesimo ave-vano fatto di sé medesimi. E colà rimane, con più paca-to sentimento negli animi nostri, come monumento po-sto dall’Italia nuova a uno dei suoi figli, che, tra i primi,precorse in Europa la filosofia moderna, a uno dei marti-ri della lunga lotta tra la concezione trascendente e quel-la immanente della vita, tra l’ideale dell’assolutismo ec-clesiastico e statale e quello del libero svolgimento intel-lettuale e civile dei popoli. Dal suo canto, il papa Leo-ne XIII, che già aveva visto compromessa la sua politicadall’accordo dell’Austria-Ungheria e della Germania conl’Italia, invelenì quanto più poté, assistito dal suo segre-tario di stato Rampolla, l’ostilità e l’odio francese control’Italia.

In relazione al bisogno del Crispi di attestare a sé e aglialtri la propria energia è da porre il forte rilievo che in luiebbe la difesa della monarchia, la quale allora era minac-ciata meno che mai in Italia, ridotti i repubblicani a esi-gua e accademica minoranza, e i socialisti, che si avanza-vano nel campo pratico e nel 1890 avevano indetto la ce-lebrazione del Primo maggio e cantavano l’allora compo-sto Inno dei lavoratori, indifferenti alle forme dello stato,tanto valendo per essi la monarchia quanto la repubbli-ca borghese. Con lo scioglimento dei circoli repubblica-ni il Crispi difendeva, non veramente la monarchia, mala sua politica triplicistica contro irredentisti e francofi-li. Le destituzioni, che egli fece di qualche piccolo sin-daco di professione repubblicana, erano cose di lieve pe-so, gonfiate a grande importanza. Come gli altri uominidella Sinistra, già repubblicani, egli metteva un partico-lare impegno nel dimostrare il suo lealismo monarchico;

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il che si vide nella legge sullo stato delle persone della fa-miglia reale. E insieme con l’altro e più recente repub-blicano; il Fortis (che era stato uno di quelli fatti arre-stare dalla Destra pel convegno di Villa Ruffi), volle pro-curare al re buone accoglienze nella Romagna, la regio-ne d’Italia dove il repubblicanesimo era più violento nel-le forme e la sola dove esistessero non partiti ma fazio-ni politiche, che si combattevano con gli ammazzamen-ti e con le rappresaglie, e che perfino inducevano talvol-ta i cittadini all’esilio volontario dai loro comuni. Il For-tis si maneggiò coi repubblicani romagnoli; fu concorda-ta la grazia al Cipriani, ex-comunardo e condannato peromicidio, col patto che non lo avrebbero eletto più de-putato, come avevano fatto già per due volte; e la visitareale si effettuò senza inconvenienti, tra feste e applau-si delle popolazioni, e profuse promesse del re di bene-ficî a quelle regioni. È da notare che il Fortis, dopo cheebbe reso quel servigio, fu assunto sottosegretario di sta-to al ministero degli interni, e che egli ottenne per sé eper gli altri sottosegretari di stato il titolo di «Eccellen-za», con cui da allora essi si fregiarono, per quel debo-le verso le pompe e le onorificenze e i titoli gerarchici,che è degli uomini di origine ultrademocratica. Propriodei quali è anche il non eccessivo rispetto agli spiriti e ta-lora alle forme costituzionali e parlamentari; e il Crispinon formò eccezione alla regola, perché fece votare nel1887 la facoltà di determinare con decreto le attribuzio-ni della presidenza del consiglio e di accrescere e ridurreti numero dei ministeri e delle divisioni generali, e simil-mente con la legge di pubblica sicurezza del 1888 allar-gò l’àmbito del potere esecutivo. Nonostante che la co-sa fosse giudicata poco corretta, egli continuò a detene-re i due ministeri degli interni e degli esteri; non si mo-strò ossequente alla riprovazione che Camera e Senatomanifestarono all’opera di taluno dei suoi ministri; evitòche nel 1889 la Camera indicasse col voto la sua designa-

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zione, per riavere esso l’incarico di ricostituire il nuovogabinetto, o, come disse, «per non compromettere conun voto parlamentare i grandi interessi dello stato». Do-minava il parlamento non, come aveva usato il Depretis,con gli accorgimenti e le blandizie, ma con questo suofare risoluto, che dava occasione a celiare del «pugno diferro»; e il parlamento di rado gli fece contrasto e remo-ra.

Tuttavia, come nell’amministrazione dello stato così inquesta parte, l’energia, che altrove annaspava nel vuotoo arruffava pericolose matasse, produceva il bene che èin grado di produrre quando si applica alle cose possi-bili. Il Crispi indirizzò il parlamento a lavorare e gli fe-ce esaminare, discutere e votare leggi fondamentali, cheerano da molti anni nel desiderio e che forse niun altrosarebbe stato allora capace di condurre a termine in co-sì breve tempo. Tali furono la riforma della legge comu-nale e provinciale, con l’elettorato a tutti coloro che era-no iscritti nelle liste politiche, col sindacato elettivo neicomuni maggiori, elettivo il presidente della deputazio-ne provinciale, e con l’istituzione della giunta provincia-le amministrativa; l’ordinamento della giustizia ammini-strativa con l’istituzione della quarta sezione del Consi-glio di stato; il nuovo codice penale, che prese il nomedal ministro Zanardelli; la legge per la riduzione del nu-mero delle preture e quelle per l’abolizione dei tribuna-li di commercio, per l’unificazione della Cassazione inRoma circa gli affari penali, e per regolare l’ammissionenella magistratura; la già accennata riforma delle Ope-re pie, che fuse e aggruppò siffatte istituzioni (circa sei-mila in Italia) e ne trasformò il fine quando storicamen-te non aveva più ragion d’essere; la nuova legge sanitariadel 1888, con la quale la vigilanza igienica in Italia fecemolti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o atte-nuazione delle epidemie e degli altri morbi, e all’abbas-samento della mortalità. Erano tutte coteste leggi nell’in-

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dirizzo liberale-democratico il solo che effettivamente ri-spondeva alla mente del Crispi, quantunque il suo abitopratico avesse del dittatorio. Anche fu suo merito l’avercurato le scuole italiane all’estero fondandone di nuovee sostenendole tutte con vigore, in Tunisia, in Egitto, aCostantinopoli, a Salonicco e altrove.

Ma non gli riuscì di porre riparo né alla crisi finanzia-ria del bilancio dello stato, né a quella gravissima eco-nomica, in cui allora era entrato il paese: la quale defi-cienza non è da riferire solamente a sua scarsa capacità,giacché si tratta di malattie che debbono fare il loro cor-so e che si risolvono con l’aiuto di forze che oltrepassanoquelle del singolo individuo, ma certamente formò stri-dente contrasto con la sua politica intraprendente e dallegrandi linee, alla quale difettavano in ogni caso i mezzi,come difettavano anche per l’esecuzione di talune delleleggi da lui proposte e fatte votare. Dal ’72 all’88-9 il di-savanzo era venuto aumentando da sedici a dugentocin-quantatre e più milioni; il bilancio dell’89 accusava un di-savanzo totale di quattrocentonovantuno milioni e quel-lo nell’esercizio ordinario di centonovantuno. Il Crispi,a seconda dei varî ministri del tesoro e delle finanze cheebbe nei suoi gabinetti, inclinò a volta a volta al meto-do degli espedienti transitorî, a quello delle nuove impo-ste e all’altro delle economie; e alle economie intese, nel1889, il Giolitti, nuovo ministro del tesoro. La crisi eco-nomica del paese era nel più forte: la rottura dei tratta-ti con la Francia, alla quale era diretto per più di un ter-zo il commercio italiano, scosse e sconvolse l’agricoltu-ra e assai la danneggiò, particolarmente nel Mezzogior-no; si aggiunse alla crisi agricola quella delle costruzio-ni edilizie, e, come conseguenza dell’una e dell’altra, lacrisi delle banche di emissione, con tal disordine in alcu-na di esse, come quella Romana, da indurre gli ammini-stratori alle frodi; altre banche, come la Tiberina e quel-la di Credito mobiliare, fallirono; i fallimenti commer-

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ciali, che già erano 1306 nel 1887, salirono nell’anno se-guente a 2180; le statistiche mostravano una forte discesanei consumi; l’emigrazione, da sessantottomila nel 1883,crebbe a centonovantacinquemila nell’88.

Che quella crisi avesse in definitiva effetti benefici, chela guerra commerciale con la Francia liberasse dalla trop-pa dipendenza francese il commercio italiano e desse lecondizioni favorevoli al crescere delle industrie, è vero,almeno in certo senso; ma ciò non toglie che la crisi fossecrisi, cioè che la malattia fosse malattia. E urgeva racco-gliere le forze per il risanamento, e la politica del Crispinon solo, dopo quattro anni, non l’aveva fatto ma neppu-re iniziato, né in altri campi aveva raccolto allori che ser-vissero a consolare della scarsezza del pane. Questa opi-nione era venuta prendendo il luogo del primitivo sen-so di speranza, di fiducia, di attesa grandezza; e la forzadi questa opinione condusse alla caduta del Crispi. L’oc-casione fu data da una delle non infrequenti sue scon-sideratezze passionali, dall’avere ripetuto alla Camera, il31 gennaio del ’91, il suo stravagante, ma ostinato giudi-zio, sui danni e l’onta che la Destra aveva arrecati all’Ita-lia «con la politica servile verso lo straniero»; donde in-dignazione e sollevazione di coloro che erano offesi nelloro passato, nei loro affetti e nelle loro memorie. Ma ilCrispi cadde non sentendosi vinto, ripetendo ai deputa-ti che si accingevano al voto un altro suo ostinato con-vincimento: «Questo voto dirà all’estero se l’Italia vuoleun governo forte o se crede ritornare a quei governi che,con la esitazione e le incertezze, produssero il discredi-to del nostro paese». Egli si vedeva sempre campeggian-te sulla scena della politica internazionale, dove la suaenergia si era dispiegata libera perché non c’era stata oc-casione di gravi prove; e si ritirò, ma senza aver perdu-to punto la fede in sé stesso ed essendo appena offuscatoagli occhi altrui il suo prestigio, che poteva in occasionepropizia agevolmente ripigliare splendore, serbando egli

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parecchi credenti e moltissimi disposti a restaurare in séquella credenza.

I due ministeri, che seguirono, quello del Rudinì colNicotera (1891-2) e quello del Giolitti (1892-3), furono,infatti, come un intermezzo alla ricomparsa del Crispi, esi travagliarono quasi esclusivamente nei problemi finan-ziarî ed economici, che ebbero il merito di porre in primalinea, di semplificare e non ulteriormente complicare, dirisolvere in alcune parti avviandone la soluzione genera-le, sebbene non giungessero al termine del lavoro e nonne cogliessero il frutto e la lode. Il Rudinì espose subi-to la diagnosi della crisi finanziaria e dichiarò la necessitàdi «far macchina indietro» e di adoperare la «lesina»; nési può dire che mancasse di adoperarla come aveva pro-messo, sebbene urtasse in difficoltà politiche quanto alleproposte riduzioni di spese militari, e in difficoltà parla-mentari in altre cose, come nella riduzione delle preture.Il Giolitti si trovò di fronte, nella forma più acuta e scan-dalosa, la crisi bancaria, che risaliva ad alcuni anni in-nanzi, e fece votare la legge pel riordinamento di quegliistituti con la formazione della Banca d’Italia, sorta dallafusione di quella Nazionale, della Toscana e della Bancadi credito, e col riordinamento dei due banchi di Napo-li e di Sicilia; e prese altri efficaci provvedimenti, comel’affidavit pel pagamento della rendita all’estero e il pa-gamento in oro dei dazî. Il Giolitti aveva concetti moltosani sulla riforma del sistema tributario italiano, che giu-dicava progressivo a rovescio; e fin d’allora pensava a im-poste sui redditi e a non lasciare che ne andassero esentii titoli al portatore; e intanto veniva contenendo in strettilimiti la pubblica spesa. Non appartiene allo storico sof-fermarsi sugli incidenti dei cosiddetti «scandali bancari»e sulle indagini delle responsabilità e delle colpe, mate-ria prediletta dei moralisti a buon mercato, adoperata ailoro fini dagli oppositori. Affaristi, uomini politici pocoscrupolosi e poco dignitosi, amministratori fraudolenti,

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impiegati infedeli o venali, e piccole e grosse rapine, so-no cose di tutti i tempi e di tutti i paesi, e in certi tempi ein certi paesi, per effetto di talune circostanze, si adden-sano e scoppiano in modo grave; ma il male vero si haquando si addensano e non scoppiano, cioè quando nondanno luogo alla reazione della coscienza onesta, e al ca-stigo e alla correzione: il che non si può dire che non ac-cadesse allora in Italia, dove si ebbe col male il rimedio,e gli «scandali» cessarono di esser tali, appunto perchéfurono qualificati e trattati come tali.

Le forze spontanee del paese, intanto, si venivano ri-costituendo e la sua economia si ampliava. L’estrazio-ne del ferro, che nel 1886-90 era stata di 269.923 ton-nellate, nel quinquennio seguente fu di 343.362. Intor-no al ’95 si ebbe il grande sviluppo dei lanificî nel Biel-lese: anche la produzione agricola ripigliava, e, calcolatanel 1886 a tre miliardi di lire, nel ’94 si calcolava a cin-que: le macchine agrarie, delle quali nell’86 s’importavapel valore di un milione di lire, si importarono negli anniseguenti per più milioni; e lo stesso aumento si osserva-va pei concimi. Nuovi sbocchi si erano aperti nella Ger-mania e nell’Austria-Ungheria, e a sua volta la Germaniasi avvantaggiava dello stremato commercio francese, ac-crescendo la sua importazione in Italia del sessantasetteper cento.

Lo svolgimento dell’industria favoriva il moto del so-cialismo, che abbiamo visto come, circa il 1890, si armas-se di dottrina economica, storica e filosofica. Il famosodiscorso di quell’anno dell’imperatore Guglielmo II ave-va rimesso innanzi alle menti la «questione sociale», co-me di tal natura da non potersi soffocare con le repres-sioni e da doversi studiare «con cuore caldo e con mentefredda». Gli attentati anarchici, che accadevano in tuttaEuropa, e in particolare quello del Ravachol nel ’92, ope-ravano da segnali di allarme per chi s’illudeva ancora chesi potesse senz’altro passare sul socialismo, calpestando-

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lo. Il Primo maggio, celebrato dappertutto, era intesocome una risoluta e ferma volontà del proletariato di af-fermarsi nella storia: fu celebrato anche in Italia, nel ’91,e in Roma con un comizio operaio, al quale intervenneroil Cipriani ed altri anarchici e che cagionò tafferugli, ten-tativi di barricate e qualche ucciso: il processo, che seguì,fece udire al pubblico una solenne esposizione di teoriesocialistiche. Anche si ebbero non pochi scioperi, e per-fino, nel ’93, un primo sciopero di impiegati statali, quel-lo dei telegrafisti. Quando si rileggono le parole pauro-se di quei giorni, da parte dei ben pensanti, sulle enor-mi richieste che gli operai osavano affacciare: «volevanola riduzione della giornata di lavoro a dieci ore, la istitu-zione di sindacati per trattare da pari a pari coi padro-ni, il riconoscimento delle corporazioni come enti mora-li», viene da sorridere sulle previsioni di finimondo, masi ha anche ragione di meditare sul corso delle cose uma-ne, e di vedere riconfermata la verità del detto: che l’u-topia dell’oggi è la realtà del domani. Ma, oltre le agita-zioni di piazza assai spesso inconcludenti o dannose, c’e-ra la progrediente formazione di un partito socialisticoin Italia, di un partito che si apprestava a prendere par-te sempre più larga nel parlamento e nell’opera del go-verno. Il congresso dei lavoratori italiani, che si raccolsea Genova il 14 agosto del ’92, con quattrocento delegatidelle società operaie, con deputati del partito, coi com-ponenti del vecchio «partito operaio indipendente» (for-matosi già a Milano nell’82, sciolto dal Depretis nell’86e ora ricostituito e fuso col socialistico), operò la separa-zione dagli anarchici e antilegalitari, e preparò lo statu-to del nuovo partito unitario. Fonte d’insegnamento eraconsiderata anche per questa parte la dotta Germania,cioè lo scientifico partito socialistico e marxistico tede-sco. Nel ’93, al congresso internazionale di Zurigo, an-darono delegati italiani, e, tra essi, i due diversi promoto-ri del marxismo italiano, il filosofo Antonio Labriola e il

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giornalista Filippo Turati, e si affratellarono coi Kautskye gli altri rappresentanti tedeschi. Nello stesso anno, ilsecondo congresso italiano, quello di Reggio Emilia, sce-vro ormai di anarchismo, battezzò il partito «Partito so-cialista dei lavoratori italiani»; stabili la tattica da osser-vare in parlamento, che si riduceva a una continua prote-sta contro le riforme che lo stato borghese potesse offri-re e a un continuo memento mori alla borghesia; dichia-rò suo organo giornalistico la Lotta di classe di Milano; efu reso solenne dall’intervento dei socialisti belgi, il Van-dervelde e il De Brouckère, e dalle adesioni di letteraticome il De Amicis, e di scienziati come il Lombroso.

Il maggior centro dell’internazionalismo italiano erastato, un quarto di secolo innanzi, la meno operaia del-le grandi città d’Italia, Napoli; e la prima regione d’Ita-lia, in cui il socialismo marxistico e rivoluzionario parvevoler fare le sue prove pratiche e discendere alla effetti-va rivoluzione, fu la meno industriale, la meno progredi-ta, la più distaccata dal resto d’Italia, la Sicilia. Ci sonosempre di quelli che si danno a credere di poter forzarela storia, e compiere per improvvisazioni e con colpi dimano profonde rivoluzioni; ma l’effetto che ne esce è l’e-pisodio o l’aneddoto storico, sterile di effetti. Nella Si-cilia, che aveva avuto dopo il ’70 alcuni anni di prospe-rità, il tracollo si era aggravato intorno al ’92. Diminui-ta la produzione granaria, svilito il vino dalle quarantae cinquanta lire l’ettolitro alle dieci e venti, gli zolfi dal-le lire centododici la tonnellata nel ’91 giù giù a lire cin-quantacinque, nel ’94, che non era più un prezzo remu-nerativo, queste difficoltà economiche rendevano acuti ivecchi mali delle amministrazioni comunali coi loro da-zî tutti a peso del popolo e con le esenzioni accordateai propri fautori, con le usurpazioni demaniali e le altreprepotenze. In tali condizioni, sorse e attecchì il movi-mento detto dei «fasci dei lavoratori», che da Catania eda Palermo coprì gran parte della Sicilia, giungendo, per

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quel che si disse, a un paio di centinaia di associazionie, secondo calcoli forse esagerati, a dugentomila iscritti.Al movimento dettero forma e apparente coesione alcu-ni socialisti e marxisti siciliani, che sovrapposero alle pri-me modeste richieste consistenti nell’abbattere cinte da-ziarie, fondare cooperative di consumo e promuovere ri-vendicazioni demaniali, il programma socialistico; il qua-le, per altro, non escludeva, nelle pubbliche dimostrazio-ni, il ritratto di re Umberto e l’immagine della Madonna,portati in giro dai poveri contadini, che componevano lagrande maggioranza dei fasci. Quei socialisti costrinseroi latifondisti ad accettare per allora i gravosi patti agrarî,che si dissero di Corleone. Ma intanto, accaddero in piùluoghi conflitti con soldati e carabinieri e si versò sangue.I proprietari erano atterriti e chiedevano aiuto al gover-no di Roma. I socialisti, che erano a capo dei fasci, pro-curavano, ma non sempre ottenevano, di frenare e gui-dare il movimento: pareva che l’anarchia minacciasse discatenarsi nell’isola.

In questi frangenti, caduto il ministero Giolitti per ri-percussione degli scandali bancarî, fallita la formazionedi un ministero dello Zanardelli, sempre aperto il disa-vanzo del bilancio, l’ordine pubblico in pericolo per l’e-sempio del non domato disordine siciliano, fu invocato eaccorse salvatore il Crispi, di nuovo con respiro generaledi fiducia; il quale subito chiese ai partiti contrastanti la«tregua di Dio» per la salute della patria, e fece sentire ilsuo quos ego. L’ordine venne rapidamente ristabilito inSicilia, con l’invio di un generale, il Morra di Lavriano,munito di pieni poteri, che proclamò lo stato d’assedio: ifasci furono sciolti, i loro promotori arrestati in gran nu-mero, giudicati da tribunali militari e condannati a gra-vissime pene. Anche in Lunigiana, dove nel gennaio del’94 si erano formate bande anarchiche che ebbero con-flitti con le milizie e cercarono d’impadronirsi di Carra-ra e di altri luoghi, l’invio di un generale e lo stato d’as-

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sedio misero fine all’insurrezione. Il Crispi portò in ciòil suo solito fare impetuoso e la solita credula immagi-nazione, persuadendosi, come si è già accennato, su fal-si e ridicoli documenti, che i moti siciliani fossero né piùné meno che una cospirazione della Francia e della Rus-sia per togliere la Sicilia all’Italia; l’alto commissario e itribunali militari eccedettero colà nelle repressioni e nel-le condanne, come è quasi inevitabile quando tali con-gegni entrano in azione; si mosse accusa che alle repres-sioni non si fosse accompagnata, ne fosse seguita, l’ope-ra riformatrice degli abusi che avevano dato materia allaformazione dei fasci, e che il Crispi, siciliano, non avessefatto per la Sicilia, di cui ben conosceva le condizioni so-ciali ed economiche, nemmeno quel tanto che il genera-le Heusch pur seppe fare nella Lunigiana, e che, in ognicaso, l’uomo da lui inviato in Sicilia fosse un genèrale dacorte e da caserma, un uomo del mondo elegante, pron-to al disprezzo e alla durezza, ma non di mente e di cuo-re larghi. Checché sia di tali peccati di eccessi e di omis-sioni, il Crispi troncò un movimento, che non contene-va nessun germe vitale ed era privo di avvenire. Non checonsistesse, come a lui piacque affermare, in una sempli-ce rivolta di gente di mal affare (quantunque la gente dimalaffare vi si mescolasse certamente); ché, in verità, viebbero parte direttiva idealisti e uomini generosi, talunoanche di carattere saldo e di purissima vita. Ma il tortodi quegli uomini, di quei giovani, era di eccitare e tirarsidietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di po-tersene valere per attuare idee che quelle non compren-devano e dalle quali erano lontanissime: cioè, di tentare,sia pure a fin di bene, un imbroglio, che non è cosa chepossa mai partorir bene, e, tessuta con l’inganno, meritadi essere distrutta con la forza.

Altro non minore servigio rese allora il Crispi col pa-reggiamento del bilancio, che fu compiuto da un tecni-co sapiente, il Sonnino, coadiuvato dal Salandra, sotto-

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segretario di stato, ma che dall’autorità del Crispi ebbeil necessario sostegno politico e parlamentare. L’esposi-zione finanziaria del Sonnino, il 21 febbraio del ’94, re-cò dappertutto il senso confortante che s’iniziava ormai,in quella cerchia di amministrazione, la sincerità; e piùdocile fu la disposizione alla cura chirurgica che si ve-deva necessaria, e che solo in parte consisteva in econo-mie e nella maggior parte in nuove imposte. Questo pro-gramma ebbe talune vicende e ritocchi, ma nel comples-so fu attuato; e già alla fine dell’anno il dissesto del bilan-cio poteva considerarsi vinto, e, dopo un altro semestredi lavoro, fu annunziato il pareggio. Anche risalì nelleborse la quotazione del consolidato italiano, non ostanteche fosse stata aggravata sopr’esso la ritenuta di ricchez-za mobile, la qual cosa, che parve assai ardita, non scos-se ma ridié fiducia nella solidità di quel titolo. La circo-lazione venne riordinata e si provvide al rinvigorimentodel Banco di Napoli, assai danneggiato nella crisi prece-dente pei capitali impiegati e perduti nel credito fondia-rio.

In questo ritorno del Crispi al governo, uno dei moti-vi principali della sua politica dell’altra volta, l’afferma-zione dell’Italia nella Triplice per difesa contro la Fran-cia, aveva perso attualità. Fu quello il tempo in cui laGermania si venne indirizzando a rivale dell’Inghilter-ra e sperò intese con la Russia e con la Francia; onde ilCrispi, non contrariato e anzi consigliato dalla Germa-nia, cercò di trattare con la Francia accordi commercialie coloniali; ma, poiché all’Italia non conveniva di rompe-re con l’Inghilterra, e il Crispi vagheggiava mazziniana-mente gli Stati uniti di Europa, con l’esclusione dell’au-tocratica Russia, non se ne fece altro. Rispetto al Vati-cano, egli prese di nuovo a mostrar viso conciliante: ri-solse il dissidio pel patriarcato di Venezia, concedendol’exequatur al Sarto; ottenne che la Santa Sede stabilissea Keren una prefettura apostolica; nel settembre del ’94,

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in un discorso a Napoli, fulminò contro la setta infamenegatrice di Dio e invocò: «Con Dio, col re, con la pa-tria», invocazione riecheggiata poco dopo dal suo poeta,il Carducci, e che formò oggetto in quei giorni di mol-te disquisizioni e distinzioni. Ma l’anno seguente il Cri-spi proibiva agli ufficiali il matrimonio soltanto religio-so; sospendeva le relazioni diplomatiche col Portogallo,il cui re aveva manifestato il desiderio di visitare, per nondispiacere al papa, il suo congiunto re d’Italia a Mon-za e non a Roma; inaugurava il monumento al Garibaldisul Gianicolo, e celebrava solennemente la venticinque-sima ricorrenza del Venti settembre del ’70, fatto da luidichiarare giorno di festa nazionale.

Di là da coteste schermaglie e variazioni di politicaestera e di politica ecclesiastica, il Crispi impegnò allo-ra la maggiore forza del suo animo battagliero nella lottadi sterminio contro il socialismo, che, dopo averlo colpi-to in Sicilia e nella Lunigiana coi tribunali straordinari, sidié a perseguitare in modo più generale, prendendo oc-casione dagli attentati anarchici fattisi frequenti in Euro-pa, contro i quali la Francia aveva adottato una legge spe-ciale, e presentando una serie di provvedimenti, in appa-renza contro gli anarchici, ma nel fatto pensati ed esegui-ti contro i socialisti. Nell’ottobre del ’94 egli sciolse tuttele società e i circoli socialistici; si susseguirono processie assegnazioni al confino, furono rimaneggiate a fine po-litico e in modo restrittivo le liste elettorali, si processa-rono giornali, e, profittandosi della chiusura della sessio-ne parlamentare, si arrestarono e mandarono al confinodeputati socialisti. Erano chiaramente sforzi vani per di-struggere un movimento, che aveva profonde ragioni nelpensiero e nella società moderna; e per questo riguardoprocurarono al Crispi un biasimo molte volte conferma-to e rimasto nel giudizio comune. Ma altro giudizio deveora farsene quando li si consideri, non secondo il fine cheil Crispi si proponeva, e che non raggiunse e non poteva

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raggiungere, sì invece secondo le reazioni che quei suoisforzi suscitarono e per le quali non furono vani e anziesercitarono grande e benefica efficacia. Perché il Cri-spi credeva di ferire il socialismo e ferì invece, con queiprovvedimenti, la coscienza liberale, assai viva in Italia;onde accadde che i condannati con enormi sentenze daitribunali militari venissero circonfusi di simpatia, e alcu-ni, come il medico Barbato, di ammirazione, non solo daparte dei socialisti e dei loro amici e vicini, ma da par-te anche dei non socialisti, e di coloro stessi che riprova-vano il movimento dei fasci e l’imprudenza degli ideolo-gi che li avevano aiutati e istigati. Gli ufficiali, difensorid’ufficio di quegli imputati, mostrarono aperto il mede-simo sentimento: nei processi fatti in altre parti d’Italia sipresentarono, tra i testimoni a discarico, liberali, conser-vatori, cattolici, funzionari, professori di università. Nel-le elezioni parziali, alcuni di quei reclusi furono eletti de-putati e il Barbato in più collegi; e nelle elezioni generalidel ’95 i socialisti accrebbero i loro seggi da otto a dodi-ci, e, sebbene la Camera annullasse le elezioni dei reclu-si, questi furono rieletti in segno di protesta della pub-blica opinione. I socialisti tennero a Parma in quell’annoil loro terzo congresso, mutarono il primo e più ristret-to titolo del partito in quello di «Partito socialista italia-no», e incaricarono l’Ufficio centrale esecutivo di stende-re un programma minimo di azione, che, quando qual-che anno dopo fu pubblicato, non parve né irragionevolené granché eccessivo.

Ma cotesta disposizione, sfavorevole al Crispi, dell’I-talia liberale e favorevole ai socialisti, era, pel socialismorivoluzionario, catastrofico, totalitario e reciso avversariodella società non proletaria e dello stato, un colpo per al-lora insensibile, ma assai più forte di quelli che il Cri-spi, con la sua energia, gli vibrava; o, per meglio dire, eraquello un colpo che penetrava dentro, e gli altri sfiorava-no appena. Come mantenere il rigido atteggiamento del-

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la scissione innanzi a borghesi, che porgevano mano fra-terna? Come seguitare a irridere la libertà, se la libertàera richiesta e adoperata dai borghesi avversari a favoree tutela dei socialisti, contro le soppressioni che si face-vano dei loro giornali, contro il violato loro diritto di as-sociazione, contro i tribunali straordinarî di polizia e gliassegnamenti a domicilio coatto? Come ingiuriare l’eser-cito quale satellite della borghesia, se dalle file dell’eser-cito sorgevano loro difensori pieni di zelo e di coraggio?Come rifiutare di proporre riforme in parlamento o didiscutere quelle che i governi borghesi proponevano, senon esisteva un partito preso contro molte delle loro ri-chieste, e si finiva col far buon viso al loro «programmaminimo»?

Così, non per volontà del Crispi, ma in conseguenzadella sua azione, si dava il primo e lontano avviamentoin Italia al riformismo, ossia alla trasformazione libera-le del socialismo, al tempo stesso che, come si è visto inprecedenza, nel campo dottrinale si iniziavano lo studioe la critica delle tesi filosofiche, storiche ed economichedel marxismo. Il Crispi, con le sue «leggi di maggio» al-la Bismarck, aveva fallito l’intento, e contro di lui si eraformata una cospicua opposizione liberale così nel pae-se (dove, tra l’altro, fu fondata a Milano una Lega del-la libertà, che ebbe sezioni in tutta l’Italia), come nellaCamera, dove uomini della vecchia Sinistra, quali lo Za-nardelli e il Brin, e della vecchia Destra, quale il Rudinì,si unirono nell’opposizione, che si fece assai grossa Al-l’opposizione politica si aggiunse quella personale, o, co-me fu chiamata, «morale», pei rapporti non sempre irre-prensibili che il Crispi aveva avuti con le banche, e peraltre accuse, sostenute dal Cavallotti fuori e dentro la Ca-mera, nella stampa e nei tribunali; dalle quali egli non sidifese bene, tanto che costrinse finanche qualche suo be-nevolo, come il Bonghi, a chiedere, per le benemerenzedell’uomo pubblico, l’oblio dei falli dell’uomo privato.

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Ma la caduta ultima e definitiva del Crispi doveva es-sere prodotta da altra cagione, da quell’impresa d’Afri-ca, nella quale egli si era sempre più venuto invischian-do, non ostante le proposte della commissione d’inchie-sta inviata colà nel ’91 e i voti della Camera, che limitava-no l’occupazione italiana al triangolo Massaua-Asmara-Keren. Vi era portato dal suo amore pel grandioso, dal-la luce di gloria che, pei successi militari, egli sognavache sarebbe discesa su lui e sull’Italia: vi era stato comeanimato dalla vittoria dell’Arimondi il 21 dicembre del’93 ad Agordat contro i dervisci, di cui l’annunzio giun-se quasi saluto pel suo ritorno al potere. Segui l’annodopo la presa di Kassála, che fu unita alla Colonia Eri-trea, quantunque il governo inglese non avesse mai ri-nunziato al diritto che vi aveva l’Egitto. Col negus Me-nelik era aperto sempre il contrasto pel trattato di Uc-cialli, e il ras del Tigré, Mangascià, sul quale il genera-le Gandolfi e poi il nuovo governatore Baratieri aveva-no cercato appoggio per la loro politica contro il negus,si sottometteva al suo sovrano, ottenendo perdono e altempo stesso l’ordine di volgersi contro gl’italiani. Il Ba-ratieri seguitò tuttavia a riportare successi in più scontrie combattimenti, e ad allargare l’occupazione all’Agamée finanche ad Adua; e, recatosi in Italia nell’estate del ’95e presi accordi col Crispi, al ritorno nella colonia procla-mò l’annessione del Tigré, tenendovi posti assai avanza-ti. Ma nel dicembre il negus, che si era venuto da lun-ga mano apparecchiando, riunito con tutti i suoi ras, di-scese con un grosso esercito contro gli italiani, e distrus-se ad Amba Alagi la colonna del Toselli e strinse il for-te di Makallè. La Camera e il Senato concessero i credi-ti per la difesa, pure rinnovellando il loro voto contrarioall’ampliamento della colonia; dall’Italia partirono i rin-forzi richiesti; il Baratieri concentrò il suo esercito intor-no ad Adigrat, e quello abissino si era raccolto nella con-ca di Adua in osservazione, senza attaccare. Impruden-

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ze ed istigazioni del Crispi, che, per questo indugio al-la battaglia, in un telegramma al Baratieri parlò di «tisimilitare»; arrischiatezza del Barattieri, che non aspettò inuovi rinforzi partiti dall’Italia, donde era partito anchea sostituirlo nel comando il Baldissera; poca conoscen-za dei luoghi, nei quali il corpo d’operazione italiano do-veva muoversi; errore di taluno dei generali che s’impe-gnò in combattimento prima del tempo: condussero al-la disfatta di Adua (1° marzo 1896), in cui furono ucci-si due generali, quattromilaseicento soldati e ufficiali ita-liani e dugento indigeni, feriti duemila, presi prigionierimillecinquecento italiani e cinquecento indigeni, e per-dute artiglierie, quadrupedi, munizioni e vettovaglie.

Innanzi all’onda del dolore e dello sdegno nazionale, ilCrispi non poté neppur tentare di difendere l’opera suae si ritrasse.

Dolorosi furono i cinque anni che egli ancora visse opiuttosto sopravvisse: associato il suo nome, che già erastato alla fulgida spedizione dei Mille e all’unione dellaSicilia all’Italia, ora alla penosa memoria di un disastronazionale; segno di accuse atroci e, nel 1898, perfino diuna censura inflittagli dalla Camera; avvelenato dalla in-gratitudine del volgo basso e alto; confortato da pochiamici, che con quello stesso loro misericordioso confor-tare gli accrescevano tristezza; mal sostenuto, e in ognicaso esasperato, dalla sua caparbietà, che rigettava da séogni colpa, e tutte le addossava ai nemici suoi, nemicidell’Italia, ligi allo straniero. «Io non vivo, vegeto (cosìsi confessava un giorno del 1897, scrivendo alla moglie);e, quando sono solo, e lo sono sovente, la mia mente èun mare in burrasca, dove le idee si accavallano e si urta-no. Pensando a quello che avviene, e questo per aver ser-vito il paese, mi par di sognare». C’era, in quel vecchioingenuo e focoso, del fanciullo, del poetico fanciullo; ela riverenza, che spira dalla sua sventura al ricordo del-le sue opere e del suo lungo assiduo travaglio per la pa-

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tria, si ammorbidisce talora in uno struggimento di pietà,come sempre che si vede ad alcuno crudelmente portarvia, ancorché per effetto di suoi propri errori, quel chepur aveva formato l’unico e alto oggetto delle sue devotesollecitudini, del suo orgoglio, della sua gioia; e una vita,scorsa tutta nell’ardore pugnace dell’azione, tra il clamo-re dei combattimenti, spegnersi sconsolata nel silenzio enel deserto che le si è steso intorno.

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VIII. CONATI DI GOVERNO AUTORITARIO ERESTAURAZIONE LIBERALE (1896-1900)

La riprova che l’opera del Crispi, se rese indubbi ma con-tingenti servigi nel reprimere disordini, stringere certa ri-lassatezza, portare a termine buone leggi amministrativeed efficaci provvedimenti finanziarî, non ebbe caratte-re politicamente creativo, si vede nel quinquennio cheseguì alla sua caduta, segnato dai tre successivi ministeridel Rudinì, del Pelloux e del Saracco; nel qual tempo tut-ti i motivi della politica crispina, coloniale, estera e inter-na, vennero l’un dopo l’altro abbandonati e nuovi crite-rî si formarono, che ressero effettivamente la vita italianafino alla guerra mondiale, e anzi nella sua partecipazionestessa a questa guerra.

Abbandonata fu prima di ogni altra la sua politicaafricana, rinunziandosi a ogni pensiero di rivincita e diespansione in Abissinia, all’idea di un impero o protet-torato abissino. Non già che non si sentisse (e come nonsentirli?) il danno e l’onta di quanto era accaduto, e lagravità di aver lasciato riportare da un dinasta africanoun trionfo sopra una potenza europea. L’Italia era statacolpevole in questa parte di molta leggerezza e avventa-tezza così politica come militare, e, in sostanza, di scar-so zelo e quasi d’inconsapevolezza in cosa che toccava lafortuna della patria, perché l’impresa d’Africa era anda-ta come era andata senza la piena partecipazione del par-lamento, spesso senza sua saputa o contro l’indirizzo daesso approvato, con poco chiara responsabilità rispettivadell’uno e dell’altro dei principali suoi autori, il Crispi eil Baratieri; e l’opinione pubblica o se n’era rimasta, nonfavorevole bensì, ma inerte, o si era lasciata cullare dallefantasticherie e dalle fandonie messe in giro senza curardi procacciarsi una buona informazione, senza esercita-

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re una seria critica. Le notizie e i particolari che si veni-vano apprendendo degli atti di valore, delle prove di au-stero sacrificio, date nel corso dell’ultima campagna, co-me già nelle varie operazioni militari degli anni innanzi,da ufficiali e soldati, se non permettevano alcun dubbiosullo spirito dell’esercito italiano, accrescevano l’acerbodolore per tante forze sprecate, per tanta virtù non rimu-nerata da bene e gloria della patria. Tutti ricordano i no-mi degli Arimondi, dei Toselli, dei Galliani, dei Dabor-mida, e tutti dovrebbero ricordare quello di un vecchiocolonnello, Cesare Airaghi, fattosi richiamare dalla posi-zione ausiliaria per recarsi dove l’esercito si batteva e ca-duto ad Adua, e dovrebbero leggere gli scritti che di luici restano per riconfortarsi nella coscienza che, allora epoi e sempre, vi sono state in Italia menti pensose, no-bili cuori e caratteri severi, modesti e schivi, che sono lavera riserva aurea di un popolo, Ma lo strazio, che ogniitaliano sofferse in quei tristi giorni, non mutava nulla alfatto, che il male accaduto era irrimediabile. Tecnica-mente, a una campagna nel cuore dell’Abissinia per ri-trovare e battere il negus sarebbero occorsi in ogni caso,come fu dichiarato dai competenti, centocinquantamilauomini e un miliardo e mezzo di lire; e se pure l’Italiaavesse potuto compiere questo sforzo, indebolendosi as-sai in Europa emettendosi a pericolo di trovarsi quasi di-sarmata in una complicazione di guerra europea che fos-se sopravvenuta, a così grossa e rischiosa impresa manca-va non solo la ragione dell’utile materiale, ma quella giu-stificazione morale, che sola avrebbe potuto determinar-la e sostenerla. Perché (e questo era il punto essenziale,confusamente avvertito da tutti), nei rapporti con l’Abis-sinia e col suo sovrano, l’Italia aveva accumulato errorie storture, imponendo un protettorato senza posseder-ne il mezzo efficace, e forse senz’altro vantaggio che diboria, intrigando con vassalli ribelli, occupando territorîche non le giovavano e costringendo, infine, il negus a re-

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spingere l’aggressione. Fu detto da militari, giustamen-te gelosi dell’onore della bandiera nazionale, che l’Italiaaveva fatto, prima, di un semplice «affare» una «questio-ne di onore», e poi, di una situazione che era diventa-ta di «onore», una «questione di affare». Questi due di-versi atteggiamenti, se ci si riflette, non sono contradit-torî ma conseguenti, perché fare di un affare una que-stione di onore è farne un puntiglio o una soverchieria,e il puntiglio o la soverchieria non è in grado di dar luo-go mai a una «questione di onore», ma soltanto a un ag-giunto puntiglio e a un’aggiunta soverchieria: sicché nonresta che rassegnarsi, in ultimo, a trattarla come un affa-re di utile o di minor danno, da cavarsene fuori alla me-glio o alla peggio. L’Inghilterra (che si recava in esem-pio in questo caso), quando, nel 1867, fece in Abissiniala spedizione punitiva contro il negus Teodoro, ottenen-do completa vittoria e lasciando subito dopo il paese alei non proficuo o da non potervisi mantenere, non so-lo si spacciò di quell’impresa coi dodicimila uomini ditruppa indiana comandati da lord Napier (sebbene an-che quella volta con ingente spesa), ma era stata provo-cata dal negus, che aveva imprigionato missionari ingle-si e lo stesso ambasciatore, e si era rifiutato, nonostantelunghi negoziati, a rilasciarli bonariamente. Taluni, e traquesti il Crispi e i suoi superstiti amici e fautori, asseriva-no, allora, che sarebbe stato agevole, poco dopo la bat-taglia di Adua, inseguire e battere l’esercito di Menelike ritorgli i prigionieri che portava con sé come ostaggi; ealtri, ma non molti, mettevano innanzi disegni di rivinci-te e di spedizioni militari) eseguibili con l’immaginazio-ne, e prendevano con ciò sembiante di fervidissimi pa-trioti, pronti a ogni sbaraglio per l’onore nazionale. Mail sentimento di questo onore non era meno vivo, e cer-tamente era più serio, negli uomini di stato a cui toccò ladifficile eredità del Crispi: il Rudinì, il generale Ricotti, ilCaetani di Sermoneta, il Brin e li altri che concordemen-

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te videro che non c’era altro da fare se non disfare la telamal tessuta, rinunziare al Tigré che non si sarebbe dovu-to mai occupare, rinunziare al protettorato etiopico, chenon si sarebbe dovuto mai chiedere, e, pure provveden-do con larghi mezzi alla difesa militare, intendersi col ne-gus per la restituzione dei prigionieri e pei confini tra laColonia Eritrea e l’Abissinia. Non fu una conclusionegloriosa, ma in quella non gloriosa determinazione c’erapur il coraggio e la virtù di chi resiste ai consigli dell’a-mor proprio e non si ostina nell’errore, e prepara al suopaese le condizioni per un avvenire dove siano da racco-gliere frutti di bene, e anche di gloria, se gloria vorrà es-sere. Il generale Baldissera aveva ripreso con mano fer-ma il governo della Colonia; ai primi di aprile, il colon-nello Stevani sconfiggeva i dervisci a Kassála; nel mag-gio, il Baldissera avanzava a liberare il presidio di Adi-grat, si faceva consegnare dai ras del Tigré ufficiali e sol-dati prigionieri presso di essi, e poi si ritraeva dietro la li-nea stabilita Belesa-Muna-Mareb, e rimandava in Italia ilcorpo di spedizione. Le trattative col Negus misero caponel novembre del ’96 al trattato di pace e alla restituzio-ne dei prigionieri; e furono, tra quell’anno e nei seguen-ti, determinati i definitivi confini della Colonia con l’A-bissinia e coi possedimenti francesi e inglesi, e all’Inghil-terra, cioè all’Egitto da essa rappresentato, nel dicembredel ’97 restituita Kassála, la cui occupazione era rimastasempre, nei rapporti diplomatici, provvisoria, da tenersifino alla riconquista egiziana del Sudan. In Eritrea andògovernatore civile il Martini, che vi rimase per otto annie iniziò e rassodò la vita pacifica della Colonia, provve-dendo a dotarla di ferrovie, curandone, come si poteva,le produzioni agricole e riducendone assai l’onere pel bi-lancio italiano: le milizie indigene, gli «ascari», doveva-no più tardi riuscire di non piccola utilità nella guerra li-bica. La Somalia, dove non mancarono le consuete tra-versie africane con gli eccidi delle missioni del Cecchi e

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del Bottego, fu amministrata dalla Società commercialemilanese del Benádir, costituitasi nel 1896, con la qualeil governo fece nel ’98 un contratto che parve a qualchecritico inglese prova dell’ancora assai insufficiente com-petenza coloniale italiana. Una debole ripresa di avven-ture coloniali si ebbe nel ’99, ministro il Pelloux, e que-sta volta in Cina, con la disegnata occupazione della ba-ia di San Mun, che era cosa stolidissima; ma l’atteggia-mento assunto dall’opinione pubblica e dal parlamentola troncò a tempo, sebbene non tanto a tempo da impe-dire la perdita di alcuni milioni e lo scapito di alquantariputazione internazionale.

Anche la politica europea del Crispi, di forte accen-to triplicistico e antifrancese, passò con lui; e il Rudinì ei suoi successori, pure mantenendosi nella Triplice e ri-confermandone il trattato, entrarono in buone relazionicon la Francia. La qual cosa era stata già tentata al tem-po del primo ministero del Rudinì, nell’intermezzo delgoverno crispino, nel 1891, ma non era andata innanzi,perché la Francia persisteva nella strana pretesa che l’I-talia dovesse, anzitutto, uscire dall’alleanza degli Impericentrali e mettersi, per così dire, in condizione da merita-re il perdono della propria indocilità verso la primogeni-ta sorella latina. A poco a poco, l’opinione del popolo edel governo francese diventò, in questa parte, ragionevo-le, e non si discorse più di un abbandono da esigere dellaTriplice, tenendosi paghi alle dichiarazioni già più voltefatte dal governo italiano circa il carattere difensivo deltrattato al fine dell’equilibrio e della pace europea, gio-vevole in particolare all’Italia, che attendeva al propriosviluppo economico. Così il Caetani avviò, e il ViscontiVenosta proseguì e concluse, con la Francia (20 settem-bre ’96) una convenzione riguardante la Tunisia, la qua-le, decaduti il trattato speciale col Bey e le capitolazioni,garantiva i diritti della numerosa colonia italiana di colà;e, quasi contemporaneamente (1º ottobre), un’altra con-

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venzione per la navigazione mercantile con la reciproci-tà nella percezione dei diritti, eguali a quelli fissati per labandiera nazionale. Erano i prodromi di un ravvicina-mento più importante, che ristabilisse le relazioni com-merciali tra i due paesi; e il nuovo trattato di commerciofu firmato nel novembre del ’98 dal ministro italiano de-gli esteri, il Canevaro. La politica estera italiana smettevacosì la sua troppa rigidezza e acquistava maggiore libertàdi movimenti, che la formazione della Duplice intesa, epiù ancora l’ostilità che si andava delineando tra l’Impe-ro germanico e il britannico, e che faceva venir meno al-la Triplice uno dei suoi principali presupposti, rendeva-no necessaria per la tutela dei molteplici interessi italia-ni. Nella questione di Creta, apertasi nel ’97, si vide l’Ita-lia comportarsi in pieno accordo con l’Inghilterra e conla Francia.

Ma il Crispi, che aveva distratto le menti e gli animicon la guerra d’Africa, la quale occupò tutti gli ultimimesi del suo governo, non perciò aveva dato la pace in-terna al popolo italiano, che le sentenze dei tribunali mi-litari e gli altri provvedimenti contro i socialisti teneva-no diviso in una parte conservatrice, o piuttosto reazio-naria per paura, plaudente ai metodi del Crispi, in un’al-tra esasperata e ribelle, che era quella dei socialisti, e inuna terza, la liberale, che condannava le parole egli attieccessivi dei socialisti, ma riprovava non meno i metodireazionari. Il problema era se quest’ultima, di natura suamediatrice, avrebbe ripreso il disopra; al che si richiede-va che le altre due si fossero via via fiaccate nei loro sfor-zi, diversamente inani. Per intanto, la caduta del Crispiaveva non solo fatto respirare, ma imbaldanzito i sociali-sti. Le leggi di eccezione e il domicilio coatto erano ces-sati: un’amnistia mise in libertà i condannati politici del-la Sicilia e della Lunigiana, e alcuni di essi si presentaro-no immediatamente in parlamento come deputati eletti.Fu fondato, nel ’96, il primo giornale quotidiano del par-

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tito, che tolse il nome dal maggiore giornale socialisticotedesco, l’ Avanti!, confermando anche in ciò l’orienta-mento italiano verso i modelli tedeschi; si professava an-cora, almeno nelle parole, un’acre ortodossia marxisti-ca, tutta lotta di classe, rifuggente dai contatti coi partitiborghesi e coi loro governi, e dalle memorie e dalle ideo-logie e dai sentimenti borghesi, che si procurava d’irride-re. Nelle parole altresì, ma forse non col cuore, si mani-festò compiacimento per la sconfitta in Africa del «mili-tarismo della borghesia»; e si aspettò che la sconfitta fos-se pagata da questa con altrettanto avvilimento di arren-devolezza verso il proletariato, rappresentato dai socia-listi, perché chi ha giocato e ha perduto deve pagare, el’impresa d’Africa era giudicata dai socialisti un semplicegiuoco, tentato dal Crispi per trarne forza contro di loro.In pratica, le cose andavano talvolta diversamente, e unodei condannati socialisti, il De Felice, dette nella Camerail suo voto al borghese ministero del Rudinì. Le elezio-ni del ’97 portarono il numero dei deputati socialisti dadodici a venti, e l’estrema Sinistra contò un centinaio dirappresentanti.

Il Rudinì nutriva sentimenti liberali ed era disposto ariforme sociali; e con questo fine mandò per la durata diun anno in Sicilia commissario regio il Codronchi, chenon poté certamente mutar faccia alle condizioni socia-li ed economiche dell’isola, ma pure migliorò le ammi-nistrazioni dei comuni, alleggerì le imposte che pesava-no sulle classi popolari, e riuscì a formare un utile sinda-cato per gli zolfi. Anche al ministero del Rudinì appar-tengono le leggi che, nel ’98, resero obbligatoria l’assicu-razione per gli infortuni del lavoro, regolarono l’istitui-ta Cassa nazionale per la vecchiaia e invalidità degli ope-rai, e provvidero alla tutela degli emigranti. Ma le mani-festazioni dei socialisti, e le paure che suscitavano nelleclassi agiate e nella gente di ordine, lo indussero a scio-gliere camere di lavoro e circoli socialistici, a compor-

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tarsi similmente verso le associazioni cattoliche, che an-ch’esse si agitavano con qualche vivacità, e a interveni-re con la forza armata negli scioperi e processarne i pro-motori. In questa parte soffiava ancora lo spirito degliultimi anni. È un aneddoto significante che fosse allo-ra censurato, dal ministro dell’istruzione, il Labriola, ilquale a Roma, nel novembre del ’96, inaugurandosi l’an-no accademico, aveva tenuto nel suo stile polemico e ar-guto un discorso affatto teorico sull’ Università e la liber-tà della scienza; tanto che l’anno dopo un congresso so-cialistico universitario, radunato a Pisa, dove riaffermare«sacra e inviolabile» la libertà della scienza. Si comincia-va a discorrere di rimedi costituzionali per porre frenoal socialismo irrompente; il suffragio elettorale, concessodalla riforma del 1882, pareva troppo esteso, e il Rudinìpensava al voto plurimo, da introdurre, per allora e co-me per prova, nelle elezioni amministrative. Il Sonnino,che era stato ministro col Crispi, stimando l’Italia grave-mente minacciata da due pericoli, il socialismo e il cleri-calismo, e dichiarando di non volere né cesarismo né al-tra sorta di autocratismo, e anzi di voler salvare l’Italialiberale-temperata, invocò il «ritorno allo Statuto», cioèl’abolizione del regime parlamentare che sceglie e rendedipendenti dalla Camera i ministri, e il ripristinato carat-tere di questi come ministri del principe, col conseguen-te rafforzamento del potere esecutivo. Il suo scritto, che,venuto a luce nella Nuova Antologia (1° gennaio ’97), le-vò dibattiti, importava, in certo senso, un passo oltre ilCrispi, che si era contentato di provvedimenti straordi-narî ed eccezionali, laddove qui si proponeva addiritturauna riforma dello stato.

Di tali riforme non si fece per allora niente; ma quelche covava negli animi dei reazionarî venne fuori in oc-casione dei tumulti e delle agitazioni popolari, che, co-minciati sparsamente nell’autunno del ’97, si seguirono emoltiplicarono in ogni parte d’Italia tra l’aprile e il mag-

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gio del ’98, ed ebbero l’episodio culminante nella som-mossa di Milano dei 6-9 maggio. Che quei tumulti fos-sero predisposti dalla miseria del popolino e dal rincarodel prezzo del pane a causa del cattivo raccolto e dellaguerra che allora si combatteva tra la Spagna e gli StatiUniti, e dal non aver saputo o potuto il governo apporta-re a tempo rimedî per lenire in qualche misura il malan-no, fu opinione comune; ma è da ammettere anche che vioperarono taluni effetti della propaganda e delle polemi-che socialistiche, specialmente a Milano, dove sobbolli-va il rancore contro i ricchi e gli arricchiti, e dove le divi-sioni politiche erano così aspre che, qualche mese prima,nella commemorazione del cinquantenario delle Cinquegiornate, un corteo di repubblicani e socialisti aveva fat-to la sua sfilata, separato e contrapposto a quello dei mo-narchici, e altri segni gravi si ebbero in quello stesso me-se di marzo pei funerali del Cavallotti, ucciso in duelloda un deputato conservatore. Senonché, anche più cer-to è che in nessun luogo, e neppure a Milano, i tumul-ti ebbero preparazione politica insurrezionale, con dire-zione e guida da parte di socialisti o repubblicani, e cheessi furono veri e proprî moti incomposti di non mol-ti popolani, con molte donne e ragazzi, senz’armi, sen-za combattimenti e resistenze: come, del resto, è dimo-strato dal fatto che la forza pubblica ebbe, a Milano, inquelle tre giornate, due soli morti: una guardia di pub-blica sicurezza, colpita, per non essersi ritratta in tempo,da una scarica della truppa, e un soldato del quale nep-pure fu chiaro che fosse stato ucciso dai tumultuanti. Afronte dei quali il numero di ottanta morti e quattrocen-tocinquanta feriti, dato dalla statistica ufficiale e che altritenne inferiore al vero, basta a dimostrare che la repres-sione fu smisurata, senza che faccia uopo ricordare l’as-salto della truppa al convento dei Cappuccini con l’arre-sto dei pericolosi ribelli colà asserragliati e che si scoper-sero frati e, mendicanti, e altrettali grottesche cantona-

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te, che comprovano come in quei giorni le autorità aves-sero perso la testa. Né ebbero alcuna proporzione congl’incidenti che li occasionarono gli stati d’assedio pro-clamati non solamente a Milano, ma a Napoli, a Firen-ze e altrove. In questi eccessi dell’autorità politica e mi-litare si sentiva la convulsa trepidazione della parte rea-zionaria, la quale, con eccitata fantasia, immaginò e spar-se nel paese una terrificante leggenda dell’abisso aperto,della rovina a cui si era miracolosamente scampati, delpericolo a cui si era trovata esposta l’esistenza dello sta-to e quasi quasi della intera civiltà, e celebrò salvatori l’e-sercito e il generale comandante in Milano, il Bava Bec-caris, ai quali furono rivolti ringraziamenti, profuse ono-rificenze e resi omaggi di ogni sorta. Il re stesso fu in-dotto a scrivere personalmente a quel generale, nel con-ferirgli la croce di grande ufficiale dell’ordine militare diSavoia, per encomiarlo del «grande servizio reso alle isti-tuzioni e alla civiltà»; e si mise così in non cale l’anticamassima severa di non concedere onori ai vincitori nel-le contese civili, cosa tanto più fuor di luogo perche nons’era combattuta dai militari nessuna battaglia. Le carce-ri furono riempite di centinaia e centinaia di accusati po-litici, tra i quali parecchi deputati e altri principali rap-presentanti del socialismo, il Turati, il Bissolati, il Costa,il Morgari, il Lazzari, la Kuliscioff, e repubblicani comeil De Andreis, e radicali come il Romussi, e sacerdoti co-me don Albertario: molti cercarono scampo varcando ilconfine. Si sospesero giornali, si sciolsero tutte le societàoperaie, si mise la mano su istituzioni come l’Umanitariadi Milano, la quale fu trasformata e unita alla Congregadi carità. Seguirono i processi innanzi ai tribunali milita-ri, che giudicarono come sogliono, distribuendo condan-ne enormi. Insomma, si ripetette in grande, e per tuttal’Italia, quello che quattro anni innanzi, sotto il Crispi,era accaduto nella Sicilia e nella Lunigiana.

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Ma anche si rinnovò, allora, nella coscienza liberaled’Italia, il sentimento di quegli anni; e i condannati e iperseguitati raccolsero il favore degli stessi loro opposi-tori politici, e le sospensioni dei giornali egli scioglimentidelle associazioni dettero argomento di scandalo, e i mo-di di procedere e le sentenze dei tribunali militari offe-sero, non solo per sé stessi, ma anche come non giove-voli al prestigio dell’esercito per quel maldestro e odio-so esercizio di funzioni giudiziarie a cui era stato chiama-to, che pareva per la prima volta compromettere l’affettoe la popolarità di cui esso aveva sempre goduto in Italia.Si ricominciò a eleggere deputati uomini che erano nellecarceri; si studiarono varî modi di manifestare simpatia aiprigionieri politici; si fecero voti per la loro liberazione.Erano quelli gli anni in cui si svolgeva in Francia la que-stione Dreyfus, e tutta l’Italia parteggiava per lo Zola eper gli altri campioni della verità e dell’umanità. Gli sta-ti d’assedio e i tribunali militari cessarono nell’agosto del’98: alcuni mesi dopo si ebbero indulti, che riducevanole pene ai condannati politici; dopo circa un anno, cioènel giugno del ’99, fu pubblicata l’amnistia generale. E isocialisti uscivano dalle carceri con animo mutato e tro-varono intorno a loro molte cose mutate. A essi premeva(poiché anche per essi, checché dicessero le loro teorie,esisteva di fatto un’opinione pubblica, non borghese néproletaria), di mettere bene in chiaro, contro le senten-ze che li avevano colpiti, contro la leggenda che era sta-ta foggiata, che non solo non avevano avuto mano nel-le sommosse, ma che coteste erano cose affatto contrariealla loro dottrina e dannose al paese e allo stesso socia-lismo, il quale non poteva non tener conto delle condi-zioni generali del paese e dei suoi bisogni di ordine e dilavoro. Ma anche la dottrina marxistica e il conseguenteindirizzo politico richiedevano un riesame e una rielabo-razione in senso meno semplicistico, per essere intantoassai progredita la critica del marxismo in Italia e fuori.

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I fatti accaduti nell’ultimo anno, e il contrasto tra l’azio-ne dei conservatori (o piuttosto dei falsi liberali ed effet-tivi reazionari, specialmente lombardi), che avevano isti-gato, esasperato e applaudito repressioni e persecuzioni,e la temperanza e mitezza dei liberali, che le avevano op-pugnate e non avevano cessato di desiderare la liberazio-ne dei socialisti arrestati e condannati, non permetteva-no di fare un sol fascio di tutti i non socialisti o «borghe-si», così dei «forcaiuoli» (parola che era stata coniata emessa in corso già dai tempi del Crispi) come di coloroche non altro desideravano se non che i socialisti venis-sero in parlamento, partecipassero attivamente alla legi-slazione e al governo, e li aiutassero a togliere abusi e adammodernare la società italiana che di tale opera avevabisogno. Si faceva strada nelle menti, sebbene poco pia-cesse di dare così aperta disdetta alla dottrina marxisti-ca, che la libertà non è un concetto borghese o di clas-se, ma è il campo con grandi e secolari fatiche spianatoe assicurato dai maggiori spiriti dell’età moderna per losvolgimento delle lotte civili e l’incessante umanamentodell’uomo: si faceva strada per lo meno nella sua tangibi-le conseguenza pratica, che quel che occorreva ora, do-po la politica interna del Crispi, dopo la reazione del ’98,non era già l’attuazione del socialismo o l’osservanza del-la tattica marxistica e rivoluzionaria, ma di restaurare inItalia, a beneficio di tutti e di ogni partito, le condizionidelle pubbliche libertà.

Del quale compito venne subito l’urgenza, perché gliantiliberali e autoritari non tardarono a sfidare in batta-glia tutt’insieme socialisti e liberali col tentativo di attua-re una serie di provvedimenti restrittivi contro i loro av-versarî e contro il parlamento stesso. Chiusi nei concettiispirati loro dalla paura dei disordini e dell’anarchia, es-si non avevano compreso nulla di quanto era accaduto,di quanto si era mutato nelle anime degl’italiani, dei gio-vani, delle persone colte, dei fedeli o dei rinnovanti fe-

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de alle tradizioni del Risorgimento; e d’altra parte nonconsideravano che le reazioni politiche, se possono ave-re qualche fortuna in tempi di depressione economica edi miseria, non l’hanno, o non l’hanno durevole, in tem-pi di prosperità e di slancio. L’Italia aveva ormai supera-to la crisi economica di dieci anni innanzi: in quel quin-quennio, continuò e s’intensificò il progresso già comin-ciato: basti ricordare, come saggio, qualche cifra statisti-ca, per esempio, nell’industria cotoniera, che dai venti-settemila telai, che contava nel 1882, ne aveva settantot-tomila nel 1902, dei quali sessantamila meccanici, e nel-le società per azioni, in cui gli investimenti da ottocen-toquarantasei milioni che erano nel ’98 giungevano a unmiliardo e mezzo nel 1903: il commercio di esportazio-ne crebbe nel ’98 di quattrocento milioni, nel ’99 di al-tri trecento: le elettrificazioni a scopo industriale si mol-tiplicavano; l’emigrazione si raddoppiava, ma non avevapiù il solo carattere di emigrazione per disperata mise-ria e diventava fonte di ricchezza mercé i risparmi che gliemigranti inviavano in Italia; anche il bilancio dello sta-to non solo toccò il pareggio, ma offerse crescenti ecce-denze, dai nove milioni del 1897-98 ai sessantotto di treanni dopo, sicché poterono allargarsi le spese per lavo-ri pubblici. Il generale Pelloux, succeduto dopo i fatti diMilano, sulla fine del giugno del ’98, al Rudinì nel gover-no, era stato bene accolto come di parte ed animo libera-li, del che aveva dato fresca prova col ricusare d’impor-re lo stato d’assedio in Bari, dove si trovava comandan-te del corpo d’armata; e le sue dichiarazioni di non ave-re il pensiero a provvedimenti straordinarî di polizia, l’a-ver lasciato cadere anche quelli preparati dal suo prede-cessore, la cessazione degli stati d’assedio, gli indulti cheprese a concedere ai condannati politici, la riforma tribu-taria di carattere popolare di cui aveva annunziato l’idea,non lasciavano prevedere quel che egli tentò alcuni mesidopo, quando, il 4 febbraio del ’99, propose alla Came-

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ra una serie di provvedimenti straordinarî, proprio dellasorta che dapprima aveva esclusa. Si ristabiliva, con queiprovvedimenti, il domicilio coatto anche per motivi po-litici, si modificava in più parti la legge sulla stampa, silasciava all’arbitrio delle autorità il divieto delle riunioniin luoghi pubblici, si dava facoltà all’autorità giudiziariadi sciogliere le associazioni giudicate sovversive, si mili-tarizzavano gli impiegati addetti alle pubbliche ammini-strazioni. Non è noto per quale processo mentale e de-liberativo ciò accadesse; e se coloro stessi, che avevanoconsigliato la lettera al generale Bava Beccaris, riuscisse-ro ad attirare il re nella cerchia delle loro idee. Fu evi-dente, per altro, che di questa politica si era levato as-sertore e propugnatore quello stesso uomo politico cheaveva richiesto, due anni innanzi, il «ritorno allo Statu-to», il Sonnino, dei cui alti intendimenti etici e patriotticinon era e non è lecito dubitare, sebbene sia da fare qual-che riserva sulla sua larghezza mentale, sull’acume del-la sua percezione, sul suo senso politico. Egli, segnata-mente dopo che il Pelloux ebbe ricomposto il ministerocon più spiccato carattere conservatore, tenne ufficio dicapo della maggioranza, che regolò e confortò le mossedel capo del governo negli sforzi di mandare ad effetto leproposte reazionarie.

La lotta parlamentare intorno a queste proposte, nel-la quale i liberali, con lo Zanardelli e il Giolitti alla lorotesta, si ritrovarono alleati l’estrema Sinistra e i sociali-sti, durò oltre un anno e passò per varie vicende: dall’ap-provazione generica dei provvedimenti del Pelloux, os-sia dall’ammesso passaggio alla discussione degli artico-li, nella quale si sarebbero presentati sostanziali emenda-menti che il governo aveva lasciato credere che avrebbeaccettati, al rifiuto di questi emendamenti da parte delgoverno è all’atteggiamento di risoluta opposizione, pre-so dai liberali; dal deviamento che il Pelloux tentò, co-me il Crispi già con l’impresa d’Africa, esso con quella

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cinese, e che dové troncare per l’opposizione della Ca-mera, onde si dimise e riformò il suo ministero, ripresen-tando i suoi provvedimenti in forma anche più grave, al-l’ostruzionismo, che nella Camera fn iniziato dall’estre-ma Sinistra e alla proroga, nel giugno ’99, della sessione,durante la quale proroga il Pelloux emanò quei provve-dimenti per decreto reale; dalla sentenza della Cassazio-ne che dichiarò incostituzionale e irrito il decreto e co-strinse il Pelloux a ripresentare le sue proposte alla Ca-mera, e dall’ostruzionismo di conseguenza ricominciatocon più furia, alla modificazione che il governo proposedel regolamento della Camera per dar modo al presiden-te di essa, d’accordo col governo, di vincere l’ostruzioni-smo, e al tumulto che insorse violento, quando il presi-dente, che era un uomo egregio ma legato ai reazionarilombardi, il Colombo, si provò di sorpresa a farli passarecome approvati (2 aprile 1900): donde la risoluzione delgabinetto di appellarsi al paese, sciogliendo la Camera eindicendo le elezioni generali.

Singolare prova di ottusità questo ricorso ai comizi pernon essersi avveduti di quella che era la reale disposizio-ne del popolo italiano, il quale non solo aveva dato lavittoria ai socialisti nelle elezioni amministrative di Mila-no, manifestando a questo modo la stima in cui tenevai cosiddetti conservatori, ma nella sua generalità avevaseguito con fervore di consenso la lotta dei liberali con-tro il governo del Pelloux e accolto con indulgenza per-fino l’ostruzionismo dell’estrema Sinistra, come violen-za opposta a una violenza. Del resto, Gabriele d’Annun-zio, che in quegli anni era deputato, estetizzante deputa-to, chiamato dai suoi estetizzanti amici il «deputato dellaBellezza», e sedeva all’estrema Destra ma aveva quel fiu-to del pubblico che mancava ai Pelloux e ai Sonnino, in-tervenne allora, a un tratto, in una riunione degli ostru-zionisti, salutandoli con le parole: «Oggi so che da unaparte vi sono molti morti che urlano, e dall’altra pochi

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uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d’intelletto, vadoverso la vita!»; e, nella tornata della Camera del 27 mar-zo 1900, passò ostentatamente a occupare un posto neibanchi dell’estrema Sinistra.

Le elezioni del giugno del 1900 dettero chiarissimo illoro responso: i candidati ministeriali non riportarono,in complesso, neppure una sessantina di migliaia di votidi maggioranza rispetto ai candidati antiministeriali; l’e-strema Sinistra si accrebbe di un’altra trentina di seggi ei socialisti da sedici salirono a trentatre. Il Pelloux ten-tò invano di mantenersi nel governo: alla riapertura del-la Camera la sua situazione si dimostrò insostenibile, edegli cedette il posto al ministero del Saracco, che era dicarattere temperato e poté comporre, con una transazio-ne, il dissidio circa il regolamento della Camera e la fa-coltà, che pur conveniva conferire al presidente, di do-mare gli eventuali ostruzionismi. Parve a coloro, che tra-sportano volentieri vecchi concetti e vecchi nomi ai fattinuovi meritevoli di nomi nuovi, che si fosse rinnovata, al-lora, in Italia la lotta della vecchia Destra e della vecchiaSinistra con la rinnovata vittoria della Sinistra. Ma, inrealtà, gli uomini cosiddetti di Destra, che si sforzavanodi far valere concetti autoritari, non avevano niente dellavecchia Destra, della quale alcuni, tutt’al più, potevanoconsiderarsi eredi degeneri in senso illiberale e reaziona-rio, laddove altri erano utopisti in buona fede per incom-prensione dell’andamento storico; e quelli della cosid-detta Sinistra non avevano più nulla della vecchia e cao-tica Sinistra di repubblicani convertiti e con dietro unamaggioranza meridionale e borbonica, ma erano uomi-ni sennati, di concetti moderni, e avevano dietro di sé lanuova economia dell’industria e dei suoi intraprendito-ri e operai: non socialisti e non disposti a tollerare disor-dini, conoscevano la vanità e il danno dei procedimentidi mera polizia. A consolazione, per altro, di chi sospi-ra pei partiti netti e pei due grandi partiti, è da osservare

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che la grande e netta dualità risorge sempre che tornanoin questione i principî fondamentali e direttivi dello sta-to, nella loro eterna dialettica di antitesi autoritaria e disintesi liberale.

Un epilogo dolorosissimo ebbe quella lotta di reazio-narî e liberali con l’assassinio che un anarchico, venutodall’America, compié il 29 luglio a Monza del buono ecavalleresco re Umberto, il quale aveva sempre unito lasua vita alla vita dell’Italia, inorgogliendosi dei suoi pro-gressi in ogni campo, soffrendo più forse di ogni altrocittadino delle sventure che l’avevano colpita, immagineviva di lealtà e di gentilezza. Il delitto era di quelli de-gli anarchici, che già avevano uccisi presidenti di repub-bliche e imperatrici e capi di governo; ma doveva pun-gere di qualche rimorso gli stolti consiglieri di reazione,quando si seppe che l’incentivo ne era stato offerto dal-la lettera del re al generale repressore dei moti di Mila-no e autore dello stato d’assedio colà e dei tribunali mi-litari. L’Italia pianse col pianto del cuore quel principe,che cadeva vittima del suo ufficio, che moriva per tutti,come un soldato che sia visibile al primo posto nella di-fesa comune. L’unanimità e spontaneità di questo senti-mento fu così intera, anche da parte di repubblicani e so-cialisti, che tolse ogni forza e voglia ai reazionari, se maiavessero pensato a valersi dell’accaduto per tornare ai lo-ro propositi o alle loro speranze. Un repubblicano, cheera un filosofo, il Bovio, disse che quell’orrendo delittoaveva tolto qualche anno di vita a un re e datone qualchesecolo alla monarchia.

Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, interpretò l’animodegli italiani, che era anche il suo, nel nobile proclamadel 2 agosto, col quale si consacrò «alla tutela dellalibertà e alla difesa della monarchia, legate entrambe –egli disse – con vincolo indissolubile ai supremi interessidella Patria».

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XI. IL GOVERNO LIBERALE E IL RIGOGLIOECONOMICO (1901-1910)

Superati i frapposti ostacoli, rispettando gli argini neces-sarî, la vita italiana dopo il 1900 scorse per oltre un de-cennio feconda di opere e di speranze. Non che si en-trasse in una sorta di età beata o di «età dell’oro», cheson cose che né la filosofia né la storia conoscono, e for-se neppure la poesia. Ma, come nella vita del singolo visono anni nei quali si coglie il frutto degli sforzi durati,delle esperienze compiute e patite, e il lavoro si fa agevo-le e largo, e non per questo si è toccata o si crede di avertoccata quella che si chiama la felicità, così nella vita deipopoli; e chi ha l’occhio per il sostanziale e il caratteristi-co, e non si smarrisce nei particolari comuni e insignifi-canti, chi è esente dalla tristizia dell’astratta perfezione, eperciò non gusta le correlative perpetue e insulse queri-monie, discerne e distingue, nel corso storico; i tempi direspiro, di pace, di alacrità, di prosperità. E furono quel-li, in Italia, anche gli anni in cui meglio si attuò l’idea diun governo liberale; del quale neppure bisogna coltiva-re un’idea astratta, cioè di così sublime perfezione da di-sconoscerlo poi nella sua concreta esistenza, e con taledisconoscimento disporre gli animi a negargli realtà e va-lore; il che nasce appunto da quella utopistica ed esaspe-rata e disperata idea di libertà, che infine si volge coi den-ti contro sé stessa. Quanto fosse più volte timido o tur-bato in Italia l’andamento liberale dopo il 1870, abbiamoveduto; ne mai prima gli si erano offerte condizioni tan-to favorevoli quali ora si erano formate: falliti i reaziona-rî nei loro tentativi, cosi teorici come pratici, di compri-mere le forze sociali con la violenza e con congegni po-lizieschi; falliti i socialisti nel loro teorico rivoluzionari-smo e nel pratico atteggiamento di astensionisti e prote-

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statarî e profeti imprecanti, che, se non promovevano diproposito, certo non frenavano né sconsigliavano le agi-tazioni di piazza, universalmente riprovate. Il problema,che si era aperto, della direzione e del governo, era stato,nel fatto, risoluto con la prevalenza del metodo liberale,solo in grado di soddisfare le esigenze legittime che quel-le due parti estreme ponevano senza possedere la capa-cità di recarle in atto; perché, da un lato, esso manteneval’ordine sociale e l’autorità dello stato, e dall’altro acco-glieva i nuovi bisogni col lasciare libero campo alle com-petizioni economiche anche tra datori di opere e lavora-tori, e con l’attendere a provvidenze sociali. Le difficol-tà, non pertanto, perduravano specie nelle prime mos-se, sopiti ma non spenti gli spiriti reazionarî e inorgogli-ti i socialisti, se anche non immemori che essi erano sta-ti semplici alleati dei liberali e avevano ricevuto da que-sti autorità e soccorso maggiore dell’aiuto che certamen-te da parte loro avevano apportato. Dopo la parola delre, che segnò la nuova via, e il ministero Saracco, che erastato una pausa ma non un pieno mutamento d’indiriz-zo, e talora fu ripreso da velleità di reazione, e tal’altraondeggiò tra conati di energia e prove di debolezza, loZanardelli, vecchio liberale di dottrina e di cuore, fervi-do nella sua fede giovanile, da lui attestata sempre in tut-te le passate vicende, si accinse alla restaurazione liberaleconforme ai tempi, avendo con sé, ministro degli interni,il Giolitti, anch’esso costante sempre in quella dottrina ein quella pratica. Il quale, dopo la morte dello Zanardel-li, tenne l’effettivo governo, con brevi intermezzi di mini-steri del Fortis, del Sonnino e del Luzzatti, per quasi ot-to anni (1903-05, 1906-09, 1911-14): uomo di molta ac-cortezza e di grande sapienza parlamentare, come è in-contrastato giudizio, ma non meno di seria devozione al-la patria, di vigoroso sentimento dello stato, di profondaperizia amministrativa, di concetti semplici o, meglio, ri-dotti nella sua mente e nella sua parola alla loro semplice

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e sostanziosa espressione la quale vinceva le opposizio-ni con l’evidenza del buon senso. A lui, di animo popo-lare, erano connaturate la sollecitudine per le sofferenzee per le necessità delle classi non abbienti e l’avversioneall’egoismo dei ricchi e dei plutocrati, che allo stato so-gliono chiedere unicamente la garanzia dei propri averie del proprio comodo. Un’altra sollecitudine lo moveva:il pensiero che la classe politica italiana fosse troppo esi-gua di numero e a rischio di esaurirsi, e che perciò con-venisse chiamare via via nuovi strati sociali ai pubblici af-fari. E in tale concezione politica portò quell’affetto cheva oltre la propria persona, adoprandosi incessantemen-te a scegliere e formare, tra i più giovani uomini politi-ci e amministratori, i suoi successori, assumendoli con séal governo e preparandoli alla direzione di esso, sebbenein ciò la fortuna non sempre lo secondasse, perché talunidi quegli uomini, sui quali faceva maggiore assegnamen-to, morirono nel miglior fiore, e altri si sviarono in altrimeno ponderati concetti e metodi.

Coloro che, come abbiamo notato, sogliono dare allenuove cose vecchi nomi, direbbero che col Giolitti s’ini-ziò un nuovo periodo di «trasformismo»: il che volentie-ri consentiremmo, per aver noi tolto a questa parola il si-gnificato peggiorativo col quale sorse, e perché ogni vol-ta che l’antinomia di conservazione e rivoluzione è supe-rata e si attenua e quasi svanisce, succede appunto un av-vicinamento degli estremi e una trasformazione unifica-trice dei loro ideali. I reazionarî per temperamento o perangustia mentale persistettero aperti o nascosti; ma quel-li che, come il Sonnino, con animo sincero, con disin-teresse personale e per puro amore della cosa pubblica,avevano escogitato riforme costituzionali e freni di varianatura, con la stessa sincerità e disinteresse e amore ac-cettarono la lezione delle cose, e lavorarono nelle condi-zioni che si erano formate, diverse da quelle da loro pre-sagite. Ancora nel settembre del 1900 il Sonnino, col ti-

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tolo che dava segno di qualche perplessità: Quid agen-dum?, scriveva un articolo nella Nuova Antologia, dovecontinuava a manifestare timore che l’Italia cadesse pre-da di una falsa Sinistra o di una falsa Destra, dei sovver-sivi socialisti o dei sovversivi clericali, e auspicava per-ciò la formazione di un «fascio dei partiti nazionali», dilà degli unilaterali interessi delle classi e dei gruppi, ri-volto ai «fini superiori della collettività nazionale», allostato come «complesso organico», che si prefiggesse nongià ideali di grandezza imperiale, ma una sorta di poli-tica casalinga, coi prossimi cómpiti di un migliore asset-to dell’amministrazione, dei trattati di commercio da ne-goziare, dell’emigrazione da regolare, della scuola da ri-formare, delle ferrovie e della marina mercantile, e del-la disciplina degli impiegati e simili. Ma gli fu con giu-sta ragione risposto che quel suo ideato «fascio» era co-sa artificiosa, che il suo «stato» era inteso in modo trop-po statico e che egli né s’era accorto del rivolgimento so-ciale accaduto in Italia per effetto delle industrie e deicommerci, né ben giudicava le vicende degli ultimi an-ni, argomento a lui di paurose previsioni, ma che eranostate nient’altro che una serie di scosse per far penetra-re nella politica italiana nuove correnti di pensiero e d’a-zione, e prenunziavano non un duplice precipizio ver-so due estremi, ma un’unione, come quella che, quaran-t’anni innanzi, si era effettuata tra i garibaldini e la mo-narchia dei Savoia. Il Sonnino non insistette nel suo pro-gramma, continuò per qualche tempo l’opposizione nel-la Camera, sebbene con scarso séguito, e alcuni anni di-poi confessò al Giolitti che l’Italia non poteva essere go-vernata altrimenti che col metodo liberale o parlamenta-re, e a questo si attenne, quando per due volte, per pochimesi, fu chiamato alla presidenza del Consiglio.

A tale aperta confessione non giunsero i socialisti, chepure si erano, in quegli anni, affatto disarmati di ogniteoria socialistica e rivoluzionaria, cioè del marxismo,

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gettandone via, uno dopo l’altro, tutti i pezzi, e, in ulti-mo, anche quello della concezione classistica dello stato,sicché avevano finito col vedere che, oltre e sopra gli inte-ressi delle classi, c’era l’«interesse generale», che lo statorappresentava. Ma essi non potevano atteggiarsi e opera-re in conseguenza, non tanto perche fossero prigionieridel loro passato o perche da quella ammessa conclusio-ne vedessero preclusa la loro individuale fortuna di uo-mini di governo, la quale anzi solo a quel modo sarebbeforse cominciata, quanto per la necessità della situazionein cui si trovavano. La franca conversione voleva dire ladichiarata dissoluzione del socialismo, non più distingui-bile dal liberalismo; e siffatta dichiarazione non bastavaa dissolvere, né nelle masse operaie, né nei loro condut-tori di mestiere o di passione, quell’ideale, che rispondea una certa logica inferiore e semplicistica, ed è alimen-tato dalle lotte economiche tra imprenditori e operai eda taluni aspetti dell’industrialismo moderno. La conse-guenza, che ne sarebbe venuta fuori, sarebbe stata l’ab-bandono delle masse operaie agli istigatori rivoluzionarî,con grave pericolo e danno del complesso sociale e deglistessi operai; e perciò giovava che quegli uomini, liberiormai da astrattezze e fanatismi e chiaroveggenti e tem-perati, restassero in mezzo a loro e li guidassero, sia pureindulgendo a talune loro illusioni. La qual parte a chi haper istituto di cercare e dire il vero, e alle anime ingenuee sincere, deve sembrare non solo penosa ma insosteni-bile; e nondimeno si sostiene senza troppa pena dagli in-gegni politici, che mirano al pratico, e perciò non sareb-be giusto condannarli, misurandoli con una misura chesi appartiene ad altri casi. Così era giocoforza che, fa-vorendo in cuor loro il nuovo governo liberale, e facen-do buon viso alla libertà concessa di sciopero senza piùintervento di soldati o sostituzione di soldati nei lavoriagricoli disertati dai contadini scioperanti, e alle previ-denze e riforme sociali, e perfino approvando tutto ciò

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che tornasse a vantaggio della crescente industria e ric-chezza del paese, i capi dei socialisti si dessero a crede-re, per acquietare la loro coscienza, o dicessero per ac-quietare le masse, che era quello il prodromo del futurocomunismo, perché solo la graduale erosione dell’ordi-namento borghese nel campo politico e in quello econo-mico, e la produzione della ricchezza spinta al massimo,rendono possibili la conquista dei pubblici poteri e la so-cializzazione del capitale. Il Turati, invitato dal Giolittinel 1904 a partecipare al governo, e il Bissolati, che eb-be dallo stesso lo stesso invito nel 1911, dovevano ricu-sare come ricusarono, perché, diventati ministri, avreb-bero perduto ogni forza sulle masse operaie e sarebberostati considerati traditori o disertori, e al governo sareb-bero andate bensì le loro persone, ma non punto il so-cialismo. Del pari, quando, per mantenere l’ordine pub-blico negli scioperi e in altre agitazioni, accadevano con-flitti con le milizie e si versava sangue, i socialisti, se an-che pensavano che il governo non aveva potuto fare altri-menti, e neppure essi al governo, e in regime socialistico,avrebbero fatto altrimenti, erano costretti a dar sempretorto al governo, a chiedere punizione degli agenti dellapubblica sicurezza o degli ufficiali che avevano coman-dato il fuoco, a proporre leggi che vietassero, in ogni ca-so, le armi contro la folla. Ed erano costretti a stare sem-pre o quasi sempre all’opposizione e votare contro ogniproposta di ogni ministero, e soprattutto contro le spe-se militari, sebbene il loro cuore fosse tutt’altro che duroe chiuso alla patria, e neppure per essi fosse indifferenteche gli Austriaci facessero una passeggiata sino a Milano;ma, nel comportarsi così, sapevano che quelle propostesarebbero passate e le spese militari votate dalla grandemaggioranza. L’azione loro positiva e liberale si esplica-va in altro verso e in altre guise: nel contenere i fanaticie gli impulsivi, che erano accanto a loro o contro di lo-ro nel partito stesso e che, richiamandosi ai puri principî

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del marxismo, non ammettevano altra tattica che quel-la rivoluzionaria, cioè, per dire la cosa nei propri termi-ni, rimanevano schietti socialisti e non si erano, com’es-si, convertiti all’effettivo liberalismo: intellettuali la piùparte, che avevano rinfrescato il loro marxismo nel sin-dacalismo del Sorel (il quale, come si è detto, ebbe mag-giore fortuna in Italia che non in Francia) con la teoriadella scissione recisa tra proletarî e mondo politico, l’e-logio della salutare violenza e il mito dello sciopero ge-nerale; e, come intellettuali, capaci di eccitare le masse ei cattivi elementi misti nelle masse, ma non di interpre-tarne i reali e sani bisogni e la reale e semplice psicolo-gia, il che meglio facevano i socialisti provetti e tempera-ti. A Milano particolarmente era sorto contro il Turati ei suoi, intorno a un giornale, l’ Avanguardia socialista, ungruppo di sinistra, che dava loro filo da torcere, che in-flisse loro qualche scacco, e che essi non riuscirono sem-pre a fronteggiare e dominare: tanto che a quel grupposi dovette il primo sciopero generale in Italia, quello delsettembre 1904, che, con l’occasione di alcuni conflittiaccaduti in Sicilia e in Sardegna, s’iniziò da Milano e perquattro giorni parve aver messo l’Italia intera nelle manidegli operai, perché ne disponessero a lor talento. Ci fudapprima qualche brivido di terrore, ma successe prestol’indignazione di tutti gli altri ceti sociali, e la scarsa sod-disfazione degli operai stessi, che persero salarî e non vi-dero alcun frutto dell’atto a cui erano stati indotti; e i so-cialisti, quattro anni innanzi, al tempo del Pelloux, ricin-ti del favore generale, sollevarono contro di sé l’opinio-ne pubblica, equa giustiziera. E poiché, intanto, i depu-tati socialisti domandavano la convocazione della Came-ra per chieder conto al governo dei fatti che avevano da-to luogo allo sciopero, il Giolitti, che aveva notato l’erro-re dei socialisti e compreso l’animo del paese, invece diconvocare la Camera, la sciolse, e indisse le elezioni, nel-le quali il concorso degli elettori fu numeroso come non

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mai, e i socialisti, abbandonati dalla piccola borghesia eda molti intellettuali, ebbero la peggio, e ne uscì una Ca-mera con fisionomia alquanto più conservatrice, quan-tunque sempre di spiriti liberali. Il metodo liberale ave-va solennemente sconfitto quello socialistico e indiretta-mente ridato autorità ai socialisti temperati, ristabilen-do l’equilibrio. Anche accadde talvolta che, abusandosidella libertà di sciopero, i datori di opere, senza aspetta-re aiuto dal governo, si associassero tra loro e resistesse-ro, come nello sciopero contadinesco di Parma del 1908,durato due mesi e finito con la vittoria dell’associazioneagraria; il che aggiunse nuovo discredito ai rivoluzionarî,che lo avevano approvato e diretto.

Lungo queste e altrettali esperienze, il partito sociali-sta si venne facendo sempre più riformista o liberale: nelcongresso di Bologna del 1904 le due tendenze lottarono,ma si volle in ultimo, con compromesso di parole, salva-re quella che si chiamava l’«unità del partito»: nel con-gresso di Roma, del 1906, la stessa salvazione fu compiu-ta con un’altra parola, quella di «integralismo», in nomedella quale il Morgari prese la direzione dell’organo delpartito, l’ Avanti!; ma nel congresso di Firenze del 1908non si poté impedire la vittoria dei riformisti sopra i sin-dacalisti, né la condanna dello sciopero nei pubblici ser-vizi. Era non la sconfessione, ma l’estenuazione del so-cialismo; la qual cosa in quell’anno stesso il Turati avver-tiva, dicendo che le forze parlamentari del partito eranoscemate d’importanza e di numero, che la vita dei circo-li era anemica, le idee incerte, il fervore dei propagandi-sti sbollito, e che c’era un generale senso di rilassamen-to. I giovani che tentavano praticamente la via politica, equelli di loro che dapprima avevano inclinato al sociali-smo, preferivano d’ingrossare il partito che s’intitolò «ra-dicale» (parola che un tempo aveva suonato quasi comequella di «sovversivo» e ora dava suono non pauroso); ei radicali si presentavano più facilmente trasformabili in

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uomini di governo, quantunque sulle prime ricusasserogl’inviti e nel 1901 due di essi non volessero entrare nelministero dello Zanardelli, perché richiedevano l’impe-gno che non sarebbero state accresciute le spese milita-ri; ma nel 1904, l’uno dei due, il Marcora, accettava dalGiolitti la presidenza della Camera, e negli anni seguen-ti i radicali partecipavano ai ministeri del Sonnino, delLuzzatti e del Giolitti. Radicalismo, socialismo e masso-neria erano termini che facilmente si permutavano l’unl’altro e tutti insieme confluivano in un liberalismo de-mocratico, assai più conservatore e cauto che non si sa-rebbe creduto da chi avesse dato soverchia importanzaai modi dell’oratoria.

I cattolici non si sottrassero a questo generale avvia-mento, pensosi del socialismo che minacciava non solola proprietà, ma, come materialistico che era, le stessecredenze religiose, offesi dalle fiere persecuzioni controla Chiesa, che si svolgevano nella diletta Francia di Leo-ne XIII, e miranti perciò con miglior occhio l’Italia, dovele condizioni erano per loro di gran lunga più tollerabilie larghe. L’anticlericalismo da parte dello stato aveva da-to un ultimo segno col tentativo, che lo Zanardelli rinno-vò, di una legge sul divorzio, e che fallì come i preceden-ti. Il governo italiano si guardò bene dal prestare il suoappoggio (come l’avrebbe prestato volentieri un Ricaso-li, se ancora fosse stato in vita) al movimento modernisti-co, cioè alla tarda ripresa dell’originario movimento pro-testante nel secolo ventesimo, sia per non immischiarsiin contese teologiche e filosofiche, sia perché ben inten-deva che, nella contesa, la vittoria sarebbe rimasta alfinealla chiesa di Roma e il moto modernistico si sarebbe ri-dotto non a una riforma religiosa, ma a una serie di casidi individuali riforme o apostasie. Quando uno di cote-sti modernisti, già prete o ancora mezzo prete, compar-ve deputato alla Camera nell’estrema Sinistra, il Giolit-ti al quale non mancava, come non manca mai alle men-

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ti lucide, senso del comico con motti conformi, lo ironiz-zò informandosi presso i deputati che gli erano intorno,se quello fosse il «cappellano dell’Estrema». Né si feceparticolare politica verso la democrazia cristiana di ten-denza socialistica che la Chiesa attendeva a sottomette-re alla propria autorità, come si vide nel 1904 e nei con-gressi cattolici del 1906 di Firenze e del 1910 di Modena,cioè alla dipendenza dei vescovi, e che mostrava spiriti,se non ribelli, recalcitranti, nel prete Sturzo e in altri pa-recchi. Anche i democratici cristiani o sarebbero passa-ti senz’altro al socialismo o sarebbero diventati strumen-ti nelle mani della Chiesa, che sola contava come poten-za politica. Nei rispetti di questa, si tornava alla formo-la della libera Chiesa nel libero Stato, che il Giolitti rie-sprimeva in quella delle «due parallele che non devonoincontrarsi mai»: cosa che non escludeva che potesse-ro bonariamente intendersi per smussare punte e toglie-re attriti; e così accadde che nel 1906 si concludesse unatransazione per l’incameramento dei beni delle case ge-neralizie di Roma col pagamento alla Santa Sede di no-ve milioni, e che nel 1907 gli stabilimenti cattolici del-l’Impero ottomano passassero sotto la protezione italia-na. Ma l’intesa più importante fu quella che ebbe effettonelle elezioni del 1904, quando il Vaticano giudicò ne-cessario di dar appoggio ai liberali contro i socialisti, epoi, con l’enciclica dell’11 giugno 1905, permise ai cat-tolici di partecipare al potere legislativo, per ragioni gra-vissime riguardanti «il supremo bene sociale che ad ognicosto si deve salvare», ossia, nel fatto, abolì il non expe-dit. La stampa cattolica prese tinte liberaleggianti o de-mocratiche col Momento di Torino, il Corriere d’Italia diRoma, l’Avvenire d’Italia di Bologna. Certo, partecipan-do alla vita parlamentare e alieni com’erano dal sociali-smo, i cattolici non poterono non seguire la politica na-zionale d’Italia, quale che fosse, espansionistica e contra-stante con la politica dell’Austria-Ungheria nei Balcani e

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nelle terre irredente, e che non coincideva con la poli-tica del Vaticano; ma, per trarsi fuori da cotesti e simi-li imbarazzi, nel Vaticano si era foggiata la distinzione:«cattolici deputati sì, ma non deputati cattolici». D’al-tro canto, col riapparire del cattolicesimo nella politicasi riaffermava la massoneria, che faceva da contrappe-so; e cattolici e massoni battagliarono soprattutto circala questione dell’insegnamento religioso nelle scuole pri-marie: una questione che appassionò gli animi, segnata-mente circa il 1908, ma che era di scarsa o nulla impor-tanza pratica, perché, risoluta in un modo o in un altro,non sarebbe per questo né cresciuta né diminuita la fe-de cattolica del popolo italiano, insidiata, se mai, dall’in-segnamento superiore filosofico e scientifico, e dal motogenerale del pensiero e della cultura. Senonché, quellaquestione serviva assai bene da segnacolo in vessillo al-le due schiere per misurarsi tra loro e tenere raccolte leloro forze.

L’azione parlamentare e governativa, che si svolse neldecennio, non venne meno alle speranze che aveva susci-tate nel 1901, quando uno scrittore politico, che era uncritico tagliente, attestava: «Vi è nella nostra vita politicacome un fermento di primavera: guardiamo al Ministe-ro e alla Camera con interesse insolito: non è più sempli-ce curiosità; è la coscienza che sono in gioco grandi que-stioni di benessere nazionale; gli indifferenti, gli scetticisono giù di moda; il pubblico sente che è finalmente pe-netrato nella Camera un soffio di vita nuova». L’operalegislativa e amministrativa, che si venne eseguendo, fuveramente insigne, e, poiché non è lontana dalla memo-ria, basterà ricordarla per sommi capi. Il bilancio dellostato, non ostante parecchi sgravi, come del dazio con-sumo sulle farine, sul pane e sulla pasta e in alcune pro-vincie dell’imposta. fondiaria, crebbe nelle entrate di al-cune centinaia di milioni, e nel giugno 1906 si poté at-tuare la conversione della rendita, che si manteneva so-

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pra la pari, dal quattro al tre e mezzo. Tutte le dotazio-ni dei pubblici servizî ne trassero vantaggi: dal 1900 al1907 il bilancio dell’istruzione fu portato da 49 a 85 mi-lioni, quello dei lavori pubblici da 79 a 117, delle poste etelegrafi da 69 a 123, dell’agricoltura da 13 a 27: gli im-piegati dello stato ebbero i loro stipendi aumentati di ol-tre cento milioni. Fu negoziata, per mezzo del Luzzat-ti, una serie di trattati di commercio, assai giovevoli al-l’industria, con la Germania, l’Austria-Ungheria, la Sviz-zera, il Brasile e altri paesi. Scadute le convenzioni conle società, si attuò l’antico pensiero dello Spaventa, sta-bilendosi nel 1905 l’esercizio di stato delle ferrovie, coningente spesa per il rinnovamento del materiale e per lecostruzioni di nuove linee. Attivissima la legislazione so-ciale, con la riforma delle leggi sulla sanità pubblica, leopere pie, gl’infortunî del lavoro e il lavoro delle donnee dei fanciulli, coi provvedimenti per la cassa d’invaliditàe vecchiaia, con le nuove leggi sul divieto del lavoro not-turno dei fornai, sull’obbligo del riposo festivo e setti-manale nelle aziende commerciali e negli esercizî pubbli-ci, sull’istituzione degli uffici del lavoro, sulle case eco-nomiche e popolari, sulle società cooperative e agricolee il loro diritto di concorrere agli appalti dei pubblici la-vori, contro la malaria e per il chinino di stato, e altre.L’Italia accolse tra le prime la proposta per una legisla-zione internazionale operaia e strinse con la Francia, nel1904, un trattato di lavoro. Non meno notevole la seriedei provvedimenti a favore del Mezzogiorno e delle iso-le, coi quali si veniva tirando qualche conseguenza pra-tica dalle lunghe indagini e discussioni sulla cosiddetta«questione meridionale» e sulle altre affini: leggi per laBasilicata, che lo Zanardelli volle visitare per conoscernele condizioni, e per la Calabria, per le provincie meridio-nali in genere e per la Sicilia e la Sardegna, e per il risor-gimento industriale di Napoli, per l’acquedotto pugliese,a cui lo stato contribuì con cento milioni, oltre i soccor-

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si e le nuove spese rese necessarie dai cataclismi che col-pirono il Mezzogiorno e la Sicilia, il terremoto delle Ca-labrie del 1905, l’eruzione del Vesuvio del 1906, il nuo-vo e tremendo terremoto del 1908, che ebbe per centroMessina, interamente abbattuta, e si stese nella prossimaCalabria. Una riforma tributaria generale non fu attuata,sebbene la tentasse con un suo disegno il Wollemborg,ministro delle finanze nel 1901, e il Giolitti si ritraessenel 1909 lanciando la proposta dell’imposta progressivasul reddito. Nella pubblica istruzione, le condizioni deimaestri elementari furono migliorate: l’analfabetismo di-scese sino al trentotto per cento; si aprirono nuove scuo-le professionali, agrarie, industriali e commerciali: anchesi dette forma pratica a tutta l’azione che da più anni ar-tisti e studiosi esercitavano a tutela del patrimonio arti-stico italiano, con una nuova legge sui monumenti e sul-l’amministrazione artistica e con l’istituzione del Consi-glio superiore delle belle arti. Né ci fu alcun serio impe-dimento alle spese crescenti per la difesa nazionale, cheil Pelloux aveva già curata con zelo e intelligenza, e per laquale lo Zanardelli aveva fatto votare trentadue mìlionistraordinarî. Il bilancio della guerra salì da 281 a 376 mi-lioni e quello della marina militare da 135 a 167, e il Bet-tolo continuò in questa parte la degna tradizione inau-gurata dal Saint-Bon: sull’una e sull’altra amministrazio-ne furono anche eseguite inchieste non sterili di effetti.E, quantunque il Giolitti per migliorare le condizioni de-gli operai e contadini, i cui salari erano bassissimi, avessedato corso libero agli scioperi che si moltiplicarono in unbaleno (da 642, che erano stati nel 1899-900, a 1852 nel1901-2, e nell’agricoltura da 36 a 856), questo fu il tempoin cui si domarono gli scioperi dei ferrovieri, si stabilì perlegge che l’abbandono del servizio valesse dimissione, eil Giolitti fece votare nel 1908 la legge sullo stato giuri-dico degl’impiegati, che puniva con la stessa formola losciopero nei pubblici servizî. Le classi o categorie eco-

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nomiche si andarono allora componendo in associazioni,leghe e sindacati: da quelle dei lavoratori particolarmen-te detti, con la Confederazione generale del lavoro costi-tuita nel 1906 a Torino, e coi contrapposti sindacati rossie bianchi, di colore socialistico o democratico-cristiano,alle associazioni dei ferrovieri, degli impiegati dello sta-to e delle amministrazioni locali, dei professori universi-tarî, degli insegnanti medî, dei maestri elementari, e viadiscorrendo.

Tale importante e svariata opera legislativa, ammini-strativa e associativa era resa possibile dalla fioritura eco-nomica che si osservava dappertutto nel paese, e che,quantunque rispondesse a un periodo di generale pro-sperità dell’economia mondiale e fosse aiutata dall’afflus-so degli esuberanti capitali stranieri in Italia, aveva, den-tro questo quadro, un particolare rilievo, perché, come itecnici notavano, nessun altro paese di Europa compiva,in quel tempo, progressi tanto rapidi ed estesi quanto l’I-talia. Il commercio italiano di esportazione tra il 1890 eil 1907 era aumentato del centodiciotto per cento, supe-rando l’indice dell’Inghilterra, che era del cinquantacin-que per cento, e della Germania, che era del novantadue:nel quinquennio 1896-900 era di 2.622 milioni, nel se-guente di 4.420, nel 1907 s’innalzava ai 4.930 e nel 1910a 5.326. L’impiego della forza elettrica era stato quin-tuplicato dopo il 1900: nel 1905 l’Italia mostrava i mag-giori e migliori impianti elettrici di Europa, come quel-lo di Vizzolo sul Ticino, con 23.000 cavalli dinamici, diPaderno e di Morbegno sull’Adda: intorno al 1907 il to-tale era di non meno di 244.000 cavalli. L’importazionedel carbone si era quasi raddoppiata in quel settennio:da 4.947.180 tonnellate nel 1900 a 8.300.439 nel 1907;nel solo 1905 le caldaie a vapore crebbero di 981. Nel1900 si costruivano in Italia sei vetture di automobili, nel1907, 1.283; la produzione del carburo di calcio, che eradi 600 tonnellate nel 1898, fu di 30.651 nel 1.907; la pro-

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duzione dell’acciaio si era quadruplicata. Simile crescen-za avevano avuta la lavorazione della seta e del cotone, ele altre che non mentoviamo, rimandando alle statistichee alle trattazioni di storia economica, perché qui a noi im-porta soltanto di far sentire, col ricordo di alcune cifre, ilritmo accelerato che la vita italiana aveva preso. Si calco-lava che la produzione agraria, che nel ’96 era intorno aicinque miliardi, nel 1910 fosse intorno ai sette, quantun-que si avvertisse che essa ancora rimaneva più estensivache intensiva, e che mancava l’adeguata scorta di bestia-me, e sebbene i trattati di commercio l’avessero alquantosacrificata ai bisogpi di protezione dell’industria. Gran-di lavori di bonifica si compierono nella regione emilia-na. Nel 1905 il re Vittorio Emanuele III fondava in Ro-ma l’Istituto internazionale di agricoltura, che s’inaugu-rò nel 1909 e prometteva utili cose per l’agricoltura mon-diale. La marina mercantile italiana riguadagnò qualchepunto tra quelle di Europa, divenuta la quinta per ton-nellaggio e la quarta per l’incremento annuo. Le condi-zioni igieniche delle città e la robustezza della gente ope-raia e contadina erano in incessante progresso; e il co-lèra fu presto soffocato, come quando si era riaffacciatonel 1893, così quando si ripresentò nel 1911. La popo-lazione, cresciuta a trentadue milioni nel censimento del1901, in quello del 1911 raggiunse i trentacinque. L’e-migrazione era sempre in aumento, e toccava il massimonel 1905 con 726 mila emigranti, recando non piccolo in-cremento alla circolazione della ricchezza con le rimessein denaro che gli emigranti spedivano alla madre patria,ma di gran lunga maggiore e più durevole incremento al-la prosperità e civiltà del mondo col suo lavoro nel Bra-sile, nell’Argentina, negli Stati Uniti; perché i popoli nonsono unicamente addetti ad accrescere le loro singole na-zioni e stati, ma anche alla vita del mondo intero, sia conl’accomunare a beneficio di tutti i loro pensieri e i loto ri-trovati, sia col riversare fuori dei confini delle loro patrie

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uomini e forze di lavoro. Si lamentava bensì che i cinquemilioni e più d’italiani, sparsi fuori d’Italia circa il 1910,si lasciassero assorbire o fossero in pericolo di essere as-sorbiti dalle nazionalità dei paesi in cui lavoravano, per-dendo via via lingua, costume e memoria d’Italia; ma ilprocesso era lento e non incontrastato, e, a ogni modo,la forza di persistenza nazionale degli emigranti è data inprima linea dalla forza espansiva della cultura e del pre-stigio delle loro patrie d’origine. Lo spirito di intrapresa,intanto, era vivace in Italia, e, oltre le società industriali,sorgevano cooperative di credito, banche popolari, casserurali e altre istituzioni di sussidio all’industria e all’agri-coltura. Soprattutto, si notavano un crescente ardimen-to e un correlativo distacco dalla vecchia tendenza allaproprietà immobiliare, alla rendita di stato e agli impie-ghi statali. Anche gli operai si avvantaggiavano di ciò esi sentivano legati agli interessi dell’industria: il che, pergli appoggi e favori che lo stato concedeva a questa e allecooperative operaie, dava luogo agli altri lamenti sui pri-vilegi che gli operai dell’alta Italia godevano a spese del-l’Italia meridionale e dei suoi contadini. I giornali si ven-nero allora conformando ai modi della grande industria,perfezionarono i loro servizî d’informazione, accrebberoil numero delle loro pagine, resero più varia la collabo-razione, estesero gli annunzî commerciali, moltiplicaro-no la loro tiratura: primo fra tutti il Corriere della sera diMilano, e prossimi a esso la Stampa di Torino, il Giornaled’Italia di Roma, il Secolo di Milano, il Mattino di Napo-li, il Resto del carlino di Bologna. Lo stesso ingrandimen-to di proporzioni e arricchimento di qualità si osservavanelle altre parti della vita sociale: esposizioni industria-li, mostre d’arte come la biennale di Venezia, teatri, con-gressi. Il processo di unificazione della società italianacrebbe intensamente: il suo carattere regionale era quasidel tutto sopraffatto o traformato dal costume nazionalee internazionale.

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Sebbene nello sforzo del lavoro inesauribile e della lot-ta che mai non giunge a fine, non solo manchi il tempo el’agio, ma non ci sia e non ci debba essere la disposizionea sentirsi e dichiararsi soddisfatti, qualche volta, in que-gli anni, l’Italia ebbe coscienza e provò la gioia del gra-do a cui era ascesa, misurando con lo sguardo il passa-to; come nella memorabile tornata della Camera del 29giugno 1906, quando fu votata la conversione della ren-dita, e gli applausi dai banchi e dalle tribune coronaro-no la relazione del Luzzatti, che rifaceva la storia del fa-ticoso e doloroso cammino percorso, e si videro opposi-tori politici abbracciarsi e lagrime rigare i volti. Gli stra-nieri, uomini di stato e scrittori, manifestavano ammira-zione per l’andamento che l’Italia aveva dato alla sua am-ministrazione, alla sua legislazione, alla sua economia, atutta la sua varia attività: il Bülow se ne congratulò vi-vamente col Giolitti, quando questi si recò a visitarlo aHomburg, nel 1904. Come già nei primi tempi dell’u-nità, gli italiani, nel recarsi all’estero, raccoglievano elogiper la saggezza e l’abilità di cui dava prova la loro patria,così ora pei progressi di lei in ogni campo. Alcuni nomiitaliani erano, per ardite imprese o per felici invenzioni,acclamati nel mondo intero, come quello del duca degliAbruzzi pei suoi viaggi di scoperta, e segnatamente perla spedizione al polo del 1899-1900, nella quale si spinsepiù innanzi di ogni altro esploratore, e quello di Gugliel-mo Marconi, che nel 1902 congiunse col suo telegrafosenza fili le coste irlandesi alle canadesi.

Ma la soddisfazione di sé, che l’Italia non dimostra-va nella politica interna e nell’amministrazione, in cui loscontento e la censura avanzano sempre l’opera, si senti-va nel nuovo atteggiamento della sua politica estera, piùrisoluto e intraprendente perché ora si possedevano leforze necessarie, e, per ciò stesso, meno pomposo e ru-moroso e più fattivo che non fosse stato ai tempi del Cri-spi, quando quelle forze non si possedevano. I bisogni

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di espansione, di nuovi territorî per colonie, di penetra-zione econoniica nei Balcani e nell’Oriente, avevano per-so il carattere di disegni e brame di singoli e facevanoparte della coscienza comune. Non solo i giovani che al-lora si davano sovente il nome di «nazionali» o «nazio-nalisti», li cominciavano a caldeggiare, ma, prima di lo-ro, perfino qualche autorevole socialista, e lo stesso siste-matore del socialismo marxistico in Italia, Antonio La-briola, che trasportò su questo punto l’ardore che primamostrava per la lotta di classe. Il Prinetti aveva prose-guito la politica del Visconti Venosta verso la Francia, enel 1901 e 1902 erano state strette con questa due con-venzioni, onde l’Italia le dava appoggio per l’espansio-ne nel Marocco, ottenendo il correlativo appoggio perquella che da sua parte disegnava nella Tripolitania e Ci-renaica, e prometteva neutralità se la Francia avesse do-vuto sostenere una guerra come aggredita o direttamenteprovocata, per difesa della sua sicurezza e del suo onore.Le dichiarazioni del Prinetti alla Camera, le cortesie chesi scambiarono tra il presidente della Repubblica france-se e il duca di Genova a Tolone, e poi la visita del re aParigi e quella del Loubet a Roma nel 1904, movevanola stampa francese a parlare finanche di una «alleanza difatto», esistente tra i due paesi. Nel 1906, nella conferen-za di Algesiras, alla quale andò rappresentante il Viscon-ti Venosta, l’ltalia non sorresse le pretese della Germaniae cooperò alla conclusione favorevole alla Francia, a cuifu riconosciuta posizione preminente nel Marocco. Conl’Inghilteria si procedeva sempre d’accòrdo, stringendosinel 1904 una convenzione circa i possedimenti dell’Afri-ca orientale, dove la colonia della Somalia riceveva intan-to nuova forma nel 1905 col ridurre l’ azione della Com-pagnia alla sola parte agricola e commerciale, e tenere lasovranità politica, estesa per la cessione fatta dal sultanodello Zanzibar; le tribù dell’interno via via si erano sotto-messe: una legge del 1908 stabilì il nuovo ordinamento.

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Nel 1902 l’Inghilterra, a prova di amicizia, aveva ritira-to il decreto che vietava l’uso della lingua italiana a Mal-ta: nel 1907, il re Eduardo s’incontrava col re d’Italia aGaeta. Lo czar, che aveva dovuto rimandare nel 1903 lasua visita al re d’Italia per le cattive accoglienze minac-ciate dai socialisti italiani e per le inquietudini della suapolizia, gliela rese a Racconigi, nel 1909; e in quell’oc-casione si presero accordi con l’Isvolsky, ministro degliesteri, che lo accompagnava, per il consenso dell’Italia al-l’eventuale apertura o neutralizzazione dei Dardanelli, e,in compenso, per quello russo all’eventuale occupazionedi Tripoli, e per l’integrità dell’Impero Ottomano, e in-torno alle questioni balcaniche, nelle quali Italia e Rus-sia s’impegnavano a sostenere il principio di nazionalitàe a non trattare cose nuove con l’Austria-Ungheria senzapartecipazione di entrambe. La Triplice era stata rinno-vata per la quarta volta nel 1902; ma la politica italianaverso la Francia, l’Inghilterra e la Russia suscitava malu-mori e diffidenze nei circoli tedeschi, tanto che il Bülow,nel suo discorso al Reichstag dell’8 gennaio 1902, corseai ripari, attenuando la gravità della cosa con l’afferma-re che la Triplice alleanza non vietava le buone relazionidei suoi componenti con le altre potenze, e uscendo nelsorridente paragone del «matrimonio felice, nel quale losposo non deve mostrar cattivo viso se la moglie fa uninnocente giro di danza con un altro uomo, perché l’es-senziale è che non lo tradisca». A nuovi ripari dové cor-rere dopo la visita del Loubet in Italia, e più ancora peril comportamento dell’Italia ad Algesiras, quando nellastampa e nelle assemblee tedesche si gridò che il «giro didanza» dell’Italia non era ormai senza pericoli per la suafede coniugale, e, alla fine della conferenza, l’imperatoreGuglielmo mandò un famoso telegramma all’imperatoreFrancesco Giuseppe, chiamando l’Austria-Ungheria «al-leata fedele» ed escludendo implicitamente dalla lode laterza alleata: telegramma al quale i suoi ministri cercaro-

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no, con le susseguenti dichiarazioni, di conferire caratte-re di opinione meramente personale e privata, non riu-scendo per altro a distruggerne l’effetto impolitico. An-che in Italia, del resto, ci si domandava, come si sarebbefatto, in caso di guerra, a combattere a fianco della Ger-mania e dell’Austria-Ungheria. Il contrasto intrinseco esostanziale era con quest’ultima, con la quale le relazio-ni si fecero e mantennero cattive, nonostante parziali ofuggevoli accomodamenti. Vittorio Emanuele III, salitoal trono, nel fare il suo giro di visite ai sovrani, si recò nel1902 a Pietroburgo e a Berlino, e lasciò da canto Vienna,memore che a suo padre non era stata restituita la visi-ta, fatta venti anni innanzi. Un accordo era stato conclu-so sin dal 1900 dal Visconti Venosta tra i due paesi perlo status quo in Albania, e, se questo non potesse man-tenersi, per lavorare entrambi a procurarne l’autonomia;con una dichiarazione del 1902, l’Austria-Ungheria s’im-pegnava a non opporsi a un’azione dell’Italia in Tripo-litania e Cirenaica; nel 1904, essa presentava per primala proposta della nomina di un generale italiano all’altadirezione della gendarmeria in Macedonia. Ma la rivali-tà nella penisola balcanica e le rivendicazioni che l’Italiafaceva del confine a sé necessario e delle terre di linguaitaliana incluse nell’Impero austro-ungarico, queste dueragioni di contrasto, che si legavano tra loro, erano in-coercibili e insanabili. Nel 1903 si ebbero, per l’esclusio-ne degli insegnanti italiani dall’università di Innsbrück,manifestazioni austrofobe in Roma e altrove, che il go-verno contenne con vigore. Nel 1905 il presidente del-la Camera italiana, Marcora, parlava del «nostro Tren-tino», provocando un incidente diplomatico, nel qua-le l’Italia rifiutò di dare all’Austria la soddisfazione chechiedeva e si restrinse a manifestarsi dolente dell’acca-duto, e anche qui il Bülow dovette appianare le difficol-tà. Nel 1908 sorgeva conflitto per le ferrovie balcanichetra l’Austria-Ungheria, che patrocinava una linea, e l’I-

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talia che, d’accordo con banchieri francesi, russi e ser-bi, gliene opponeva un’altra: da parte austriaca, si ac-cusava l’invadenza italiana nei Balcani, dove una socie-tà italiana costruiva il porto di Antivari e una ferrovia,un’altra aveva il monopolio del tabacco nel Montene-gro, agenzie coinmerci ali italiane erano a Durazzo e aScutari, e quivi anche una banca italiana, e una societàitaliana aveva la concessione della navigazione sulla Bo-iana e il lago di Scutari. Il conflitto intorno alle lineeferroviarie fu sorpassato per la rivoluzione accaduta inquel mezzo in Turchia e l’avvento al potere dei Giova-ni Turchi, che tolse la materia del contendere; ma quel-la stessa rivoluzione condusse l’Austria a dichiarare, con-tro la formola del trattato di Berlino, l’annessione dellaBosnia-Erzegóvina, cosa grave per l’Italia e per l’Europatutta, che vide imminente la guerra generale. L’agitazio-ne in Italia diventò vivacissima: l’Austria-Ungheria ave-va ammassato truppe nel Trentino: alla Camera, il For-tis parlò dell’impossibilità per l’Italia di sopportare più alungo gli armamenti dell’Austria-Ungheria contro di lei,dell’Austria-Ungheria, che era la sola potenza che la mi-nacciasse e che, per ironia, era sua alleata; e il discorso fuacclamato, e il presidente del Consiglio e i ministri tut-ti (tranne quello degli esteri, che non poté muoversi dalsuo banco) si strinsero congratulandosi intorno all’ora-tore. Praticamente l’Italia rimase col danno; la promes-sa, fatta balenare, dell’università italiana a Trieste non fumantenuta; l’Austria-Ungheria affermava di non doverecompensi all’Italia ai termini del trattato della Triplice,perché, annettendosi la Bosnia-Erzegóvina, aveva rinun-ziato al Sangiaccato di Novi Bazar: sul qual punto, neldicembre del 1909, concluse una aggiunta convenzione,dichiarando che, se mai fosse stata costretta a occupa-re definitivamente o provvisoriamente il Sangiaccato, siapplicherebbe il patto dei compensi territoriali all’Italia.Seguirono, da tutte le tre parti, rinnovate proteste di fe-

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deltà alla Triplice; ma continuarono gli incidenti, che di-mostravano un diverso stato d’animo. Il governo italia-no sussidiava gli italiani di Trieste contro l’elemento sla-vo, procurando loro vittoria nelle elezioni municipali; ilgenerale Asinari di Bernezzo, che si era battuto nel 1866a Custoza, nel novembre del 1909 consegnando in Bre-scia la bandiera al nuovo reggimento di cavalleria, addi-tava «le colline bagnate del sangue dei nostri eroi dietrocui si trovano le terre irredente che aspettano l’ora dellaliberazione»; a Trieste si ricostituiva nel 1910 la societàPro patria, e la Lega nazionale celebrava il suo ventesimoanniversario; un numeroso stuolo di escursionisti triesti-ni era accolto con gioia e commozione a Milano; a Ro-ma si eleggeva deputato un triestino; il sindaco Nathan,che era anche gran maestro della massoneria e vicepresi-dente della società «Dante Alighieri», indirizzata in ap-parenza alla tutela e diffusione della lingua italiana ma ineffetti irredentistica, chiamava, in un suo discorso, Trie-ste, «figlia della madre comune, Roma»; si leggevano conanimo fremente i libri che gli scrittori di cose storiche al-lora pubblicavano con nuove indagini sulle persecuzio-ni, i processi e le impiccagioni che l’Austria aveva fattodei patrioti italiani: memorie eroiche e dolorose, ravvi-vate dai recenti atti dell’Austria nelle terre irredente. Etuttavia l’alleanza della Triplice durava, e, avvicinando-si la scadenza, se ne apparecchiava la conferma. Perchée come disdirla? Il Bülow, discorrendo al Reichstag nel1908, aveva riferito un motto: dettogli un giorno dal di-plomatico italiano Nigra: che «l’Italia non poteva esse-re se non o alleata o nemica dell’Austria-Ungheria». Di-sdirla, non potendo l’Italia combattere da sola contro lecongiunte forze dell’Austria-Ungheria e della Germania,sarebbe stato il segnale della guerra europea; della guer-ra, che oscuramente si preparava, di cui tutti parlavanoe a cui nessuno credeva, perché la strage e la rovina chene sarebbero seguite erano così mostruose solo a pensar-

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le da sembrare cosa impossibile e da folli in un mondodi gente intelligente e calcolante; e, nel peggior caso, sicontava sui socialisti, che l’avrebbero impedita con la lo-ro unione internazionale, o sulla borghesia; che non l’a-vrebbe osata per timore di quella unione. E così si vive-va e si lavorava e si prosperava, in Italia come in Europa,movendosi tranquilli sopra un terreno tutto minato.

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X. RIGOGLIO DI CULTURA E IRREQUIETEZZASPIRITUALE (1901-1914)

Che il generale e concorde moto accelerato, descritto disopra nella politica interna ed estera, nell’economia, nel-la coscienza nazionale italiana, seguisse lo stesso ritmonel campo della cultura, è da argomentare ed è confer-mato dal riscontro dei fatti. Ma le notizie più o menostatistiche che si potrebbero recare circa i libri stampati,le riviste e i giornali, le case editrici, le istituzioni con fi-ni scientifici e letterarî allora fondate o promosse, i libristranieri presso di noi circolanti, e simili, direbbero as-sai poco, come pertinenti anch’esse alla cerchia dell’in-dustria e del commercio e non a quella della cultura, di-scernibile solo qualitativamente. Per segnare in tal ri-guardo il carattere del periodo che ora consideriamo, sideve risalire anzitutto alla sorgente di ogni cultura, che,come si è messo in chiaro, è la contemporanea filosofia,la quale unicamente permette d’intenderlo e determinar-lo in modo sicuro e univoco.

Era già molto innanzi, in Italia e fuori d’Italia, all’ini-zio del secolo, la reazione contro lo scientificismo posi-tivismo, che, nelle parti in cui asseriva esigenze legitti-me e affermava canoni veri, aveva ingenerato sazietà conl’insistere su punti ormai incontrastati; e, in quanto avevapromesso una filosofia, era fallito meschinamente e si eracoperto di scredito; e, con la sua predica del doversenestare ai ritrovati delle scienze e rassegnarsi nel rimanenteall’agnosticismo, lasciava delusi e insoddisfatti. Nessunaforza avrebbe potuto arrestare la decadenza, intrinseca enon estrinseca, di quella dottrina, che pure, quarant’an-ni innanzi, aveva raccolto tanto favore e levato tante spe-ranze. In Italia, come si è veduto, le aveva assestato ru-di colpi il materialismo storico con la sua dialettica; ma

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concorsero poi ad eccelerarne la fine il crescente ridesta-mento delle tradizioni speculative nazionali e il bisognodi andare a fondo dei problemi trattati male o non tratta-ti punto dal positivismo e dal filologico storicismo; l’ef-ficacia di pensatori stranieri, come quelli tedeschi che ri-cominciavano a speculare intorno ai concetti di «valore»,i francesi e gl’inglesi che si erano istruiti nella classica fi-losofia germanica o ne avevano risentito l’influsso, i cul-tori di scienze che venivano introducendo una gnoseolo-gia delle scienze affine a quella abbozzata già dall’ideali-smo intorno all’«intelletto astratto», e con ciò negavanol’onnipotenza dei metodi naturalistici; e un certo diffusospirito tra romantico e mistico, che rendeva intollerabi-le il grossolano semplicismo positivistico, particolarmen-te nelle cose delicate dell’arte, della religione e della co-scienza morale, e intollerabile, potrebbe dirsi, lo stessosuo stile o gergo.

Per effetto di questa reazione, l’orizzonte spiritualeampliò la. sua distesa, grandi idee offuscate tornaronoa rifulgere, fecondi metodi logici furono ritentati, rinac-quero coraggio e ardire per le speculazioni, si riaprironoi libri dei grandi filosofi antichi e moderni, anche di quel-li un tempo più abominati, come il Fichte e lo Hegel. Lafilosofia non ebbe più bisogno di scusarsi o di celarsi; ilsuo nome non solo non incontrò il sorriso e lo schernoper lungo tempo consueti, ma fu pronunziato con onore;nome e cosa diventarono di moda. A chi ricordava l’afa el’oppressura dell’età positivistica pareva che si fosse usci-ti all’aria aperta e vivida, in un campo verdeggiante. Siera usciti anche dal chiuso delle università, dove negli ul-timi decennî la filosofia era stata ristretta come mera ma-teria di antiquato programma d’insegnamento, e langui-va; perché essa, al pari della poesia, si alimenta delle pas-sioni e delle esperienze della vita vissuta, che in quei luo-ghi e presso quegli uomini, presi nella pratica della scuo-la e nella gara accademica, non arrivano o arrivano ra-

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de e deboli. Le riviste e i libri dei laici, per la freschez-za della informazione, la varietà degli interessi mentali,la vivezza dello stile, l’arguzia della polemica, gettavanonell’ombra quelli degli universitarî, che pure, come po-tevano, migliorarono alquanto e si studiarono di tenereil passo e d’imitare in qualche modo gli esempî fortunati.Per opera di laici furono pubblicate parecchie raccolte diautori filosofici, principale quella dei «Classici della filo-sofia moderna», che pareggiò e per certi rispetti avanzòl’unica che si possedesse fuori d’Italia, la «Biblioteca fi-losofica» di Lipsia. Ragguagli di libri filosofici, e artico-li su tali argomenti, e filosofici chiarimenti alle questionipolitiche, religiose e sociali del giorno, si leggevano nel-le pagine letterarie dei giornali politici. Il buon successofu tanto, che finanche i seguaci della scolastica sentironol’opportunità di mirare oltre le scuole dei seminarî e del-le università pontificie, e presero a pubblicare una lororivista, che procurava di non ignorare, e si guardava dalvituperare con le solite contumelie pretesche e fratesche,i liberi scrittori, ma li esponeva, li discuteva e spesso neaccettava le teorie, sforzandosi di allogarle in un allarga-to sistema di filosofia scolastica. Né la filosofia si avvol-geva e rinchiudeva in sé stessa, ma lo stesso suo impul-so ravvivava i piu varî interessi, storici e letterarî e scien-tifici e politici ed economici, tutti animati dalla bramadi una più intrinseca intelligenza, tutti scintillanti di briogiovanile.

In questa così rigogliosa rinascita di fervore speculati-vo, che per sé stesso era indubbiamente un bene o prin-cipio di bene, si insinuava, per altro, qualcosa di malsicu-ro e di poco sano. Condizione di una vigorosa ed effica-ce attività filosofica è un vigoroso e schietto sentire mo-rale, che, a sua volta, è condizionato da quella e si accre-sce di quella in circolazione vitale. Ma la coscienza mora-le d’Europa era ammalata da quando, caduta prima l’an-tica fede religiosa, caduta più tardi quella razionalistica

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e illuministica, non caduta ma combattuta e contrastatal’ultima più matura religione, quella storica e liberale, ilbismarckismo e l’industrialismo e le loro ripercussioni eantinomie interne, incapaci di comporsi in nuova e rasse-renante religione, avevano foggiato un torbido stato d’a-nimo, tra avidità di godimenti, spirito di avventure e con-quiste, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insie-me disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vivefuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la co-scienza etica e religiosa. Anche nella semplice e sennataItalia, aliena da fanatismi di ogni sorta, coteste disposi-zioni d’animo si erano fatte strada ed erano affiorate nel-la letteratura del D’Annunzio, che, così nella sua primamaniera, quella di Andrea Sperelli, come nella seconda,quella del Re di Roma e della Gloria, plasmò molte ani-me giovanili, trovando alla sua virtù materia docile; e orasi diffondevano e rafforzavano col crescere e fiorire, an-che qui, della civiltà industriale. Nell’ambiente prepara-to dal D’Annunzio e dalla invadente psicologia plutocra-tica, che ricerca le cose vistose, luccicanti e in fondo gros-solane, si svolse dunque, in Italia, la filosofia di reazioneal positivismo; e perciò la tendenza, che essa prese controquel superficiale razionalismo, solo in parte, e in coloroche seppero formarsi un lor proprio ambiente, andò, co-me doveva, verso un razionalismo più sodo e verace, manella maggior parte, sotto molteplici e spesso ingannevoliforme, verso l’irrazionalismo, quantunque solesse e bat-tezzarlo e crederlo «idealismo», combinando un «ideali-smo irrazionalistico» o uno «spiritualismo sensualistico».Filosofie di tal fatta si susseguirono e si avvicendarono esi mescolarono: l’intuizionismo, li pragmatismo, il mi-sticismo (e questo ora francescano o slavo o buddistico,ora modernistico o cattolicizzante, erotico-dannunzianoo erotico-fogazzariano), il teosofismo, il magismo e viadicendo, compreso il «futurismo», che era, anche quel-lo, una concezione o interpretazione della vita, e perciò,

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a suo modo, una filosofia. Se si ha voglia di rivedere que-sto spettacolo da caleidoscopio, si ricerchino le riviste diquel tempo, particolarmente le giovanili, più sensibili al-la moda e per tal riguardo più significanti, il Leonardo,che venne fuori a Firenze dal 1903 al 1907, Prose, L’A-nima, fino via via a Lacerba, opera in parte dei medesi-mi scrittori, che fu del 1913-14. In tutte esse, pure traqualche tentativo di raffrenarla o di opporvisi o di tem-perarla mercé pensieri di diversa origine, si vedeva chia-ra la conseguenza che è propria dell’irrazionalismo, cioèl’indebolito o fiaccato sentimento della distinzione: delladistinzione tra verità e non verità nella cerchia teoretica,tra dovere e piacere, moralità e utilità nelle cose pratiche,tra contemplazione e passione, poesia e convulsione, gu-sto artistico e libito voluttuario nel campo estetico, traspontaneità e indisciplina, originalità e stravaganza nel-la vita culturale. Tolti i freni logici, depresso il senso cri-tico, scossa via la responsabilità che è nella razionale af-fermazione, il giuoco dell’immaginazione e di una nuo-va rettorica si presentava agevole e seducente, e ne da-vano saggio tuttodi gli spasimanti dell’arte, segnatamen-te delle arti figurative, educati nell’estetismo dannunzia-no degli anni innanzi, ispirati veggenti o piuttosto artifi-ciosi visionarî, sacerdoti della pura bellezza, che essi ce-lebravano ora in sensuali figurazioni ora in frigidi sim-boli, ignari che bellezza è irradiazione nella fantasia de-gli umani affetti e travagli, e perciò cosa grave e severa,da cuori virili. A questi si accodavano taluni archeologi escava tori di tombe e di ruderi, sacerdoti rivelatori di mi-steri, con arie talvolta simili a quelle delle creature dan-nunziane della Città morta, le quali, com’è noto, si sen-tivano ebbre d’incesto e di sangue per l’effluvio che va-porava dalle pietre di Micene. Né piaceva meno il giuo-co dei paradossi, che simulano l’originalità del pensieroo dissimulano l’incapacità di dire qualcosa che valga; el’invenzione di sempre nuove formule d’arte, e addirittu-

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ra la proposta di un’arte intrinsecamente diversa da quel-la prodotta in passato e che negasse la stessa eterna na-tura dell’arte. Si assisteva, in quelle riviste e in quei libri,a uno scoppiettìo incessante di idee, ora felici ora avven-tate, ora acute ora sgangherate, nessuna arrestata nel ra-pido volo e considerata da vicino, analizzata, elaborata efatta fruttare. Vi si sentiva più accaloramento che calore,più impeto iniziale che costanza, più mobilità che movi-mento, più curiosità e dilettantismo che interessamentoe serietà: conseguenza morale dell’irrazionalismo, comela fiaccata distinzione tra valore e disvalore ne è la con-seguenza logica. Per costituire o ricostituire una conce-zione della realtà e della vita, per porre i saldi criterî delgiudizio, per penetrare con essi e formare la materia chela storia infaticabile porge di continuo al pensiero mu-tamente interrogando, e così spianare la via alla delibe-razione e alla chiaroveggente operosità pratica, per otte-nere, insomma, dalla filosofia quello che si ha diritto dichiederle, bisognava un metodico, lento e faticoso lavo-ro; e di questo, se anche si scorgeva il cominciamento,presto si vedeva l’interruzione e lo sviamento: ché il fal-so idealismo o irrazionalismo consentiva salti e capriolee contorsioni, ma non propriamente il lavoro.

Del pericolo che la reazione allo scientificismo porta-va con sé era stato, in verità, appieno consapevole unostudioso appartenente a quella Napoli, in cui era secola-re la tradizione e l’abito speculativo, che aveva fatto la re-sistenza ultima, e non mai del tutto abbattuta, al prepo-tente positivismo, che anche di recente aveva dato i prin-cipali elaboratori e critici del materialismo storico e delladialettica marxistica, e che, com’era naturale, prendevaora a esercitare una parte eminente nell’avviamento filo-sofico della cultura italiana. Fin dal 1902, quello studio-so mettendo fuori il programma di una rivista che alloras’iniziò, la Critica, delineava le diverse e opposte schie-re contro le quali egli partiva in guerra, dei vecchi e dei

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giovani, dei positivisti, empiristi e filologisti da una ban-da, dei genialoidi e mistici e dilettanti dall’altra. Egli nonsi era formato nell’ambiente dannunziano di eccitata mo-dernità industriale e cupida e gaudente, ma si era attarda-to nelle memorie e negli esempî degli uomini del Risor-gimento e nei pensieri del classico idealismo, nutrendo-si dapprima dell’insegnamento del De Sanctis, del qua-le non era stato scolaro nella scuola, ma verso cui fu piùattento ascoltatore, con tutte le forze dell’intelletto e contutta l’anima, che non gli scolari della scuola, vantanti laconoscenza personale del maestro. Senonché, per indo-le poco disposto alla dedizione scolaresca e assai spre-giudicato, si era provato nella sua adolescenza a pensa-re con lo Spencer e col positivismo, e non gli era venu-to fatto; aveva udito con maggiore frutto le lezioni anti-evoluzionistiche ed herbartiane del Labriola nell’univer-sità di Roma; aveva appreso la critica filologica e si era alungo esercitato nelle indagini erudite, anche le più mi-nute; aveva aperto la fantasia alla contemporanea lettera-tura, esaltandosi nel Carducci, ma non lasciando di affi-sare con la dovuta attenzione il suo coetaneo D’Annun-zio; e pur testé aveva vissuto in sé stesso il processo men-tale del socialismo marxistico e compiuto accurati studîdi economia. Si era, dunque, formato questo convinci-mento, che una nuovo e fecondo moto filosofico dovesseriattaccarsi al classico idealismo, ma non potesse fermar-visi né restringersi a riempire con con nuovo materiale ea correggere in qualche particolare il quadro di quel si-stema, come avevano immaginato gli scolari italiani del-lo Hegel, sì, anzi, dovesse rompere quel quadro, libera-re i possenti germi di verità che racchiudeva, e trapian-tarli nel nuovo terreno della storia intellettuale e mora-le che si era svolta in quel mezzo, accettando tutte le esi-genze legittime affermate oltre o contro di esso, e, in pri-mo luogo, la peculiarità delle scienze positive o natura-li e delle discipline matematiche, non riducibili a un’a-

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stratta filosofia della natura, e la peculiarità dell’indagi-ne storica documentaria, non riducibile a un’astratta fi-losofia della storia. Teneva anche fermamente che fos-se passato, col passar della teologia e dei suoi riflessi, coltramonto delle concezioni trascendenti, il tempo dei «si-stemi chiusi» e «definitivi», e che la filosofia ormai nonpotesse esser altro che la incessante risoluzione degli in-cessanti nuovi problemi teorici suscitati dall’esperienzastorica o (come poi formulò) sostanzialmente si riduces-se a una «metodologia della storiografia», da tener sem-pre viva rinnovandola sempre, e che l’esigenza sistema-tica, cioè della coerenza del pensiero, dovesse consiste-re non in altro che nella coerenza delle successive siste-mazioni in sé e con le loro antecedenti. Era così, insie-me, antipositivista e antimetafisico; avverso alla trattazio-ne meramente filologica ed erudita dei problemi, ma ri-soluto ad attuar sul serio il congiungimento della filoso-fia con la filologia; avverso al razionalismo dei matemati-ci e all’empirismo dei naturalisti, e anche al panlogismoe astratto monismo della volgare scuola hegeliana, con-tro la quale affermava la varietà delle forme spirituali el’ufficio fondamentale della «distinzione» come momen-to dell’unità concreta; ma avverso non meno al pram-matismo, all’intuizionismo, al misticismo e all’irraziona-lismo d’ogni sorta, premendogli di serbare, nella dialetti-ca spirituale e nella interpretazione della realtà, il nerbodella logica, non certamente di quella empirica e formali-stica, ma della speculativa e dialettica. Con che rigettavaanche, per espresso e per sottinteso, le concezioni. etichedi cui l’irrazionalismo era prodotto e produttore, nietz-schiane e variamente autoritarie e reazionarie, rigettan-do del pari le opposte ideologie illuministiche e massoni-che, e attenendosi all’ideale della libertà, che è non vuo-ta volontà di potenza, ma potenza di volontà e coscienzamorale. E, quantunque favorisse la più larga notizia del-le cose forestiere e raccomandasse in particolar modo la

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classica filosofia germanica, consapevole d’altro lato del-l’importanza che hanno le preparazioni egli addentella-ti nazionali, si adoperava a rimettere in onore l’antenatodella nuova filosofia europea, l’italiano Giambattista Vi-co, che negli ultimi quarant’anni era caduto in una qua-si dimenticanza e che allora tornò a formare oggetto distudi amorosi.

L’opera della Critica e dei suoi collaboratori, e i li-bri da essi scritti, tennero le parti principali nel movi-mento degli studî filosofici; e specialmente le dottrinedell’Estetica, che era stata pubblicata nel 1902 dal diret-tore di quella rivista, entrarono in tutte le menti, turban-do, attraverso i giovani e gli scolari, i professori egli acca-demici, ed ebbero non solo echi ma effetti nel mondo in-ternazionale del pensiero e della scienza. Da quell’ope-ra presero origine innumeri indagini, discussioni, mono-grafie e, si può dire, tutto quanto di concreto si fece allo-ra in Italia nel campo degli studî filosofici e storici, nellacritica della poesia, in quella delle arti figurative e musi-cali, nella linguistica, nella filosofia del diritto e dell’eco-nomia, nella storia del pensiero e della civiltà, nelle con-troversie sulle religioni, in quelle pedagogiche, ridandodopo un paio di secoli al pensiero italiano una parte at-tiva nel pensiero europeo e, in taluni rami di studî, unasorta di primato. E nondimeno è da riconoscere che lospirito che il suo autore vi portava non fu accolto se nonda pochi: l’unità di quel pensiero fu di solito frantuma-ta e presa a pezzi, e questi pezzi stessi stravolti soventea un senso che non era il loro, come nel caso delle dot-trine estetiche, in cui le teorie, che egli aveva ideate perispiegare la grande poesia di Dante e dello Shakespea-re, la pittura di Raffaello e del Rembrandt, il suo concet-to dell’«intuizione lirica», furono distorte a formole mo-dernistiche di scuola per giustificare il più scompigliato edecadente romanticismo o «futurismo», che egli non so-lo condannava in forza delle sue teorie, ma personalmen-

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te aborriva con tutto l’esser suo. Cagione di ciò era quel-l’impetuosa corrente d’irrazionalismo, che dalla vita s’in-sinuava nella filosofia del tempo e la intorbidiva. Tantoessa era impetuosa, che il direttore della Critica vide a untratto sorgere accanto a sé una forma d’idealismo irrazio-nalistico per parte di un suo collaboratore, che aveva da-to valida mano al promovimento degli studî filosofici, eben battagliato contro i modernisti (i quali avevano pre-teso di fare della loro piccola eresia nel seno della Chie-sa cattolica un grande rinnovamento di pensiero), e assaigiovato alle ricerche di storia della filosofia e al rinnova-mento delle dottrine pedagogiche, e che, diversamenteda lui, proveniva dallo hegelismo ortodosso, e per que-sto, e per certo suo abito di professore, pareva cinto digrosso usbergo contro le lusinghe della Circe di moda.Sicché, quando il fatto accadde e comparve quel nuovoirrazionalismo, un misto di vecchia speculazione teolo-gica e di decadentismo, tra lo stil dei moderni e il ser-mon prisco, sotto nome di «idealismo attuale», egli neprovò non piccolo stupore, ma pure non mise tempo inmezzo a contrastarlo nel suo principio e nelle sue conse-guenze e ad ammonire che si entrava in una cattiva via.Comunque, ora, dopo tante vicende, svanite tante mo-de, svelatosi sempre più apertamente il cosiddetto ideali-smo attuale come un complesso di equivoche generalitàe un non limpido consigliere pratico, quel che ancora ri-mane in piedi, perché ancora fa lavorare coloro che purlavorano in filosofia e storia e critica, aiutandoli a chiarie distinti concetti, è sempre la «metodologia», che alloraegli fondò e che nel corso degli anni è venuto particola-reggiando e mettendo alla prova in trattazioni di storia,con la speranza che altri continui questo lavorio critico,indispensabile per la sana vita degli studî.

L’atteggiamento morale e politico della giovane gene-razione rispondeva all’irrazionalismo delle teorie, il qua-le, a sua volta, come si è notato, era stimolato dallo spi-

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rito che prevaleva in Europa, rapace spirito di conqui-sta e di avventura, violento e cinico. L’ideale socialisti-co, amore di vent’anni innanzi, non parlava più ai giova-ni, né a quelli stessi che erano allora stati giovani: effettoin parte della critica che aveva corroso il marxismo e lasua apocalittica, in parte del graduale dissolvimento delsocialismo nel liberalismo, e in parte delle riforme on-de quasi intero il suo «programma minimo» si era attua-to. L’immaginazione e la bramosia della nuova genera-zione, e dei delusi di quella di poco antecedente, si rivol-gevano, come già prima in Inghilterra, Germania e Fran-cia, all’«imperialismo» o «nazionalismo», del quale pa-dre spirituale fu in Italia il D’Annunzio, che l’aveva pre-parato sin da giovane con tutta la sua psicologia, culmi-nante nel sogno della sanguinaria e lussuriosa rinascen-za borgiana, ma più determinatamente dopo il 1892, let-to che ebbe qualcosa del Nietzsche, in romanzi, dram-mi e laudi. Nel 1908 il D’Annunzio faceva rappresentareLa Nave, col sonante verso «Arma la prora e salpa versoil mondo», e nel 1910, col Forse che sì forse che no, can-tava la passione dei velivoli e concorreva a sovreccitarela già eccitata passione dello sport o del ludo gladiatorio,cosa assai diversa dalla vecchia e severa ginnastica, cheera stata primamente concepita come educazione dellavolontà dai tedeschi nella loro riscossa contro l’oppres-sione napoleonica. Lo stile, che egli si compose, e chefu largamente imitato e quasi fece perdere e certamentecompromise la schiettezza e semplicità insegnata agli ita-liani dal Manzoni e dal De Sanctis, era già uno stile «im-perialistico», dalle ampie volute di frasi immaginifiche,che parevano dire grandi cose e sfumavano nel vago, il-ludendo e deludendo, come appunto il verso ricordatodi sopra. Nel sentimento dannunziano lussurioso e sadi-co e insieme freddamente dilettantesco, i letterati italia-ni del nazionalismo infusero elementi intellettuali, trattiprima dal nazionalismo francese del Barrés, anche lussu-

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rioso e sadico, e poi da quello razionalistico del Maur-ras e dell’Action française, e poi ancora dal sindacalismoe dalla teoria della «violenza» del Sorel; perché essi ri-pugnavano assai più al liberalismo che non al socialismo,del quale a loro piacevano (e molti i di quei nazionalistivenivano personalmente dal marxismo) i concetti di lot-ta e di dittatura, chiedendo d’introdurvi l’unica correzio-ne che quel che i socialisti teorizzavano, della «lotta delleclassi» fosse da trasferire alla «lotta delle nazioni». Comei nazionalisti francesi, satireggiavano volentieri la grandeRivoluzione, la dichiarazione dei diritti dell’uomo, la de-mocrazia, e, come quelli, sarebbero stati disposti ad ap-poggiare la Chiesa romana per averne in cambio appog-gio, e a cercare il punto d’accordo in un «cattolicesimoateo»; e per intanto riecheggiavano le lodi del vecchiotempo e della monarchia assoluta e del classicismo allaBoileau, e talvolta cattolicizzavano, almeno in dilettazio-ni artistiche, come tra i primi il D’Annunzio, sempre tra iprimi in simili cose. Stranamente poi si dettero a restau-rare e ridipingere la figura di Francesco Crispi e a pre-sentarlo precursore e martire del loro imperialismo o na-zionalismo: del Crispi, che era il meno adatto al servir dasimbolo a questo fine, sia perché la sua politica estera fusterile e quella coloniale mise capo a un disastro naziona-le, sia perché in tutto il suo pensiero egli rimase sempredemocratico, anticlericale e massonico. Parecchia gentecandida, non usa a osservare e a riflettere, batteva le ma-ni e assentiva, credendo che il nazionalismo, di cui udivagli energici e frementi detti, fosse un semplice risveglio dipatriottismo contro le negazioni che dell’amor di patriaavevano fatte i socialisti e contro la politica del governotroppo cauta e prosaica; nondimeno, taluno dei maggio-renti del nazionalismo scopriva il diverso animo, dicendoa chiare note «opposti» tra loro patriottismo e naziona-lismo, l’uno «altruista», l’altro «egoista», l’uno indirizza-to al «servigio della patria sino alla morte», l’altro consi-

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derante le nazioni come «una potenza per fare l’utile deicittadini», come «l’egoismo dei cittadini rispetto alla na-zione»: insomma, concetto morale e perciò nietzschiana-mente da dir vile l’uno, concetto utilitario ed eroico l’al-tro. Né era veramente, quel nazionalismo, risveglio o rin-vigorimento di «italianità», ossia di tradizioni nazionali,per la sua stessa origine che lo rendeva irriverente e igno-rante delle cose paesane; cosicché a esso o al suo spiritoappartiene la denominazione, allora foggiata, di «Italiet-ta», con la quale fu non carezzata affettuosamente, maspregiata e schernita l’Italia dei proprî padri, che conve-niva intendere e amare anche nel correggerla e procurard’ingrandirla. Altri, per reminiscenza delle idee prussia-ne sullo stato, o per effetto di quelle pangermanistiche,accennava a introdurre in Italia una sorta di «religionedello stato», fantasticamente distaccato dalla vita umanae sopra questa sublimato, idolo cupo e feroce, o una «re-ligione della razza», che da molto tempo avevano i loroapostoli e sacerdoti in altre parti di Europa e del mon-do. Al sentimento e alle teorie nazionalistiche non tra-lasciò, in verità, di muovere critiche e rivolgere satire loscrittore di sopra ricordato, che stava a capo del movi-mento filosofico italiano, il quale non solo si era accor-to di quel che esse contenevano del solito irrazionalismoe di cupido sentire, ma anche, rifiutando molte dottri-ne dello Hegel, aveva rifiutato, tra le prime, l’esaltazionedello stato di sopra la moralità, e ripreso, approfondito edialettizzato la distinzione cristiana e kantiana dello sta-to come severa necessità pratica, che la coscienza mora-le accetta e insieme supera e domina e indirizza; e inol-tre, come storico, sapeva quanto fossero arbitrarie, fan-tastiche e inconcludenti le teorie sulle razze, e le altre divagheggiati ritorni al passato, alla Controriforma, all’as-solutismo, e simili. La filosofia e la storiografia salvava-no, con quelle proteste e polemiche, il loro onore; ma civoleva altro che obiezioni di filosofi e di storici contro

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un moto europeo, e anzi mondiale, che aveva i suoi mo-tivi reali e non era dato arrestare con ragionamenti, conisforzi di buona volontà individuale e con sentimenti diuomini eletti, e doveva percorrere intero il suo ciclo sinoalla confutazione di sé stesso da compiere non per via diragionamenti, ma di fatti.

Al nazionalismo e ad altre gonfiezze e fallacie procu-rò anche di fare opposizione una rivista, la Voce, inizia-ta a Firenze nel 1908 dagli scrittori già del Leonardo, dicui taluni erano stati pur testé collaboratori del naziona-listico Regno (1903-1904), i quali parevano, ormai, spe-cie nella persona del loro direttore, il Prezzolini, condot-ti a più elevati criterî e animati da ottime intenzioni; eper più anni quella rivista fu seguita con entusiasmo daigiovani e si persuase di aver effettato, come allora si dice-va, un «movimento spirituale». Ma, sebbene essi profon-dessero in quella loro opera ingegno vivace e doti felicidi scrittori, sebbene propugnassero in genere idee e cau-se assai giuste, non erano intimamente d’accordo tra lo-ro né, soprattutto, ben chiari con sé stessi, come si scor-geva dalla non profonda coerenza dei loro concetti, e, infatto di gusti estetici (che sono in questo caso rivelato-ri), dai loro amori coi Claudel, i Rimbaud, i cubisti e al-trettali, tanto cheparecchi di loro venivano trapassandoal futurismo: sicché, in quel che voleva essere il compi-to principale per lo meno del suo direttore, d’immetterecioè qualcosa dell’idealismo filosofico e critico nella pre-parazione e azione pratica, mostrarono più velleità chevolontà e scavarono solchi poco profondi e presto rico-perti. Un’altra rivista, sorta nel 1912 quasi rampollo del-la precedente, l’Unità, non dové durare molta fatica a di-mostrare le alterazioni fantastiche e gli errori di fatti cheabbondavano nelle scritture e nelle argomentazioni deinazionalisti (i quali, del resto, non tenevano alla veracitàe stimavano di fare a questo modo astuta e realistica po-litica); ed ebbe il merito di accingersi a studiate la nuova

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situazione internazionale che si era formata e in cui all’I-talia toccava di muoversi. Senonché, da sua parte il Sal-vemini, che l’aveva ideata e la dirigeva, nutriva nel fondodell’anima idealità mazziniane di equità internazionale edi onestà popolana, ed esercitava volentieri un’acre pole-mica moralistica, tra ingenua e ingiusta, con una punta diutopismo. A tratti, gli scrittori dell’una e dell’altra rivistasentivano la necessità per l’Italia di un esame storico dicoscienza, e di una rinsaldata fede etica e politica; ma traloro non c’era l’anima apostolica e amorosa, né la men-te robusta, che ciò adempiesse. La storiografia politica ecivile italiana, nella quale l’idealismo filosofico non ave-va ancora portato di proposito il suo lavoro, tutto inten-to allora ad avviare in modo migliore la storiografia del-la letteratura, dell’arte e della filosofia, continuava, negliscrittori più anziani, aneddotica, superficiale e rettorica,e, nei più giovani, economico-giuridica e angusta, qua-le era uscita dalle lezioni del materialismo storico, senzalume ideale e sentimento religioso.

Ma, tra l’utopia democratica e la cupidigia nazionali-stica, dov’era allora– si domanderà – la disposizione d’a-nimo, la letteratura politica, corrispettiva al liberalismo,del quale in quello stesso periodo si osservava il trionfonella pratica del governo e nella vita del paese? Il fattoè proprio questo: che il liberalismo era allora una prati-ca e non già una viva e intima fede, un chiuso e fervidoentusiasmo, un oggetto di sollecitudine e di meditazione,un qualcosa di sacro da difendere gelosamente al primocenno che lo minacci. Coloro che avevano diretto la rin-novata politica liberale in Italia erano due vecchi: lo Za-nardelli, uomo del Risorgimento, e il Giolitti, dei primitempi dell’unità, che avevano lavorato accanto a Quin-tino. Sella: il liberalismo era perciò connaturato alle lo-ro menti. Ma i più degli altri uomini politici lo possede-vano meno intrinsecamente, come cosa ricevuta in ere-dità, utile o almeno non sostituibile da altra, da nessu-

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no seriamente contestata, perché i socialisti si erano ad-domesticati e i nazionalisti erano letterati, che si pote-va lasciar parlare e anche ascoltarli volentieri, consenten-do alle aspirazioni che manifestavano verso la grandez-za nazionale e al male che dicevano del democraticismo,del demagogismo e della libera-muratoria. Quando alcu-no riparlava di libertà, accadeva che lo si interrompesseosservando: che la libertà esisteva, che era da tutti am-messa, che non correva nessun pericolo, e che importavaparlar d’altro di più attuale e urgente, e magari dei dan-ni della troppa libertà, della libertà che era indisciplina edisordine. Il che sarebbe stato giusto, se la libertà aves-se avuto dietro di sé in Italia una tradizione di più seco-li di lotte e contrasti e vittorie come in Inghilterra, o al-meno di oltre un secolo, come in Francia; ma la sua tra-dizione (e ciò era stato molte volte avvertito da vecchipatrioti e lo abbiamo ricordato a suo luogo) era, in Ita-lia, recente. Recente e non penetrata addentro: la pas-sione politica era sempre scarsa nel paese; gli aggruppa-menti dei partiti, senza molta saldezza e consapevolezzadi concetti determinati; nelle elezioni il governo prende-va, ed era costretto a prendere, parte troppo grande. An-che il socialismo, che non esercitava più l’ufficio di op-posizione antiliberale e non si era francamente conver-tito in un giovane e ardito liberalismo, contribuiva a uncerto ristagno di spiriti politici. I tentativi di associazio-ni e di riviste schiettamente liberali furono deboli e nonattecchirono: i migliori polemisti di quest’indirizzo po-tevano dirsi, piuttosto che liberali, liberisti, ossia davanorilievo all’aspetto economico e non a quello etico del li-beralismo. Al quale, in Italia, nel campo ideale, non so-lo mancava il sostegno religioso confessionale che ebbein altri tempi e in altri paesi, ma era venuto meno, primaper effetto del positivismo e poi dell’irrazionalismo, an-che l’adeguato sostegno intellettivo e critico, che gli per-mettesse di affrontare un’eventuale crisi; e la stessa re-

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cente tradizione, il pensiero del Cavour, non era tenutaviva, né si usava risalire di volta in volta a quelle originicome a fonte di rinvigorimento morale. Il moto filoso-fico, storico, dialettico, che ripigliava e meglio determi-nava e accresceva i concetti dell’età idealistica e liberale,non era di moda nella sua parte sostanziale, e al suo ope-rare nel sentire politico ostavano, non solo la moda chesi è descritta, così di teoria come di pratica, ma anche al-tre cagioni. C’era, tra queste, il carattere sempre più pra-tico e prosaico preso dagli uomini politici, che onorava-no gli studiosi al pari di poeti e sorridevano di essi comedi gente che spaziasse nei cieli delle teorie e non potesseapportar nulla di utile; e c’era poi ti fatto stesso che que-sti studiosi, pel lavoro a cui avevano posto mano e che at-teneva alle fondamenta e agli elementi della cultura, e dinecessità procedeva graduale, circospetto e lento, e perla tranquillità che il governo liberale loro procurava, sene stavano nella loro cerchia, alquanto lontani dalla po-litica, come accettando, poiché le condizioni lo permet-tevano senza viltà, una sorta di pratica divisione di lavo-ro: a voi l’amministrare lo stato e provvedere alla sua sa-lute, a noi la cura dell’intelletto e della vita spirituale del-la nazione. Certo, nell’intrinseco, i due lavori non era-no divisi e si riportavano, in ultima analisi, alla medesi-ma fede; ma il congiungimento degli intelletti e delle vo-lontà nei problemi effettivi e particolari della cosa pub-blica non poteva per allora aver luogo, salvo a cangiaregli indagatori in improvvisatori, dei quali già troppo erail numero in ogni campo, ne sarebbe giovato accrescerlo.

Per queste disposizioni pratiche, e più ancora per l’e-norme svolgimento che ebbero in quegli anni le facoltàspeculative, critiche e polemiche, non è meraviglia che lapoesia tacesse o scadesse; che così avvenne anche in al-tre età e momenti storici, sebbene l’antitetica crescenza edecrescenza di filosofia e poesia non sia una legge socio-logica assoluta, già per questa buona ragione che non vi

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sono leggi sociologiche assolute. Come abbiamo osser-vato, la schietta età poetica e artistica della nuova Italiasi era chiusa col chiudersi del secolo, e, in certo senso,un decennio innanzi. Anche gli artisti della seconda epo-ca, fioriti tra il 1890 e il 1900, decadevano: il D’Annun-zio, dopo avere raccolto le liriche dell’ Alcione e poeta-to ancora sullo sfondo del nativo Abruzzo il suo sogno dilussuria e di morte con la Figlia di Jorio d’ispirazione mi-chettiana, era entrato nel periodo in cui gli artisti lascia-no poco da dire alla critica, perché eseguono da sé, de-componendosi, l’analisi di sé stessi e cadono nella esage-razione e nella maniera e, per avvivarsi o ammodernar-si, ricorrono a materie e motivi estranei al loro vero ani-mo: il Fogazzaro accentuò nei suoi ultimi romanzi la par-te debole dell’arte sua, la difesa e propaganda delle idee;il Pascoli si sforzò di gonfiarsi e dilatarsi, e si fece semprepiù rimatore di occasione, scrivendo liriche sopra i casidel giorno, a segno che, quando l’americano Lubin ven-ne in Italia a proporre al re l’idea dell’Istituto internazio-nale di agricoltura, saputo del Pascoli e di quel che face-va, gli si rivolse pubblicamente chiedendogli di fornirgliun carme per la sua intrapresa di statistica agricola. Sen-za parlare del futurismo e delle sue opere, che non era-no opere di poesia, ma altra cosa, e, soprattutto, comela sua musica, cosa di «rumore», qualche dramma o ro-manzo notevole veniva fuori, ma rare erano le ispirazio-ni schiette e i tratti geniali. L’avidità della vita era statacantata ed esaurita poeticamente dal D’Annunzio, e orase ne vedevano i crescenti effetti pratici. Nell’intimo sen-tire, in quel sentire che si apre e si effonde con abbando-no, ciò che sopravanzava era piuttosto la sazietà, la stan-chezza, il passivo scetticismo, un bisogno amaro di sorri-dere, un bisogno di piangere, un rifugiarsi, senza riusciread adagiarsi, nel vecchio passato e negli umili e sani af-fetti. Le voci poetiche di allora, varie che fossero o pa-ressero si ricongiungono tutte a questo stato di animo; il

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quale produsse, di tra i minori e i frammentarî, due poe-ti genuini, il piemontese Gozzano, che lo fermò in alcunicomponimenti perfetti, come L’amica di nonna Speran-za e Le due strade, e, più complesso di lui, più largo divisioni e di cultura, più profondo di tono, il napoletanoGaeta: il primo morto giovane di etisia, il secondo sui-cida, non reggendo alla tristezza del distacco quando glimorì la madre, parte di quel superstite circolo di affet-ti al quale si era disperatamente attaccato per sopporta-re in qualche modo la insopportabile vita: insopportabi-le, perché, come in tante altre anime della sua generazio-ne, gli si mostrava priva di fine e deserta di non fittiziosignificato.

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XI. LA POLITICA INTERNA E LA GUERRALIBICA (1910-1914)

Un atto grandemente importante compié tra il 1911 e il1912 il governo liberale, l’estensione del suffragio, sug-gello dell’avviamento dato e preso dalla vita italiana neldecennio precedente, che si era manifestato nella gradua-le accettazione delle richieste e nel previdente riconosci-mento dei bisogni e dei diritti delle classi popolari, e in-sieme nella graduale risoluzione del rivoluzionarismo nelriformismo, del radicalismo di opposizione nel tempera-to radicalismo di governo. Il Luzzatti, che era presiden-te nel 1910, aveva abbozzato già un disegno di riformaelettorale, e aveva anche promosso gli studî nel Senatoper una riforma di questo corpo; la quale poi, non ostan-te che fosse da una speciale commissione concretata inproposte, non andò innanzi. Ma il Giolitti, che ripigliòil governo nel marzo del 1911, stimò insufficiente il dise-gno di riforma elettorale del Luzzatti, pensando che, cosìper l’educazione politica delle classi popolari – educazio-ne la quale per sé stessa contiene motivi di moderazionee conservazione, – come per gli stimoli che esse avrebbe-ro apportato alla vita pubblica, e per il vantaggio che nesarebbe venuto all’avanzamento civile ed economico del-la società italiana, convenisse disegnare la riforma in gui-sa più ampia, sì da avvicinarla al suffragio universale. Nélo fermarono le paure dei conservatori e la consueta pocoprofonda obiezione che in quel modo il governo avrebbelargito ciò che le classi lavoratrici non chiedevano, o as-sai più di quanto chiedessero; perché la classe colta e di-rigente non merita tal nome, se non supplisce con la pro-pria coscienza alla coscienza ancora manchevole e nonancora formolata delle classi inferiori e non ne anticipain qualche modo le richieste suscitandone persino i bi-

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sogni, né, in ogni caso, dà prova di avvedimento politi-co, se aspetta di essere sforzata alle riforme. La riformache egli presentò, e che fu, dopo varia resistenza e tenta-tivi di eluderla, approvata, si era trovata innanzi la diffi-coltà dell’analfabetismo, scemato assai ma tutt’altro chesparito nel popolo italiano, specialmente nei contadini,e l’aveva sorpassata sulla considerazione che l’ignoranzadel leggere e dello scrivere non importa minorità men-tale; onde il diritto elettorale venne riconosciuto, oltre-ché a quelli che l’avevano secondo la legge del 1882 co-me forniti di titoli d’istruzione, a tutti coloro che avesse-ro adempiuto agli obblighi del servizio militare o avesse-ro compiuto il trentesimo anno. Gli elettori italiani sa-lirono, per questa riforma, dai tre e mezzo agli otto mi-lioni; e la prima prova dell’esteso suffragio, nelle elezionidel 1913, non produsse, come non l’aveva prodotto l’e-stensione del 1882, nessuno sconvolgimento o scotimen-to, sebbene accrescesse, com’era naturale, il numero deideputati socialisti e, per gli accordi che si strinsero, des-se l’entrata a parecchi deputati cattolici. La fisionomiadella Camera rimase liberale.

A questa riforma, che aveva carattere costituzionale, siaccompagnarono altre nell’indirizzo segnato. Il brevissi-mo ministero del Sonnino aveva adottato provvedimen-ti per le bonifiche e pei contadini dell’agro romano e pelcredito agrario nelle Marche e nell’Umbria; quello delLuzzatti, che durò un anno, istituì la cassa di materni-tà per sussidî alle operaie, stanziò fondi per mutui ai co-muni in opere igieniche e sanitarie, ordinò la tutela degliemigranti mercé un commissariato e un corpo di ispet-tori, e avocò allo stato l’istruzione elementare per darlemaggior vigore. Il Giolitti riuscì, superando gli ostaco-li opposti dagli interessi privati italiani e forestieri, a fardelle assicurazioni un monopolio dello stato, che, mentregarantiva i cittadini dai frequenti fallimenti delle societàprivate e impediva che passassero all’estero molti frutti

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del risparmio nazionale, assegnava gli utili delle assicu-razioni alla cassa di previdenza per la vecchiaia e l’inva-lidità degli operai. Altri problemi consimili fermentava-no nella pubblicistica e nelle discussioni di quegli anni,e soprattutto la riforma tributaria e il connesso liberismoeconomico contro le eccessive protezioni date all’indu-stria e alla marina mercantile e il dazio sul grano, e con-tro lo sfruttamento dello stato, che ora non accadeva piùsoltanto da parte d’industriali, ma anche di operai d’in-tesa con essi, e di leghe e cooperative operaie, alle qua-li si concedeva l’esecuzione di pubblici lavori. E poichénel mondo politico affaristico delle concessioni e degliappalti e delle speculazioni aveva, o si diceva che aves-se, molta parte la massoneria, si fece vivace la polemi-ca contro questa associazione, che operava nell’ombra, econcorsero nella battaglia i suoi nuovi e, vecchi nemicidi ogni qualità, dai puri liberali ai nazionalisti e ai catto-lici, da coloro che la aborrivano pel suo radicalismo an-tireligioso e antipretesco, a coloro che mal la sopporta-vano giudicandola a suo modo teologica, astratta e ina-deguata alla mente moderna, la quale ha bisogno di piùsostanziosi concetti e di più serî metodi.

Le riforme sociali attuate o in disegno, e l’interessa-mento che le ispirava per le classi popolari, non impedi-rono che venisse allora a maturità, e fosse iniziata e con-dotta a termine, l’occupazione della Libia, perché quel-le riforme, e la ripresa liberale da cui erano nate, e la fio-ritura economica che le aveva rese possibili, e il rigoglioculturale, erano tutti aspetti della crescente forza italia-na, alla quale non poteva mancare la correlativa manife-stazione nella politica estera. Nel 1902, quella impresaera parsa imminente, e il Prinetti, ministro degli esteri,sarebbe stato forse disposto a procedere con le armi, maseguì poi l’altra via della cosiddetta «penetrazione eco-nomica» per preparare nel momento e nel modo oppor-tuno l’occupazione territoriale; e, quantunque negli an-

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ni seguenti non s’interrompesse questo lento lavorìo e sicercassero anche, per mezzo di agenti segreti, intese coicapi arabi, la questione usci dal primo piano, che avevatenuto per qualche tempo, e parve come addormentata.Senonché non la perdevano d’occhio gli uomini del go-verno, ben sapendo che gli italiani non avrebbero in nes-sun caso tollerato che la Tripolitania e la Cirenaica fosse-ro occupate da altre potenze, o che la Turchia, già in so-spetto e in guardia, e non celante la sua ostilità, ne pre-cludesse loro le porte, sia col chiamare colà interessi dialtre potenze, sia col rafforzarvisi militarmente; e, d’altrocanto, intendevano che non si poteva prolungare inde-finitamente l’esercizio dei diritti su quelle terre, ricono-sciuti all’Italia da accordi internazionali. Il Giolitti, do-po il contrasto franco-germanico del luglio 1911 pel Ma-rocco e l’assicurato componimento pacifico, essendosi inquel mezzo rinnovato il pericolo di una concessione en-fiteutica alla Germania da parte della Turchia o di un’a-zione inglese, si persuase che era giunto il momento dirompere gli indugi e compiere quell’occupazione; e a untratto si riaccese nei giornali e nel pubblico il fervore perTripoli, e il 28 settembre, adducendo a motivi il disordi-ne e l’abbandono in cui il paese era lasciato e l’opposi-zione che vi si faceva all’opera degli italiani, fu presenta-to alla Turchia l’ultimatum per l’occupazione militare diquel territorio, seguito, il giorno dopo, dalla dichiarazio-ne di guerra.

Perché l’Italia si accingeva a quest’impresa? AntonioLabriola, socialista e marxista, ma promotore della gran-dezza dell’Italia e della prosperità e arricchimento dellasua borghesia (che, a fil di logica marxistica, era per luicondizione indispensabile per l’avvento del socialismo),fin dal 1902, ai tempi del Prinetti, esortava all’occupa-zione di Tripoli come a un buon affare per la borghesia ea una colonia di popolamento per l’emigrazione italiana,che si sperdeva così numerosa in paesi stranieri. Le stes-

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se ragioni, iperbolicamente dilatate con asserzioni fanta-stiche circa l’agevole collocamento colà di un paio di mi-lioni di emigranti e circa la feracità della «terra promes-sa», e coronate dal miraggio dell’entusiastica accoglienzao della docile e pronta sottomissione che gli arabi avreb-bero fatta al comparire degli italiani, si lessero allora nel-la stampa, e soprattutto nelle scritture dei nazionalisti.Per contrario, altri, confutando quelle fantasie o inven-zioni, riducendo il numero dei possibili coloni a quindicio ventimila, descrivendo le condizioni reali di quelle re-gioni, senza buoni porti e scarse di pioggia e di acque ir-riganti, gettando dubbî sullo spirito delle popolazioni in-digene e facendo previsioni sulla lunga guerra o guerri-glia che sarebbe convenuto sostenere per sottometterle,ammonendo, infine, sui pericoli della situazione interna-zionale europea, giudicavano che l’impresa fosse di niuntornaconto e di certo danno. Ma gli uni e gli altri non di-cevano (o non volessero dirlo, o, a furia di ragionamen-ti cosiddetti realistici, avessero perduto la capacità di ve-dere e sentire certe semplici cose), che l’Italia andava aTripoli, perché non si acconciava in niun modo all’idea,che francesi, inglesi e spagnuoli si distendessero a lei difronte sulla costa africana senza che in nessun tratto sor-gesse la bandiera italiana, senza che l’Italia partecipasseal lavoro europeo per l’europeizzamento dell’Africa; per-ché non poteva restarsene allo scacco che le aveva pro-curato, ai tempi del Crispi, l’impresa abissina; perché es-sa non era più quella di quindici anni innanzi, e voleva esapeva condurre una spedizione militare e insistervi finoalla vittoria: insomma, per quelle che si chiamano ragio-ni di sentimento, e che sono tanto reali quanto le altre,tanto a lor modo ricche di utilità quanto le altre, Que-ste ragioni fecero sentire la loro forza a un uomo come ilGiolitti, punto fantasioso e retore, ma che comprese quelche l’Italia desiderava, come un padre che si avvede chela figliuola ormai è innamorata e provvede a darle, do-

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po le debite informazioni e con le debite cautele, lo spo-so che il suo cuore ha scelto. Che poi dal possesso dellaLibia si dovesse cercar di ricavare tutti i vantaggi che ilpaese e le occasioni offrissero, e diminuire gli svantaggiche, maggiori o minori, non mancano mai in ogni acqui-sto di tal sorta, s’intendeva da sé; ma non mai in un sif-fatto bilancio di vantaggi e svantaggi si sarebbe trovato ilmotivo ultimo e vero dell’impresa.

La guerra con la Turchia si prolungò oltre un anno,fino all’ottobre del ’12, con le consecutive occupazionidella costa, Tripoli, Derna, Bengasi, Zuara, Misurata, ele punte verso l’interno, e con l’occupazione di Rodi edelle altre isole del Dodecaneso, impegnandovi l’Italia,via via, circa ottantamila uomini e le navi della sua flot-ta, e incontrando resistenza maggiore di quanto si pen-sasse, ma non mai tale da soverchiare le forze che furonoapprontate e adoperate per abbatterla, avendo il gover-no dato sempre larghi mezzi, diversamente da quel cheera accaduto nella guerra abissina, e calcolati con abbon-danza di là dalle richieste delle autorità militari (il Crispiaveva fatto scuola e contrario) sicché, tranne alcune sor-prese e alcuni provvisorî arretramenti, le operazioni mili-tari si svolsero lente e prudenti, ma, nel tutt’insieme, feli-ci. Irta di altre difficoltà fu quella guerra per le limitazio-ni che le ponevano le potenze, timorose di complicazio-ni nella penisola balcanica e nell’oriente, premurose dinon lasciar troppo ferire la Turchia, che era in certo mo-do «corazzata dai suoi debiti verso l’estero», come scriveil Giolitti: il quale scrive anche che l’Italia dové eseguire,in quella guerra, una sorta di «danza sulle uova», impe-dita a compiere rapide e risolutive azioni, che la sua su-periorità sul mare le avrebbe consentite. Più volte le po-tenze pensarono di avviare la pace tra le due belligeran-ti; ma il governo italiano, per tagliar corto ai disegni ditransazioni gravide di pericoli in avvenire, fin dal 4 no-vembre del 1911 aveva proclamato, con decreto reale, la

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sovranità italiana sulla Libia: di modo che i negoziati, apiù riprese tentati e falliti, quando veramente ebbero illoro corso, dovettero muovere da questo punto fermo.Si giunse così, nell’ottobre del ’12, alla pace di Losanna,con la quale, attraverso una complicata procedura giu-ridica da parte della Turchia, questa abbandonò la Tri-politania e la Cirenaica e lasciò in pegno all’Italia le isoleegee fino a quando tutte le sue truppe e i suoi ufficiali efunzionarî avessero sgombrato il territorio libico. Il chenon accadde per allora, essendo rimasti ufficiali turchi anutrire e dirigere le rivolte degli arabi, e poi la restituzio-ne non fu eseguita per la sopravvenuta guerra balcanica,e poi per quella mondiale, e, tra varie vicende diploma-tiche, quelle isole, perdute dalla Turchia, sono rimasteall’Italia.

Non solo pei successi militari e diplomatici la guerralibica giovò al popolo italiano, ma anche perché gli det-te modo di saggiare la capacità della sua amministrazio-ne e la preparazione del suo esercito e della sua arma-ta e trarne argomento di soddisfazione; perché, in secon-do luogo, gli fece toccare con mano quale fosse la situa-zione internazionale; e, soprattutto, perché poté in quel-la prova attestare a sé stesso la compattezza della sua co-scienza nazionale, che era stata incerta e scissa al tempodella guerra abissina. I socialisti fecero bensì opposizio-ne di parole, ma non svelsero più le rotaie per impedi-re la partenza dei treni portanti i soldati, come nel 1896,e quasi non comprendevano essi medesisi come tal cosaavessero potuto fare una volta: la loro presente opposi-zione, non ostante la rettorica d’obbligo contro le guerredel capitalismo, non era molto diversa da quella degli al-tri, ai quali si è accennato, che contestavano il tornacon-to dell’impresa. Né le notizie della tenace e fiera resisten-za degli arabi, che vennero dopo le illusioni imprudente-mente sparse sulla loro festante attesa delle armi italiane,né quelle degli scontri sanguinosi e delle ferocie esercita-

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te su soldati italiani caduti nelle loro mani, turbarono lafermezza del popolo, che volle che la guerra desideratae iniziata fosse condotta a buon fine. Il Giolitti, che, nelsuo parlare sobrio e asciutto, mantenne severamente ildecoro d’Italia in tutti gli incidenti della guerra, quandoil Senato, nella tornata del 12 febbraio del ’12, espresseil suo plauso all’esercito e alla marina, si levò a ricorda-re che una pari lode doveva rivolgersi al paese, il quale,«senza distinzioni di classi e condizioni sociali, unanime-mente si era stretto intorno al suo esercito e alla sua ar-mata, e aveva mandato serenamente i suoi figli a morireper la patria».

A questa semplicità di sentire e di parlare non si con-formò la letteratura di quel tempo, quasi tutta genera-ta dal D’Annunzio o dominata dal suo esempio: la lette-ratura sensuale e pomposa e chiassosa e industrializzata,che rispondeva all’irrazionalismo e arbitrarismo prepo-tenti nel campo del pensiero, e che penetrava in ogni for-ma d’arte e si riversava nella stampa quotidiana, la quale,salvo poche eccezioni, entrò allora in un volontario deli-rio dionisiaco e coperse di immagini sgargianti e di iper-boli mostruose tutte le mosse e gli incidenti della guer-ra. Anche concessa l’indulgenza che è da concedere insimiglianti casi alla rettorica e ai gusti della gente di cat-tivo gusto, c’era ragione di impensierirsi per quel che dieccessivo, di persistente, di generale tale sorta di lettera-tura rivelava, biasimata bensì e contrastata dalle personedi buon gusto, dagli spiriti serî, ma senza che in ciò tro-vassero seguito e che riuscissero a porle fine o freno. IlD’Annunzio stesso, che allora se ne stava in Francia, e glipiaceva vagheggiarsi «esule» e darsi tal nome, e scrivevain francese, nella solita ispirazione sadica, per una dan-zatrice russa il Martirio di San Sebastiano e la Pianella, in-tervenne ad accrescere il frastuono, inviando dalla Fran-cia le sue Canzoni della gesta d’Oltremare, assai freddeesercitazioni metriche, non ostante il lusso dei vocaboli

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e delle immagini, in esaltazione dell’impresa e degli eroidell’impresa, i valorosi ufficiali e soldati italiani, i qua-li, senza gesti e detti teatrali, adempivano il loro fatico-so dovere e si maravigliavano di quei paludamenti di pa-role che venivano gettati sulle loro spalle, e se ne dimo-stravano ingenuamente grati per la sublimità delle coseche parevano contenere e che essi non bene comprende-vano. Quel che si avvertiva di sentito nelle nuove canzo-ni del D’Annunzio erano sempre le impressioni sensua-li, soprattutto delle cose crudeli, turpi e ripugnanti, co-me fin dai primi suoi tentativi di uscire dai giardini di Al-cina e affacciarsi agli spettacoli della patria e della guer-ra. Ma pure questo elemento sensuale andò sommerso edisperso nell’estrema manifestazione letteraria, che allo-ra infierì, del dannunzianesimo e che ne fu quasi un su-peramento, il futurismo, vacuo e arido fracasso, sebbeneaccompagnato da asserzioni dell’eroico, visto nella figuradell’eroe ciclista, automobilista e pugilatore.

Il nazionalismo, al pari della letteratura dannunziana,considerò la guerra libica come cosa sua, o tale che gliricadesse di buon diritto e vi dié dentro con foga, ac-clamando, celebrando, auspicando, e, quando la guerraprocedeva lenta (e il generale in capo, il Caneva, stimavache non si potesse e dovesse condurre in guisa diversa),con esortazioni, che rammentavano il peggior Crispi, dispiegare «maggiore energia», ossia di fare colpi a casac-cio. Dapprima pensiero di pochi letterati e privo di ef-ficacia pratica, tanto che il suo periodico Il Regno si eraestinto dopo un anno di vita, il nazionalismo aveva rice-vuto un afflusso di forze nel 1908, nella indignazione su-scitata in Italia per l’annessione della Bosnia-Erzegóvina;e allora si moltiplicarono i suoi giornali settimanali oquindicinali, il Tricolore, il Carroccio, la Grande Italia,e, un po’ più tardi, l’Idea Nazionale, ed esso prese for-ma di partito e poté tenere a Firenze, nel dicembre del’10, il suo primo congresso, nel quale domandò al gover-

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no politica non «sentimentale» ma «realistica», e «pre-cisi vantaggi» nelle alleanze da rinnovare o da innovare,ossia gli raccomandò quel che ogni governo fa o procuradi fare, e il punto è che vi riesca e la fortuna lo secondi.L’impresa di Tripoli, che esso tenne per principio di vitae d’ingrandimento del proprio partito, sembrò partori-re, per questo riguardo, contrario effetto. Concorde tut-ta l’Italia in quell’impresa, diventata nazionalistica tuttal’Italia e lo stesso Giolitti, parve che di un partito nazio-nalista non ci fosse più bisogno, e non pochi se ne allon-tanarono, perché il fine che accomunava si era attuato ele differenze si facevano sensibili e incomportabili: diffe-renze di nazionalisti liberali e nazionalisti antiliberali, de-mocratici e antidemocratici, patrioti all’antica e sognato-ri di grandezze alla moderna, credenti nell’umanità e nelprogresso civile e fautori della lotta e della forza autori-taria. Ma il nazionalismo, liberato dalle illusioni e confu-sioni che nascondevano la sua vera natura, cominciò al-lora a percorrere la sua propria strada: convertì in quo-tidiano il suo maggior giornale, ebbe favore presso talu-ni ceti industriali, si alleò ai cattolici nelle elezioni, e laduplice tendenza all’avventura delle guerre e alla reazio-ne antiliberale, l’una mezzo e insieme fine rispetto all’al-tra, divenne la sua intima guida. Raccomandavano di ri-formare dal fondo l’educazione e la scuola, buttando viai vecchi libri di timida morale e sostituendoli con quel-li dei Kipling e dei Roosevelt, e con la «morale dei pro-duttori». Dicevano che la libertà è d’impaccio a un po-polo, che «tende a conquistare per sé la massima quotadi dominio nel mondo».

Il socialismo continuava a decadere in quanto tale, ri-dottosi (come lamentava qualche scrittore socialista) dainternazionalista a nazionalista, e da questo a regionale,e poi a provinciale, e poi, infine, a collegiale. Pareva rac-cogliersi e dar qualche guizzo di vita solo in manifesta-zioni puramente negative, come nell’opposizione all’im-

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presa libica e nelle accuse a speculatori e profittatori; manon aveva né forza né capacità d’imporre o di aiutare lasoluzione dei problemi concreti, che pur conveniva af-frontare, come il protezionismo doganale, l’ordinamentotributario, la scuola. La sua ala destra, i riformisti, par-lavano bensì assai di riforme, ma, restando nel sociali-smo, non potevano effettuarle: il loro prossimo avvenireera segnato, e nel 1911 il loro capo, il Bissolati, che ricu-sò ancora una volta di far parte di un ministero borghe-se, saliva le scale del Quirinale a colloquio col re, e nel1912 il congresso di Reggio Emilia li scacciava dal senodel partito socialista italiano. Nell’ala sinistra, era sortoin quel tempo un uomo di schietto temperamento rivo-luzionario, quali non erano i socialisti italiani, e di acumeconforme, il Mussolini, che riprese l’intransigenza del ri-gido marxismo, ma non si provò nella vana impresa di ri-portare semplicemente il socialismo alla sua forma primi-tiva, sì invece, aperto come giovane che era alle corren-ti contemporanee, procurò d’infondergli una nuova ani-ma, adoperando la teoria della violenza del Sorel, l’intui-zionismo del Bergson; il prammatismo, il misticismo del-l’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’ae-re intellettuale e che pareva a molti idealismo, onde an-ch’egli fu detto e si disse volentieri «idealista». Non lievefu l’effetto della sua logica e della sua oratoria, che nonascoltarono soltanto gli scontenti, i promotori di sciope-ri generali, gli uomini di rivolte e vie di fatto, strettisi in-torno a lui, ma anche, poiché egli fu chiamato nel dicem-bre del 1912 a dirigere l’ Avanti!, non pochi intellettua-li, già disposti a riceverle o almeno a prendervi quell’in-teresse di dilettantismo, che portavano in tutte le cose.Nel congresso di Ancona dell’aprile 1914 gli si attestògratitudine pel nuovo vigore da lui dato al giornale delpartito e alla propaganda, ed egli ottenne che fosse vota-ta l’inconciliabilità di socialismo e massoneria, avversissi-mo com’era a una concentrazione democratica delle sini-

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stre, quale si prenunziava in Italia e già accadeva in Fran-cia col Briand. I vecchi socialisti, che formavano il cor-po o il ventre del partito, rimanevano sbalorditi e smarri-ti, e protestavano che quella predicata dal direttore dell’Avanti! e dai suoi era faciloneria e «miracolismo»; checosì il socialismo faceva il cammino a ritroso, dalla cri-tica e dalla scienza, a cui l’aveva portato il Marx, all’u-topia; che si giocava su cattive carte, a rischio di com-promettere l’acquistato e di mandare ogni cosa in rovi-na. Ma non potevano dominare quell’impeto, anche perquesta ragione, che non lo intendevano nelle sue scaturi-gini ideali e sentimentali, nelle premesse logiche, che eradato ritrovare solo risalendo al movimento di reazione alpositivismo, movimento del quale essi erano rimasti af-fatto, ignari, talché continuavano per loro conto a ripe-tere trivialità positivistiche e sfogavano il malumore del-l’ignoranza contro l’«idealismo», che non sapevano checosa fosse e confondevano con l’irrazionalismo, e curio-samente accusavano ora di «reazionario», ora di «rivolu-zionario».

Taluni fatti che accadevano in qualche regione d’Ita-lia, particolarmente nell’Emilia e nelle Romagne, le leghedei contadini, che, con le minacce, le violenze, le scomu-niche o «boicottaggi», e i «sabotaggi», soverchiavano laclasse dei possidenti e facevano da padrone a segno dacostituire, come fu detto, uno «stato nello stato», pare-vano convalidare praticamente la nuova avviata del so-cialismo di sinistra. Nei primi giorni di giugno del ’14,per una protesta contro la punizione di due soldati, siebbero, sotto la guida dell’anarchico Malatesta, disordi-ni e repressioni ad Ancona, seguiti dallo sciopero genera-le in tutta Italia e da sciopero parziale dei ferrovieri, e datumulti e conflitti in più luoghi, ma spiccatamente nelleRomagne e nelle Marche, dove si proclamò la repubbli-ca, si fece la cattura di alcuni ufficiali e di un generale, ca-se municipali furono occupate e si abbozzarono governi

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provvisorî. I moti furono repressi presto, con fermezza econ prudenza, dal governo del Salandra, che era succe-duto al Giolitti; i socialisti ufficiali, dopo essersela nellaCamera e sulle piazze presa col governo, sconfessaronoi promotori delle violenze, riaffermando il 20 giugno, inun ordine del giorno del Turati, in nome del gruppo deiloro deputati, il «concetto fondamentale del socialismointernazionale moderno, che le grandi trasformazioni ci-vili e sociali, e in particolare l’emancipazione del prole-tariato dal servaggio del capitalismo, non si conseguonomercé scatti di folle disorganizzate», e nei loro discorsie articoli misero in guardia il socialismo contro le gestadella «teppa»; ma il direttore dell’ Avanti! tolse in pro-tezione questo elemento necessario di tutte le rivoluzio-ni e si gloriò di quella che fu denominata la «settimanarossa».

L’opinione pubblica reagì con vigore contro tali mo-ti anarchici, dando forza al governo anche con adunate ecortei di cittadini a tutela dell’ordine, come a Napoli, epoi li condannò nelle elezioni amministrative; che segui-rono tra il giugno e il luglio, dove in molte città vinseroi conservatori. Sul finire del luglio, la calma era tornatadappertutto; le famiglie pensavano agli esami dei loro fi-gliuoli e si apprestavano o già movevano spensierate perle villeggiature estive: quando, quasi fulmine a ciel se-reno, sopraggiunse, improvviso e inatteso, quantunquequalche settimana innanzi fossero risonati i colpi di pi-stola di Serajevo, l’ultimatum dell’Austria-Ungheria allaSerbia (23 luglio), segnale della guerra europea, di quel-la guerra che aveva visitato le immaginazioni per circaquarant’anni, ma che ora, a un tratto, diventava presenterealtà.

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XII. LA NEUTRALITÀ E L’ENTRATADELL’ITALIA NELLA GUERRA MONDIALE

(1914-1915)

Il tumulto dei sentimenti, l’uragano delle fantasie, che sidisfrenò dappertutto al disfrenarsi della guerra, è stato,nella forma particolare che prese in Italia, rappresentatoal vivo in molti libri di romanzi, ai quali offriva materiaadatta. Ma a una trattazione non romanzesca importano,non i sentimenti e le fantasie, ma le volontà e le azioni,e quelli solo secondariamente, ossia in funzione di que-ste, e, così considerandoli, si può, per ragioni di brevità,sottintenderli o accennarli appena. Il problema praticofu allora per l’Italia: in qual modo condursi nella nuovasituazione internazionale, che era sorta; e il nostro com-pito teorico è di intendere in qual modo effettivamenteessa si condusse.

L’alleanza italiana con gli Imperi centrali sussisteva,come abbiamo veduto, al modo stesso con cui la pacedurava in Europa, per forza di inerzia: stava in piedicome una facciata dietro la quale non ci sia più la ca-sa. Ciò era tanto evidente e tanto noto che si trovavastampato non solo in opuscoli politici di pubblicisti, main manuali di storia per le scuole e pel pubblico colto.Per esempio, nel dodicesimo volume della CambridgeModern History, pubblicato nel 1910, si poteva legge-re, a proposito della Triplice alleanza: «È dubbio fino aquel segno la Germania e l’Austria possano contare sullacooperazione cordiale dell’Italia in caso di guerra: nellaquestione del Marocco l’Italia si dimostrò più favorevo-le alla Francia che alla Germania; il popolo italiano sen-te che i suoi interessi nei Balcani non sono stati abba-stanza rispettati dall’Austria nella sua recente annessionedella Bosnia-Erzegóvina, e nella Triplice non vi è un’u-

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nica e comune politica generale, come quella che stringeGermania e Austria». E chi non avesse voluto starsene algiudizio di uno storico inglese, poteva aprire un manua-le tedesco, la Weltgeschichte der Neuzeit dello Schäfer,nella cui quinta edizione, pubblicata nel 1912, era detto:«Con questo passo dell’Italia (l’accordo con l’Inghilterrae la Francia e l’impresa di Tripoli), la Triplice Alleanzaè apertamente rotta: nell’avvenire, la penisola appenni-nica potrà appoggiarsi solo alle potenze occidentali. Chela nostra diplomazia tenti di velare la cosa con mitiga-menti di parole si spiega, e può anche avere la sua giusti-ficazione; ma, in realtà, neppure essa conta più sull’Ita-lia». Le relazioni tra Italia e Austria erano sempre catti-ve: durante la guerra libica, furono frequenti gli attriti, ebisognò per prudenza che l’Aerenthal facesse rimuovereda capo dello stato maggiore il generale Conrad, il qua-le, come ai primi del 1909 aveva messo innanzi l’idea diprofittare del terremoto di Messina per una facile cam-pagna contro l’Italia, cosi, al cominciare dell’impresa li-bica, aveva riaffacciato quel pensiero; nel 1913 si ebberoi decreti del principe Hohenlohe, luogotenente in Trie-ste, per il licenziamento degli impiegati cittadini italiani,e conflitti sanguinosi tra italiani e sloveni in quella città;nei torbidi della «settimana rossa» corse voce per l’Ita-lia che agenti austriaci avessero soffiato nel fuoco; l’am-basciatore austriaco a Roma continuava a mostrarsi piùche mai fastidioso e petulante. I documenti, venuti fuorinel corso della guerra e dopo la guerra, provano che nel1913, per due volte, nell’aprile e nel luglio, l’Italia impe-dì azioni militari dell’Austria in Albania e contro la Ser-bia, rifiutando la sua partecipazione, e che l’ultimatumcontro la Serbia, del 23 luglio, ossia, come nei casi prece-denti, la provocazione della guerra europea, fu prepara-to in segreto dall’Austria con la Germania, tenendo stu-diatamente al buio la terza e ai loro occhi non fida allea-ta, la quale non ne seppe nulla, e forse stimò convenien-

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te, per aver le mani libere, di non avvedersi neppure diquel tanto di cui le doveva giungere notizia o sentore permezzo dei suoi diplomatici.

Suscitata dall’ultimatum austriaco la guerra generale,la necessità politica, o che è lo stesso, la buona politi-ca imponeva che l’Italia, in un primo tempo, dichiaras-se la sua neutralità nel conflitto; ma, per la medesima lo-gica politica, essendo in via di cangiamento, e già in par-te cangiata per effetto del conflitto, la situazione interna-zionale, la neutralità doveva valere semplicemente comeuna ripresa di libertà per condursi nella nuova situazio-ne in modo conforme alla salute della patria. Le conclu-sioni, a cui la guerra generale avrebbe portato nel casodel trionfo austro-germanico, non erano tali da potervisil’Italia quietare, perché non solo l’avrebbero lasciata coisuoi malsicuri confini ed esclusa da ogni efficacia nei Bal-cani; ma l’avrebbero assoggettata, con la restante Euro-pa, all’oppressione di una egemonia austro-tedesca. On-de la dichiarata neutralità conteneva in sé un germe dicontrasto con gli Imperi centrali, che o si sarebbe risolu-to in un nuovo accordo o avrebbe menato alla guerra, se-condo il consenso o il rifiuto dell’Austria a dare all’Italiai confini che essa chiedeva e le altre garanzie territoriali,e con ciò il rispetto della sua indipendenza e libertà d’a-zione, e secondo le condizioni che avrebbero offerto lepotenze del campo avverso, a tutela degli stessi interessie ad acquisto di maggiori vantaggi. Posta la natura del-lo stato austriaco, che anch’esso aveva la sua logica e lasua necessità, era da attendere che si sarebbe arrivati al-la guerra, e nondimeno i negoziati per l’eventuale accor-do bisognava condurli per il vantaggio o il minor dannoche potevano apportare in così aggrovigliata e pericolosasituazione, e, in ogni caso, per accertarsi col fatto che, laguerra fosse proprio ineluttabile, perché questa è giuo-co di salvazione o di rovina per un popolo da non arri-schiarsi da uomini coscienziosi senza aver prima compiu-

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to tutti gli sforzi e usati tutti gli avvedimenti per conse-guire per altre vie quel che è necessario mettere in sicu-ro. Il tempo speso in quei negoziati avrebbe dato agioalla preparazione militare, e anche a quella psicologica eaffettiva, che non segue senza ritardi e resistenze i calco-li della ragion di stato: l’Italia era stata per lunghi annilegata alla Germania, senza litigi e amarezze e con moltereciproche manifestazioni di deferenza e cortesia, e pa-reva duro abbandonare l’antica alleata nel suo grave pe-ricolo; e, d’altra parte, verso la Francia era ancora frescoil ricordo di quel che era accaduto durante la guerra libi-ca, pel caso del Manouba e del Carthage, e del tono arro-gante con cui il Poincaré ne aveva discorso alla Camerafrancese. L’indugio avrebbe permesso anche di sceglie-re, per l’entrata in guerra, il momento prevedibilmentemigliore a renderla più efficace e risolutiva; nella qualeultima parte, per altre, la libertà di scelta era limitata dal-l’urgenza di soccorso e dalle premure di ogni sorta del-le nuove alleate, oltreché bisognava contare con la for-tuna, che qui è sinonimo della guerra stessa e delle suesorprese.

Se, movendo da questo tracciato ideale, il solo cheil senno politico poteva proporre a risolvere il proble-ma messo innanzi all’Italia, e che in fatti si venne deli-neando in ogni spirito riflessivo e devoto alla patria e di-sposto ad accettare per lei le più aspre prove, si passaa considerare l’azione degli uomini di stato italiani neidieci mesi che corsero tra lo scoppio della guerra e lapartecipazione dell’Italia, si vede che essi vi si attenne-ro esattamente. La neutralità fu dichiarata il 2 agosto,tra la dichiarazione di guerra della Germania alla Rus-sia che fu del 1° e alla Francia che fu del 3, e appoggia-ta al testo del trattato della Triplice, che stabiliva il ca-sus foederis solo per una guerra difensiva, non provoca-ta dagli Imperi centrali: interpretazione formalisticamen-te incontrovertibile, ammessa l’anno innanzi dalla stessa

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Austria-Ungheria, quando si ritenne dall’imprendere laguerra contro la Serbia, ma a cui era dato contenuto po-litico attuale dalla situazione politica e dalla volontà del-l’Italia. Solo qualcuno di quegli uomini di stato, che al-lora non apparteneva al governo, il Sonnino, dubitò delpartito che si era scelto, ed ebbe il pensiero che si doves-se unirsi all’azione delle alleate, dicendo che le cambia-li bisogna pagarle, segnatamente se sono cattive cambia-li, cioè per una nobile considerazione di onore alla firma,che egli poi, meglio informato, riconobbe troppo astrat-ta e sconcordante col nuovo caso. Ma l’altro e princi-pale uomo di stato italiano, che era anch’esso fuori delgoverno, il Giolitti, approvò e convalidò col suo avvisola dichiarata neutralità. Parve anche, nei primi giorni,che tale neutralità volesse essere benevola verso le allea-te; ma altre dichiarazioni restringevano il significato diquella benevolenza o la estendevano a tutti i belligeran-ti, e già accennavano alla vigilanza per la tutela degli in-teressi italiani negli avvenimenti che si preparavano; e,qualche mese dopo, il presidente del Consiglio, il Salan-dra, con parola meno felice del pensiero che intendevaesprimere, disse del «sacro egoismo dell’Italia». In effet-to, dopo aver nell’agosto stesso ricordato al governo au-striaco l’articolo del trattato della Triplice, che obbligavaad accordarsi con l’alleata per le occupazioni permanen-ti o temporanee nei Balcani, il governo italiano, riapertala Camera e avutane approvazione per la linea che segui-va, poneva ai principî di dicembre all’Austria-Ungheriale sue richieste di compensi territoriali. Porre quelle ri-chieste ed entrare nei relativi negoziati, significava, comesi è avvertito, togliere alla neutralità il carattere di assolu-ta e definitiva, e disporsi ad appigliarsi eventualmente al-l’alternativa della guerra, che era nell’implicito dilemma.Il Giolitti, che allora assunse nell’opinione comune la fi-gura di oppositore del Salandra circa la politica della pa-ce e della guerra, ammetteva anch’esso quelle richieste e

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i relativi negoziati, e con ciò, logicamente, non escludevala guerra, da escludersi solamente con una risoluta «po-litica dalle mani nette»: sicché, per questa parte, conti-nuava, consapevole o no, il sostanziale accordo. Disac-cordo c’era bensì per la maggiore speranza che il Gio-litti riponeva nei negoziati e nella disposizione dell’Au-stria a cedere, e per la diversa previsione che egli forma-va intorno alla difficoltà e lunghezza della guerra, e per-ciò intorno al peso che all’Italia sarebbe toccato soppor-tare, e, infine, intorno alle disposizioni del popolo italia-no, che, nelle masse operaie e nella stessa massa borghe-se, furono a lungo contrarie all’intervento; cioè per unaserie di obiezioni di cui quaicuno degli uomini di gover-no doveva pur farsi avvocato, e sia pure avvocato del dia-volo, e che non solo non avevano nulla di sedizioso, ma,mentre giovavano a indurre alla massima ponderazione,fornivano al governo le carte necessarie per l’azione di-plomatica. Né questo disaccordo mutò natura, quandonel maggio del ’15 il Giolitti, recatosi a Roma per la ria-pertura della Camera, espresse al re e al Calandra il suoparere contrario alla guerra e favorevole alta continua-zione dei negoziati con l’Austria-Ungheria e la Germa-nia; e, poiché l’autorità dell’uomo era grande, e grandela fiducia che la maggioranza della Camera e del Senatoavevano nel suo senso pratico e nella sua saggezza e ac-cortezza, fu anche naturale che molti si volgessero a lui,aspettando, come ad arbitro, e forse anche, ove la guer-ra diventasse necessaria, come a provato buon nocchie-ro. Il Salandra, sentendo allora di non avere il concor-de consenso dei partiti costituzionali, presentò le dimis-sioni al re; ma, poiché il Giolitti, per la stessa parte dioppositore che aveva esercitata, non avrebbe potuto as-sumere il governo senza che il suo avvento facesse cade-re, almeno pel momento, la minaccia di guerra e imbal-danzisse l’Austria, e poiché nessun altro avrebbe potutocondurre una politica diversa da quella tardiva del Gio-

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litti e da quella ormai irrevocabile, se anche non anco-ra a tutti persuasiva, del Salandra (fin dal 26 aprile il go-verno italiano aveva stretto a Londra un segreto trattatocon l’Intesa, e il 4 maggio aveva dichiarato all’Austria lanullità dell’alleanza), le dimissioni del Salandra non ven-nero accettate dal re, ed egli si ripresentò al parlamento,che ormai era meglio rischiarato così sulla situazione di-plomatica come sulle disposizioni d’animo prevalenti nelpaese.

Fu questo avviamento e risoluzione di guerra operadel partito liberale, che, nelle varie sue gradazioni, ave-va governato l’Italia nei primi cinquantacinque anni del-l’unità, e al quale spettò il terribile travaglio di una deli-berazione grandemente perplessa pei due opposti consi-gli che vi si dibattevano, nessuno del due esente da gra-vi obiezioni, dei quali l’uno importava guerra di vita edi morte e l’altro la prosecuzione della neutralità e dellapace con malsicuro avvenire; consapevole del rischio alquale verrebbe messo lo stato italiano, che con tante fati-che era stato condotto alla presente saldezza e prosperi-tà; crudele perfino, dopo che lo spettacolo di dieci mesidi guerra aveva spiegato innanzi agli occhi quali dure fa-tiche, quali immani stragi, quali lunghezze di stenti, qua-li distruzioni di ricchezze sarebbe convenuto sostenere alpopolo italiano, e aveva tolto per questa parte ogni con-forto d’illusioni. Più fortunati erano stati, in tal riguar-do, i popoli e i governi che la guerra, al primo momen-to, aveva trascinati nel suo vortice, senza dar luogo a ri-flettere, a ponderare e ad eleggere. E coloro che così de-liberarono non erano giovani ebbri di passioni, tiranneg-giati dall’immaginazione, ignari per inesperienza, corri-vi ai partiti estremi, ma vecchi uomini di governo, il Sa-landra, il Sonnino, l’Orlando, di animo temperato e mi-te, di molta prudenza, usi in lunghi anni di pace a trat-tare affari di pace; sicché, nella situazione in cui si tro-varono, dovettero superare sé stessi, vincere il loro tem-

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peramento, uscire dalle loro consuetudini, e farsi un ani-mo nuovo e adeguato. A paragone di questo sforzo so-pra se stessi prende aspetto di cosa secondaria il grandesforzo, che pure in quei mesi essi eseguirono, con l’indi-rizzare tutta l’amministrazione al fine della guerra, e or-dinare e armare i milioni di combattenti, che bisognavamettere in campo.

Quegli uomini avevano dietro di sé, nei loro concet-ti direttivi e nel metodo che osservarono, il consenso dellargo partito che rappresentavano, e perciò dell’intelli-genza e dell’anima dell’Italia, come si era venuto forman-do con le sue tradizioni e le sue speranze. Unanime eraquesta nell’approvare la dichiarata neutralità, la prepa-razione militare, la vigilanza sul corso degli avvenimenti,le richieste da porre all’Austria e le garanzie per l’avve-nire, e nell’accettare l’eventuale partecipazione alla guer-ra: tutte cose che discendevano dall’idea della patria, daldovere verso la patria, un’idea che non si ombrava di al-cun dubbio, un dovere che era sentito come sacro dallaclasse dirigente italiana. Ma c’erano partiti che non pen-savano e non sentivano allo stesso modo, perché sopra lapatria o contro la patria ponevano altri ideali, quello del-la Chiesa e del suo dominio sulle genti o quello dell’uma-nità proletaria, che avrebbe instaurato, contro le patrie econtro le loro guerre, una pacifica società internazionaledi lavoratori. Nondimeno i cattolici in Italia si comporta-rono, in quella delicata situazione, con molta avvedutez-za, senza smentire la loro professione di fede avversa alleviolenze e allo spargimento di sangue, mantenendo la lo-ro riverenza ai dettami della Chiesa, ma conciliando pra-ticamente quella fede e questa riverenza coi loro dove-ri di cittadini italiani; e, insomma, non solo non istigaro-no ad alcun atto contro la politica del governo, ma anchenelle parole non accentuarono la polemica pacifista. Essicontinuavano nella politica di ravvicinamento e di coo-perazione che lo stato italiano, iniziata nel decennio pre-

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cedente. I socialisti, invece, che, non ostante l’uscita darloro partito di quelli di destra o riformisti, pure non ave-vano spezzato ogni legame coi partiti liberali e non eranotornati rivoluzionarî e rivoltosi e anarchici, e anzi contra-stavano le rivolte e i disordini e si dicevano «evoluzioni-sti», non mostrarono né continuità politica, né, soprat-tutto, saggezza e sagacia; perché si ostinarono a negare laguerra, così quella che si combatteva nel mondo, comel’altra che si preparava nella mente e nella volontà degliItaliani, cioè a negare una realtà che era ben reale e ren-deva irreale e, sotto l’aspetto etico, illecito e riprovevo-le ogni proposito di disarmare l’Italia o di costringerla anon muoversi. Era chiaro che l’astensione dell’Italia dal-la guerra non avrebbe segnato l’instaurazione della pacesocialistica, la quale, anche concesso che fosse un bell’i-deale, avrebbe dovuto aspettare ben altri avvenimenti ecangiamenti per diventare ideale pratico e attuale, e per-ciò morale. In verità, adusati anch’essi a risolvere in pa-ce problemi di pace, a destreggiarsi tra gli spiriti rivolto-si e lo spirito governativo, a far la voce grossa e irosa neicomizi e nelle altre pubbliche manifestazioni, e piccolae placida in privato e nei rapporti con lo stato e le sueamministrazioni, mancarono di quel coraggio, che nonmancò agli uomini del governo, di farsi un animo ade-guato alla nuova situazione; e si ostinarono in no, che eracontro la loro intima coscienza e li metteva male anzitut-to con sé stessi. Neppure al socialismo, a quello effettivoe storico, si tenevano fedeli, essendo cosa storica e di fat-to che i loro perpetui modelli, i socialisti tedeschi, si era-no sempre più negli ultimi tempi congiunti agli intressidella nazione germanica e avevano ora, salvo una piccolaminoranza, accettato e appoggiato la guerra, consideran-dola, come tutto il popolo tedesco, «guerra di santa dife-sa», e, per loro conto, più particolarmente, di difesa con-tro l’autocrazia e la barbarie russa: il che voleva dire cheil socialismo come tale, discioltosi nel campo delle idee,

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si dissolveva non meno in quello dei fatti, e, se un gior-no dovesse risorgere, sarebbe risorto in condizioni nuo-ve e con nuovi concetti e metodi. Praticamente i sociali-sti italiani non posero grandi ostacoli, e neppure detteromolto fastidio al governo; ma, idealmente, si staccaronodal popolo a cui appartenevano, e con ciò si tolsero au-torità sopr’esso nel caso di vittoria, e, in quello di scon-fitta, sperarono (e forse nel loro cuore non la speraro-no) la triste autorità, che è nel potersi avvantaggiare del-le sventure nazionali, rigettandone da sé sofisticamente edemagogicamente la colpa, e accrescere con l’obbrobrioil comune avvilimento. Ciò percepì acutamente quellodei socialisti che era a capo dell’estrema sinistra del par-tito, il Mussolini, che possedeva il fiuto politico e la riso-lutezza scarseggiante negli altri, e però, dopo aver segui-to dapprima la linea dell’assoluta neutralità, e dopo al-cune settimane di titubanze, si determinò senz’altro perla guerra, dette le dimissioni dalla direzione dell’ Avan-ti!, e fondò un suo giornale per propugnare l’interventomilitare dell’Italia. Così i socialisti italiani si condusseroproprio all’opposto dei loro colleghi tedeschi, assumen-do essi la parte antinazionale che assunse colà la mino-ranza rivoluzionaria, e lasciando che in Italia la minoran-za rivoluzionaria assumesse la parte nazionale.

Certo, se coi secessionisti del socialismo si accrebbenel fatto, mercé l’aggiunta di un altro gruppo, il numerodei fautori della guerra, i sentimenti e le intenzioni cheessi carezzavano erano affatto diversi e opposti a quel-li del governo e della classe dirigente, perché non na-scondevano di voler la guerra per la rivoluzione sociale eavevano scritto in fronte al loro giornale la sentenza delBlanqui: «Chi ha ferro, ha pane», e l’altra di Napoleone,che «una rivoluzione è un’idea che ha trovato le baionet-te». Ma, per allora, si accettava il fatto estrinseco e nonsi guardava pel sottile alle intenzioni, e in fondo si pensa-va non senza sagacia che queste sarebbero state elimina-

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te o assai modificate dall’azione stessa alla quale si parte-cipava. Per la stessa ragione, non si guardava troppo al-le manifeste o riposte intenzioni dell’altro e impazientepartito propugnatore di guerra, dei nazionalisti, anch’es-si, nella concordanza del fatto esterno, diversi e contrarîal sentire del partito liberale e, più ancora, di quello de-mocratico. I nazionalisti volevano la guerra per giungereattraverso la guerra al successo e alla gloria militare, all’e-spansione industriale, al soverchiamento del liberalismoe al regime autoritario, per sostituire all’Italia del Risor-gimento un’altra Italia, rigenerata nella moderna pluto-crazia, non impacciata da ideologie e da scrupoli. Eranoperciò indifferenti contro chi e come si dovesse muovereguerra, purché guerra ci fosse, e, nelle prime settimane,essi soli, tra tutti i partiti italiani, si mostrarono propen-si all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germaniae dell’Austria, e si disponevano a promuovere l’irreden-tismo di Nizza e della Corsica, di Malta e dell’italianiz-zante Tunisia. Poi, avvedutisi che di ciò non c’era spe-ranza, cangiarono il loro fronte, e lo diressero verso l’In-tesa e contro gli Imperi centrali. E poiché essi concepi-vano la politica non già solamente specificata ma avulsada ogni concetto etico, la politica con l’ideale della po-litica stessa, o, come si dice, della mèra forza e del me-ro successo, non provarono alcun, ritegno ad adoperaretutti i sentimenti che conducevano alla guerra; da quellidei democratici e mazziniani, che vagheggiavano la giu-stizia internazionale e in virtù di essa erano irredentistie nemici dell’Austria e amici della Francia repubblicana,a quelli dei reazionarî di ogni qualità e dei rivoluzionarîsocialistici; da quelli di coloro che, mercé la guerra, vo-levano garentire la potenza italiana e l’assetto dello statoe della società, a quelli dei bramosi di rivolgimenti e del-le avventure che i rivolgimenti promettono e permetto-no; da quelli dei tedescheggianti, che esaltavano lo «sta-to forte» e lo «stato etico», a quelli degli odiatori dei te-

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deschi, del loro carattere, del loro costume e della lorofilosofia; dal sentimento generale dell’amor di patria aisentimenti particolari dei fabbricanti di armi e munizio-ni. Anche il sensualismo letterario si convertì in interven-tismo, e il D’Annunzio, che era tornato in ispirito al tem-po della guerra libica, ritornò in persona dalla Francia, epronunziò orazioni in comizi e in piazza, e il 5 maggio,nell’inaugurazione del monumento ai Mille a Quarto, lacosiddetta Sagra, che era la lirica che la letteratura ormaiquasi ufficiale in Italia offerse alla guerra. Chi ora rileg-ga quelle pagine sente da sé, direttamente, quale fluidomorale vi scorra per entro. Il decadentismo era assai ra-pace e largamente operante, specialmente tra i giovani;e uno di questi, di bellissimo ingegno e prode soldato,che cadde tra i primi nella guerra, compose allora unoscritto, l’ Esame di coscienza di un letterato, nel quale consomma sincerità confessava quel che egli pensasse dellaguerra e dell’intervento dell’Italia, negando a ciò ogni fi-ne ideale, ogni speranza di maggiore potenza e di eleva-mento etico, e anche di semplice cangiamento, ma con-cludendo che la guerra era da volere, e che egli la vole-va, in obbedienza alla sua «passione», al sentimento chesi era impadronito di lui che, se guerra non ci fosse stata,sarebbe andato perduto, per lui e per gli altri che senti-vano come lui, il «momento unico», il momento che nontorna, quello il cui ricordo riempie gli anni che conver-rà ancora prosaicamente vivere: cioè, riduceva la guer-ra per la patria a cosa poco diversa da un fremito volut-tuoso. Quello scritto, invece di esser guardato qual era,come un documento doloroso, fu letto con compunzio-ne e celebrato monumento di alta religione. Era cotestauna disposizione psichica che, con vario grado e con va-rio miscuglio, si notava dappertutto nel mondo, come al-tri dei sentimenti e dei pensieri che abbiamo descritti; equesta sua generalità, che la dimostra pertinente a unaetà storica e non a un particolare popolo, confermando

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la profondità e gravità della malattia, diminuisce la tacciaparticolare che voglia darsene al popolo italiano, il qua-le; tutto considerato, è ancora uno dei più sani di Euro-pa, dei meno torbidi e morbosi nel sentire, dei più dispo-sti alla chiarezza e semplicità nei concetti. Del resto, frai letterati che preparavano allora la guerra e poi vi parte-ciparono, e fra i poco letterati, e fra quelli che non atti-ravano l’attenzione e rimasero e rimangono ignoti o po-co noti, rilucevano per fortuna altre più limpide fonti diispirazione, familiari, patriottiche, umane.

Anche nella rappresentanza politica e nella maggio-ranza, che si legava allo spirito e alle tradizioni dello sta-to italiano, c’era dissidio; e ardenti e vivacissime furo-no in quei dieci mesi le polemiche tra «interventisti» e«neutralisti», come erano chiamati. Pure quelle polemi-che non toccavano il fondo comune né delle idee né deisentimenti, concordi dall’una e dall’altra parte in, quelche fosse da desiderare per l’Italia, ma soltanto i mezzi,i modi e il tempo di attuare i comuni ideali. I nomi di«interventisti» e «neutralisti» erano malamente scelti (alpari degli altri, detti per ingiuria, di «francofili» e «te-descofili» o «austrofili»), e oscuravano la verità delle co-se, perché neutralisti non ne esistevano, neutralisti di as-soluta neutralità, i soli meritevoli di questo nome, ma icosiddetti neutralisti, erano anch’essi, a lor modo, inter-ventisti. I contrarî alla guerra, fuori di ogni considerazio-ne politica, unicamente per paura della guerra, chiusi nelloro comodo e nel loro egoismo, erano certamente molti(in Italia come altrove), e forse «masse», ma non conta-vano, perché qui si discorre di coloro che politicamentepensavano, parlavano e operavano; come non era da te-ner conto di qualche solitario e stravagante nell’un cam-po o nell’altro. Guardando nel complesso e penetran-do nell’intrinseco, si può dire che si riproducesse, co-me sempre che vengono in deliberazione problemi fon-damentali di indirizzo, il contrasto di Sinistra e Destra,

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di liberalismo democratico e liberalismo puro, di ideolo-gia astratta e ideologia storica, di procedere spiccio e av-ventato e di procedere cauto. I neutralisti erano, se nonin ogni parte, nella presente questione, liberali di Destra,che non prendevano alla leggiera l’alleanza per tanti an-ni mantenuta con gli Imperi centrali, che non prendeva-no alla leggiera la partecipazione dell’Italia a una guer-ra di indeterminabile durata e gravida di sorprese, né lenuove alleanze che, per la via dell’Intesa rafforzando laRussia e promovendo unioni di popoli e federazioni distati nei Balcani e sull’Adriatico, portavano con sé nuo-vi futuri contrasti, non minori di quelli che già c’eranocon l’Austria, e, soprattutto, non si davano a intendereche la guerra che si combatteva fosse una chiara guerradi idee, tra regimi liberali e regimi illiberali, perché la ve-devano, invece, priva o scarsa di motivi ideali e ricca diquelli industriali e commerciali, tutta nutrita d’incompo-ste brame e di morbosa fantasia: una sorta di guerra del«materialismo storico» o dell’«irrazionalismo filosofico».Per queste e simili ragioni, essi non escludevano la guer-ra contro gli Imperi centrali ma chiedevano che l’Italia ladichiarasse solo dopo essersi bene accertata di non poterfare altrimenti. Gli interventisti o liberali-democratici ra-gionavano diversamente, con diversi presupposti di cul-tura e di forma mentale, e si tenevano sicuri che si trat-tasse, in quella guerra, di coronare l’edifizio incomple-to della indipendenza dei popoli e delle libertà interne, eche la giustizia fosse da parte dell’Intesa; e non si può di-re che avessero torto, come non si può dire che l’avesseroi loro oppositori: perché dissidî di questa sorta non sonomateria, nonché di tribunali, neppure di critica scientifi-ca, e hanno questo carattere che entrambe le tesi, appas-sionatamente difese, sono necessarie per l’effetto politi-co, e, come suona il motto, che, se una delle due opposi-zioni non ci fosse, converrebbe inventarla. Più di un co-siddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla tesi

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avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo acca-deva a più di un «interventista»; e, tuttavia, anche quel-li che provavano in sé questa perplessità, si ripigliavanopresto nel pensiero, che ciascuno debba asserire e mante-nere la parte di cui ha preso a far valere le esigenze, e cheil contrasto che ne nasceva, quale che ne fosse la conclu-sione, era perfettamente patriottico, e serviva agli uomi-ni del governo per trarne forza nei negoziati, sia con gliImperi centrali sia con l’Intesa: onde la protesta di «ob-bedienza alle risoluzioni del governo», che si udiva espli-cita e risoluta nelle polemiche dei «neutralisti». Le qualipolemiche avevano spesso accento assai acre e sarcastico,rivolte com’erano contro i democratici massonici, controi nazionalisti e la loro politica di letteraria imitazione ma-chiavellesca, contro gli altri che volevano la guerra perla rivoluzione sociale, e contro le ingerenze di propagan-disti e agenti stranieri, soprattutto francesi, perché, seb-bene le ingerenze dei tedeschi fossero del pari biasime-voli e da respingere, erano fatte assai goffamente e inno-cuamente, laddove le altre si spingevano fino ad arrola-re in Italia legioni per la Francia e a intrighi di ogni sor-ta; e più acri e sarcastiche ancora erano quelle polemi-che, perché le facevano di solito uomini di studî, che maltolleravano le storture logiche, le falsificazioni storichee gli argomenti rettorici, e si davano pensiero dell’avve-nire che simile diseducazione o educazione alla rozzezzamentale avrebbe preparato. Come che sia, la qualità af-fatto patriottica dell’opposizione dei «neutralisti» si mo-strò allorché la guerra fu decisa e dichiarata, quando tut-ti essi smisero le polemiche, si sentirono tutt’uno coi lo-ro concittadini e coi loro stessi oppositori, e aiutarono al-la guerra e partirono anch’essi (questo s’intende) per laguerra, chiamati o volontarî, né più né meno di tutti glialtri. Gli strascichi di malumore, dovuti a rivalità politi-che, a ferito amor proprio e a malignità e calunnie, era-no misere cose di animi miseri nell’una e nell’altra parte.

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Il capo del governo, il Salandra, in questa effettuata con-cordia nazionale, dichiarò che i diversi avvisi e i dibatti-ti erano stati fin allora leciti e legittimi; e non poteva di-re diversamente, perché quelle manifestazioni di pensie-ri e di affetti avevano riprodotto in grande, nell’opinionepubblica, i dissidi e i combattimenti che c’erano stati tragli uomini di governo e nell’animo stesso di ciascuno diloro.

Travagliatissimi, per cozzo violento di sentimenti di-versi e di opposte passioni, furono gli ultimi giorni dellaneutralità italiana; eppure, senza passare attraverso queltravaglio, non si sarebbe venuti a far che la guerra, già de-cisa dagli uomini di govèrno sopra considerazioni e cal-coli politici, prendesse aspetto di necessità e diventasseuno stato d’animo comune e nazionale. A formare que-sto stato d’animo concorsero una sorta di oscura insod-disfazione e di mortificazione al pensiero che tutta la ten-sione d’animo di quei mesi si sarebbe risoluta in nulla, e,mentre i grandi popoli di Europa lottavano e sanguina-vano, gli italiani se ne sarebbero rimasti in disparte; co-me ai tempi della loro divisione e della loro decadenza,durante la guerra dei Trent’anni o quella dei Sette anni,non contribuendo alla nuova storia europea che aveva lo-ro apportato l’indipendenza e l’unità e con ciò impostoobblighi e doveri; la rivolta dell’orgoglio nazionale con-tro gli stolti modi a cui fecero ricorso gli agenti tedeschicol fabbricare, all’ultimo momento, un elenco di conces-sioni austriache, e, prima ancora di comunicarlo al go-verno, spargerlo nel pubblico, quasi che il popolo italia-no fosse così fanciullesco e inferiore da lasciarsi inganna-re da gherminelle e prendere ad allettamenti indecoro-si; il cresciuto ardore degli interventisti e il loro cresciu-to numero, che diffondeva sicurezza di fede nella guerrae nella vittoria; e altri e simili motivi, che furono davve-ro fondamentali e determinanti, come non furono e nonpotevano essere le arti, che si dissero allora adoperate da

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personaggi e gruppi e associazioni, che per varî interessispingevano l’Italia alla guerra: queste arti aiutano, quan-do non guastano, quel che è già spontaneamente in cor-so, ma non lo determinano mai. E, tuttavia, questi stes-si motivi che abbiamo ora definiti, messi l’uno dopo l’al-tro, non bastano a spiegare quella volontà che era sorta,e che, nell’accogliere quelli e altri simili, li oltrepassavatutti, avendo il suo unico motivo in sé stessa, come ope-ra di ispirazione, come parte assegnata allora all’Italia neldramma umano dalla riposta logica della storia o (comesi disse allora più volgarmente) dalla fatalità».

Il guadagno di concordia nazionale, che si effettuò inquei giorni, non si ottenne senza qualche perdita, perchégli interventisti promossero o si unirono a manifestazionidi piazza, nelle quali ebbe parte il D’Annunzio e si pro-nunziarono parole assai brutte, e minacce di morte aglioppositori, e di rivoluzione, se la guerra non fosse statadichiarata; e si dié a vedere il proposito di passar sopraal parlamento o di sforzarne la volontà. Formalmente,questo non accadde, perché il re, come si è detto; dopoaver interrogato gli altri uomini di governo, non accettòle dimissioni del Salandra e lo rimandò innanzi al parla-mento, che, avuta cognizione dei documenti sui negozia-ti corsi tra l’Italia e l’Austria-Ungheria fino al 5 maggio,compreso che ormai un nuovo trattato d’alleanza era sta-to stretto, e confortato dal sentimento formatosi nel pae-se, approvò il disegno di legge che concedeva al governoi pieni poteri in caso di guerra, e, cioè, approvò la guer-ra, che fu dichiarata pel 24 maggio. Pure, rimase l’im-pressione, e le fu dato risalto da taluni, che la volontà delpopolo, o di gruppi di uomini risoluti parlanti in suo no-me, si fosse sovrapposta alla volontà del parlamento, co-me se nell’ordinamento costituzionale il parlamento nonrappresentasse esso soltanto la volontà del popolo; e cheil popolo o quei gruppi di uomini avessero provvedutoall’onore e alla fortuna d’Italia con l’intelligenza e la vo-

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lontà che la sua Camera e il suo Senato non possedeva-no. A questa incrinatura nel rispetto per la legale rap-presentanza nazionale allora si badò poco e da pochi, e ilgran guadagno ottenuto e il turbine della guerra vi pas-sarono sopra e la fecero dimenticare per allora; ma nonpoterono fare che l’accaduto non fosse accaduto.

Con gli spiriti vari che abbiamo descritti, con le for-ze che erano il risultato dei decenni di vita unitaria cheabbiamo narrati, col raccolto fervore di chi ha scelto or-mai, dopo il tormento del dubbio, la via necessaria, l’Ita-lia come Victor Hugo dice della guardia imperiale nellabattaglia di Waterloo – «entra dans la fournaise», si get-tò nell’ardente guerra generale, in un momento avversis-simo alle sue nuove alleate, nel pieno della sconfitta rus-sa; – e narrare come si comportasse in quella fornace difusione e come ne sia uscita, cioè la parte che essa eb-be nella guerra e le sue vicende dopo la guerra, non ap-partiene alla nostra storia, e forse non ancora ad alcunastoria.

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ANNOTAZIONI

Di utile consultazione sono gli Annali d’Italia: Storia de-gli ultimi trent’anni del secolo XIX, narrata da PIETROVIGO (Milano, Treves, 1908-15, voll. sette), e ancheil manuale di F. QUINTAVALLE, Storia dell’unità ita-liana: 1814-1924 (Milano, Hoepli, 1926), pp. 199-595.Più speciale per la parte parlamentare e legislativa: G.ARANGIO RUIZ, Storia costituzionale del regno d’Italia:1848-1898 (Firenze, 1899), e per quella economica, in-dustriale e tecnica, i Cinquanta anni di storia italiana(1860-1910), pubblicazione fatta sotto gli auspicî del go-verno per cura della R. Accademia dei Lincei (Milano,Hoepli, 1911, voll. tre). Un sommario, Mezzo secolo distoria italiana sino alla pace di Losanna di R. DE CESA-RE, è da vedere nella 3ª ediz. (Città di Castello, Lapi,1913: coi ritratti degli uomini principali). Per la storiadelle finanze, A. PLEBANO, Storia della finanza italianadalla costituzione del nuovo regno alla fine del secolo deci-monono (Torino, Roux e Viarengo, 1899-1902, voll. tre).Tra i quadri delle condizioni d’Italia, dovuti a osservato-ri stranieri, i due principali sono: P. D. FISCHER, Italienund die Italieiner am Schlusse des neunzehnten Jabrhun-derts (Berlin, Springer, 1899); e BOLTON KING-OKEY,L’Italia d’oggi, terza edizione italiana con l’aggiunta diun capitolo sull’Italia dopo il 1900 (Bari, Laterza, 1910).Ristretto alla parte economica, E. LÉMONON, L ’Italieéconomique: 1861-1912 (Paris, 1913); e, più recente, V.PORRI, L’evoluzione economica italiana nell’ultimo cin-quantennio (a pp. 72-354 del vol.: I cavalieri del lavoro,Roma, Tip. Camera dei deputati, 1926). Un tentativo distoria dell’intero periodo è quello di G. VOLPE, L’Ita-lia in cammino: l’ultimo cinquantennio (Milano, Treves,1927). Ottimi cenni nel saggio di G. SALVEMINI, L’I-

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talia politica nel secolo XIX (in L’Europa nel secolo XIX,vol. I, Padova, 1925).

I

Pag. 1. Discorso della Corona del 5 dicembre 1870:«Con Roma capitale ho sciolto la promessa e coronatol’impresa che ventitre anni or sono veniva iniziata dal miomagnanimo genitore. L’Italia è libera e una, oramai nondipende che da voi di farla grande e felice». – Pag. 2.Si vedano i discorsi della Corona del 27 novembre ’71e del 23 novembre ’74. – Pag. 2. Per l’ultima impresadel Bixio, G. GUERZONI, La vita di Nino Bixio (Firen-ze, 1875), pp. 417-52. Il De Sanctis, nel necrologio delBixio: «Stimato e rispettato, generale e senatore, questaera onorevole fine di bella vita, un degno ozio a cui sospi-rano molti. Pure ci si sentiva scontento, e non gli parevache l’Italia dovesse esser proprio quella che aveva innan-zi agli occhi. Si svegliò in lui il marino e il genovese. E vi-de subito questa verità, che l’Italia non può sorgere a vi-ta, nuova, se non ripigliando le sue tradizioni e aprendo-si la via ai commerci, che già la resero ricca e potente. Ecome in lui ideare era fare, andò peregrinando in Italia,apostolo di questa idea. E il senatore e il generale diven-ne il capitano di un legno mercantile, e portò in lontanimari la patria bandiera, più glorioso e più allegro là sulponte che sugli stalli del Senato: aveva ritrovato sé stesso.Non mancò a questo apostolo di una nuova Italia la con-sacrazione del martirio. Un giorno, quando nelle indu-strie e nei commerci sarà aperto uno sbocco a tutta quel-la esuberanza di vita di cui oggi sentiamo la presenza ne-gli avventurieri, ne’ cacciatori d’impieghi,. nei sollecita-tori d’affari, in tante carriere mancate o spostate, e ci av-vieremo così alla vera e radicale guarigione della immo-ralità pubblica e privata, gl’italiani chiameranno Bixio il

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Precursore, e ricorderanno come un augurio questa festafunebre di Genova intorno alle sue ceneri» (Nuovi saggicritici2, Napoli, 1879, p. 471). – Pag. 2. M. CASTEL-LI, Carteggio politico (ed. Chiala, Torino, 1890-91), II,568, lettera del 4 ottobre ’73: «Io temo che la nostra Ca-mera sia in pericolo di cadere nell’anemia: il corso for-zoso, le banche, la Banca Nazionale sono le sole questio-ni che possono interessare il paese. La politica, nel sen-so vero della parola, è materia esaurita». Si vedano an-che le cronache politiche del BORGHI nella Nuova An-tologia, gli articoli del DINA nell’Opinione (in CHIALA,Giacomo Dina e l’opera sua nelle vicende del Risorgimen-to italiano, Torino, 1896-1903), e l’articolo di P. VILLA-RI nella Nuova Antologia del ’72 (ristampato in Letteremeridionali2; Torino, 1885, cfr. pp. 147-150). – Pag. 3.Il RICASOLI (lett. del 19 dicembre ’70): «Io dicevo findal 1860: ora si chiude in Italia il tempo delle rivoluzio-ni nel campo politico; dobbiamo cercar in tutti i modi difare sorgere quello della rivoluzione religiosa»; e lett. AlGiorgini (23 gennaio ’63): «Io ho la coscienza che siamoalla vigilia di una grande rivoluzione nel cattolicismo ro-mano a pro del vero cattolicismo; ed io la desidero ar-dentemente e prima di morire vorrei vederla. Mi struggodi porci lo zolfanello, ma non so dove stia il punto più vi-vo all’esplosione. La materia è tutt’altra che combustibi-le; è infingarda e putrida, e da ogni lato è così: così è Ro-ma, così i preti, così sono i secolari, così siamo tutti!» (cit.in GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana, Firenze,1922, pp. 82, 99). Il BORGHI (in Nuova Antologia, lu-glio ’71, p. 715): «Un fato ci tira, un fato che comandaa noi italiani un’opera di valore europeo, anzi mondiale,e che non è lecito di compiere altrove che in Roma... ungrande scopo da raggiungere le cui vie non sono ancoratutte chiare né note... preparando le condizioni in cui unnovissimus rerum ordo sia atto a nascere e a svilupparsi»:cfr. nella stessa rivista, agosto ’71, pp. 968-9. – Pag. 3. Il

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colloquio del Mommsen col Sella è riferito in A. GUIC-CIOLI, Quintino Sella (Rovigo, 1887-88), I, 353. Circa le«missioni», che tutti i popoli si sono attribuite nel corsodel secolo decimonono, non è qui il luogo di entrare inparticolari, ma, come curiosità, giova rammentare quel-la che il liberale GERVINUS (Einleitung in die Geschich-te der neunzehnten Jahrhunderts, Leipzig, 1853) assegna-va alla Germania nella direzione del moto liberale. Con-tro i fantastici paragoni, che aprono la via al giudizio che«l’Italia era riuscita inferiore all’aspettazione», già met-teva in guardia A. Labriola: v. CROCE, Storia della sto-riografia italiana nel secolo decimonono (Bari, 1964), II,134. – Pag. 7. S. SPAVENTA, La politica della Destra(ed. Croce, Bari, 1910), p. 46: «In tre anni che la Sini-stra è arbitra delle sorti dello Stato il suo governo è statoben detto un governo della Destra peggiorato. Essa me-desima lo sente e se ne irrita e ci si consuma». – Pag. 8.Lo SPAVENTA, op. cit., p. 465: l’allargamento del suf-fragio «snatura e falsa l’intento del voto e il principio dacui possiamo ripeterne il diritto», che è di essere «capa-ce d’intendere e di operare il bene altrui». – Pag. 8. LoSPAVENTA, op. cit., p. 40: «La Sinistra adoperò in ciòmolto abilmente: gli scrupoli della Destra non la tratten-nero; o fu più facile e naturale per essa cotanto acqui-sto; e, se essa non ci guadagnò di altezza morale, ci gua-dagnò, certo, di forze numeriche e di aderenti». Quantoa lui ripugnasse di adoperare, anche con proprio vantag-gio politico, metodi di Sinistra, può vedersi in Lettere po-litiche (ed. Castellano, Bari, 1926), pp. 131-2. – Pag. 9.Il «paese reale» fece una curiosa impressione al De Sanc-tis, quando ebbe a osservarlo da vicino: si legga il suoViaggio elettorale del 1874 (Napoli, 1876). – Pag. 9. Ilmotto del Bonghi in P. TURIELLO, Governo e governa-ti in Italia2 (Bologna, 1889), I, 193, e quello del Martini,in P. MARTINI, Due dell’estrema: il Guerrazzi e il Mon-tanelli (Firenze, 1920), p. IX. – Pag. 12. La rivoluzione

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parlamentare del marzo 1876 intitolò allora un suo opu-scolo N. MARSELLI (Torino, 1876). – Pag. 10. Per gliarticoli del De Sanctis nel Diritto, si vedano gli Scritti po-litici di lui (ed. Ferrarelli, Napoli, 1889), pp. 63-200. –Pag. 11. Per gli scrupoli del Lanza rispetto al Cavour, E.CAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza (Tori-no, 1887), I, 249-50; e ivi sul suo abito verso gli amici, p.167. Per lo Spaventa rammento a questo proposito ca-ricature del Fischietto o di altro giornale umoristico tori-nese. – Pag. 11. S. SPAVENTA, Lettere politiche cit., pp.173-74 (lett. del dicembre ’85): «...è come dire che siamodentro a un pantano senza speranza di uscirne». – Pag.12 Si vedano del DE LAVELEYE, Lettres d’Italie (Paris,1880): passim. – Pag. 13. G. GIOLITTI, Memorie dellamia vita (Milano, 1922), I, 36: «la sua popolarità. (dellaSinistra) nel periodo di opposizione, che l’aveva condot-ta al potere, era derivata da una ricetta infallibile: oppor-si alle nuove imposte e chiedere nuove spese». – Pag. 14.La frase del Sella, sul «pericolo immenso», è in una let-tera al Dina del 1877 (v. CHIALA, op. cit., III, 498). Siveda anche la lettera di lui del 22 settembre ’72 al Döl-linger, in cui auspica Italia e Germania alleate nella lot-ta contro la Chiesa di Roma (in GUICCIOLI, op. cit., I,420-22). – Pag. 15. Per il senso originario di «Sinistrastorica» e «Sinistra giovane», v. TURIELLO, op. cit., I,191. Credo che la denominazione «Sinistra storica» nelsenso di oltrepassata e antiquata, fosse foggiata dal DeSanctis. – Pag. 15. Oltre al discorso del Minghetti del1866, si veda quello del De Sanctis del 1º luglio 1864 (ri-stamp. in Critica, XI, 146-55), che enumera e rimpian-ge tutte le occasioni, lasciate sfuggire, di dividersi politi-camente. – Pag. 17. Tra i prefetti che nel ’76 dettero ledimissioni per seguire le sorti del loro partito furono ilMordini, prefetto di Napoli, il Gedda di Roma, il Gerradi Palermo, il Torre di Milano, il Capitelli di Bologna. –Pag. 17. Si veda come esempio di quelle persecuzioni il

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comportamento del Nicotera verso lo Spaventa, costret-to a dar le dimissioni dal posto di consigliere di stato,al quale, qualche anno dipoi, fu richiamato dallo Zanar-delli (in SPAVENTA, Lettere politiche cit., pp. 139-162).Dall’altra parte, si veda come il De Sanctis, che fu deiprimi a favorire il movimento di Sinistra nell’Italia me-ridionale, si mettesse contro tutti i suoi amici, compagnid’esilio e discepoli, che cominciarono dal negargli capa-cità e serietà politiche e finirono con contestargli anchequelle letterarie: cfr. Ricerche e documenti desanctisiani,ed. Croce, puntate VII-IX, passim. – Pag. 17. Al pri-mo accenno di un nuovo partito da costituire, di conci-liazione, il Lanza (lett. del 29 gennaio ’78) rimbeccavail Dina: «Non si potrebbe cadere più basso nello scet-ticismo» (CHIALA, op. cit., III, 514-15). – Pag. 17. IlGiolitti, che era presso il Sella nel tempo del ministerodi lui col Lanza, mi raccontava degli sfoghi di malumoredel Sella, quando tornava dai consigli di ministri, a cau-sa dei contrasti coi colleghi, specie nella questione di Ro-ma. – Pag. 18. Ancora nel ’94 il BONFADINI scriveva:«Quel fenomeno di trasformazione, che nella scarna sto-ria politica del tempo non riuscì nemmeno a trovare unnome di decente italianità: intendo accennare al trasfor-mismo» (in Nuova Antologia, 15 febbraio ’94, p. 634).– Pagg. 19-20. L’analogia fra teoria dei partiti politici re-golari e teoria dei generi letterari fu già notata da me inuno scritto del 1912: vedilo in Cultura e vita morale (Bari,1955), pp. 191-98. Del resto, il Sella, fin dal 1866, e diver-samente dal Minghetti, vedeva le cose più realisticamente,ed era scettico circa i due partiti: cfr. GUICCIOLI, op. cit.,I, 143-44. D. PANTALONI, nel 1884, se ne faceva bef-fe, criticando molto esattamente quella dottrina come «unrêve des anglomanes, emprunté aux circonstances où s’esttrouvée l’Angleterre: c’est un expédient transitoire, ce n’e-st pas une solution. Cette doctrine... est fausse en histoi-re, erronée en sciences et, en tout cas, impossible de nos

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jours. Ce n’est pas dans une période de libre examen et detransformation universelle, quand les questions ont tantd’aspects différents, que vous pouvez espérer embrigaderles opinions dans deux armées strictement disciplinées etse combattant toujours sans s’anéantir jamais, comme lesRomains et les Carthaginois au théâtre»: v. in DE LAVE-LEYE, Nouvelles lettres d’Italie (Paris, 1884), pp. 105-6.– Pag. 21. Il CORRENTI, lettera al Crispi, del 1887, perla morte del Depretis (in CRISPI, Carteggi politici inedi-ti, Roma, s. a. ma 1912, pp. 419-21): «non fece gran-di cose, ma la linea della sua politica era giusta: concor-dia all’interno, alleanza coi forti all’estero, pace coi pa-cifici, tolleranza cogli irrequieti, monarchia liberale, de-mocrazia ordinata e calma, neutralità colla Chiesa neu-trale, mostrare i denti senza mordere: ecco il programmadi ieri, d’oggi e forse di domani». Sul Depretis, notiziein L. BREGANZE, Agostino Depretis e i suoi tempi, ricor-di storico-biografici (Verona-Padova, Drucker, 1894). –Pag. 22. Circa l’autogoverno all’inglese o all’americanada introdurre in Italia, si vedano gli Scritti politici di A.MARIO (ed. Carducci, Bologna, 1901), e il TURIELLO,op. cit., passim, dove è anche l’esortazione a rendere piùdura e guerriera l’Italia. La parola sul «bagno di sangue»fu ripetuta allora dal giornalista e deputato R. de Zerbi,ma già era stata detta nel ’66 dal Crispi: v. V. RICCIO,F. Crispi (Torino, 1887), p. 49.

II

Pag. 26. Contro l’abito degl’italiani di attribuire tuttoquel che era accaduto a dono della fortuna, protestavagià nel ’72 D. PANTALONI (nella Nuova Antologia, no-vembre, p. 572): «Curiosa schiatta che è la nostra italia-na! Proclive ognora agli odî partigiani ed alle meschinegelosie, incomportabile le riesce di sentire l’elogio d’u-

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no de’ suoi e preferisce perfino calunniare sé stessa piùpresto che confessare la virtù di molti dei suoi figliuo-li. lo stimo che non vi ebbe mai un postulato più er-roneo di questo: né conosco nella storia intiera una in-trapresa condotta ad un tempo con maggiore sapienza,con eguale prestanza, con superiore virtù; e, se una co-sa può con sicurezza affermarsi, gli è anzi che la fortu-na non si mostrasse eguale al coraggio, al patriottismo, alvalore degl’italiani». Modestamente il Lanza, discorren-do della politica sua e dei suoi colleghi di ministero, chenel ’70 condusse a Roma: «Ammetto che non vi fu ungran merito e la fortuna principale ci venne dallo stessoerrore del disarmo» (in CAVALLINI, op. cit., II, 181). –Pag. 27. A Siena, il 16 aprile ’63, il re Vittorio Emanue-le avrebbe risposto al sindaco, che gli parlava di Veneziae di Roma: «Mi crederei indegno del nome d’italiano senon compissi l’opera intrapresa. Credo prossima la de-finitiva soluzione delle gravi questioni che ci preoccupa-no adesso: ho fiducia nella stella d’Italia e nella coope-razione degl’italiani. I destini d’Italia sono oramai assi-curati» (in COMANDINO, L’Italia nei cento anni del se-colo XIX, giorno per giorno illustrata, IV, 387). Del re-sto, è nota la sua lettera al Ponza di San Martino del 15giugno ’61 (in occasione della morte del Cavour): «Stiasempre saldo nella fede come sono io: l’avvenire è no-stro». Per la storia di quell’immagine è da tenere presen-te l’opera in più volumi di PIETRO CORELLI, La Stellad’Italia o nove secoli di casa Savoia (Milano, Ripamonti,1860-63 ), nella cui pref. è detto: «Fui tra i primi a con-durre una lunga opera per mostrare a voi tutti che daipiedi delle Alpi sarebbesi avuta la Stella che illumina orail nostro tempo». V. anche sulla stella d’Italia e re Vit-torio Emanuele, L. FORTIS, Conversazioni, II (Milano,1879), pp. 500-501. – Pag. 28. Il Cavour al Minghetti,nel ’59: «Il pericolo sta nel lasciarsi sopraffare dalle agi-tazioni rivoluzionarie. Guai a voi se ciò avviene: l’Euro-

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pa non vi avrà più nessun riguardo». Discorso della Co-rona del 18 febbraio ’61 per l’apertura del primo parla-mento italiano: «L’opinione delle genti civili ci è propi-zia, ci sono propizi gli equi e liberali principî che vannoprevalendo ne’ consigli d’Europa. L’Italia diventerà peressa una guarentigia d’ordine e di pace, e ritornerà effi-cace strumento della civiltà universale... Questi fatti han-no ispirato alla nazione una grande confidenza nei pro-pri destini». — Pag. 30. Anche l’Opinione del 2 gennaio’71 sperava che, alla venuta del re in Roma, il Papa, «perimpulso del suo animo essenzialmente buono e per torsida una posizione insostenibile, avrebbe scelto questa cir-costanza per farla finita». – Pag. 30. L’Opinione (4 mar-zo ’71), dopo l’approvazione della legge delle guarenti-gie: «Quando il papa fu più libero d’adesso? Le contu-melie che scaglia contro l’Italia e che l’Italia in omaggioalla libertà gli lascia dire, non ne sono una prova?». S.SPAVENTA, La politica della Destra cit., pp. 195-6: «Undiplomatico straniero, accreditato presso il re d’Italia ne-gli anni 1872 e ’73, appartenente nel suo paese a un par-tito politico assai tenero del potere temporale, mi dicevaun giorno, a proposito di quei discorsi di Pio IX: – Comevoi siete fortunati! Questo vecchio, che ogni settimanavi butta in faccia le sue più veementi ingiurie, che hannoeco in tutta l’Europa, fa più bene all’Italia nell’opinionedi questa, che non tutta l’onestà e la moderazione dellavostra politica verso il Papato! Quei suoi discorsi prova-no che il papa è rimasto l’uomo più libero e indipenden-te della terra; di che l’Europa poteva dubitare prima chevoi gli toglieste il potere temporale, e non può dubitarepiù ora». «Una volta, qualche anno addietro, se la posi-zione del papa fu oggetto di comunicazione diplomatica,lo fu in quanto era parso che la libertà e irresponsabilità,che egli godeva, fosse soverchia». [Per tutto questo epi-sodio delle rimostranze e pretese del Bismarck, e per ilcontegno dignitoso e abile degli uomini di stato italiani,

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v. ora VON BÜLOW, Denkwürdigkeiten, IV, 329-31.] –Pag. 32. Il Lanza al Dina (8 decembre ’74): che non fosseda imitare l’atteggiamento del Bismarck verso la Santa Se-de, e non convenisse rispondere alle provocazioni del Va-ticano e far leggi per «disciplinare il clero»: «noi né abbia-mo la potenza di Bismarck, né siamo la Germania. Unalotta religiosa in Italia sarebbe assai pericolosa. Ritieni pu-re che le masse non sarebbero per noi. D’altronde, perchésuscitarla? quale serio e grave imbarazzo ci hanno suscita-to le proteste e le invettive clericali? Sarebbe proprio vo-lersi mettere fra le ortiche per avere il piacere di grattarsi»(CHIALA, op. cit., III, 424-5). – Pag. 33. Vittorio Ema-nuele diceva nel luglio del ’71 di non temere della Fran-cia per la questione di Roma, né del Thiers, del quale rac-contava in qual modo solesse celiare degli ufficiali france-si in. Roma; e giudicava un «bel colpo» a favore dell’Italiail proclama di Enrico V: verso la Francia, bastava rispetta-re «certe convenienze teatrali» (CASTELLI, Carteggio, II,511). – Pag. 33. Lettera del Vimercati da Parigi, 6 maggio’73, nella quale riferiva che l’ex-imperatore Napoleone da-va piena ragione all’atteggiamento mantenuto dall’Italia,ammettendo gli errori della propria politica; ma soggiun-geva: «che l’Italia rimanesse neutrale si comprende, mache aderisse e proponesse la lega dei neutri, non si spie-ga: essa doveva starsene all’infuori, rammentando il pas-sato» (CASTELLI, Carteggio, II, 536-7). Sul proposito, siveda J. KLATZKO, Deux chanceliers (3ª ed., Paris, 1877),p. 374: «Aussitôt après les premiers désastres français, il(Gortchakoff) saisit avec empressement l’idée ingénieuse-ment perfide de la ligue des neutres, idée italienne d’origi-ne, naturalisée anglaise par le comte Granville et devenuebientôt, entre les mains du chancelier russe, ainsi qu’on l’atrès-finement remarqué, le moyen pour organiser l’impuis-sance en Europe». – Pag. 33. Sulla reputazione che gode-va allora l’Italia, MARSELLI, La politica dello stato italia-no (Napoli, 1882), p. 23. La lettera del Cadorna, da Lon-

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dra, 24 maggio ’72, è nel CASTELLI, Carteggio, II, 523-4;le parole del Massari nella commemorazione di lui, scrit-ta dallo Spaventa (in Politica della Destra cit., p. 165). –Pag. 35. La parola di Vittorio Emmanuele in una letteradel Castelli a N. Bianchi ( Carteggio cit., III, 425). – Pag.35. Sulla tranquillità politica dell’Italia a paragone deglialtri stati di Europa, il BORGHI (in Nuova Antologia, feb-braio ’74, pp. 513-4 ): «L ’Italia, nella sua presente con-dizione, lascia sperare e credere che non ci debba, non cipossa essere modo né ragione che essa si turbi mai. Tan-to e così tranquillo ed assennato vi continua lo spirito delpaese: tanta è la sua alienazione da ogni eccesso di pensie-ro o di atto. Non mai miglior pasta si è trovata alle manidi un governo...». – Pag. 35. Per il «federalismo» si veda,quantunque insufficiente, il saggio di A. MONTI, L’ideafederalistica nel risorgimento italiano (Bari, 1922). – Pag.35. La tradizione unitaria del repubblicanesimo in Italia èriaffermata dal Crispi nel discorso del 25 gennaio ’75 (Di-scorsi parlamentari, II, 208). – Pag. 35. Le parole del Cri-spi sulla «Monarchia che ci ha uniti e la Repubblica che cidividerebbe» sono nel suo discorso alla Camera del 18 no-vembre ’64. – Pag. 36. La immagine del «ponte» è del’74 è di Alberto Mario, che così la spiegava e confermavadue anni dopo: «Difatti con la Sinistra si va alla repubbli-ca e con la Destra vi si precipitava. E il capo dello stato,trovatosi alle strette fra ponte e precipizio, scelse il ponte»(Scritti politici cit., p. 155). – Pag. 36. Il Nicotera, nel ’79:«Noi siamo stati repubblicani un tempo, quando esser ta-li era un dovere: eravamo allora una minoranza, ed il peri-colo era grandissimo, perché ogni piccolo tentativo repub-blicano in quei tempi si pagava colla testa. Ma adesso, gra-zie alla magnanimità del nostro re, non costa la testa nean-che l’attentato alla vita del principe». – Pag. 37. Su questiprimordî del socialismo in Italia e sulla persona del Baku-nin, R. MICHELS, Storia critica del movimento socialistaitaliano, (Firenze, 1927); N. ROSSELLI, Mazzini e Baku-

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nin (Torino, 1927); e anche l’arguto romanzo storico di R.BACCELLI, Il diavolo al Pontelungo (Milano, 1927). IlMazzini aveva giudicato il Marx come tale che avesse «piùelemento d’ira, se anche giusta, che d’amore in cuore». –Pag. 37. Sull’episodio del Lazzaretti, G. BARZELLOTTI,David Lazzaretti di Arcidosso, i suoi seguaci e la sua leg-genda (Bologna, 1885). – Pag. 38. L’osservazione circa ilcarattere non rivoluzionario della capitale d’Italia, nel DELAVELEYE cit., p. 380. – Pag. 38. Si veda il mio scritto:L’epopea italiana della casa di Savoia e G. Carducci: orain Conversazioni critiche, III2, 342-48). – Pag. 39 Sul reVittorio Emmanuele II è sempre da leggere G. MASSARI,La vita ed il regno di Vittorio Emmanuele II di Savoia pri-mo re d’Italia (3ª ed., Milano, 1879). – Pag. 39. Sul rifiu-to di lui di recarsi a incontrare il Thiers GUICCIOLI, Q,Sella, I, 360-1; sulla sua riluttanza al viaggio di Berlino,CASTELLI, Carteggio, II, 564, 566. – Pag. 40. Sulla mu-tazione del numero si vedano censure del Dina (CHIA-LA, op. cit., III, 504-6). V. IMBRIANI, Ode alla Regina(1878): «Primo e non quarto Umberto intitolandosi, Pa-terni esempî scarta e dinastiche Tradizioni...». Pag. 40.Sulla rigida osservanza di re Umberto dei principi e dellenorme del governo costituzionale e parlamentare, anchecon duri sacrificî personali, v. D. ZANICHELLI, Il ca-rattere costituzionale del regno di Umberto I (nella NuovaAntologia, 1º settembre 1900). – Pag. 43. Le parole rife-rite sono del DINA (op. cit., III, 383). – Pag. 44 Il giudi-zio che la nazione italiana «hat sich innerhalb eines Jahr-zehnts Lasten aufgebürdet wie sie kaum jemals von ei-nem Volke übernommen sind, aber sie hat ihr Zweck er-reicht», è del FISCHER, Italien und Italiener cit., p. 182.- Pag. 45. Sul Magliani e la sua finanza, GIOLITTI, Me-morie cit., I, 38-45. – Pag. 46. Il vecchio generale napo-letano G. Mauri Mori ha scritto testé, ricordando que-gli anni: «Noi giovinetti, nel 1861-62 usciti dal Collegiomilitare della Nunziatella, noi giovinetti appartenenti a

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famiglie militari devote al Borbone, dopo di aver rice-vuto un secondo battesimo negli istituti militari, potem-mo constatare de visu quanto era diverso l’indirizzo e lasostanza della disciplina dei due eserciti, quanto diver-so e serio lo spirito pubblico nel settentrione d’Italia, po-temmo valutare quanto era più facile obbedire, quantoera più facile comandare» (Il generale Pianell nei ricordidi un ufficiale del suo stato maggiore, ms.). – Pag. 46 esgg. Per quel che riguarda i dati statistici e altre notizieeconomiche e amministrative relative a questo periodo,si veda principalmente l’op. cit.: Cinquanta anni di vi-ta italiana. Per l’inchiesta agraria, oltre la ristampa dellarelazione del JACINI ( L’inchiesta agraria, proemio, rela-zione finale, conclusioni ecc., Piacenza, 1926), la mono-grafia del nipote S. JACINI, Un conservatore rurale dellanuova Italia (Bari, 1926). – Pag. 48. Dell’opuscolo del-lo HAYMERLE, colonnello nell’esercito austriaco, Itali-cae res, si ha una trad. ital. con note (Firenze, tip. dellaGazzetta d’Italia, 1880): intorno all’opera educativa del-l’esercito italiano, v. p. 94, per un caldo elogio degli uffi-ciali italiani, pp. 96-7. – Pag. 54. Per l’opera del Luzzat-ti, G. ALESSIO, Commemorazione di Luigi Luzzatti (Ve-rona, 1928: estr. dagli Atti del R. Istituto veneto). – Pag.56. La parola «sventramento» risale al Depretis, che, vi-sitando gli aggrovigliati quartieri poveri di Napoli insie-me col re durante l’epidemia colerica dell’84, disse: «Bi-sogna sventrare Napoli». Si veda MATILDE SERAO, Ilventre di Napoli (Milano, 1885). – Pag. 56. GLADSTO-NE, Italy in 1888-89, in The nineteenth Century, n. 147,maggio 1889. Anche Enrico Treitschke nel 1877, dopoun viaggio in Italia, scriveva: «Questa geniale nazione, daquando ha raggiunto la sua unità, ha dimostrato in tuttii campi della vita una confortevole capacità di sviluppo.Come si è splendidamente sviluppata Milano negli ultimidieci anni, e solo con proprî mezzi!...». (CORNICELIUS,

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ENRICO TREITSCHKE E L’ITALIA, in Nuova Antologia,1° settembre ’21, p. 20 dell’estr.).

III

Pag. 59. Pel giornalismo di quel tempo, si vedano noti-zie nel BERNARDINI, Guida della stampa periodica italia-na (Lecce, 1890); un ragguaglio della stampa italiana in-torno al 1867 è in E. CHIARADIA, Studî critici e biblio-grafici (Napoli, 1868), pp. 268-85. – Pag. 60. Pei salot-ti politici, molte notizie nel DE LEVELEYE, Lettres cit.Per quello dei Peruzzi, E. DE AMICIS, Un salotto fio-rentino del secolo scorso (Firenze, 1902). Si veda ancheP. VASILI, La société de Rome (Paris, 1887). – Pag. 61.Il giudizio sui napoletani è del TURIELLO, op. cit., I,274. – Pag. 62. L’osservazione circa i militari e il teatroè in C. AIRAGHI, Scritti varî (Città di Castello, 1901), p.124. – Pag. 61. Sui varî tentativi religiosi di allora, ab-bondanti ragguagli in A. DELLA TORRE, Il cristianesimoin Italia dai filosofisti ai modernisti, appendice alla trad.ital. dell’Orpheus del Reinach (Palermo, 1912), p. 653sgg. Pel Lanza, una sua lettera del 1878, in CAVALLI-NI, op. cit., II, 472-3. – Pag. 63. Per la fortuna che ebbela formula del Cavour nel neocattolicesimo tedesco, è daricordare la monografia del KRAUS sul Cavour (Mainz,1902). Per le questioni giurisdizionali di quel tempo, v.M. FALCO, La politica ecclesiastica della Destra (Torino,1914). – Pag. 64. La formula: «Non eletti né elettori» fuconiata da don Margotti, direttore dell’Unità cattolica, eapprovata da Pio IX. – Pag. 65. Per le parole del princi-pe Umberto, v. i Diari romani del GREGOROVIUS (trad.ital., Milano, 1895, p. 527), sotto il 21 gennaio ’74. –Pag. 66. Sulla questione del divorzio, A. SALANDRA, Ildivorzio in Italia (Roma, 1882), e anche l’altro vol. Poli-tica e legislazione (Bari, 1915). – Pag. 66. Il discorso del-

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lo Spaventa, Il potere temporale e l’Italia nuova (1886), inPolitica della Destra, pp. 181-202. – Pag. 66. Il DE LE-VELEYE (Lettres cit., p. 367): «Il n’est qu’une seule solu-tion définitive, c’est que les Italiens abandonnent un cul-te qui a pour but avoué de leur enlever non seulementleurs libertés mais même leur nationalité». – Pag. 68.Sulla teoria politica del Crispi v., tra l’altro, Discorsi par-lamentari, II, 315. – Pag. 70. Il Bertani e il Mario fin dal’74 studiavano «i mezzi più acconci perché il partito de-mocratico non avesse nulla di comune con l’Internazio-nale» J. WHITE MARIO, Agostino Bertani e i suoi tempi,Firenze, 1888, II, 361). – Pag. 70. Le parole dello Spa-venta, nella commemorazione di G. Lanza in Politica del-la Destra cit., p. 125. – Pag. 71. Il CASTELLI (lett. del 13giugno ’71): «Ora per me non ci penso. Prima che si fac-cia la famosa replica del dramma, sarò fuori d’ogni poli-tica di questo mondo; ma per quei che sono ancora gio-vani, non hanno da metterlo nel dimenticatoio» (Carteg-gio cit., II, 505). Il PANTALONI (art. cit., p. 581): «Pos-siamo noi affermare che l’Italia solida e ferma resisterà alsoffiare di quel turbine tremendo, il quale, scotendo l’e-difizio sociale, la civiltà d’Europa minaccia?». – Pag. 72.Si veda del Crispi, tra gli altri, il discorso del 25 genna-io ’75 ( Disc. parlam., II, 208). – Pag. 72. Del Minghet-ti, v. il discorso elettorale tenuto a Legnago nel 1882; eLa Legislazione sociale, conferenza (Milano, 1882); di P.VILLARI, Lettere meridionali e altri scritti sulla questio-ne sociale (2ª ed., Torino, 1885). – Pag. 73. S. SPAVEN-TA, nel disc. cit. sul Potere temporale, l. c., p. 201. –Pag. 73. Del Ferrara si veda: Il germanesimo economi-co in Italia (nella Nuova Antologia, aprile ’74), a propo-sito di libri del Cusumano, del Lampertico, del Tonioloe di altri. Il Cusumano pubblicò Le scuole economiche inGermania in rapporto alla questione sociale (Napoli, Mar-ghieri, 1875). – Pag. 73. L. FIANCHETTI, Sulle condi-zioni economiche e amministrative delle provincie napo-

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letane (Firenze, 1875), con lo studio del Sonnino sullaMezzeria in Toscana; FRANCHETTI-SONNINO, La Sici-lia nel 1876 (Firenze, 1876). – Pag. 73. Di G. FORTU-NATO, particolarmente gli scritti raccolti nei due voll. IlMezzogiorno e lo Stato italiano (Bari, 1911 ). – Pag. 74.Dello stesso tempo, oltre gli scritti del Villari (v. anche,nella Nuova Antologia, dicembre ’90, quello: Nuovi tor-menti e nuovi tormentati), è il libro del FUCINI, Napoli aocchio nudo (Firenze, 1877), con appendice della WhiteMario. – Pag. 76. Contro l’abolizione della pena di mor-te, P. TURIELLO, op. cit., I, 246-66, che di essa e delgenerale mitigamento delle pene dava la colpa ai giure-consulti napoletani, dal Pisanelli al Mancini. – Pag. 76.Il presidente della Repubblica francese telegrafò in quel-l’occasione: «La sconfinata, sublime, eroica magnanimi-tà della M. V. suscita in tutto il mondo civile ammirazio-ne ed entusiasmo». – Pag. 76. Un tedesco scrisse sull’o-pera pietosa di re Umberto nel colèra di Napoli un poe-metto in venti canti: König Humbert in Neapel, Ein Ge-dicht von ADOLF BRIEGER (Leipzig, Reissner, 1885). –Pag. 77. È del 1878 l’ode Alla regina d’Italia del Car-ducci, che fermò l’immagine di allora della regina Mar-gherita: si veda anche l’altra ode del 1889, Il liuto e la li-ra. – Pag. 78. L’articolo contro i festeggiamenti è del Di-na, nell’Opinione del 23 agosto ’71. – Pag. 82. Pel Sellae l’alpinismo, si veda GUICCIOLI, op. cit.; e per la gin-nastica, il discorso del De Sanctis del 17 giugno ’78 (ri-st. in Critica, XI, 405-10). – Pag. 83. Si veda, per l’Italiameridionale, A. ANZILLOTTI, Neoguelfi ed autonomistia Napoli dopo il ’60 (in Nuova rivista storica, IV, 1920,pp. 162-78). – Pag. 83. È caratteristico il caso dell’e-splosione di affetti regionali in un uomo come Luigi Set-tembrini, condannato a morte sotto re Ferdinando II diBorbone e rimasto dieci anni nell’ergastolo per aver datomano alla setta dell’Unità italiana. Si vedano in propo-sito i suoi Scritti vari (Napoli, 1879-80). Era tanto il suo

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spasimo per le distruzioni di istituti e costumi napoleta-ni e per l’uniformità promossa dal governo, che una vol-ta, ai suoi scolari che si dolevano di certi regolamenti, ri-spose crucciato: – Colpa di Ferdinando II! – Professore,come c’entra Ferdinando II? – Se avesse fatto impiccareme egli altri come me, non si sarebbe venuto a questo! –Per un altro caso di tenace rimpianto delle istituzioni na-poletane, v. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia3,II, 365-92. – Pag. 83. P. ABIGNENTE, nel suo discor-so alla Camera del 9 giugno ’75: «Avevamo delle gran-di città alla testa delle provincie, avevamo codici rispet-tati e ammirati in Europa, avevamo un’amministrazioneche, tranne tutto quello che vi poteva essere in servigiodel dispotismo, era modello di amministrazione, ed eraveramente l’aquila in confronto dell’amministrazione at-tuale: gli affari si disbrigavano subito, ecc. ecc.». – Pag.83. P. CRISPI, discorso del 25 gennaio ’75: «L’opposi-zione, anche partendo dal Mezzogiorno, è tutta naziona-le... Che cosa vuole il Mezzogiorno? Vuole la libertà, ela vuole per sé, la vuole per tutti, ecc.» (Disc. parlam.,II, 204). – Pag. 83. C’erano, nell’Italia settentrionale,di quelli che, riattaccandosi a giudizî del D’Azeglio, sti-mavano che per l’Italia fosse stato un danno la prematu-ra unione col Regno delle due Sicilie: v. tra essi G. NE-GRI, Segni dei tempi (Milano, 1903), p. 225 sgg. Eranodi coloro che sogliono pensare l’errata-corrige alla storia.Il motivo ricomparve talvolta nelle polemiche dei socia-listi lombardi. Del resto, sul proposito v. CROCE, Sto-ria del regno di Napoli. (Bari, 1965), p. 277 sgg. – Pag.84. Su questo significato nazionale e unitario della lette-ratura dialettale riflessa o d’arte, si veda un mio saggio inUomini e cose della vecchia Italia3, I, 222-235. – Pag, 85.Sull’aristocrazia italiana a quel tempo, CARPI, L’Italia vi-vente (Milano, 1878), p. 55 sgg. – Pag. 86. Su cotestapseudoaristocrazia, M. SCOT (B. Ruspoli), Filosofia del-lo Snob (Roma, Garzoni, 1913). – Pag. 87. Per gli Ulti-

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mi borbonici di Napoli, v. il mio saggio in Uomini e cosecit., II, 393-415. – Pag. 89. Per un aneddoto caratteristi-co circa l’effettiva partecipazione dei preti alle lotte elet-torali, GIOLITTI, Memorie, I, 41-2. – Pag. 89. È da leg-gere il ritratto che di Pio IX, nell’occasione della morte,delineò il De Sanctis (in Scritti politici cit., pp. 189-200).– Pag. 91. Sulla buona amministrazione dei comuni tra il’60 e il ’70, TURIELLO, op. cit., II, 230. – Pag. 92. Il giu-dizio sul Depretis è del BONFADINI (in Nuova Antolo-gia, 15 febbraio ’94, p. 634). – Pag. 93. Pel giudizio del-lo Spaventa, v. Politica della Destra, p. 49; Lettere politi-che, p. 174. – Pag. 93. Per lo Sbarbaro, CROCE, Lettera-tura della nuova Italia, III, 381-387. Pel Coccapieller, C.LOMBROSO, Due tribuni (Roma, 1883), dove è da nota-re, come manifestazione di pessimismo politico, la prefa-zione del Lombroso. – Pag. 93. Oltre il TURIELLO, op.cit., A. CANTALUPI, Politica in Italia, appunti (Torino,1880); G. MOSCA, Sulla teoria dei governi e sul governoparlamentare, studî storici e sociali (Palermo, 1884); P.SILIPRANDI, Capitoli teorico-pratici di politica sperimen-tale in considerazione dei mali d’Italia e della necessità diriformare lo stato (Mantova, 1898, tre voll.). – Pag. 93.Sull’ammirazione del Sella per la Germania, GUICCIO-LI, op. cit.; del Minghetti, lettera del 12 agosto ’73 (inCASTELLI, Carteggio, II, 528); del Bonghi, in Nuova An-tologia, febbraio ’73, p. 502. Si veda anche il mio sag-gio: Cultura germanica in Italia nell’età del Risorgimen-to (in Uomini e cose della vecchia Italia3. II, 254-266). –Pag. 94. Il caso singolare di un italiano, che credeva e vi-veva in sé stesso la teoria germanistica della razza, quel-lo del Montefredini, è stato illustrato da me in Lettera-tura della nuova Italia, III, 368-80. «Con quanto deside-rio – egli scriveva – da questa morta gora guardo al nord,ove si agita tanto progresso, tanta forza di pensiero e diopere! ...Non già la nostra politica tortuosa, le nostre as-sociazioni tutte personali, ma i problemi più ardui del-

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la società attuale. Come abbonda altrove la vita! ...». Siveda anche la lettera del De Sanctis allo Zola, 16 agosto’79 (edita da me in DE SANCTIS, Scritti varî ined. o ra-ri, II, 60): «Non solamente la critica è morta in Francia,ma, ahimè, molte altre grandi cose sono morte in Fran-cia e presso tutta la razza latina: massime il sentimen-to del dovere e della legge, la serietà e la semplicità del-la vita. Noi stiamo per morire nella rettorica e nell’en-fasi, la peggiore di tutte le morti per una razza in deca-denza...». – Pag. 95. J. WHITE MARIO, prefazione al li-bro cit. sul Bertani (1888). – Pag. 6. La indipendenzapolitica dei deputati dagli elettori è notata, per quel cheriguarda l’Italia meridionale, dal TURIELLO, op. cit., I,195. – Pag. 97. Il Berti (riferiva il DE LAVELEYE, Let-tres cit., pp. 243-244) «craint que sont parti ne soit me-nacé dans l’avenir d’être écrasé entre le radicaiisme et lecléricalisme. Le libéralisme conservateur est un juste mi-lieu, qui sera entamé à droite et à gauche par les deux ex-trêmes. La lutte des partis s’aigrissant sans cesse, ne lais-se pas de place pour les nuances intermédiaires. Quandil ne restera en présence que le radicalisme et le clérica-lisme, le choc peut conduire à des violences, à des révo-lutions même... Ce que je redoute, c’est une alternationde révolutions et de réactions, de despotisme et d’anar-chie. Dieu nous préserve du sort du Mexique! Heureu-sement, nous en sommes loin, et ceci n’est qu’un cau-chemar qu’évoque parfois une mauvaise nuit». Il peri-colo della «dittatura» (v. SPAVENTA, op. cit., p. 63), edella «reazione», era sempre presente a quegli uomini. IlDE SANCTIS, nel Diritto, 8 agosto ’77 (Scritti politici, p.91): «Ci vuol poco a esser profeta. L’Italia, se non si ba-da, cammina a gran passo verso il regno dei violenti de-gl’ignoranti, con tutte quelle conseguenze che insegna lastoria; voglio dire con quella reazione della gente onesta,tanto poltrona e dormigliona nella sicurezza, quanto fe-roce e reazionaria nel pericolo. Così saremo dei buoni

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latini, e vivremo nelle convulsioni periodiche». E nel di-scorso alla Camera, del dicembre ’78: «Io negherei l’Ita-lia se potessi temere che venisse un giorno cosi infaustoda poter mettere in pericolo conquiste, le quali rimonta-no a molti secoli, e che hanno i nostri più grandi scrit-tori a fautori: la libertà del pensiero... Io non credo al-la reazione; ma, badiamo, le reazioni non si presentanocon la loro faccia; e, quando la prima volta la reazioneci viene a far visita, non dice: – Io sono la Reazione. –Consultate un po’ tutte le storie; tutte le reazioni sonovenute con questo linguaggio: – che è necessaria la veralibertà, che bisogna ricostituire l’ordine morale, che bi-sogna difendere la monarchia dalle minoranze. – Sonoquesti i luoghi comuni (ormai la storia la sappiamo tut-ti), coi quali si affaccia la reazione». – Pag. 97. Lo SPA-VENTA (op. cit., pp. 29-31) notava che era stata fortunache gli eventi del ’60 fossero guidati dagli uomini stessidel ’48, perché «pare come se le lezioni della storia nongiovino veramente se non agli uomini che ne sono sta-ti protagonisti». – Pag, 97. A proposito di quei trivialidetti sul parlamentarismo e sulle ciarle dei deputati, gio-va ricordare uno scatto del Clemenceau, nel 1880: «Cesdiscussions qui vous étonnent – egli esclamò, – c’est no-tre honneur à nous. Elles prouvent notre ardeur à défen-dre les ideés que nous croyons justes... Oui, gloire auxpays où l’on parle! Honte aux pays où l’on se tait. Si c’e-st le regime de discussion que vous croyez flétrir sous lenom de ’parlamentarisme” sachez-le, c’est le regime re-présentatif c’est la République sur qui vous osez porterla main!». – Pag. 98. M. TORRACA, Politica e mora-le (Napoli, 1878), p. 64: «Legalmente, abbiamo il siste-ma rappresentativo; realmente, domina un’oligarchia. Siha un esempio pratico del come, mediante le istituzionielettive, si possa giungere alla più completa dittatura». –Pag. 98. Qualche esempio, tra gl’innumerevoli. Il MAR-SELLI, ai suoi elettori (1879): «Gravemente preoccupato

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dell’avvenire, ricordo con tristezza i bei tempi del nostroRisorgimento, e chiedo a me stesso se gl’italiani, che eb-bero l’ingegno e la virtù per unificare la patria, abbianole qualità necessarie per farne uno stato prospero e for-te». Il CRISPI, discorso dell 10 marzo ’81: «È un fattoche più noi ci allontaniamo dai giorni della grande rivo-luzione, e più gli animi diventano gelidi e meschini, qua-si antipatriottici» (Disc. parlam., II, 486). – Pag. 99. Sul-la formazione del D’Annunzio, CROCE, Letteratura del-la nuova Italia, IV, 15-42. «Andrea Sperelli», com’è no-to, è l’eroe del romanzo Il piacere (1889), dove si leggonole parole riferite nel testo.

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Pag. 103. Per il motteggio del diplomatico russo, BU-SCH, Mémoires de Bismarck (trad. franc., Paris, 1898-99), II, 149-150: il Blsmarck di suo aggiungeva sarca-smi peggiori. – Pag. 104. Si diceva, infatti, nei pre-liminari che le tre potenze erano animate dal desiderio«d’augmenter les garanties de la paix générale, de forti-fier le principe monarchique et d’assurer par cela-mêmele maintien intact de l’ordre social et politique dans leursétats respectifs». Se ne veda il testo nella raccolta Thesecret treaties of Austria-Hungary, ed. by D. P. Myers eJ.G. D’Arcy Paul, vol. I (Cambridge, 1920), p. 64. – Pag.104. La visita si voleva dal governo austriaco fare restitui-re dall’imperatore a Torino, dicendo che qui era il «ber-ceau» della casa di Savoia: al che l’ambasciatore italianoRobilant avrebbe risposto: «Le berceau, oui, mais pas lelit». – Pag. 105. Di questo sentimento tedesco, in occa-sione della Triplice, si trova ancora qualche accenno nelLAMPRECHT, Deutsche Geschichte, vol. di appendice,II, II, 221 sgg. – Pag. 105. Che la maggiore opposizio-ne all’accoglimento dell’invito inglese facesse il ministro

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delle finanze, Magliani, il quale allora con l’aiuto della fi-nanza francese preparava l’abolizione del corso forzoso,è notizia che ricordo di avere udita da uomini politici diquel tempo. Notizie tratte da documenti serbati nell’ar-chivio Mancini sulle ragioni del rifiuto offre R. DE CE-SARE, Mezzo secolo di storia italiana (3ª ediz., 1913), pp.75-6: dalle quali viene confermato il giudizio dato nel te-sto. – Pag. 106. DE SANCTIS, Storia della letteratura ita-liana, ed. Croce (Bari, 1912), II, 423-4. – Pag. 106. Pa-recchie di tali incisioni sono riprodotte nella citata Italiadel Comandini. – Pag. 108. Discorso del Bismarck al-le delegarioni di Colonia del 24 aprile ’95. – Pag. 108.Il CRISPI, nel suo discorso del 3 febbraio ’79 (Disc. par-lam., II, 344). – Pag. 108. Rassegne politiche del Bonghinella Nuova Antalogia, gennaio ’71, p. 240; dello stesso,Il bismarckismo (ivi, febbraio 71). – Pag. 109. Si veda l’Opinione del febbraio ’71 (CHIALA, G. Dina, III, 788), elettera del Cialdini dell’11 settembre ’70 (in CASTELLI,Carteggio, II, 481). – Pag. 109. Le parole del Sella, nelGUICCIOLI, op. cit., II, 6. Il giudizio del Visconti Veno-sta, nel DE LAVELEYE, Lettres cit., p. 145. – Pag. 110.Conversazioni del Minghetti col De Laveleye, in Nouvel-les lettres d’Italie (1884), pp. 67, 99. – Pag. 111. Il collo-quio di Francesco Giuseppe con Vittorio Emmanuele èin CHIALA, Pagine di storia contemporanea (Dal congres-so di Plombières al congresso di Berlino), p. 266. – Pag.111. Si vedano i due scritti del SALVEMINI, La politicaestera della Destra: 1871-76 (in Rivista d’Italia, 1924-25);e Alla vigilia del Congresso di Berlino (in Nuova rivistastorica, IX, 1925, pp. 72-92: cfr. 274-279). – Pag. 111.Sui documenti pubblicati nel 1922 dal Mmistero degliEsteri tedesco (Die grosse Politik der europäischen Kabi-nette. 1871-1914), espone la situazione e la politica este-ra italiana dal ’71 al ’75 il SALVATORELLI (in Rivistastorica italiana, XL, 1923, pp. 113-129), il quale conclu-de che «già nel 1875 l’Italia si trovava in un isolamen-

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to alquanto pericoloso di fronte alla Francia ed alla Ger-mania», né aveva intese precise coll’Austria-Ungheria; etenderebbe ad accusare l’ultimo ministro della Destra, ilVisconti Venosta, di essersi «addormentato in un dolcedondolamento tra Germania e Francia» (p. 129). – Pag.111. Che l’Italia dovesse dimostrarsi «affatto disinteres-sata» era la tesi del Visconti Venosta (discorso alla Ca-mera del 23 aprile ’77), e così anche che non si doves-se pensare ad annessioni (discorso del 9 aprile ’78). Sul-le ragioni della politica del Corti, e l’approvazione chemeritava, si veda il discorso del Jacini al Senato, 21 gen-naio ’79; e cfr. il libro del JACINI iun., Un conservato-re rurale cit., II, 92 sgg. Si veda anche il parere del Di-na (in CHIALA, G. Dina, III, 557). – Pag. 111. Che l’Ita-lia avesse nella politica europea, e nel congresso di Berli-no, «acted as a conservative and a philanthropic Power»attestava il GLADSTONE, nel cit. art., p. 779. Quan-to alla taccia d’incoerenza, si vedano il discorso del Vi-sconti Venosta del 31 gennaio ’79 e quello del Minghet-ti del 17 marzo ’80: «La peggiore delle soluzioni è quel-la che avete adottata, cioè di accettare di mal grado ciòche non potevate impedire, avvegnache è stato evidenteagli occhi di tutto il mondo il vostro malumore; e la po-litica del malumore è la politica della debolezza senz’al-tro vantaggio». Si veda anche l’opuscolo del MARSEL-LI, Raccogliamoci (Roma, 1878). – Pag. 112. Circa l’of-ferta di occupazione dell’Albania, il Visconti Venosta di-ceva al De Laveleye (Lettres cit., p. 245): «On a préten-du que nous avions des vues sur l’Orient, que nous vou-lions prendre pied en Albanie. Rêve de cerveau brûlé!Conquête insensée, dont la géographie et l’etnographiene permettraient jamais l’assimilation, et que nous per-drions tôt ou tard: en attendant, cause de dépenses et defaiblesse. Comme riverains de l’Adriatique, nous avonscertes un intérêt dans la question, mais un seul – et il estaussi celui de l’Europe – c’est que la péninsule des Bal-

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kans ne tombe pas toute entière aux mains d’un puissantempire, dont le voisinage serait pour nous, dans certai-nes éventualités, un danger et en tout temps une sourced’inquiétudes». – Pag. 112. Si vedano del Crispi i di-scorsi del 3 febbraio ’79 e del 15 marzo ’80: «L’Imperoaustro-ungarico è una necessità per noi. Quell’Imperoe la Confederazione elvetica ci tengono a giusta distan-za da altre nazioni, che noi vogliamo amiche, che devonoessere nostre amiche, come furono altre volte nostre al-leate, ma il cui territorio è bene non si trovi in immedia-to contatto con l’Italia». – Pag. 113. Le parole del Mar-selli sono nel suo discorso alla Camera dell’11 marzo ’80.– Pag. 113. Della famiglia Imbriani si può vedere la sto-ria nel mio libro: Una famiglia di patrioti3 (Bari, 1949). –Pag. 114. Sull’irredentismo, [F. SALATA], Il diritto d’I-talia su Trieste e l’Istria, documenti (Torino, 1914), spec.pp. 71-82, 555-616; G. F. GUERRAZZI, Ricordi di irre-dentismo. I primordi della «Dante Alighieri»: 1881-1894(Bologna, 1922). – Pag. 114. Sull’Oberdan, SALATA,Guglielmo Oberdan (Bologna, 1924). – Pag. 114. Il con-te di Robilant, diventato ministro degli esteri nel 1886,diceva all’ambasciatore austriaco Ludolf, che gli facevarimostranze e premure contro le manifestazioni irreden-tistiche: «Voi mi citate un caso isolato, il cui svolgimen-to esatto non mi è noto; ma io posso assicurarvi che finoa quando sto io qui al timone e la pace europea si man-tiene salda, non ci sono da temere pericoli da parte del-l’Irredenta. Ma, se dovese essere turbata questa pace, al-lora veramente io non garantisco di niente e di nessuno,neanche di me!». (Rapporto riservato del Ludolf al Kál-noky da Roma, 5 marzo 1886). Il Bismarck, avuta no-tizia delle parole del Robilant, faceva scrivere il 5 mag-gio al principe Reuss a Vienna, che, in fondo, il Robilantaveva ragione. Vedi questi docc. in SALATA, G, Ober-dan cit., pp. 210, 214, Il Treitschke, che nel 1875 preve-deva che nella prossima guerra il «generoso popolo ita-

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liano» sarebbe stato dal re e dalla diplomazia fatto mar-ciare contro la Germania, nel compiacersi, nel 1883, deltrattato della Triplice non lasciava di osservare che que-sta alleanza «si dovette conquistare col freddo senno po-litico, vincendo l’opposizione di violente passioni popo-lari. Agli intimi sentimenti degli italiani sarebbe indub-biamente riuscita più gradita un’alleanza con la sorellalatina, che non un’alleanza col secolare nemico, il tede-sco; già fin sui banchi della scuola gli italiani hanno ap-preso che il Brennero e il Carso formano il confine na-turale della loro patria, per cui nel grido di: Trento eTrieste! si può dire riecheggi una larga, diffusa aspira-zione nazionale»; onde, senza l’ostilità della Francia ver-so l’Italia nel Mediterraneo, l’alleanza non sarebbe nata(v. CORNICELIUS, art. cit., p. 24). – Pag. 114. Per lastoria delle origini della Triplice, CHIALA, Pagine di sto-ria contemporanea cit., III, La triplice alleanza (Torino,1893); G. SALVEMINI, La Triplice alleanza, in Rivistadelle nazioni latine di Firenze, 1916, vol. I; A. SINGER,Histoire de la Triple alliance (trad. franc., Paris, 1915),se oltrepassato per quel che riguarda la storia del trat-tato, ricco di notizie per gl’incidenti che l’accompagna-rono e gli echi nell’opinione pubblica; ma, soprattutto,si vedano i testi originali dei trattati nella citata raccolta:The secret treaties of Austria-Hungary, I, 64-73, 104-15.Quanto al rifiuto d’includere nel trattato impegni di po-litica interna, si veda la nota del Mancini all’ambasciato-re De Launay, 10 gennaio ’82 (in CHIALA, pagine cit.,III, 245-47): dov’è detto che «l’amicizia e l’alleanza deidue grandi stati, reclamate dai loro vicendevoli interes-si, può e deve rimanere indipendente dal funzionamentoanche diverso delle rispettive interne istituzioni... Un piùintimo e cordiale riavvicinamento dell’Italia con la Ger-mania non può avere per condizione o per conseguen-za una modificazione o un pregiudizio qualunque per ilmodo d’essere della nostra interna libertà». Pare che la

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formola adottata poi nei preliminari fosse suggerita dal-l’Italia: cfr. SALVATORELLI, in Rivista stor. ital., XLII,1925, pp. 132-3. – Pag. 116. L’accordo con l’Inghil-terra del 12 febbraio. ’87, al quale accedette il 24 marzol’Austria-Ungheria, quello con la Spagna del 4 maggio el’accessione dell’Italia il 12 dicembre all’accordo dell’In-ghilterra e dell’Austria-Ungheria circa l’Oriente, si leggo-no nella citata raccolta, pp. 94, 116, 124 sgg. – Pag. 116.R. CAPPELLI, La politica estera del conte di Robilant (inNuova Antologia, 1° novembre ’97): il Robilant, che feceprecedere la rinnovazione del trattato da una saggia poli-tica a tutela della pace europea, specie durante il conflit-to serbo-bulgaro, disse poi al Cappelli, a proposito delmodificato trattato della Triplice: «Lasciamo l’Italia ap-prezzata all’estero come non lo fu mai, e sicura come inuna botte di ferro». – Pag. 116. «Man wird dabei kaumbestreiten können, dass von den beiden Staaten (Italia eGermania, entrambe giunte in ritardo e prive di colonie)Italien von Anfang an sein Ziel klarer erkannt und seineMittel geschickter ausgewählt hat. Es mochte allerdingsmit der relativen militärischen Schwäche des apennini-schen Königreichs zusammenhängen, dass das Land da-bei stets so vorging, dass es einen offenen Konflikt miteiner anderen europäischen Grossmacht vermied. Aberman wird Italien, das eine noch viel stärkere Auswan-derung wertvoller Arbeitskräfte aufwies und vielleichtnoch mehr Grund hatte als Deutschland, einen politi-schen Zusammenhang zwischen seinen auswärtigen Lan-deskindern und dem Mutterlande aufrechtzuerhalten –man wird Italien auch an sich das Zeugnis nicht versagenkönnen, dass es seine auswärtige Politik konsequent aufdieses Ziel eingestellt und die Bedeutung der Kolonial-politik nie missachtet hat. Von Deutschland kann diesnicht in demselben Masse gelten. Seine kolonialen Erfol-ge waren zwar, was das Areal seiner Erwerbungen betraf,bedeutender als die Italiens. Es konnte von den üibri-

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gen Staaten dank militärischen Pressionsmitteln Konzes-sionen erlangen, an die Italien noch nicht denken durf-te. Aber die Konsequenzen aus diesem Programm wur-den in der auswärtigen Politik nicht immer gezogen; dieauswärtige Politik des Reiches in Europa wurde nicht somodifiziert, wie es infolge der neuen kolonialen Ziele nö-tig gewesen wäre»: E. FEUTER, Weltgeschichte der letz-ten hundert Jahre: 1815- 1920 (Zürich, 1921), pp. 434-5.– Pag.117. Per la storia della questione di Tunisi, CHIA-LA, Pagine cit., II, Tunisi (Torino, 1892); P. SILVA, IlMediterraneo dall’unità di Roma all’unità d’Italia (Mila-no, 1927). – Pag. 118. Per la storia delle imprese italia-ne in Africa, è ora da rimandare a G. MONDANI, Sto-ria coloniale italiana> (Roma, 1927). Il FRIEDJUNG, DasZettalter des Imperialismus, I (Berlin, 1919), pp. 180-82,mette in luce l’impresa italiana di Massaua come partedella politica inglese, che mirava a impadronirsi della val-le del Nilo azzurro, e perciò a soffocare, con l’aiuto de-gl’italiani, lo stato abissino.

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Pag. 121. Per uno schizzo del pensiero europeo nell’e-tà positivistica, CROCE, Teoria e storia della storiografia(Bari, 1963), parte II, cap. VII (pp, 275-92). Il rivol-gimento accaduto dopo il ’48, e più fortemente dopo il’60, in Italia, è descritto nell’altro libro, Storia della sto-riografia italiana nel secolo decimonono (Bari, 1964), II,5 sgg. – Pag. 122. Sul Bertini e sul Berti, P. GODET-TI, Risorgimento senza eroi (Torino, 1926), pp. 147-54,271.320. Delle «religioni dell’avvenire» non ebbero ecoin Italia né quelle forastiere, né le disquisizioni italiane,come del MAMIANI, La religione dell’avvenire (Milano,1880). – Pag. 123. Per l’idealismo napoletano e la suastoria si veda il mio saggio sulla Cultura a Napoli dal

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1860 al 1900 (in appendice al vol. IV de La letteratu-ra della nuova Italia, spec. pp. 275-347); v. anche G.GENTILE, Le origini della filosofia italiana contempora-nea (Messina, 1917-1923), particolarmente nel vol. III,e L. RUSSO, Francesco de Sanctis e la cultura napoletana(Venezia, 1928). – Pag. 125. Per le condizioni e le vi-cende degli studi storici, esposizione particolareggiata inCROCE, Storia della storiagrafia italiana cit., II, 35-122.– Pag. 127. Si veda, a contrasto, con quanta precisio-ne di concetti e realismo di percezione trattasse proble-mi di questa sorta un vecchio hegeliano di Napoli, A. C.DE MEIS, Il Sovrano (ristampa a cura di B. CROCE, Ba-ri, 1927). – Pag. 128. In esempio, le costruzioni del Pan-taleoni (riforma del Senato da comporsi di competentinei vari rami, e, sotto di esso, una Camera che rappre-sentasse il popolo e facesse udire «gli urli della belva»,cioè i suoi bisogni: in DE LAVELEYE, op. cit., 100-104);del Jacini (competenza del Parlamento ristretta solo alladifesa dello Stato, alla politica estera e alle finanze, de-centrate tutte le altre parti dell’amministrazione, suffra-gio universale anche degli analfabeti, ma indiretto: in JA-CINI iun., op. cit., II, 21 sgg.); del Siliprandi (v. op. cit.,di sopra a p. 288); e così via. – Pag. 128. Del Mosca, lagià citata Sulla teoria dei governi e sul governo parlamen-tare, e poi gli Elementi di scienza politica (1895), ristam-pati con raggiunta di una seconda parte in Elementi discienza politica (Torino, Bocca, 1923). – Pag. 130. Per laletteratura di quel tempo, il quadro è dato nella mia op.cit.: La letteratura della nuova Italia. – Pag. 133. Circal’esercizio di stato e il pensiero dello Spaventa, v. MAR-SELLI, La rivoluzione parlamentare cit., pp. 29-30, e A.CANTALUPI, op. cit., pp. 143-4. – Pag. 133. Nell’ul-timo ministero della Destra, la «testa forte» era lo Spa-venta, fornito di quella energia che spesso difettava neisuoi colleghi e amici, il quale perciò non piaceva moltoal re, come si legge in CASTELLI, Carteggio, II, 557. –

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Pag. 136. Sul Carducci, oltre la monografia speciale cheè nel II vol. della Letteratura della nuova Italia (e a parte,5ª ed. accresciuta, Bari, 1953) si veda l’ultimo saggio delvolume Poesia e non poesia. (Bari, 1955, pp. 334-41).

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Pag. 139. Per la preistoria, non meno che per la sto-ria del socialismo e del marxismo in Italia, si vedanodi preferenza i volumi bene informati di R. MICHELS,Storia del marxismo in Italia (Roma, 1909); Sozialismusin Italien, Intellektuelle Strömungen (München, 1925);Storia critica del movimento socialista italiano (Firenze,1926). Una mera cronaca, ma abbondante di notizie, èin ANGIOLINI-CIACCHI, Socialismo e socialisti in Ita-lia, storia completa del movimento socialista italiano dal1850 al 1919 (Firenze, 1919). – Pag. 140. Pel Labriola,la cit. Storia della storiografia italiana, II, 123-41, [e ora ilmio saggio: Come nacque e come morì il marxismo teori-co in Italia: 1895-1900, in appendice al Materialismo sto-rico, 10ª ed., Bari, 1961]. I suoi scritti sul socialismo, an-teriori ai Saggi, si trovano tra gli Scritti varî (Bari, 1906).Ivi la conferenza Del socialismo (1889), dov’è detto (p.315): «Non ho appreso il socialismo dalla bocca di ungran maestro, e quel che ne so lo devo ai libri. Mi ciha condotto il disgusto del presente ordine sociale e lostudio diretto delle cose». Di recente sono state pubbli-cate (ritradotte dal tedesco, e dagli originali ora serbatiin Russia) le lettere del Labriola all’Engels, in una dellequali, da Roma, 3 aprile ’90, si legge: «Ben pochi dei mieiconnazionali sono in grado di comprendere in qual mo-do un uomo, intento per lungo volger d’anni con ardoreinfaticabile alla filosofia astratta, proprio attraverso la fi-losofia insensibilmente siasi poi volto al socialismo, pren-dendo parte anche alla propaganda pratica. Ella non so-

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lo dominò con lo spirito tutta la cultura contemporanea,ma recò in maniera degna il contributo suo allo sviluppodell’idea socialistica. Ella quindi non stimerà come con-trario alla natura delle cose che un dotto dai vertici del-la filosofia morale di Kant, e passando attraverso la filo-sofia della storia dello Hegel e la psicologia dei popolidello Herbart, sia giunto con convinzione alla necessitàdi professare pubblicamente il socialismo come se si trat-tasse di una sua missione naturale... Il graduale e non in-terrotto avvicinarsi ai problemi pratici della vita, il disgu-sto per la corruzione politica, la consuetudine coi lavora-tori mutarono via via il socialista astratto nel socialdemo-cratico attivo». E in un’altra, del 21 febbraio ’91: «All’U-niversità, ove, dopo tutto, ho trovato di bel nuovo corag-gio e libera parola, attendo da parecchi mesi a svolgerela teoria materialistica della storia» (in Nuova rivista sto-rica, XI, 1927, pp. 372, 373). – Pag. 141. Dei Saggi sullaconcezione materialistica della storia del Labriola mi feciio, già suo scolaro, sollecitatore ed editore nel 1895-98.– Pag. 141. Per il Devenir social e i suoi collaboratori ita-liani si vedano le Lettere di Georges Sorel a B. Croce, chesono state pubblicate nella Critica (a. XXV, 1927 e sgg.)– Pag. 141. Mi risparmio una rassegna di nomi, che puòtrovarsi abbastanza copiosa nei citati libri del Michels. –Pag. 142. Di quel tema io fui, tra gli accademici, propo-nitore e relatore. Vi concorsero due giovani, V. Giuffri-da de Luca e Arturo Labriola, entrambi più tardi depu-tati e ministri del Regno d’Italia. – Pag. 142. È di queltempo il libro del NITTI, Il socialismo cattolico (Torino,1891). – Pag. 145. Per quel che riguarda il marxismo e ilconcetto di «forza» si veda la prefaz. del 1927 al mio li-bro Materialismo storico ed economia marxistica (ed. cit.)– Pag. 145. Il ravvicinamento del nome del Marx a quel-lo del Machiavelli fu già tatto da me nel 1897: v. Mate-rialismo storico ed economia marxistica, pp. 106-7. Che ilMachiavelli non fosse più inteso nel periodo del positivi-

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smo (laddove ben l’aveva inteso il De Sanctis), si vede dalfiacco libro che scrisse intorno a lui il VILLARI (NicolòMachiavelli e i suoi tempi, Firenze, 1877-82), e che passòper libro classico. – Pag. 147. Alludo al libro di E. FER-RI, Socialismo e scienza positiva: Darwin, Spencer, Marx(Roma, 1894): si veda, contro un altro di cotesti marxi-sti positivisti, A. LABRIOLA, Discorrendo di socialismo efilosofia (Roma; 1898), pp. 86-98. – Pag. 147. Per que-sta fase della storiografia, CROCE, Storia della storiogra-fia italiana cit., II, 123-41. – Pag. 149. Per la Negri, comeanche per il De Amicis, CROCE, Letteratura della nuovaItalia, I, 156-77; II, 343-64. – Pag. 149. Anche pel Bet-tini, op. cit., II, 254-67. – Pag. 149. Alcune notizie sul-la «belletteristica» socialistica in R. MICHELS, Elementezur Geschicte der Rückwirkung des wirtschaltlichen undgesellschaltlichen Milieus auf die Literatur in Italien (nell’Archiv f. Sozialwissenschaft, 1923, vol. L, pp. 617-652).– Pag. 150. Per la caratteristica del D’Annunzio, del Fo-gazzaro e del Pascoli, e in generale intorno al relativo pe-riodo letterario, v. i voll. IV e VI della cit. Letteraturadella nuova Italia. – Pag. 151. M. DE VOGÜÉ, La renais-sance latine: G. D’Annunzio, in Revue des deux mondes,1° gennaio 1895. – Pag. 151. Sulla «impurità» del mar-xismo italiano, la cit. Storia critica del MICHELS, spec.parte II, cap. III. – Pag. 153. Il CARDUCCI, al Sena-to, 13 aprile 1897, disse discorrendo sulla questione diCandia: «Oh tre figli nostri caduti, come porta la fama,per la liberazione di tutta la Grecia! ...Prima i valvassoricrociati di Lombardia, poi i baroni delle Puglie norman-ni, poi i mercanti cittadini dei comuni di Venezia di Pi-sa di Genova, poi i cavalieri savoiardi e piemontesi d’A-medeo, poi i gentiluomini di Lepanto, poi i liberali filel-leni con Santarosa, poi i militi rossi di Garibaldi, ed ora isocialisti. È uno sfilare continuo d’Italia contro l’ultimoed eterno barbaro. Salvete, flores martyrum! Primaverad’eroi della mia terra! Di qualunque credenza o partito

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fossero, martiri sono, dappoiché espiarono col loro san-gue il sangue sparso sotto i nostri cannoni a Hierapetra:sono primavera di eroi che preannunzia il rinnovamen-to d’Europa al crollare dell’Impero ottomano» (si vedain CARDUCCI, Opere, XI, 18-24). Sui volontarî italiani,R. GARIBALDI, La camicia rossa nella guerra greco-turcadel 1897 (nella Nuova Antologia del 16 luglio ’98). – Pag.153. Per la critica sopraricordata delle teorie marxisti-che si veda il cit. libro Materialismo storico ed economiamarxistica. – Pag. 154. Circa il Bernstein e il suo rico-noscimento di quel che aveva appreso dalla critica ita-liana, cfr. le Lettere del Sorel, in Critica, XXV, 311. –Pag. 154. Per la scuola economico-giuridica della storio-grafia italiana, si veda Storia della storiografia italiana, II,142-57.

VII

Pag. 157. Sul Crispi, V. RICCIO, Francesco Crispi, pro-filo e appunti (Torino, 1887); W. J. STILLMAN, France-sco Crispi, Insurgent, Exile, Revolutionist and Statesman(London, 1899); A. C. JEMOLO, Crispi (Firenze, 1924);v. anche l’opuscolo sincrono di G. FERRERO, Il feno-meno Crispi e la crisi italiana (Torino, Olivetti, 1894 ).Una raccolta curiosa è quella di T. GRAND-CARTERET,Crispi, Bismarck et la Triple alliance en caricatures (Pa-ris, Delagrave, 1891). Ma principalmente sono da vede-re i tre volumi di Discorsi parlamentari (Roma, 1915), ele lettere, i diarî e i documenti pubblicati a cura del Pa-lamenghi Crispi: I Mille (Milano, 1911); Politica estera(ivi, 1912); Carteggi politici inediti (Roma, 1912); Que-stioni internazionali (Milano, 1913); Ultimi scritti e di-scorsi parlamentari (Roma, 1913); Politica interna (Mila-no, 1924). – Pag. 157. Si veda il discorso del Crispi al-la Camera del 4 marzo ’86: «Mettete un uomo energico

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là (accenna al banco dei ministri), ma non un uomo chepiega, che cede; non l’uomo che, per farsi una maggio-ranza, ha bisogno di beneficare i deputati, i quali alla lo-ro volta debbono beneficare gli elettori: l’uomo con unprogramma sicuro, attorno al quale si riuniscono uomi-ni sicuri e convinti; ed allora potrete sperare oche questisette popoli decrepiti e viziati dal dispotismo divenganopopoli serî e virtuosi. Sarebbe quest’uomo l’on. Depre-tis? Non ho bisogno di manifestarvi la mia convinzionecontraria: l’on. Depretis è l’uomo assolutamente incapa-ce a rendere i popoli virtuosi». – Pag. 158. Per esem-pio, C. MONZANI (25 marzo ’78): «...M’ingannerò, maio vedo con dolore la Sinistra finita e non ho troppa fe-de nelle deboli ed inesperte mani nelle quali è venuta.È grave il pensare che in due anni si sciupò e si logoròmiseramente un grande tesoro di simpatia e di fiducia!»(Carteggi politici, pp. 359-60); F. PEREZ (30 marzo ’78):«I tristi, che vollero impedire il governo all’unico uomodi stato eminente che resti oggi a quella che fu già la Si-nistra, si avvedranno fra non molto quanto male avran-no fatto al paese, e quanto fugaci saranno le gioie d’u-na femminile vanità soddisfatta» (vol. cit., pp. 360-1). –Pag. 158. V. RICCIO (op. cit., p. 3): «Lo spirito pub-blico si rinfranca, pensando che è lui ministro. Tanto adestra che a sinistra, tutti guardano a lui e sperano nel-la sua opera. Desiderato Chiaves e Giovanni Bovio, cheseggono alla Camera in banchi affatto opposti, hanno alui rivolto parole di lode e di fiducia. E sono spiriti sde-gnosi, che non s’inchinano al potere, vaghi anzi di com-batterlo». Il CORRENTI, nella lettera del 1887, recataa proposito del Depretis (v. sopra in queste annotazio-ni, pp. 279-80) concludeva: «Tu vi aggiungerai certa-mente (all’opera del Depretis) una scintilla di fuoco vita-le, un raggio di successi fortunati, e a tempo e a luogo loscocco. Il povero Depretis non ebbe fortuna che standoquatto...». Il principe di CAMPOREALE (23 ottobre ’88):

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«La vostra politica ferma ed oculata ha rialzato il presti-gio del paese più di quanto non lo sia stato dalla costi-tuzione del Regno» (Carteggi cit., p. 430). N. MARSEL-LI (20 ottobre ’88): «Ed ora che alle storiche feste per lavenuta dell’imperatore di Germania succede il raccogli-mento de’ pensieri e l’attività del lavoro, mi sia lecito dimandare una forte stretta di mano all’uomo di stato chealla politica della Triplice alleanza ha dato una così vigo-rosa intonazione» (op. cit., p. 429). A. MORDINI (14luglio ’89): «Tu per la patria hai operato fin qui eccel-se cose, e molto più potrai... Dall’indirizzo della politi-ca estera è lecito aspettare onore, gloria, aumento di po-tenza all’Italia» (vol. cit., p. 465). A. LEMMI, gran mae-stro della Massoneria, all’«illustre, venerato e caro fratel-lo» (25 giugno ’88): «Plausi e ringraziamenti per la ener-gica e sapiente opera con la quale, come capo dello Stato(sic), trasfondete i principî massonici di libertà e di giu-stizia nei movimenti e riordinamenti del consorzio civi-le... L’indipendenza restituita alle urne amministrative epolitiche, e nel tempo stesso eccitato con nobile esempioil sentimento del dovere negli elettori; provveduto all’in-fanzia abbandonata; condotto a termine il codice sanita-rio, iniziato sotto il vostro predecessore dal compiantofratello Bertani; riformati e resi più umani i regolamentidella prostituzione; presentata la legge comunale e pro-vinciale; concesse con larga generosità somme e pensio-ni alle vedove e agli orfani dei patriotti; data sincera eprudente opera al mantenimento della pace fra i popo-li; rinvigorita con saggezza civile la lotta contro il Preten-dente del Vaticano: voi, Illustre fratello, bene a ragionesiete proclamato in tutto il paese instauratore delle pub-bliche libertà, rivendicatore della forza e del decoro del-la Nazione» ( Carteggi cit., pp. 424-5). – Pag. 161. F.CRISPI, alla Camera, 5 dicembre ’78: «Signori, comin-cio per farvi una professione di fede. Io ritengo che glistatuti non creino diritti, che i diritti individuali siano in-

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nati, anteriori a qualunque carta scritta» (Disc. parlam.,II, 315). E alla Camera, come presidente del Consiglio,il 26 novembre ’87: «L’on. Ferrari ha parlato di possi-bili dittature. In verità io non vedo la stoffa del dittato-re in questa Camera, non ne vedo neanche le abitudini.Dirò di più, o signori. L’Italia è un paese troppo fattoper la libertà per poter tollerare dittature. Una delle glo-rie maggiori della patria nostra è questa: che l’Italia si èfatta per mezzo della libertà, senza stati d’assedio, senzaviolenze, con il consenso del popolo; e quindi, una vol-ta costituita la nazione, non può temere della libertà: es-sa la tiene anzi come la base della sua vita, e chiunque osiattentarvi, di qualunque parte sia, troverà nella immen-sa maggioranza del popolo italiano una resistenza e unaforza che faranno cadere tutti i tentativi che mai potes-sero osarsi» (op. cit., II, 872). – Pag. 161. Per il Cri-spi, la guerra era «un gran delitto internazionale» (Ulti-mi scritti, p. 293 ). Si veda il discorso del ’90, per l’in-dipendenza e l’autonomia dei popoli (vol. cit., p. 362).Ivi anche (p. 286 sgg.) la storia del conflitto con la Fran-cia, quale egli la ricostruiva. Lettera del Crispi al Bra-chet (nell’opuscolo di costui Al misogallo signor Crispi,v. più sotto): «Vous vous trompez en me croyant l’enne-mi de la France. C’est un culte pour moi que l’indépen-dance des nations: leur liberté a été le rêve de toute mavie. Je serais heureux si, avant de mourir, je pouvais voiramis et confédérés tous les peuples de l’Europe». – Pag.161. Si veda, circa il giudizio del Crispi sul Cavour, an-che un aneddoto narrato dal MARTINI, Due uomini del-l’estrema cit., p. XII. D’altra parte, a lui solo si attribui-vano pensieri di «avventure internazionali»: v. nel libroche va sotto il nome di P. VASILI, La société de Rome(Paris, 1887), pp. 338-9. Per le accuse del Crispi alla po-litica estera della Destra, si veda suo discorso alla Came-ra del 3 febbraio ’79 (Disc. parlam., II, 332 sgg.). Circa laguerra del ’66, v. Ultimi scritti, pp. 279-282. – Pag. 162.

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La parola «megalomania» fu messa in circolazione dagliarticoli del senatore Jacini, Pensieri sulla politica italia-na, nella Nuova Antologia del giugno ’89: v. S. JACINIiun., op. cit., II, 207-211. – Pag. 163. Circa l’affetto eil fervore del Carducci pel Crispi, v. CARDUCCI, Ope-re, XII, 443-462, e l’ode Alla figlia di Francesco Crispi: Xgennaio MDCCCXCV. – Pag. 163. Sulla politica esteradel Crispi, G. SALVEMINI, La politica estera di F. Crispi,in Rivista delle nazioni latine di Firenze, 1º maggio 1918.Giudizi del Crispi sulla Triplice, in Questioni internazio-nali, p. 278 sgg.: v. anche il suo discorso di Palermo del1892. – Pag. 164. Pei sospetti francesi contro l’Italia econtro il Crispi, anteriori al suo ministero, v. i due opu-scoli di A. BRACHET, L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’onne voit pas (Paris, Hachette, 1881), e Al misogallo signorCrispi. À propos de l’Italie que l’on voit ecc. (Paris. Plon,1882). Sulle relazioni italo-francesi del periodo crispi-no, A. BILLOT, La France et l’Italie. Histoire des anneestroubles: 1881-1899 (Paris, Plon, 1905, due voll.). – Pag.165. Sull’allarme del luglio ’89, v. CRISOI, Politica este-ra, p. 314 sgg. Il GIOLITTI, Memorie, I, 47-8, racconta:«Io mi trovavo, d’estate, in campagna a Cavour, quandoegli (Crispi) mi telegrafò di venire senza indugio a Roma.Arrivato, quando fui nel suo gabinetto, egli mi disse sen-z’altro, ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo dimano della Francia sulla Spezia. – Come? – esclamai io– siamo in guerra con la Francia? – No, – mi rispose egli,– è la Francia che si prepara ad attaccarci d’improvviso,con un colpo di mano, che è imminente. – Io gli repli-cai che non credevo assolutamente alla cosa, e gli dettibuone ragioni del mio scetticismo; tra l’altro, era incom-prensibile che la Francia, che possedeva allora una flottatre volte superiore alla nostra, si prendesse l’odio di unacosì enorme violazione del diritto, per fare un colpo diassai dubbia convenienza. Ma egli rimaneva fermo nellasua convinzione, come non avesse alcun dubbio della co-

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sa... Quando poi fui presidente del Consiglio e ministrodegli interni, scopersi che quella sorprendente informa-zione Crispi l’aveva avuta da un agente che teneva pressoil Vaticano, e l’aveva accettata senz’altro come vera sen-za curarsi di appurarla». [L’aneddoto dell’ammiraglioHewett è raccontato con precisi particolari nel giornaleil Lavoro di Genova, 4 agosto 1931.] – Pag. 166. L’oppo-sizione alla Triplice era soprattutto lombarda, e non so-lo dei democratici e repubblicani, ma anche di conserva-tori. Il NEGRI (Segni dei tempi cit., p. 227, in uno scrit-to del 1895), parlando degli uomini di Sinistra: «Volen-dosi pur distinguere dai loro antecessori, non hanno tro-vato altro modo possibile che quello di governar male.Ed hanno governato tanto male che son riusciti a quel-lo a cui, certo, non sarebbe riuscito nessun governo ve-ramente moderato, ad avvincere l’Italia a quelle nazioniche a lei non erano punto affini, e ad inimicarla, forse inmodo irrimediabile, con quella sola che le sarebbe statosupremamente utile conservarsi amica. Quanta tristezzaquando si pensa che Cavour telegrafava allo sventuratoNapoleone, onde persuaderlo a lasciar fare l’unità d’Ita-lia: Ne laissez pas détruire le seul allié possible de la Fran-ce!». – Pag. 167. Lettera del Bonghi dell’8 febbraio ’93al giornale Le Matin (R. BORGHI, Questioni del giorno,Milano, 1893, pp. 149-150). – Pag. 167. Crispi a P. Mar-tini 27 dicembre ’91): «Io combattei acerbamente l’im-presa di Mancini limitata a Massaua, ma poscia, rifletten-doci e studiando, mi convinsi che se ne potesse trar pro-fitto» ( Carteggi cit., p. 467). – Pag. 168. Sull’africa-nismo e le speranze riposte in esso, v. TURIELLO, op.cit., I, 41 sgg. – Pag. 169. Sull’opera del Tosti, si ve-dano (oltre quel che se ne dice nei citati documenti cri-spini) il DE CESARE (nella Nuova Antologia, 1° giugno1898), e il card. CAPECELATRO nella commemorazionedel Tosti (in Problemi moderni, Roma, 1904): e, più direcente, E. CARLOY, Il tentativo dell’ab. Tosti posto nel-

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la sua vera luce (nella rivista Le opere e i giorni, 1932, fa-scicolo di novembre-dicembre). – Pag. 170. La politicagallofila e italofoba del Rampolla, preparatasi dal 1887al 1890, si fece particolarmente velenosa nel 1890-1893:nel 1891, accadde l’insulto che pellegrini francesi osa-rono fare alla tomba di re Vittorio Emanuele nel Pan-theon. – Pag. 171. Sugli esili dai comuni nelle Romagne,TURIELLO, op. cit., I, 207-8. – Pag. 172. Del meritodel Crispi come amministratore rende testimonianza an-che il GIOLITTI, op. cit., l, 46-7: «Possedeva un sensod’amministrazione severo, proprio dell’uomo di gover-no: ricordo che, quando ero con lui ministro del Tesoro,avendo dovuto procedere contro un suo amico, non eb-bi da lui, nonché ostacoli, nemmeno raccomandazioni».– Pag. l74. L’abbondante letteratura sulla crisi banca-ria di quegli anni si trova raccolta nella monografia di E.WILMERS- DOERFFER, Notenbanken und Papiergeld imKônigreich Italien seit 1861 (Stuttgart-Berlin, 1913: nel-la raccolta degli studî economici diretta dal Brentano edal Lotz). – Pag. 176. Le parole riferite sulle pretese de-gli operai sono del CORSI, L’Italia: 1870-1895 (Torino,1896); p. 371. – Pag. 177. A. LABRIOLA, Ad un opera-io socialista (1890): «Guardate alla Germania e udite co-me gli operai di tutto il mondo, esclamano: – Guardia-mo alla Germania! –A guardarci bene, ci s’impara co-me il proletariato di lassù cammini sicuro, non alla rivo-luzione di un anno, ma alla conquista stabile e duraturadella posizione nella quale è pur lecito dettare un nuo-vo diritto. La Democrazia sociale di Germania è la edu-catrice della nuova storia» (Scritti varî, p. 344; e cfr. ivi,pp. 345-8, l’indirizzo I socialisti italiani ai socialisti te-deschi per il congresso di Halle del 1890). – Pag. 177.Sui casi di Sicilia, oltre lo stesso CRISPI, Politica inter-na, p. 288 sgg., E. CAVALIERI, I fasci dei lavoratori e lecondizioni della Sicilia (nella Nuova Antologia, 1° genna-io ’94); N. COLAIANNI, Gli avvenimenti di Sicilia e le lo-

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ro cause (Palermo, Sandron, 1894 ); P. VILLARI, La Si-cilia e il socialismo (nella Nuova Antologia, luglio-agosto1895). È da leggere, a proposito dell’equivoco coltivatodai socialisti in Sicilia, lo scritto del LABRIOLA: Su un fi-lo di rasoio (1° gennaio ’94, in Scritti varî, pp. 385-88 ). –Pag. 179. Per la politica finanziaria del Sonnino nel mi-nistero Crispi, A. SALANDRA, Due anni di finanza (nel-la Nuova Antologia del 16 maggio ’96). – Pag. 179. Cir-ca la Triplice dopo il suo primo ministero, accenni delCrispi nella lettera al Desmarest sugli «Stati uniti d’Eu-ropa», in Ultimi scritti, pp. 386, 390. Il trattato della Tri-plice era stato rinnovato dal Rudinì il 6 maggio ’91 conmodificazioni che consideravano l’eventualità di un’azio-ne dell’Italia nell’Africa settentrionale, in Cirenaica, Tri-politania e Tunisia. – Pag. 180. A proposito dell’invo-cazione di Dio (alla quale fece eco il Carducci, nel di-scorso La libertà perpetua di San Marino, del 30 settem-bre ’94: in Opere, X, 323-44: cfr. pp. 330-32), v. lette-ra del Crispi: (18 settembre ’94) al Lemmi, che gli avevamosso rimostranze nome dei fratelli massoni: «Voi svia-te la questione e date forza al vero nemico della Patria.Gli anarchici hanno scritto sulla loro bandiera: né Dio,né Capo. Io chiamai a raccolta tutti gli uomini onesti,tutti coloro che vogliono salvare la società dagli immi-nenti pericoli, scrivendo sulla nostra bandiera: con Dioe col Re, per la Patria. La formula è una conseguenza lo-gica di quella del Mazzini dopo il plebiscito del 21 otto-bre 1860. A questo grido di allarme voi vi opponete sup-ponendo reazioni politiche ed un mondo nuovo controla conquista della libertà, che nessuno più di me saprà epotrà difendere. Col vostro contegno, od allontanandovida me, voi aiutate l’anarchia, che si fa avanti colla dina-mite e col pugnale. Me ne duole, ma non per questo in-dietreggerò dalla via che ho preso a percorrere» (Carteg-gi cit., pp. 519-20). – Pag. 182. Del Barbato, uomo rettoe coraggioso, corse divulgata in opuscoli popolari l’auto-

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difesa; Il Socialismo difeso da Nicola Barbato al Tribuna-le di guerra (Roma, 1895). – Pag. 183. Per le cose d’A-frica, la letteratura è assai copiosa: ci restringiamo a ri-cordare le Memorie d’Africa di uno dei principali respon-sabili, il BARATTIERI (Torino, 1898). – Pag. 183. CE-SARE AIRAGHI, Scritti varî, pubblicati a cura del colon-nello Pezzini e del tenente Di Giorgio (Città di Castel-lo, 1901). Nella prefazione dei due ufficiali, p. 28, si fanotare l’«illusione di poter conquistare un impero senzaspender milioni e senza sparger sangue: così si arrivò aifacili successi del 1894-1895, e quindi, logica inesorabi-le conseguenza, ai disastri del 1896». GIOLITTI, Memo-rie, I, 46: «Il Crispi era indiscutibilmente un fervido pa-triota, che pensava altamente dell’Italia ed avrebbe volu-to condurla a sempre più alti destini. Era uomo di gran-de energia, di mente larga e pronta, ed aveva idee moltochiare nel suo programma generale; a cui non corrispon-deva però una eguale attitudine a curare i particolari el’esecuzione. Il disastro d’Adua, a mio avviso, fu appun-to una conseguenza di questa manchevolezza; egli ave-va tracciato un largo ed audace programma di offensiva,sproporzionato però alla potenzialità del paese; non neseppe curare l’esecuzione ed adeguare i mezzi allo sco-po, avventurandosi con mezzi insufficienti, che furono laragione principale della disfatta». – Pag. 185. La letteradel Crispi alla moglie, del 30 giugno ’97, in Carteggi cit.,pp. 536-7.

VIII

Pag. 189. Per le ultime operazioni in Africa, L. DALVERME, Il ministero e la campagna d’Africa dopo il mag-gio 1896 (nella Nuova Antologia, 16 dicembre ’97). Pag.190. Sulla tentata impresa cinese, accenno e giudizio inGIOLITTI, Memorie, I, 145. – Pag. 191. Per le relazioni

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con la Francia durante il ministero del Rudinì, BILLOT,op. cit. – Pag. 192. A. LABRIOLA, Esame di coscienza(1° maggio 1896): «La legge di eccezione del domiciliocoatto è scaduta. Crispi è caduto. I colpiti dai tribuna-li militari di Sicilia e della Lunigiana sono tutti in libertà.Due di essi, Bosco e De Felice, passarono direttamentedal reclusorio al Parlamento. I socialisti son cresciuti dinumero in tutta Italia; e con essi son cresciuti i circoli edi giornali. Dalle elezioni generali del giugno in qua, e pertutte le elezioni parziali e suppletive, tredici sono ormaii rappresentanti del socialismo alla Camera dei deputa-ti. Arrivando al potere il nuovo ministero, si è sentito dapiù parti invocare la pacificazione generale; e in questogrido c’è di certo la chiara confessione, da parte di queiliberali che non hanno ancora perduto il senso comune,che le persecuzioni contro i socialisti non approdano anulla. Le previsioni che erano negli animi, e che corre-vano per le bocche di tutti in questi due ultimi anni, sison, dunque, avverate. Il movimento siciliano ha fattoscuola. Le persecuzioni han rinforzato il socialismo; ed ilpartito n’è uscito più grande di numero e più consisten-te nei propositi e nelle azioni.. I socialisti non vanno incerca delle persecuzioni. La loro via è chiara ed è preci-samente tracciata. Far propaganda, rivoluzionare i cer-velli, organizzare in partito politico i proletarî: ecco tut-to; – e il resto verrà da sé, perché, solo dal momento chei proletari avranno il predominio nei poteri pubblici, co-mincerà ciò che dicesi rivoluzione sociale, della qual pa-rola ora molti abusano, quasi avessero essi soli della cosail monopolio, o potessero avviarla come una privata im-presa». La difficoltà in Italia era che «anche oggi moltioperai ondeggiano sempre fra intendimenti e metodi op-posti, e spesso si mostrano restii a mettersi per la via del-la organizzazione politica, della lotta di classe» (in Scrittivarî cit., pp. 355-58). – Pag. 193. A. LABRIOLA, L ’Uni-versità e la libertà della scienza (Roma, 1897), pubblica-

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to da me, avendo il Consiglio accademico dell’universitàdi Roma opposto ostacoli e richiesto modificazioni perla stampa nell’annuario, – Pag. 193. L’articolo del Son-nino (pubblicato con la firma «Un deputato» e col tito-lo Ritorniamo allo Statuto) è nella Nuova Antologiadel 1°gennaio ’97. – Pag. 194. Pei fatti del 1898, notizie in N.COLAIANNI, L’Italia nel 1898, tumulti e reazione (Mi-lano, s. a., ma 1898). – Pag. 195. Tra le manifestazionicontro i tribunali militari di quell’anno si veda anche unamia lettera nell’opuscolo di V. PARETO, La liberté éco-nomique et les événement d’Italie (Lausanne, 1898), pp.99-100. – Pag. 196. A. LABRIOLA, I fatti di Milano, let-tera al Turati del 26 giugno ’99: «Ben altra crisi che nonquella della scienza, ha attraversato ed attraversa l’Italiada un anno in qua! La Critica sociale, tornando in vita,documenterà, con l’esempio della continuata e migliora-ta discussione, di quanto giovamento sia stata per tutti lalezione delle cose. Il primo frutto è questo, che i socialistisapranno dir meglio che non sapessero in passato quan-to sia difficile e complicata la lotta che tocca loro di so-stenere. Se per l’effetto della lezione delle cose il parti-to rimarrà libero dell’ingombro dei faciliti, tanto meglio:– e sia lodata anche la così detta crisi del marxismo, chemette fuori delle file quelli i quali confondevano con leloro illusioni personali di trionfi a breve scadenza la teo-ria catastrofica di C. MARX!». È necessario che gl’italia-ni sappiano «come il partito socialista non abbia intesomai, né intenda, di organizzare delle rivolte; e come es-so, anzi, per le condizioni proprie dello sviluppo econo-mico e politico d’Italia, si trovi limitato nella sua azionenormale e progressiva dal risorgere continuo delle agita-zioni violente ed intempestive». Ma anche per un altroverso «sembra opera di falsa carità il negare che nel par-tito c’è dissenso, non dirò di principî, ma di umori. Daciò non si verrà ad alcuna scissura; ma quei dissensi de-vono essere pur chiariti o rimossi con la discussione, con

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la persuasione, col metodo intuitivo delle necessità pre-senti. Bisogna che così i focosi come gl’intiepiditi, co-sì gli illusionisti come quelli che serbano troppo vive im-pressioni dei casi di maggio, sottopongano a regolare re-visione le impressioni ed i giudizî loro, per rassegnarsi al-le norme del fattibile... Io credo fermamente che il par-tito ha guadagnato, anzi che perdere, dopo le ultime tra-versie; e, se ha perduto, ha perduto ciò che era inutile onocivo ci fosse. Molti hanno perduto il figurino del mon-do avvenire, che recavano sicuramente in tasca. A mol-ti sarà passata la tentazione di appellarsi ad ogni pié so-spinto all’autorità dei principî astratti. Altri si sarannoaccorti che i compagni, che s’intiepidiscono, erano sta-ti per lo innanzi e ab origine dei dilettanti di novità. An-che molti di quelli che avevano una certa pratica politicasi saranno finalmente persuasi, che non vale di domma-tizzare sulle massime della tattica, quando manchi il tat-to» (Scritti varî, pp. 396-401). – Pag. 200. Sul D’Annun-zio deputato, E. COSTANTINI, D’Annunzio, Altohelli eil discorso della siepe (nella Rivista abruzzese di Teramo,XXXIV, 1919). – Pag. 200. Sull’opera compiuta daglioppositori a pro della libertà, P. PARAFAVA, Dieci an-ni di vita italiana: 1899-1909, cronache (Bari, 1913 ), I,87, in occasione delle elezioni imminenti, rivolgendosi aun ideale elettore: «Se mai qualcuno le avesse detto divotar pel candidato ministeriale per salvare le istituzio-ni, l’unità d’Italia, l’ordine, la società, il ’retto funziona-mento delle istituzioni parlamentari”, il bene dei ’buoni”operai, dia retta a me, non l’ascolti: son bugie. Voti pelcandidato di opposizione, chiunque sia, fosse il diavolo,non importa. Votando per il candidato di opposizione,votiamo per la giustizia e per la libertà; votando pel can-didato governarivo, votiamo per la frode e per la tiran-nia. Forse le han detto che i candidati d’opposizione so-no parolai, ambiziosi, arruffoni. Ve ne sarà. Ve n’è intutti i partiti. Non guardo agli uomini, guardo ai fatti e

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alle idee. Io vedo che questi parolai, ambiziosi e arruf-foni hanno tenuto testa per due anni contro i così detti’uomini d’ordine” che volevano annientare le libertà sta-tutarie. Vedo che, senza questa ’minoranza faziosa” noinon avremmo più né libertà di stampa, né libertà di pub-blica discussione, né libertà di sciopero; vedo che, sen-za questa minoranza faziosa, gli uomini d’ordine avreb-bero eretto a sistema parlamentare la violenza e la frode.’Il paese è con noi” dicono gli ’uomini d’ordine”. Chesarà dell’Italia se l’esito delle elezioni desse loro ragione?Dovremo ripetere col Carducci: ’La nostra patria è vi-le”? Diamo torto al poeta; votiamo pel candidato d’op-posizione, sia giolittiano, zanardelliano, radicale, repub-blicano o socialista. Questa alleanza vivrà... quel tantoche potrà vivere. Non importa. Oggi vive, è sana e robu-sta, perché le circola dentro il sangue della libertà, per-ché è sincera, spontanea, necessaria, fatale, utile». – Pag.200. Cfr. M. TORRESIN, Statistica delle elezioni politichedel 3 giugno 1900 (in Riforma sociale di Torino, 15 agosto1900). – Pag. 201. Ricordo di aver udito, in quei gior-ni, da una dama di corte che, sebbene il centro dell’op-posizione antimonarchica e del socialismo fosse la cittàdi Milano, re Umberto si riempiva di gioia a ogni nuovamanifestazione dell’attività economica e civile di quellacittà, e diceva che non importava gli desse travaglio poli-tico e gli mostrasse ostilità personale, quando con le sueopere «faceva onore all’Italia».

IX

Pag. 203. Per questo periodo si ha il racconto del GIO-LITTI, Memorie, I, 161-268. Si vedano anche gli estrattidei suoi discorsi nel volumetto: Giolitti, a cura di L. Sal-vatorelli (Milano, Caddeo, 1920). Anche da tenere pre-sente F. PAPAFAVA, op. cit., vol. I. Sulla figura del nuo-

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vo re, G. A. ANDRIULLI, Vittorio Emanuele III (Roma,Formiggini, 1925). Un tentativo di racconto dell’interodecennio è in ARTURO LABRIOLA, Storia dei dieci an-ni: 1899-1909 (Milano, 1910). – Pag. 205. S. SONNI-NO, Quid agendum? (nella Nuova Antologia, 16 settem-bre 1900). Gli rispose nella stessa rivista (16 ottobre) G.ALESSIO, Partiti e programmi. Sulla confessione che poiil Sonnino fece al Giolitti, v. Memorie cit., I, 149-50. –Pag. 208. PAPAFAVA, op. cit., II, 461 (1905): «Mai uo-mo di stato italiano ha tanto portato (quanto il Giolitti)nella pratica la teoria dell’egual diritto per tutti i partiti etutte le classi. Fu compensato da un formidabile assaltorivoluzionario e reazionario, che lo costrinse a nuove ele-zioni. E le nuove elezioni gli han dato una maggioranzaanche più infida della precedente. Di qui all’estrema De-stra e all’estrema Sinistra raddoppiamento d’accuse con-tro l’opportunismo, l’equilibrismo, il cinismo, il nichili-smo di Giolitti: come se, data la Camera come l’hannofatta gli elettori, il barcamenare non fosse imposto, pe-na il cadere». – Pag. 209. Sul socialismo di allora è daleggere: I. BONOMI, Le vie nuove del socialismo (Paler-mo, 1907). - Pag. 211. Sulla democrazia cattolica, R. MI-CHELS, Il proletariato e la borghesia nel movimento socia-lista italiano (Torino, 1908), p. 223 sgg. – Pag. 212. Sul-la politica vaticana, C. CRISPOLTI, Pio X e un episodiodel partito cattolico in Italia (Roma, 1913). – Pag. 212.Le parole riferite sono prese dalle cronache politiche delPAPAFAVA, op. cit., I, 152. – Pag. 215. Sul progres-so economico, v. i dati raccolti nei Cinquant’anni di vitaitaliana, nel KING-OKEY, op. cit, appendice alla terzaediz., nel LÉMENON e nel PORRI, opere cit.; nel COLA-IANNI, Il progresso economico (Roma, 1913), e nelle Me-morie del GIOLITTI. – Pag. 216. Sull’emigrazione ita-liana e l’imperialismo, v. le osservazioni di O. MALA-GODI Imperialismo: la civiltà industriale e le sue conqui-ste (Milano, 1901), pp. 368-76. Nella speciale monogra-

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fia di R. P. FOERSTER, The italian emigration of our ti-mes (Cambridge, Harvard Univ. Press, 1919): «One ho-nour indeed Italy enjoys upon which little or no stresshas been laid. Her blood makes its contribution to thegreat world races... The Italian blood will count in the re-motest future of Europe and North Africa, of South andNorth America, and in some important countries it willcount for a great deal» (p. 506). «What shall be thoughtof the mountains of labour performed by the Italians inthe countries where they go? A poet might make an epicout of it. It is a tale which deserves never to be forgot-ten, a tribute to hardihood and energy» (ivi). Certo, sa-rebbe desiderabile che questo lavoro italiano si appog-giasse a un impero politico; «The Italian people are oneof the priceless assets of the world. What the world maybain by making Italian emigrants and their children intocitizens of other countries is as nothing compared withwhat it may gain from continuing in a Greater Italy theirlanguage, their traditions, their finest spirit as it breathesin the arts of civilization» (p. 524). – Pag. 217. Pel ca-rattere e il disegno della mia esposizione non ho potuto,né per questo né per gli altri periodi, mentovare se nonalcuni dei molti uomini benemeriti che, ciascuno a suomodo e secondo le sue attitudini, contribuirono all’ope-ra politica e amministrativa italiana, «alla preparazione eall’educazione del popolo italiano nel periodo prebelli-co», come dice l’ ALESSIO (Commem. di L Luzzatti cit.),il quale (pp. 67-8) ne ricorda affettuosamente parecchi.Gioverebbe per essi comporre un libro di profili e bio-grafie, ed è da augurare che ci sia chi si accinga a que-st’opera doverosa e civilmente giovevole. – Pag. 218.Per la politica del Prinetti nella questione della Tripoli-tania, alcune notizie sono nel DE CESARE, Mezzo seco-lo, ed. cit., pp. 113-15. – Pag. 221. Sulla annessione del-la Bosnia-Erzegóvina e la convenzione italo-austriaca, ol-tre quel che se ne dice nelle Memorie del Giolitti, si veda

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il racconto del ministro italiano degli esteri, Tittoni (inNuova Antologia; marzo-aprile 1928, col pseudonimo diVeracissimus).

X

Pag. 225. La «reazione al positivismo» e il risorgere del-la filosofia, e, con essa o accanto ad essa, del sentimentomistico e dell’interessamento religioso in tutta l’Europa,via via dopo il ’90 e con moto accelerato dopo il 1900,richiederebbero un intero volume, che ne discernesse edesponesse le forme diverse e spesso opposte e ne narrassegli svariati incidenti: basti qui aver accennato alla inter-nazionalità del movimento. – Pag. 228. Che cosa fosse ildannunzianesimo per gli adolescenti intorno al 1900, di-ce uno di questi, G. A. BORGHESE, Gabriele d’Annun-zio (Napoli, 1909), pp. 174-6: «I libri del D’Annunziogli danno... ville sul mare, passeggiate a cavallo, vesti-ti d’ultimo figurino, successi mondani. Gli danno corti-giane famose, scenarî luminosi, immagini di terre lonta-ne. Per giunta, gli danno ragione, gli dicon che ha ragio-ne lui, l’adolescente, a volersi emancipare, a voler “abo-lire i divieti”... Le ore neghittose della torbida puber-tà suggeriscono sogni bislacchi: i fogli dell’atlante geo-grafico si imbrattano d’itinerari, che descrivono intermi-nabili viaggi, e di linee e convergenti e divergenti, lun-go le quali l’esercito del futuro Napoleone dà di cozzocontro le. schiere nemiche e, dopo tre giorni di strata-gemmi, le mette in fuga, fondando Imperi di stermina-ti confini. Qualcuno s’abbandona magari all’innocuo ca-priccio di disegnar penisole ed isole più frastagliate e pit-toresche d’aspetto che non siano l’isole e le penisole diquesto basso mondo. Anche questi uomini trovano sfo-go nella fantasia dannunziana: splendide tirannidi, viag-gi senza meta, conquiste fulminee e figlie di re barbari

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stuprate...». A riscontro e contrasto, si rammenti il giovi-netto italiano, quale emergeva dal sogno romantico e pa-triottico, nei versi del Carducci (Ai miei censori, 1871):«E il giovinetto pallido, a cui cade Sugli occhi umido unvelo, Sogna la morte per la libertade In faccia al patriocielo». – Pag. 230. Il programma della Critica (1902) èristampato in fondo al vol. II di CROCE, Conversazionicritiche,(Bari, 1950), pp. 353-57: si veda anche il Contri-buto alla critica di me stesso, che è del 1915 (3ª ed., Ba-ri, 1945). Per una trattazione complessiva si noti, tra lemolte monografie, quella recente di F. FLORA, E. Cro-ce (Milano, 1927). – Pag. 232. Ragguagli sulla estensio-ne fuori d’Italia di quel pensiero si trovano (fino al 1919)in G. CASTELLANO, Introduzione allo studio delle ope-re di B. Croce, note bibliografiche e critiche (Bari, 1920)e (fino al 1941) in L’opera filosofica, storica e letteraria diB. Croce (Bari, 1942). – Pag. 232. Questo punto dellasostanziale incomprensione, o del fraintendimento del-l’opera esercitata dalla Critica in quel che aveva d’intimoe di proprio, fu già avvertito e schiarito da M. VINCI-GUERRA, Un quarto di secolo: 1900-1925 (Torino, Go-betti, 1925), pp. 17-24. – Pag. 233. La mia netta opposi-zione e la mia critica di principî a cotesta corrente dell’ir-razionalismo di moda, che veniva ad attraversare l’ideali-smo di tradizione classica, fu fatta già nel 1913, in un sag-gio che è ristampato nelle Conversazioni critiche, serieseconda, pp. 67-95. D’allora in poi, quello pseudoideali-smo ha peggiorato e anche le mie censure sono diventatepiù aspre: come si può vedere nelle raccolte dei miei sag-gi e nella rivista la Critica, che ha continuato da sola l’o-pera sua. – Pag. 233. Intomò a G. Gentile, che è il filo-sofo dell’«idealismo attuale», il VINCIGUERRA (op. cit.,p. 30) scrive: «Il panlogismo gentiliano, nella sua elasti-ca astrattezza e nella facilità di meccanizzazione dialetti-ca, presta i suoi trampolini a tutte le spiegazioni e a tuttele giustificazioni, anche meglio del latinorum di don Ab-

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bondio. Nel gioco dialettico ricco di sottintesi capziositra la logica astratta e la logica della realtà e con tutte lescappatoie di uno stile da iniziati – che dà una tal qualeidea di massoneria filosofica – si presenta come una del-le tante forme della sofistica, una forma affine, nei suoieffetti pratici, al probabilismo dei gesuiti». E più oltre:«Il Gentile è in certo modo il teologo del futurismo» (op.cit., p. 31). – Gli odierni laudatori notano, in altro to-no, le stesse cose, è anche di più gravi: «Se Vautrin, nelmirabile discorso che tiene dall’alto di Parigi al suo nuo-vo discepolo Eugenio di Rastignac, avesse potuto esse-re al corrente della filosofia del secolo ventesimo, avreb-be certamente dato la sua adesione alla dottrina dell’At-to... Con questa filosofia crollano le superstiti impalcatu-re d’ogni trascendenza; con questa filosofia dileguano leprudenti distinzioni che il Croce ha mantenute fra attivi-tà teoretica e attività pratica, fra arte e religione, fra eco-nomia ed etica... È un attivismo esasperato e impetuoso,rivestito di forme idealistiche neohegeliane: ...qui lo spi-rito non è più intelletto, ma volontà... lo Spirito puro at-to, di cui il Gentile s’infiamma, è qualche cosa di moltosimile, dentro le sue bardature neohegeliane, allo Slan-cio vitale di cui parla Bergson, alla misteriosa Azione diBlondel, e perfino alla Volontà dei prammatisti o al Wil-le zur Macht nietzschiano... E non solo all’Irrazionalismola dottrina del Gentile è legata da profonde affinità, maessa viene altresì a convergere con le più estreme conse-guenze del relativismo scettico... A tale constatazione so-no costretti anche i più ortodossi discepoli: l’imperati-vo dell’attualismo non è: – Definisci, rifletti, contrappo-ni te a te, – ma piuttosto: – Realizza. – Dunque, si trala-sci ogni lavorio concettuale, ogni elaborazione riflessa, eci si abbandoni al flusso del pensiero in atto, che col suoprocedere irresistibile fonde ogni concrezione oggettiva,ogni ostacolo di legge fissata... Dietro le sue formole mi-stiche e vagamente teologizzanti, questa filosofia incarna

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con forza mirabile quell’incessante spirito di mutamento,quell’inebriante volontà di conquista, quell’imperialismomorale che contrassegnano i nostri tempi, che non con-templano più Idee eterne e in cui la nuda frenesia del-la vita irrazionale ha capovolto ogni altro altare» (artico-lo col titolo: Il mistico dell’Azione, nel giornale Il lavo-ro d’Italia di Roma, del 3 novembre ’27). – Pag. 234. IIcontrasto in cui la società moderna stava per entrare consé stessa, fu visto, fin dalla fine del secolo decimottavo,da un pensatore, il Pestalozzi, del quale quest’anno è sta-to celebrato il centenario. Trascriviamo da uno dei mi-gliori libri pubblicati in tale occasione: «Segno della piùesatta percezione che, rispetto al Rousseau, ebbe il Pe-stalozzi dei dissidî, della problematica inerente alla civil-tà europea moderna, è la sostituzione al dualismo di Na-tura e Civiltà di quello, assai più corrispondente alla real-tà, di Civiltà (esterna) e Cultura (interna, spirituale, cioèmorale)... Certo, il pervertimento, che egli denomina Zi-vilisation, è frutto di sfrenate tendenze egoistiche, effettoe causa di impoverimento e infiacchimento delle energiemorali, della fede e dell’amore. Tale ipertrofia dei valo-ri tecnico-economici e il culto della potenza politica co-me valore a sé stante: disvalori non per sé medesimi, maquando abbiano per effetto di ottundere il senso dei va-lori morali, di soffocare le sorgenti dell’amore e di sosti-tuire alla fede la sete di guadagno e di potenza, l’aviditàe l’ambizione... Sintomo manifesto del difetto costituzio-nale della civiltà moderna è l’ondeggiare fra opposti in-conciliabili: fra un estremo individualismo e un estremocollettivismo nel concetto e nella pratica delle istituzio-ni politiche; fra un estremo intellettualismo e un estre-mo volontarismo (energetismo, attivismo, pragmatismo)nella concezione della vita... Che la presente situazionespirituale sia al disotto del livello di consapevolezza rag-giunto dal Pestalozzi, rivelano inequivocabilmente l’uni-laterale, ostentato, spesso insincero volontarismo, l’atti-

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vismo, l’energetismo, e, in genere, il fanatico irraziona-lismo prevalenti nelle generazioni giovani; appunto per-ché reazione voluta, esagerata, posa, essi rappresentanoun atteggiamento di vita inferiore, nel suo valore, all’op-posto medesimo che vogliono sopprimere» (C. STAN-ZINI, Giovanni Enrico Pestalozzi, Bellinzona, 1927, pp.284-5). – Pag. 234. L’«imperialismo», com’è noto, simanifestò in Inghilterra tra l’80 e il ’90 sotto l’influssodei concetti bismarckiani e germanici; in Francia, sullafine del secolo, al tempo dell’Affaire Dreyfus, col consi-derare «antinazionali» gli ebrei, i protestanti e, con essi,i liberali. Si diffuse poi dappertutto, unito ai miti dellerazze: perfino la Spagna ebbe l’«iberismo». – Pag. 234.Per la paternità dannunziana del nazionalismo, da richia-mare un articolo di E. CORRADINI sul D’Annunzio, nel-la rivista il Regno di Firenze, 1903, n. 3. – Pag. 235. NelRegno, 29 maggio 1904 (art. di E. Corradini), è già l’e-saltazione del Crispi: «Crispi è stato l’ultimo grande uo-mo di stato che l’Italia abbia avuto. Uomo di stato in-tendiamo, non nel senso diplomatico di prudenza equi-libristica e di timidezza paziente in cui molti, troppi, lointendono, ma uomo di stato nel senso eroico e nazio-nale della parola. Egli è stato l’ultimo, cioè, a fare del-la politica italiana e della grande politica italiana, l’ulti-mo a sentire in sé stesso la coscienza forte della nazione,nel suo passato e nel suo futuro, al di là e al disopra degliurli della piazza e dei pettegolezzi del retroscena», ecc.– Pag. 236. Per le definizioni che il nazionalismo tenta-va di sé stesso, v. S. SIGHELE, Il nazionalismo e i parti-ti politici (Mliano, 1911), p. 34 sgg. La definizione cita-ta nel testo è del Corradini. – Pag. 236. L’opposizionecontro il nazionalismo e la sua psicologia ed etica, e con-tro la confusione del sensualismo con l’idealismo, svolsidi proposito, fin dal 1907, nel mio saggio: Di un caratteredella più recente letteratura italiana (rist. nel vol. IV del-la Letteratura della nuova Italia, pp. 194-212): Si vedano

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anche alcuni degli scritti raccolti in Cultura e vita mora-le. – Pag. 237. Per una caratteristica della rivista La Vo-ce, G. SCIORTINO, Esperienze antidannunziane (Paler-mo, 1928), pp. 45-51. – Pag. 238. In parte per la man-canza di uno sfondo teorico (si osservi come le Memoriedella mia vita ignorino tutta la vita intellettuale e moraled’Italia), ma più ancora perché si contrapponeva alla psi-cologia prevalente o invadente, la figura del Giolitti da-va impressione di «prosaicità». Già nel 1904 il PAPAFA-VA (op. cit., I, 441) scriveva: «Nessuno dubita che Gio-litti sia un forte parlamentare, ma qualche cosa gli man-ca per essere un forte uomo politico. Non è rappresen-tativo. Rappresentativo era Crispi, e anche Zanardelli. Siera crispini o anticrispini, zanardelliani o antizanardellia-ni, con calore, con passione. Il nome del Giolitti non si-gnifica che una vaga tendenza democratica, di più in piùsbiadita e amorfa. Non suscita nel paese né grandi odî négrandi amori, non fa vibrare alcuna corda dell’anima na-zionale, non determina alcuna corrente viva nell’opinio-ne pubblica. Nella migliore ipotesi, si può dire che rap-presenta la politica del piccolo buon senso, che vive allagiornata. L’ultimo programma, del 18 ottobre, è un pro-gramma da capodivisione: un po’ poco per un paese cheha nome Italia. Un po’ poco anche per resistere al movi-mento socialista rivoluzionario o per dirigere questo mo-vimento e arginarlo». Alcuni anni dopo, pur con into-nazione alquanto diversa, G. PREZZOLINO (nella Voce,IV, n. 43, 24 ottobre ’12): «Quest’uomo (Giolitti), fred-do e burocratico, industriale e pratico, è quel che ci vo-leva per un popolo che si lascia troppo spesso trascinaredall’entusiasmo e dalla retorica. Giolitti è un segno deitempi: egli è la sovrana apparizione della prosa nel cam-po della politica italiana: è il ritmo del Codice commer-ciale, scandito in una nazione di versaiuoli e di pindari-ci. Egli getterà sempre, intorno a sé, per gli uomini chehanno un po’ d’ispirazione e di fede, un senso di repul-

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sione e di gelo. Ciò spiega il disprezzo che può suscitare,e insieme il successo che ha, ma scompagnato da affet-to e da entusiasmo. Giolitti ha degli ammiratori, ma nonha una persona che si farebbe ammazzare per lui. Lo sistima come uomo politico, ma da lontano. Non riscaldané chi l’odia né chi l’ama». – Pag. 238. G. PREZZOLI-NO, I cenci vecchi del liberalismo (nel Regno di Firenze,31 gennaio 1904): «Chi sapeva che esistesse un partito li-berale italiano? Cosa aveva da fare in Italia un partito li-berale? Diffondere forse l’idea di liberta? Ma tutti so-no liberali quest’oggi, e la parola di liberale non è un se-gno di riconoscimento di un partito, ma la livrea demo-cratica di tutti i partiti, e l’uniforme follaiola di tutti gliuomini. Dall’Unità cattolica a Enrico Ferri, dal Giorna-le d’Italia ai repubblicani, tutti sono liberali. Se lo sco-po d’un partito è diffondere un’idea, il partito liberale loha raggiunto; ed appunto per questo è morto». – Pag.239. Per lo sfondo filosofico del liberalismo, si vedano:Il presupposto filosofico della concezione liberale, Libera-lismo e liberismo, e altri scritti raccolti in: Etica e politi-ca (Bari, 1956). [Ma in modo più largo e preciso la Storiad’Europa nel secolo decimonono, Bari, 1964, e soprattut-to: Principio, ideale, teoria, a proposito della teoria filoso-fica della libertà, nel vol.: Il carattere della filosofia mo-derna, ivi, 1963.] – Pag. 239. Pei tentativi di scuola epropaganda liberale, dall’Idea liberale, che si pubblicò inMilano fino al 1899, al Rinnovamento di Firenze e poi diRoma, e all’Azione di Milano del 1914, e pel movimen-to giovane liberale, v. A. CARONCINI, Problemi di poli-tica nazionale, con prefazione di A. Solmi (Bari, 1922). –Pag. 240. Per la morte del liberale liberista Papafava fuscritto (Unità di Firenze, 1914, p. 66): «Apparteneva aquella specie, purtroppo ancora assai scarsa in Italia, diuomini profondamente, istintivamente liberali e demo-cratici, e appunto per questo invincibilmente avversi adogni settarismo e volgarità demagogica: i quali per la lo-

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ro indipendenza e rettitudine e imparzialità non esercita-no nessuna larga influenza politica, ma con l’esempio diuna vita nobile e pura, vissuta in uno sforzo continuo diperfezionamento e di dovere, suscitano e fortificano si-lenziosamente intorno a sé, in tutti coloro che hanno laventura di conoscerli, le aspirazioni e le azioni migliori».– Pag. 240. Sull’unità e la differenza di liberismo e li-beralismo si veda la mia nota con questo titolo, raccol-ta in Etica e politica cit. – Pag. 241. Pel futurismo, ve-dere il volumetto: Noi futuristi, teorie essenziali e chia-rificazioni (Milano, Quintieri, 1917), nella cui prefazio-ne si legge: «Combattiamo la cultura germanica, non giàper difendere la cultura latina, ma combattiamo tutte edue queste culture, egualmente nocive, per difendere ilgenio creatore italiano d’oggi. A Mommsen e a Benedet-to Croce opponiamo lo scugnizzo (il monello) italiano».Per una critica e storia della letteratura dell’ultimo pe-riodo, F. FLORA, Dal romanticismo al futurismo (nuovaedizione con aggiunte, Milano, 1925). – Pag. 241. DelGozzano si veda la raccolta completa: I primi e gli ultimicolloquî (Milano, Treves, 1925). Del Gaeta le Poesie e leProse sono state ora raccolte per mia cura (Bari, Laterza,1928). Si veda, tra le sue liriche, quella che è una sortadi confessione d’intimo distacco da ogni passione e sen-timento: «Cuore, fingiam di credere...» (a p. 165 dellamia edizione).

XI

Pag. 243. Per la riforma elettorale e il monopolio delleassicurazioni è da vedere la trattazione che ne fa lo stes-so GIOLITTI, Memorie, II, 279-325. – Pag. 245. Ancheper la storia politica e diplomatica della guerra libica, v.l’ampia esposizione del GIOLITTI, op. cit., II, 327-443.Sotto l’aspetto economico, cfr. R. MICHELS, L’imperia-

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lismo italiano, studî politico-demografici (Milano, 1914).L’intervista del Labriola dell’aprile 1902, che esortava al-la espansione coloniale e alla occupazione di Tripoli, èraccolta in Scritti varî cit., pp. 432-441. – Pag. 246. Chela nuova guerra d’Africa cancellasse la triste memoria diquella di vent’anni innanzi, disse F. MARTINI, discor-so tenuto a Firenze il 28 dicembre 1911 in commemora-zione di ufficiali toscani caduti in Libia: «Adua! Adua!sì! funesta giornata: non perché imprevidenti e mal pre-parati affrontammo un nemico agguerrito e cinque o seivolte a noi superiore in numero, non soltanto per le mi-gliaia di giovani vite vanamente recise, Adua fu funesta;ma perché, là, fu sconfitta e fiaccata l’anima nostra. Cireputammo da quel giorno incapaci di colorire ogni ec-celso disegno. Guardinghi che l’ideale non ci tentasse,battezzammo rettorica tutto che ci parlasse di Patria, didestini, di glorie o conseguite o sperate. Venti anni duròquesta tortura; e ai fratelli lontani, ai quali la luce dellamemoria e del desiderio fa più fulgente l’immagine del-la Patria, essa apparve d’un lutto velata. Ed io li ho vistitrascinare angosciati oltre gli oceani l’umiltà di una Italiadisperante di sé, pigra, rassegnata... Sursum corda, fra-telli lontani! L’Italia nel cinquantenario della sua rina-scenza politica ricanta gli inni degli albori, gli inni cheespressero la speranza e l’orgoglio suo primo. L’Italia siè desta. Il sangue dei nostri soldati e dei marinai, che ba-gnò le sabbie di Homs, di Sidi Messeri e di Ain Zara, ciha rinnovati e rifatti. Giovane sangue e prezioso. Ma latempesta non purifica l’aria se non sradicando gli alberie allagando i maggesi. Il Gebel, il Fezzan, la Cirenaica,che valgono? Non lo so. Valgono intanto questo inap-prezzabile rinnovamento nostro, questa concordia di po-polo di cui l’Italia non ha esempio nella sua storta. Nonmai, neanche nei giorni or ora celebrati, essa fu così uni-ta di fede e di volontà». – Pag. 250. Per questa crisidel nazionalismo, S. SIGHELE, Ultime pagine nazionali-

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ste (Milano, 1912); e anche A. ANZILLOTTI, La crisi spi-rituale della democrazia italiana. Per una democrazia na-zionalistica (Faenza, 1912). – Pag. 252. Era quello il tem-po in cui più risonò in bocca a socialisti e ad antisocia-listi la formola: «il mio avversario politico e amico per-sonale»: documento della decadenza in cui era il sociali-smo rivoluzionario. – Pag. 252. A quegli anni di estenua-zione intellettuale del socialismo si riferisce il mio scritto:La morte del socialismo (1911), ristamp. in Cultura e vi-ta morale, pp. 150-59. – Pag. 252. Resoconto stenografi-co del XIII Congresso Nazionale del Partito Socialista Ita-liano: Reggio-Emilia, 7-8-9-10 luglio 1912 (Roma, 1913).Si veda a pp. 68-78 l’atto di accusa del Mussolini con-tro i deputati riformisti, che concludeva per l’espulsionedi essi dal partito, a causa dell’atteggiamento d’ossequioche avevano tenuto verso la persona del re e del favoredato alla guerra libica. – Pag. 253. Si veda il Resocon-to stenografico del XIV Congresso Nazionale del PartitoSocialista Italiano: Ancona, 26-27-28-29 aprile 1914 (Ro-ma, 1914), spec. pp. 26-30, e 133-37. Claudio Trevesprese la parola per fare una protesta assai caratteristica:«Io ben so – ed è questa un’altra delle ragioni per le qua-li debbo dissentire dalle direttive dell’Avanti! – che og-gi prevalgono nel partito dei concetti che si riallaccianoa quella corrente filosofica del neo-idealismo, secondo laquale non già le circostanze esterne dominano il nostropensiero e creano le nostre idee, ma sono le nostre ideeche dominano i fatti e le circostanze esterne, e può ba-stare la volontà dell’idea formatasi nella mente di alcu-ni uomini rappresentativi per avere ragione delle circo-stanze esterne della vita, talché è capovolta tutta la filo-sofia del nostro partito. Il nostro partito era nato e si erasviluppato nel materialismo storico ed ora va sostituen-do il principio di un fatuo idealismo, sicché tutti i marxi-sti della grande e gloriosa tradizione non si riconoscereb-bero più. Ed ecco appunto che, in applicazione di que-

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sta nuova corrente del pensiero, voi, compagni della di-rezione del partito, vi potete illudere di aver seguito latattica intransigente per una cosciente e volontaria appli-cazione del metodo; ed io vi dico che voi come noi ave-te applicato il metodo necessario sotto la fatale incoerci-bile necessità storica della evoluzione compiuta dal no-stro paese in questi ultimi anni» (op. cit., pp. 60-62).– Pag. 253.questo «stato nello stato», che era in parec-chi comuni dell’Emilia e della Romagna, A. RAGGHAN-TI, Gli uomini rossi all’ arrembaggio dello stato (Bologna,1914 ), che descrive le condizioni e narra i casi di Mo-linella, Minerbio, Imola, e di altri luoghi. Oltre gli attid’intimidazione e di violenza, si scorgevano come le li-nee di un nuovo ordinamento: «Gli ufficî di collocamen-to pretendono l’esclusività e il monopolio di tutto il la-voro, vogliono limitare negli assuntori il diritto di scelta,condannando così, per ragioni politiche, alla disoccupa-zione tutti coloro che non sono iscritti alle leghe» (p. 36).«La definizione: uno stato nello stato, ha dato alquantosui nervi ai contradittori; ma ogni giorno nuovi fatti met-tono sempre più in chiaro questo stato e la sua organizza-zione. Ha le sue monete: nell’Imolese si paga non in da-naro, ma coi buoni delle cooperative rosse, e ciò si pra-tica anche da alcuni municipî rossi verso gl’impiegati, aiquali una metà dello stipendio o anche due terzi si pagain questo modo. Ha i suoi tribunali che da Crespellanoin poi han sempre funzionato..» (p. 52). Altri opuscoli diquell’anno, che si riferiscono a questi e simili accoramen-ti, sono: DUCA DI GUALTIERI, D’un nuovo concetto del-lo Stato (Napoli, 1914); O. CINA, La commedia socialista(Roma, 1914). – Pag. 253. Nell’Avanti! del 12 giugno’14, circa l’importanza dello sciopero generale effettua-to: «Il proletariato esiste ancora, dentro e contro la na-zione dei nazionalisti, e il Partito socialista è di esso pro-letariato l’espressione politica unica e dominante... Dueelementi essenziali distinguono il recente sciopero gene-

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rale: l’estensione e l’intensità... Non è stato uno sciope-ro di difesa, ma di offesa. Ha avuto un carattere aggres-sivo...». Il Mussolini ricordava più tardi con compiaci-mento (Popolo d’Italia, n. 36, 20 dicembre ’14): «Il rivo-luzionarismo di questi ultimi anni è stato un audace ten-tativo d’infondere una corrente di giovinezza ideale nellevene di un organismo inesorabilmente malato. L’esperi-mento dell’idealismo rivoluzionario comincia col minac-cioso sciopero per Ettore Giovannini e si conclude conlo sciopero della settimana rossa. Tutti movimenti tolle-rati e subiti dalla casta sacerdotale che dirige il Partito».Nell’ Avanti! (28 giugno ’14), accettando la responsabi-lità dell’accaduto: «sarebbe invero – scriveva – relativa-mente facile, comodo e igienico lasciarsi alle spalle unaporticina aperta: accettare, ad esempio, ciò che è operadel proletariato e respingere ciò che è opera della “tep-pa”. Ma è assurdo il distinguere...». Si veda anche il suodiscorso sul Valore storico del socialismo, tenuto a Firen-ze l’8 febbraio del ’14, in cui sostiene che il problemaè di opporre alla minoranza dirigente borghese una mi-noranza rivoluzionaria, che s’impadronisca del potere ecrei l’ordine nuovo. A contrasto, sono da leggere le po-lemiche del già ricordato autorevole rappresentante delPartito socialista ufficiale, il Treves: «Il facilonismo rivo-luzionario, che professa l’odio alla coltura, che deride leUniversità popolari, che va abolendo la propaganda so-cialista a vantaggio di una troppo comoda ed analfabe-tica propaganda di ribellione politica, in cui repubblica-ni, socialisti, sindacalisti, anarchici sbraitano tutti ad undipresso le stesse cose...», trova nello sciopero genera-le «il punto di convergenza di tutti i partiti di avanguar-dia (non si dice così?), l’idea semplicistica che coacervatutti quelli che sperano di pescare qualche cosa nel bai-lamme: la protesta doverosa per gli assassinamenti del-la forza pubblica o il collettivismo, un po’ di repubblicao una fiera rappresaglia contro i carabinieri, la caduta di

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un ministero o la sospensione del codice penale, una ri-forma legislativa o la demolizione del Parlamento, o an-che, infine, semplicemente, lo sciopero generale, lo scio-pero generale per esercizio di allenamento, per prope-deutica rivoluzionaria». «La predominante corrente ri-voluzionaria, ci porta, senza che il Partito se ne accorga,a fare a ritroso la evoluzione che Marx ha fatto fare al so-cialismo. Noi torniamo al socialismo utopistico. Noi cre-diamo alla “taumaturgia dell’Idea” ai “miracoli della vo-lontà”; la natura, i fatti, l’ambiente, la scala della civiltàecc., non hanno più senso per i nuovi socialisti idealisti.Si predica che, con l’idea e la volontà di rivoluzione, an-che col piu perfetto analfabetismo di masse e col più an-cestrale patriarchismo georgico, la rivoluzione socialistasi può fare...» (La teppa e la rivoluzione socialista, e Invo-luzione rivoluzionaria, nella Critica sociale del luglio ’14,rist. in C. TREVES, Polemica socialista, Bologna, 1921:v. pp. 260-2).

XII

Pag. 255. The Cambridge Modern History, vol. XII, Thelatest Age (Cambridge, 1910), p. 9; DIETRICH SCHÄ-FER, Weltgeschichte der Neuzeit (Berlin, 1912), II, 389. –Pag. 256. Pei due tentativi dell’Austria di rompere la pa-ce nel 1913, v. GIOLITTI, Memorie, II, 480-83. – Pag.257. Oltre le memorie del Giolitti, per la politica italia-na nel periodo della neutralità: A. SALANDRA, I discorsidella guerra (Milano, 1922), e dello gtesso il libro ora ve-nuto in luce: La neutralità italiana (1914), ricordi e pen-sieri (Milano, 1928). – Pag. 259. La lettera del 24 gen-naio ’15 del Giolitti al Peano, pubblicata poi nella Tribu-na di Roma, della quale divenne proverbiale per irrisionela parola del «parecchio» che si sarebbe potuto otteneremercé i negoziati, è ristampata in Memorie, II, 519-521,

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dove, in luogo di «parecchio», si legge «molto»: che era,in verità, il testo autentico, modificato in quel punto, perconsiderazioni di apportunità politica, e senza saputa delGiolitti, dal direttore del giornale. [Ciò volle dichiarar-mi nel 1928, a sgravio di coscienza, quel direttore, Olin-do Malagodi, in un colloquio al Senato e in presenza diun gruppo di senatori, che io presi a testimoni di quan-to il Malagodi mi diceva.] – Pag. 260. Una delineazio-ne dell’atteggiamento dei varî partiti italiani di fronte al-la guerra è in G. DE RUGGIERO, La pensée italienne etla guerre (nella Revue de métaphysique et de morale, t.XXIII, 1916, n. 5). – Pag. 263. Il giornale del secessio-nista Mussolini fu il Popolo d’Italia, il cui primo nume-ro usci il 15 novembre del ’14. – Pag. 264. Quantun-que i nazionalisti avessero innalzato a loro proprio sim-bolo la figura del Crispi, è da notare che gli interpreti au-tentici del pensiero crispino furono contrarî all’interven-to e rimasero triplicisti, nel giornale da loro a tal fine fon-dato, la Concordia (1915). – Pag. 265. G. D’ANNUN-ZIO, Per la più grande Italia, orazioni e messaggi (Mila-no, 1918). – Pag. 265. R. SERRA, Esame di coscienzadi un letterato, in La Voce, VII, n. 10, 30 aprile 1915.– Pag. 266. Non c’è stato ancora chi, con fine intelli-genza morale e fuori di ogni intento oratorio ed edifica-torio, abbia fatto oggetto di studio i molti volumi di let-tere di giovani combattenti, pubblicati dai loro amici econgiunti, e che contengono vivi documenti delle idea-lità che li animavano. Su qualcuna di quelle raccolte, v.CROCE, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra.(Bari, 1965). [Ora ha compiuto nel miglior modo que-sto lavoro l’OMODEO, nella serie di articoli pubblicatinella rivista la Critica (1929-1933), col titolo: Momentidella vita di guerra, e raccolti in volume, Bari, 1934.] –Pag. 266. Nel recente romanzo di THOMAS MANN, DerZauberberg (1924), il tipo dell’italiano illuminista, demo-cratico, interventista è rappresentato nel modo più serio

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e nobile dal personaggio al quale l’autore dà il nome di«Settembrini». [Fu creduto, e io credetti, che con questonome egli alludesse al nostro Luigi Settembrini; ma alcu-ni anni dopo, in un incontro col Mann in Germania, eglimi confessò di avere ignorato affatto l’esistenza di Lui-gi Settembrini, e di avere composto quel nome, derivan-dolo dal «20 settembre»!]. – Pag. 266. I cosidetti «neu-tralisti» nel significato chiarito, ebbero il loro organo inun giornale Italia nostra, che si pubblicò dal 6 dicembre’14 al 6 giugno ’15. Nel suo programma, questo giorna-le diceva: «Noi non siamo né per le Potenze centrali, néper quelle della Triplice Intesa; non siamo, anzi, a prioriné per la pace né per la guerra. Siamo per il nostro pae-se, pro Italia nostra. Solo il suo interesse vogliamo che sifaccia, con una visione inesorabilmente integrale. E benvenga la guerra contro chicchessia, quando però l’inte-resse della nazione ciò richieda, sicuri che il governo, tu-telandone l’interesse, saprà anche tutelarne l’onore». –Pag. 267. DE RUGGIERO, art. cit., pp. 763-4: «Un pen-seur de chez nous – (ero io, che avevo ciò detto in con-versazione) – résumait scientifiquement cette conceptionen disant que cette guerre lui apparait comme ’la guerredu materialisme historique”. L’observation est heureuseet elle donne à penser». – Pag. 267. Per le cose che si dis-sero in quei giorni di concitazione, si veda, oltre il già ci-tato vol. del D’Annunzio, la raccolta di P. CAMMELLI eG. FABBRI, L’arma della parola nella guerra d’Italia (Te-ramo, 1918 sgg.), vol. I. – Pag. 269. Per la condizione incui il Parlamento venne a trovarsi è da leggere il discorsodel Turati alla Camera, del 20 maggio 1915. – Pag. 269.Al proclama dell’imperatore Francesco Giuseppe del 24maggio, che parlava del «tradimento quale la storia nonconosceva pari», compiuto dall’Italia, e del «nuovo per-fido nemico» che entrava in campo, ricordava le passatevittorie sopr’esso dell’esercito austriaco e si metteva sot-to la protezione dell’Altissimo, non fece riscontro quello

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del re d’Italia, che, senza contumelie e iattanza, così il 25maggio, dal gran quartiere generale, s’indirizzò ai solda-ti di terra e di mare: «L’ora solenne delle rivendicazioninazionali è suonata. Seguendo l’esempio del mio GrandeAvo, assumo oggi il comando supremo delle forze di ter-ra e di mare, con sicura fede nella vittoria, che il vostrovalore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapran-no conseguire. Il nemico, che vi accingete a combattere,è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sa-pienti apprestamenti dell’arte, egli vi opporrà tenace re-sistenza, ma il vostro indomito slancio saprà, di certo, su-perarla. Soldati, a voi la gloria di piantare il tricolore d’I-talia sui termini sacri che la natura pose a confine del-la patria nostra, a voi la gloria di compiere, finalmente,l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri».

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