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Michail Bakunin

Viaggio in Italia

a cura di Lorenzo Pezzica

elèuthera

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Titoli originali dei saggi: La situation italienne,Lettre à mes amis d’Italie. A mes amis d’Italie à l’occasion du Congrès

des travailleurs tenu à Rome le 1 novembre 1871 par le parti mazzinien, Etatisme et anarchie. La lutte des deux partis dans

l’Association Internationale des Travailleurs, La situationTraduzione dal francese di Guido Lagomarsino

© 2013 elèuthera e Lorenzo PezzicaQuest’opera è rilasciata nei termini della licenza

Creative Commons - Attribuzione Non Commerciale -Condividi allo stesso modo 2.5 Italia

progetto grafico di Riccardo Falcinelliimmagine di copertina: © Bad Trip

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Indice

Introduzione 9di Lorenzo Pezzica

Cronologia di Michail Bakunin 25

CAPITOLO PRIMO

La situazione italiana 53

CAPITOLO SECONDO

Le cinque nazioni 73

CAPITOLO TERZO

Sporchi, brutti e cattivi 85

CAPITOLO QUARTO

Nessuno può restare indefinitamente in preda alla disperazione 91

CAPITOLO QUINTO

La valanga 97

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APPENDICE

Lettera a Giuseppe Dolfi, Torino, 13 gennaio 1864 115Lettera ad Agostino Bertani, Livorno, 26 gennaio 1864 116Lettera a Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tournemire, Firenze,1 febbraio 1864 119Lettera a Karl Marx, Firenze, 7 febbraio 1865 125Lettera a Giorgio Asproni, Napoli, 2 novembre 1865 126Lettera a Ludmila Assing, Napoli, 5 novembre 1865 128Lettera a Aleksandr Ivanovic Herzen e a Nikolaj Platonovic Ogarëv, Napoli, 7 novembre 1865 131Lettera a Carlo Gambuzzi, Napoli, seconda metà d’agosto 1866 133

Brevi note biografiche 137Bibliografia 141

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Introduzione

Se era un pazzo, era uno dei pazzi di Blake,che persistendo nella follia attingono la saggezza.

George Woodcock1

In questo periodo l’Italia si trova in una condizione triste e pericolosa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze

dell’oggi e dalle ancor più temibili incertezze del domani.Michail Bakunin

La valanga scende fatale e onnipotente, e voi ne sapete il nome: RIVOLUZIONE SOCIALE.

Michail Bakunin

L’Italia, come è noto, è stata per lungo tempo una tappa obbligatadel «Grand Tour»2 che spingeva l’intellighenzia europea a visitarei luoghi della classicità. Ogni uomo di cultura europeo che si rispet-tasse doveva aver compiuto almeno un viaggio in Italia. Anche l’a-

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ristocratico russo Bakunin decideva di intraprendere nel 1864 un«viaggio in Italia», ma i suoi interessi erano tutt’altro che classici.Non c’è alcun dubbio che Bakunin, uno dei padri fondatori dell’a-narchismo, fosse non solo un grande pensatore3 e un indomito ri-voluzionario, ma era anche un acuto osservatore dei mali italiani, diun paese sì unificato ma già afflitto da quei problemi (e vizi) con cuiancora oggi facciamo i conti: un meccanismo di prelievo fiscale nonsolo vessatorio ma oltretutto inefficace, una disinvolta gestione per-sonale del potere da parte di chi era preposto all’amministrazionedella cosa pubblica, una «questione morale» che già investiva laclasse politica e i ceti dirigenti, una scarsa attenzione alle aree arre-trate del paese coniugata alla scelta di risolvere come problema di or-dine pubblico la nascente «questione meridionale», uno strapoteredella burocrazia e delle varie consorterie, una presenza invasiva dellaChiesa e altro ancora. Insomma, lo sguardo a volte ironico e a volteindignato del filosofo russo mette a nudo un’Italia che non facciamoaffatto fatica a riconoscere. Sembra quasi che lo Stato unitario si siaripetuto eguale a se stesso nel corso dei decenni, riproponendo neltempo i tanti vizi e le scarse virtù che già Bakunin coglieva lucida-mente centocinquant’anni fa.

Nell’Italia del passato c’è dunque il racconto del suo oggi? Nonsi vuole certo ridurre l’intera storia italiana a un eterno presente. Èstato giustamente sottolineato che «gli italiani di oggi sono divisi dasette-otto generazioni dai protagonisti del moto risorgimentale»4.Il paese si è trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno èprofondamente cambiato. Eppure si continua a parlare, come al-lora, del Mezzogiorno come di un’area complessivamente arretrata,sottosviluppata, dipendente da un nord ricco, industriale ecc. Laquestione meridionale periodicamente risorge dalle ceneri, comeun’araba fenice, ponendosi al centro del dibattito nazionale. Sem-pre presente e sempre irrisolta. Nei momenti di crisi, le riflessionisull’identità del paese si intensificano e si fanno acute, nel vivo dilacerazioni o di mutamenti inattesi. E sono riflessioni estreme. Sipongono domande sull’identità italiana nell’oggi, pensando a ri-

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sposte da cercarsi in un passato che porta dritto dritto al 1861.Detto questo, anche se molto, moltissimo, è cambiato in Italia

da quando Bakunin scriveva questi brani, è un fatto incontestabileche le caratteristiche messe in evidenza dal rivoluzionario russo,nonostante le radicali trasformazioni sociali ed economiche inter-venute nel frattempo, risultino essere ancora largamente diffuse,sia pure in modo non omogeneo, nelle diverse classi della società enelle diverse regioni del paese. Stupisce quanto uno straniero abbiacapito l’Italia post-risorgimentale nel profondo.

Una delle principali caratteristiche e attitudini di uno scrittore èsenz’altro la capacità di osservazione, cioè quella particolare sensibi-lità (oggi si direbbe empatia) che gli consente non solo di interes-sarsi della vita altrui, ma anche, in certo senso, di confondersi conessa. E Bakunin dimostra ampiamente questa caratteristica di en-trare in empatia con l’ambiente e con le persone che incontra, in-sieme a una capacità di analisi che, avulsa dagli stereotipi e dai pre-giudizi sul «carattere nazionale»5, si rivolge piuttosto a considerarele possibili «configurazioni» della politica e della società italiana del-l’epoca. Ne sono un esempio le lettere che scrive a Giorgio Asproni,Agostino Bertani e Carlo Gambuzzi, dove il ragionamento relativoalle possibili configurazioni «altre», che invita i suoi interlocutori aprendere in considerazione per agire di conseguenza, dimostra unaconoscenza della politica italiana tutt’altro che superficiale. Sonoaspetti della personalità di Bakunin che superano in un balzo quel-l’immagine stereotipata, divulgata dai suoi avversari politici, del ri-voluzionario barricadiero avulso dalla realtà storica.

Al di là della classica lettura in chiave politica dei suoi scritti, èormai possibile leggere Bakunin come filosofo politico, storico, os-servatore e interprete della realtà, qui in particolare di quella ita-liana. Liberati dalle motivazioni storico-contingenti che li viderosorgere, i testi bakuniniani possono così tornare nuovi ed essere lettiquali frammenti di un’analisi lucida di cui si coglie facilmente lastupefacente attualità. La loro lettura è un’occasione per riconside-rare non solo la condizione dell’Italia al momento dell’unità, ma

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anche per comprendere come un osservatore non banale e per di piùstraniero sia stato in grado di andare oltre ciò che era visibile nell’im-mediato, di cogliere il malessere profondo dell’Italia post-risorgi-mentale, in particolare del Mezzogiorno. Anzi, più che malessere, sitratta di una vera e propria «disperazione». Una differenza che amolti sembrò sfuggire e che Bakunin invece sottolinea con forza: «Etuttavia anche la miseria più atroce, pur colpendo milioni di prole-tari, non è ancora una motivazione sufficiente per far scoppiare la ri-voluzione. L’uomo è infatti dotato dalla natura di una pazienzastraordinaria, che a dire il vero talvolta sfocia nella disperazione.[…] Ma quando si arriva alla disperazione, la sua ribellione diventaallora più probabile. […] In conclusione, nessuno può restare inde-finitamente in preda alla disperazione» [cap. IV, p. 93].

Le parole sono importanti e incidono sul senso delle cose. Enegli scritti, come nelle lettere, di Bakunin sono presenti molte pa-role: consorteria, casta, disonestà, moralità e immoralità, nullità,praticismo politico (poi definito, dal 1876, trasformismo), privi-legi, bancarotta, pazienza, miseria, disperazione, contadini, giusti-zia, eguaglianza, felicità, libertà, rivoluzione, e molte altre ancora.Sì, in Bakunin ricorre spesso la parola rivoluzione, un concetto cheoggi non è molto in auge tra gli storici, e non solo. Non è certo unanovità. E lo fa anche per indicare il periodo risorgimentale. Infatti,come è stato recentemente osservato, il termine Risorgimento «ri-schia di imporci un’idea nazionale di ‘ferrea compattezza’, mentrela parola occulta le contraddizioni ben presenti in quel periodo e ri-schia di far comprendere poco di quegli eventi. Va dunque richia-mato in servizio il termine rivoluzione, che divide anziché accomu-nare. Esso fu altrettanto centrale nel lessico dei protagonisti»6.

Bakunin trascorre in Italia tre anni della sua esistenza, dal 1864al 1867, visitandola in lungo e in largo, a piedi, sui piroscafi, incarrozza e in treno. Sono gli anni in cui si gettano le fondamentadello Stato unitario ed è tutto un fermento di nuove idee, di istanzee di rivendicazioni laiche, emancipatrici e umanitarie. Bakunin fa-

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miliarizza molto rapidamente con la società italiana. Capisce subitoche la piccola e media borghesia, gli operai e gli artigiani, sono in-fluenzati dal mazzinianesimo. È consapevole dell’importanza maanche dei limiti del Risorgimento. Individua una sorta di religionepolitica del processo risorgimentale che poggia su due pilastri: daun lato il partito costituzionale, con la sua lenta e progressiva ade-sione a Casa Savoia, dall’altro l’idea di un’Italia diversa, rappresen-tata dal garibaldinismo e dal partito d’azione.

Nei suo scritti Bakunin avverte, e non solo sul terreno politico,il distacco tra «paese legale» e «paese reale». E infatti parla di cinquenazioni: «In Italia vi sono almeno ‘cinque nazioni’: 1. I clericali,dal papa all’ultima beghina. 2. La consorteria, ovvero la grandeborghesia, compresa la nobiltà. 3. La media e la piccola borghesia.4. Gli operai delle fabbriche e delle città. 5. I contadini. Ora, io vidomando, come è possibile affermare che queste cinque nazioni –e volendo potrei annoverarne anche di più, cioè: a) la corte, b) lacasta militare, c) la casta burocratica – possano avere una medesimafede e aspirazioni comuni?»[cap. II, p. 73].

Si rende ben conto che l’Italia, uscita dal Risorgimento nel segnodell’egemonia dei moderati, affronta i primi decenni della sua vitaunitaria non come un organismo omogeneo e solido, ma come unarealtà percorsa da linee di frattura. In questi anni, mentre si defini-sce il potere dei moderati, prende avvio un’Italia dissidente, antago-nista e contestatrice che interpreta stati d’animo diffusi nelle massepopolari, anche del Mezzogiorno, che ha le sue roccaforti in un grannumero di circoli e periodici locali sparsi per la penisola, e che se-gnerà con una lunga scia di proteste, di scontri violenti e spesso dimoti i decenni successivi all’unità. Un’Italia dissidente che si confi-gura come fortemente anticlericale, antimilitarista, antiautoritaria.

È in queste linee di frattura che Bakunin scorge la possibilità diuna rivoluzione sociale capace di cambiare la realtà delle cose. E sirivolge ai cosiddetti «sconfitti» del Risorgimento che «all’indomanidella proclamata unità, anziché alzare le mani in segno di resa, con-segnarsi prigionieri ai vincitori, adattarsi al regime monarchico, in-

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somma capitolare, iniziano con accresciuto vigore la loro battagliaper un’Italia diversa, più avanzata, più civile e libera, cominciandodove gli altri avevano finito»7. Sono gli eretici del Risorgimento,spesso scomodi, irregolari e refrattari alla logica di ogni partito.

La presenza di Bakunin in Italia ha certamente significato il con-fronto e il conflitto con l’ideologia mazziniana, ma anche la defini-zione iniziale della fisionomia del movimento operaio e socialista,attraverso la diffusione dell’Internazionale in Italia, soprattutto oc-cupandosi, per primo, delle «masse agricole del Mezzogiorno, senzaconsiderarle strumenti di reazione e non deplorando l’avvenutaunificazione nazionale»8. A Bakunin spetta un posto di primopiano nella storia delle origini del movimento sociale italiano e in-ternazionale. Chi voglia penetrare quel movimento non puòastrarre da lui.

Giunge nel «Bel Paese», assieme alla moglie Antonia Kwiatkow-ska, nel gennaio del 1864 dopo una fuga rocambolesca dalla Sibe-ria dove era stato confinato dal governo russo. Il 1864 segna unasvolta decisiva nel pensiero politico di Bakunin. A partire da quel-l’anno, infatti, si dedica completamente alla causa del socialismo ri-voluzionario. Da quel momento la questione sociale costituisce lasua principale preoccupazione.

La fredda Torino è la sua prima tappa. Poi raggiunge Genova e dalì si imbarca per Caprera a far visita a Garibaldi. Di quei tre giornidi visita, delle persone e dell’ambiente dell’isola, abbiamo un’im-portante fonte di informazione: la testimonianza diretta di Bakunin.In una lettera alla contessa Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tourne-mire il russo, infatti, descrive dettagliatamente la sua permanenzasull’isola, tratteggiando la figura politica e umana di Garibaldi.

Dopo Caprera, Firenze, dove, fra una riunione e l’altra, ha anchela possibilità di visitare la città e di conoscere le sue opere d’arte.Conosce molti esponenti dell’ambiente democratico e massonicotoscano. Nell’estate del 1865 si trasferisce a Napoli, città che ameràprofondamente e dove resterà fino al 1867.

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Quando Bakunin parla dei contadini riesce a offrirne una letturapenetrante, quasi da etnografo o antropologo culturale, attenta inparticolare al rapporto che passa tra mentalità e aspetti della vitacollettiva e quotidiana. In particolare sottolinea la presenza perva-siva della Chiesa nelle campagne e la colpevole assenza di un dia-logo tra città e campagna, tra le energie democratiche ed emanci-patrici del paese e un mondo contadino di cui si ha un’immaginepreconcetta; o meglio, che non si vuole affatto conoscere: «I con-tadini sono l’immensa maggioranza della popolazione italiana, ri-masta quasi completamente vergine perché non ha avuto ancorauna sua storia, dato che tutta la storia del vostro paese, come ho giàosservato e come voi sapete meglio di me, si è finora esclusivamenteconcentrata nelle città, ben più che negli altri paesi europei. I vo-stri contadini non hanno partecipato a questa storia, e non la co-noscono se non per i contraccolpi che hanno ricevuto a ogni nuovafase del suo svolgimento, per la miseria, la schiavitù e le sofferenzeinnumerevoli che essa ha loro imposto. A causa di tutte questesventure che sono piovute loro addosso dalla città, i contadini na-turalmente non amano le città né i loro abitanti, compresi gli stessioperai, i quali li hanno sempre trattati con una certa supponenza,cosa che ora pagano con la diffidenza. Ed è questo rapporto stori-camente negativo dei contadini italiani con la politica della cittàquello che nelle campagne conferisce potere ai vostri preti, e non lareligione. I vostri contadini sono superstiziosi, ma niente affattoreligiosi; amano la Chiesa per la sua messinscena scenografica, perle sue cerimonie recitate e cantate che interrompono la monotoniadella vita rurale. La Chiesa è per essi come un raggio di sole in unavita di stenti e di lavoro omicida, di dolori e di miseria […].

La massa dei contadini italiani rappresenta già di per sé un eser-cito immenso e onnipotente per la vostra rivoluzione sociale. Gui-dato dal proletariato urbano e organizzato dalla gioventù socialistarivoluzionaria, questo esercito sarà invincibile. Di conseguenza,cari amici, quello che dovete fare, nel momento stesso in cui orga-nizzate gli operai urbani, è trovare i mezzi per rompere il ghiaccio

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che separa il proletariato delle città dal popolo delle campagne, ecosì unire questi due popoli in un popolo unico. Sta qui la salvezzadell’Italia» [cap. II, p. 81].

Al momento dell’unità l’Italia, popolata da circa 25 milioni diabitanti in larga parte analfabeti, è un paese essenzialmente agri-colo, e prevalentemente agricola l’Italia sarebbe rimasta ancora alungo, fino alle soglie della seconda guerra mondiale. È noto che alprocesso di unificazione, che come quasi tutti i grandi eventi sto-rici non era ineluttabile, restano estranei i contadini, che costitui-scono la stragrande maggioranza della popolazione, con atteggia-menti che vanno dall’indifferenza all’aperta ostilità. Il distacco dellemasse rurali dalla causa risorgimentale è stato spiegato dagli storicisia attraverso motivazioni complesse che affondano le radici nellastoria del paese (la subalternità della campagna rispetto alla città, lafunzione di conservazione sociale svolta dalla Chiesa, la tradizionalediffidenza del contadino nei confronti delle novità), sia, sul pianopiù immediato di quegli eventi, dalla miopia politica del movi-mento democratico che non capisce quanto sia centrale il coinvol-gimento delle masse contadine per il tentativo rivoluzionario ditrasformazione del paese.

Bakunin pone la questione sociale, in particolare nel Mezzo-giorno, al centro della sua riflessione storico-politica per la trasfor-mazione socialista anarchica della società italiana. La questione so-ciale è una questione di miserie per le grandi masse dellapopolazione, di analfabetismo, di fame, di malattie da denutri-zione o cattiva alimentazione, di disoccupazione e bassi salari, disfruttamento e di forzata emigrazione, in Val Padana come nelMezzogiorno; una questione aggravata in quel periodo da una si-tuazione ambientale drammatica: l’epidemia di colera che, scop-piata nel luglio 1865 ad Ancona, si propagherà soprattutto nelMeridione d’Italia e a Napoli in particolare, causando più di160.000 morti.

Bakunin mette in evidenza il carattere strutturale dell’arretra-tezza delle masse contadine e incita a non sottovalutare i movi-

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menti di protesta e di rivolta, a non leggerli solo come una rea-zione al cambiamento. In questo senso, sul piano politico sottoli-nea l’incapacità dei democratici, che fanno capo a Mazzini, discorgere la centralità che nell’Italia di quei decenni riveste la que-stione contadina, cosa che impedisce di elaborare un programmacapace di scuotere le popolazioni rurali, di prospettare una tra-sformazione dell’assetto sociale tale da eliminare gli squilibri e leingiustizie, a partire dal brutale sfruttamento di milioni di conta-dini.

Due sono le manifestazioni più clamorose delle tensioni socialidi quel periodo: il brigantaggio, che sconvolge la vita del Mezzo-giorno tra il 1861 e il 1865, stendendo le sue ultime propagginifino al 1870, e i moti del «macinato», entrambe risolte come unproblema di ordine pubblico, attraverso l’applicazione di una legi-slazione speciale. È questa la prima preoccupazione delle classi di-rigenti liberali, oltretutto allarmate dalla presa che avrebbero po-tuto avere le idee socialiste in un tale contesto di disperazione. Lalotta sarà lunga e sanguinosa, e lo Stato potrà portarla a terminecon successo soltanto con un massiccio spiegamento di forze (piùdi 100.000 uomini), con il ricorso a leggi eccezionali e con l’inviosu larga scala dei sospetti al domicilio coatto. Tuttavia, questa lineadi intervento non farà altro che aggravare ulteriormente il divarioNord-Sud e confermare l’ingovernabilità politica del Mezzogiorno,diffondendo la percezione di un’alterità antropologica delle regionidel Sud Italia. Stereotipo e pregiudizio cui contribuirà anche quellabranca della scienza positivista connessa all’antropologia criminaledi Lombroso che, teorizzando una particolare conformazione ana-tomica dei crani dei briganti, identificati come «delinquenti-nati»,alimenta l’idea di una «diversità» connaturata ai meridionali che sicolora di motivazioni razziali.

Il brigantaggio, al di là dei tentativi di strumentalizzazione ope-rati da borbonici e clericali e degli episodi di criminalità comune,appare nel suo complesso a Bakunin come una grande occasione dilotta popolare9, intuendo le radici sociali del fenomeno così come

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le ha intuite anche Garibaldi. Al di là della mitizzazione (attribuitaa Bakunin) della figura del brigante come eroe positivo, il rivoluzio-nario russo coglie con acutezza come il brigante non sia solo unbandito, ma un attore sociale che rispecchia i profondi malesseridella società.

Due anni prima dell’arrivo di Bakunin a Napoli, un altro famosopersonaggio, Alexandre Dumas, lascia la città partenopea dopo unsoggiorno di due anni. In un gran numero di articoli lo scrittorefrancese descrive e denuncia la miseria del Mezzogiorno e la can-crena della camorra, invocando un’iniziativa di riforme dall’alto chepossa rispondere alla disperazione che porta alla scelta del bri-gante10. Bakunin tradurrà questa analisi in un progetto politico cheriassume soprattutto in Stato e Anarchia, dove sottolinea l’impor-tanza di un’organizzazione politica, di un preciso progetto per un at-tore sociale (i contadini e gli operai uniti), e di una lotta per l’affer-mazione della sua autonomia. La miseria del Mezzogiorno e ladisperazione delle plebi meridionali su cui Bakunin si dilunga ac-cantonano definitivamente l’atteggiamento paternalistico nei con-fronti della questione e segnano un passaggio di testimone, comeNello Rosselli nel suo Mazzini e Bakunin non manca di rilevare.Quelle pagine nascono proprio dalle molte note che Bakunin scrivedurante il suo periodo italiano.

Le raccolte antologiche contengono in sé un carattere necessaria-mente limitato dei brani proposti. Per questo motivo la selezionedei brani, tra i tanti possibili, ne ha verosimilmente escluso altriegualmente importanti. Nonostante ciò, la scelta di questa breveantologia non dovrebbe aver intaccato gli intenti informativi e cri-tici che si proponeva. I brani presentati abbracciano un arco crono-logico che va dal 1864 al 1873. A ognuno di essi è stato attribuitoun titolo. Questo ha permesso di dar conto di un legame argo-mentativo tra i diversi brani. L’antologia comprende anche un’Ap-pendice di lettere, presentate in ordine cronologico, scritte daBakunin durante il suo soggiorno italiano.

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I testi sono accompagnati da alcune immagini, tra cui spiccanotre disegni, fino a questo momento inediti, ripresi dall’«album ita-liano» di Natalya Bakunina, cognata di Michail, che lo ritraggonodurante il suo soggiorno partenopeo. Nel primo di questi Bakuninè ritratto, come nota l’appunto manoscritto della cognata, mentreassiste all’esecuzione dell’inno garibaldino da parte di alcuni scu-gnizzi napoletani.

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Gli schizzi riprodotti in queste pagine sono stati disegnati a Napoli neglianni Sessanta dell’Ottocento da Natalya, moglie di Pavel Bakunin.

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Note all’Introduzione

1. G. Woodcock, L’Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano

1968, p. 127.

2. Nei secoli XVIII e XIX visitare l’Italia è considerato dalle classi colte europee, spe-

cialmente da quella britannica, una parte essenziale dell’educazione di ogni giovane

gentiluomo. Il picco di quella che è una vera e propria istituzione si ha nel corso del

XVIII secolo, ma il fenomeno si estende fin oltre la metà del XIX secolo. Progressiva-

mente la base sociale dei viaggiatori si allarga: i «turisti» appartengono ora anche alla

borghesia. E cambia al contempo il valore del «Grand Tour», che diventa sempre

più un’esperienza di vita, un momento di accrescimento intellettuale e quindi di ar-

ricchimento personale. Il termine «Grand Tour» compare per la prima volta nella

traduzione in francese dell’opera An Italian Voyage dell’inglese Richard Lassels,

pubblicata nel 1670 come guida per studiosi, artisti e collezionisti d’arte in visita

in Italia. Tra i grandi viaggiatori anche Johann Wolfgang von Goethe, che effettuò

il suo «Grand Tour» italiano dal 1786 al 1788, riportato nel suo famoso Viaggio in

Italia pubblicato in tre volumi: il primo nel 1816, il secondo nel 1817 e il terzo nel

1829.

3. È impossibile ormai non riconoscere la statura intellettuale, morale e politica di

Bakunin e non c’è più alcun dubbio, almeno nel mondo degli studi (anche se qual-

che oca ancora starnazza sul campidoglio), che il pensiero e l’azione di Bakunin co-

stituiscano un tassello ineliminabile del patrimonio storico del movimento operaio

e socialista italiano e internazionale, e specificamente del suo filone rivoluzionario

e libertario, di cui Bakunin è stato fondatore e teorico di eccezionale valore. Il suo

pensiero è inseparabile dalla sua attività pratica rivoluzionaria, anche se in passato

il primo è stato spesso considerato subalterno alla seconda, assai più «appariscente»,

rendendone più ardua e problematica la «lettura». Pochi pensatori infatti sono stati

così mal compresi e sottovalutati come Bakunin, tanto che fino a qualche anno fa

nessuno aveva dedicato uno studio sistematico al suo pensiero. L’aver stravolto le

sue modalità originali e la sua espressione storica autentica ha comportato una

lunga sequela di contraddizioni che hanno impedito di formulare una critica coe-

rente. D’altronde, gli stessi «critici» sono in completo disaccordo tra loro. Dopo

aver fatto una «caricatura storica» di Bakunin, con una ricostruzione fondata su al-

cuni dati completamente falsi e su altri manomessi o alterati in modo decisivo, ta-

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luni hanno creduto di averlo definitivamente relegato nel campo della curiosità e

dell’aneddotica sociale. Disinvolti utilizzi a fini di battaglia politica, usi e soprat-

tutto abusi del suo pensiero e della sua stessa figura, dispute smaccatamente ideo-

logiche e irrimediabilmente datate, nonostante alcuni spunti seri e interessanti,

appaiono oggi in tutta la loro evidenza. Molto è stato scritto dagli avversari politici

di Bakunin anche sulla scarsa organicità dei suoi testi, utilizzata come stereotipo per

descrivere un rivoluzionario disordinato e inconcludente tanto nei suoi pensieri

quanto nelle sue azioni. È vero che il pensiero di Bakunin ha nell’aspetto formale

un carattere non sistematico, a volte persino confuso (anche se mai contradditto-

rio), ma una lettura attenta di tutta la sua opera fa emergere con grande nettezza

uno sviluppo logico e una sostanziale unità. Eppure, questa mancanza di compiu-

tezza formale ha fatto scrivere a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica

che il pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico e sostanzial-

mente poco originale. Per loro, il rivoluzionario russo sarebbe solo un grande assi-

milatore con letture oltretutto superficiali. E invece la sua dimensione originale

nasce proprio da questa natura solo apparentemente disorganica, una provviso-

rietà e transitorietà che esprimono non solo il momento storico in divenire ma

anche il farsi di un pensiero politico inedito come quello anarchico. La mancanza

di sistematicità rappresenta dunque non il limite ma la grandezza del suo pensiero,

che gli ha consentito di elaborare alcune intuizioni folgoranti che sono andate ben

oltre la sua epoca.

Per lo studio del pensiero di Bakunin, cfr. Giampietro N. Berti, Un’idea esage-

rata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, Milano 1996, e dello stesso au-

tore, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria-Bari-Roma 1998.

Sulle dispute storico-ideologiche del passato, in particolare sulla questione dell’in-

fluenza di Bakunin nella formazione del nascente movimento operaio e socialista

italiano, cfr. per esempio Pier Carlo Masini, Testimonianza del soggiorno napoletano

di Michele Bakunin, in Michele Bakunin, Scritti napoletani (1865-1867), Ber-

gamo 1963, pp. 101-106.

4. Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile,

Roma 2011, p. 5.

5. Giulio Bollati, L’italiano, in AA.VV., Storia d’Italia. I caratteri originari, Vol. 1,

Torino 1972. Nel suo celebre saggio, lo storico Bollati contesta la fondatezza della

nozione di «carattere nazionale» non solo mostrando come questa sia il frutto di

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una semplificazione storica e di generalizzazioni indebite, ma soprattutto che ciò

che un popolo è coincide, in verità, con ciò che si vuole debba essere. Nel caso

dell’«italiano», la costruzione del suo preteso carattere si manifesta in modo evi-

dente alla vigilia e durante il processo di formazione dello Stato nazionale.

6. Salvatore Lupo, op. cit., p. 10.

7. Sui cosiddetti «sconfitti» del Risorgimento, vedi le illuminanti pagine scritte da

Pier Carlo Masini in un libro poco noto ma molto importante nel percorso di in-

dagine storica che lo storico toscano dell’anarchismo aveva intrapreso fin dalla

fine degli anni Quaranta. Pier Carlo Masini, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti

laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978, pp. 9-10.

8. Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin, Torino 1973, p. 81.

9. Bakunin, a differenza dei marxisti, non parla mai di «lotta di classe», ma di

«lotta popolare». L’espressione chiarisce un tema centrale del suo pensiero: l’al-

leanza operai-contadini. Mentre per i marxisti le masse contadine dovevano se-

guire la strategia della classe operaia, per Bakunin esse erano e dovevano restare in

una posizione di parità. E questo per due motivi. Il primo rimandava alla convin-

zione che la lotta della classe operaia, separata da quella contadina, avrebbe favo-

rito la logica del capitalismo industriale, aumentando così il divario città-campa-

gna e isolando maggiormente il movimento operaio dalla lotta generale degli

sfruttati. Il secondo rimandava alla convinzione che tale lotta non dovesse perdere

il carattere storico che gli sfruttati gli avevano assegnato: quello di essere una lotta

sociale. Il termine «lotta sociale» era diventato cruciale nel linguaggio bakuni-

niano, in quanto comprendeva anche il senso rivoluzionario di lotta politica. La

differenza di linguaggio rispetto ai marxisti nascondeva dunque una questione di

fondo. Infatti riguardava non solo la diversa interpretazione del significato storico

della Prima Internazionale, ma anche il significato, la funzione e il fine della lotta

generale di tutti gli sfruttati. Affinché tale lotta non costituisse il trampolino di

lancio di una nuova classe per la conquista del potere, cambiando solamente la

forma dello sfruttamento, occorreva una lotta più generale, portata avanti contem-

poraneamente da tutti gli sfruttati.

10. Alexandre Dumas, La Camorra e altre storie di briganti, Roma 2012.

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Cronologia di Michail Bakunin

Voglio cominciare la storia della mia vitacon una notizia tratta dal mio atto di nascita.

Michail Bakunin

Ogni biografia narrata è destinata a essere un’approssimazione dellavita di una persona. A maggior ragione, una cronologia, per quantopuntuale, non può pretendere certo di essere una ricostruzione esau-riente di un percorso esistenziale. Nonostante ciò, la cronologia diBakunin proposta in queste pagine propone un ritratto che cerca ditener conto sia della sfera pubblica sia di quella privata, con l’in-tenzione però di evitare che, nel raccontare la sua vita tra pubblicoe privato, si smarriscano le sue forti connotazioni teoriche, politichee culturali. L’intreccio tra sfera individuale e pubblica, tra pensieroe vita, restituisce uno spaccato piuttosto vivido di Bakunin, dalquale emergono le difficoltà legate alla scelta rivoluzionaria e le con-traddizioni con cui ha dovuto fare i conti, tra l’impegno teorico,politico, culturale e militante, e i compromessi della vita. Bakunin

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ha vissuto tutta la sua vita persuaso che non solo un altro mondofosse indispensabile ma che fosse possibile realizzarlo «qui e ora».Bakunin è l’anarchismo, e per lui essere anarchico ha significatoconservare la libertà dello sguardo e riconoscere da una parte i mec-canismi dell’oppressione, della manipolazione e dello sfruttamentodel potere, e dall’altra sentirsi solidale con gli oppressi, gli umiliati,gli sfruttati, gli offesi, ovunque si trovassero.

1814Maggio. Russia. Nel villaggio di Pruyamukhino, nella provincia

di Tver’ (oggi Kalinin), il 30 maggio (il 18 del calendario giuliano)nasce un ribelle. Il suo nome è Michail Aleksandrovic Bakunin.

Michail, che prende il nome dal nonno, è il terzogenito di unafamiglia della nobiltà terriera, composta da dieci figli: quattro fem-mine e sei maschi. Il padre, Aleksandr Bakunin, è di tendenze mo-deratamente liberali. La madre, una Muravev, è imparentata conesponenti del movimento decabrista.

A Pruyamukhino Michail, insieme ai suoi fratelli e sorelle, cre-sce pieno di entusiasmo, in semplicità e libertà, educato alla mu-sica, alle lettere, e pronto, in coerenza con il pensiero di Jean-Jac-ques Rousseau, a far sua ogni idea radicale. Lungo l’intero corsodella sua vita, due cose, oltre alla rivoluzione, avranno il potere dicommuovere Michail in tutte le sue fibre: Pruyamukhino e la mu-sica.

1827Marzo. Il 26 muore a Vienna Ludwig van Beethoven. Nel 1824

il compositore tedesco aveva completato la sua ultima sinfonia, lafamosa Nona in Re minore op. 125. Beethoven è il musicista piùamato da Bakunin fin dall’infanzia. Rivoluzione o no, quando puòMichail cercherà sempre di ascoltarne la musica. Nel 1842, quandoè a Dresda, va spesso a casa dell’amico compositore Adolf Reichelad ascoltarlo suonare il suo prediletto Beethoven. Il 1° aprile 1849,

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sempre a Dresda, va ad ascoltare il concerto di Richard Wagner, dapoco conosciuto, che dirige per l’appunto la Nona sinfonia.

La sera del 14 giugno 1876, ormai alla fine dei suoi giorni,Bakunin, ricoverato in una clinica di Berna, decide di rivedere perl’ultima volta i suoi vecchi amici Adolf Vogt e Adolf Reichel. Sireca a casa di Reichel dove, appoggiato a una stufa di porcellana,chiede all’amico di fargli sentire ancora una volta la musica diBeethoven. «Tutto morirà», dice Bakunin, «nulla sopravviverà: unacosa sola è eterna, la Nona sinfonia».

1828Autunno. Michail ha quattordici anni e mezzo e in quanto pri-

mogenito maschio è destinato alla carriera militare. Il padre de-cide di mandarlo a San Pietroburgo, dove si sarebbe preparato perentrare l’anno successivo nella Scuola dei cadetti di artiglieria; nonpuò immaginare che suo figlio sarebbe diventato un famoso rivo-luzionario oltre che un convinto antimilitarista.

Nell’attesa della partenza, Michail fantastica: «Il pensiero deiviaggi mi ossessionava, divenne persistente e contribuì a svilupparela mia fantasia. Durante il tempo libero mi abbandonavo al sogno,mi vedevo lontanissimo dalla casa paterna, in cerca d’avventure.[…] Questa era la mia attitudine morale quando entrai nell’acca-demia di artiglieria come cadetto».

1832Termina la scuola allievi ufficiali di San Pietroburgo e viene no-

minato ufficiale. L’impegno scolastico è stato mantenuto, ma Mi-chail è decisamente insofferente alla disciplina militare. Le puni-zioni non si fanno attendere, e presto viene inviato in una sperdutaguarnigione della Lituania per sbollire la sua irruenza. È talmentesperduta che non succede mai nulla. Michail ne approfitta per de-dicarsi alla lettura e scoprire l’amore per la filosofia. La scelta vieneda sé: abbandona la carriera militare e decide di frequentare l’uni-versità a Mosca.

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1835Si trasferisce a Mosca per studiare filosofia, dove rimane fino al

1839. Qui frequenta il circolo animato da Nikolaj VladimirovicStankevic, letterato russo di tendenze idealistiche e liberali che hada poco abbandonato Kant per Fichte. Stankevic esercita un forteinflusso su tutti i frequentatori del circolo, tra cui ci sono ancheKonstantin Sergeevic Aksakov e Vissarion Grigor’evic Belinskij.L’Introduzione alla vita beata di Fichte diventa il compagno insepa-rabile di Michail e citazioni dell’opera riempiono gran parte dellesue lettere in questo periodo. L’anno seguente traduce la Vocazionedello studente di Fichte, che gli frutta qualche rublo. Nel 1838 pub-blica la prefazione alle Lezioni universitarie di Hegel.

1840Luglio. L’interesse per la filosofia tedesca spinge Bakunin a tra-

sferirsi a Berlino per continuare gli studi. Durante il soggiorno ber-linese, che si protrae fino al 1842, Michail precisa la sua vocazionealla rivolta che non l’avrebbe più abbandonato. Un incontro deci-sivo è quello con la sinistra hegeliana. Da quest’ultima, al cui svi-luppo teorico apporta un contributo non irrilevante, Bakunin de-riva l’interpretazione rivoluzionaria della dialettica, portandola allesue estreme conseguenze. Si avvicina anche alle dottrine socialiste,stimolato dall’opera di Lorenz von Stein Il socialismo e il comuni-smo nella Francia contemporanea.

1842Si trasferisce a Dresda e inizia a collaborare con Arnold Ruge

alla stesura degli «Annali Tedeschi». Sugli «Annali» pubblica il sag-gio La reazione in Germania, firmato con lo pseudonimo Jules Ely-sard. La popolarità dello scritto raggiunge molti gruppi giovanili;la sua conclusione fornisce una delle asserzioni più citate di Baku-nin: Il desiderio per la distruzione è, allo stesso tempo, un desideriocreativo. Sempre a Dresda diventa intimo amico del poeta GeorgHerwegh.

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1843Insieme a Herwegh si trasferisce prima a Berna e poi a Zurigo,

dove incontra Moses Hess e Wilhelm Weitling, uno dei principalileader della Lega dei Giusti, in seguito Lega comunista. Accusato diblasfemia per l’opera Il Vangelo del povero peccatore, Weitling vienearrestato e condannato a dieci mesi di prigione. L’arresto di Wei-tling e il ritrovamento di un suo taccuino con il nome di Michailinducono il governo zarista a processare in contumacia Bakunin econdannarlo alla deportazione e ai lavori forzati in Siberia, oltreche alla perdita di titolo e beni. Per sfuggire a un possibile arresto,Bakunin si trasferisce a Bruxelles per alcuni mesi, e infine raggiungeParigi.

1844A Parigi frequenta sia il gruppo della sinistra democratica e so-

cialista francese, sia il gruppo dell’emigrazione tedesca. Stringe rap-porti cordiali con George Sand, conosce Pierre-Joseph Proudhon eKarl Marx. L’incontro con Proudhon, in particolare, è intenso earticolato, come lo stesso Aleksandr Herzen avrà modo di ricor-dare. Uno scambio di idee fecondo per entrambi nella formula-zione del loro pensiero politico.

1847Novembre. Parigi. Al banchetto commemorativo dell’insurre-

zione polacca del 1830 Bakunin pronuncia un violento discorsocontro il governo russo, con il quale invoca la liberazione dei popolislavi e la caduta dell’impero zarista. L’ambasciata russa chiede algoverno francese la sua immediata espulsione e l’ambasciatore, perscreditarlo, sparge la voce che Bakunin sia in realtà una spia al soldodello zar. È una calunnia totalmente infondata che, ripresa in varieoccasioni dagli avversari del rivoluzionario russo, costringerà Baku-nin a smentirla più volte nel corso della sua vita. Espulso dallaFrancia, è costretto a riparare a Bruxelles, dove incontra nuova-mente Marx.

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1848Febbraio. La rivoluzione di Parigi sorprende Bakunin ancora a

Bruxelles. Decide di tornare nella capitale francese, che raggiunge apiedi dalla frontiera a causa del blocco dei treni. Preso dall’ebbrezzadi quei giorni, si rivela infaticabile: è presente a ogni convegno, ma-nifestazione, riunione, barricata ecc. La rivoluzione si diffonde amacchia d’olio in tutta Europa: Milano, Venezia, Vienna, Berlino,Paesi Bassi, Danimarca. Bakunin opera principalmente affinché larivoluzione raggiunga la Polonia e la Russia, una terra che consideracentrale rispetto all’esplosione della causa rivoluzionaria europea.Marx ed Engels lo criticano aspramente. Non possono immaginareche nel 1917 sarà proprio in Russia (non in Inghilterra) che scop-pierà la tanto attesa rivoluzione. Nel giugno, a Praga, Bakunin par-tecipa al Congresso democratico come rappresentante degli slavi.

Luglio. Il giornale di Marx «Neue Rheinische Zeitung» pub-blica un pettegolezzo proveniente da Parigi, e attribuito a GeorgeSand, secondo il quale Bakunin sarebbe un agente segreto dellozar responsabile dell’arresto degli «sfortunati» polacchi. Immediataè la reazione di Bakunin, che invia una smentita al giornale e scrivealla Sand per chiederle spiegazioni. La scrittrice francese mandauna lettera al giornale, che viene pubblicata il 20 luglio, con lasecca smentita della notizia. La lettera è seguita da una breve notaredazionale di scuse per l’errore, anche se non rinuncia ad aggiun-gere: «Noi abbiamo compiuto il dovere della stampa di esercitareuna stretta sorveglianza sui personaggi pubblici, dando così nellostesso tempo al signor Bakunin l’opportunità di dissipare un so-spetto che era stato effettivamente avallato in alcuni circoli parigini»[corsivo mio].

Dicembre. A Lipsia pubblica l’Appello agli Slavi.

1849Maggio. Bakunin è a Dresda. Sull’onda dei moti rivoluzionari

che da un anno si manifestano in tutta Europa, il 3 maggio scop-pia l’insurrezione nella città della Sassonia. Bakunin erige barricate

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al fianco di Richard Wagner e August Roeckel, considerati dalleautorità tedesche i capi dell’insurrezione. Il 9 maggio la rivolta èsoffocata. Bakunin viene arrestato. È questo l’evento che cambia ra-dicalmente la sua vita.

1850Gennaio. Bakunin è rinchiuso nel carcere di Königstein e viene

condannato alla pena di morte, poi commutata nel carcere a vita.Wagner si nasconde in casa della sorella e riesce a fuggire prima aWeimar e poi in Svizzera.

Luglio. Su richiesta del governo, Bakunin è estradato nell’im-pero austro-ungarico, dove viene nuovamente condannato allapena di morte, poi commutata nell’ergastolo.

1851Marzo. Mentre è in carcere a Praga e successivamente a Olmütz,

dove tenta il suicidio ingerendo lo zolfo contenuto in alcuni fiam-miferi, lo zar Nicola I chiede all’Austria di estradare l’ex-ufficiale diartiglieria. L’11 maggio Bakunin viene rinchiuso nei sotterraneidella sinistra fortezza di «Pietro e Paolo» a San Pietroburgo, la stessain cui due anni prima era stato detenuto Fëdor Dostoevskij, arre-stato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi.

Bakunin riesce a far uscire segretamente un biglietto per l’ado-rata sorella Tatiana: «La prigione è stata un bene per me. Mi hadato tempo per pensare e l’abitudine della riflessione ha, per cosìdire, consolidato il mio spirito. Ma non ha cambiato in nulla i mieisentimenti di un tempo; al contrario, li ha fatti più ardenti e più as-soluti che mai; da qui in avanti, tutto ciò che rimane della mia vitasi potrà riassumere in una sola parola: Libertà».

Dopo due mesi di stretto isolamento Bakunin può finalmentericevere visite, tra cui quella del principe Orlov che gli suggeriscecaldamente di scrivere una confessione allo zar per invocare la gra-zia. Lo zar Nicola I, che si dà arie di grande umanitario, è infatti di-sposto a non fucilare Michail purché chieda perdono. E natural-

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mente Bakunin gli chiede perdono, perché non è uomo che si fac-cia fucilare per così poco. Perché? Perché ha uno scopo nella vita:fare la rivoluzione. E così scrive la famosa Confessione in cui appa-rentemente rinnega del tutto il suo passato di rivoluzionario: «Sì,Sire, io mi confesserò con Voi come con un padre spirituale da cuici si attende non il perdono terreno ma quello celeste», firmato:«Il criminale penitente Michail Bakunin». Il manoscritto resta se-polto negli archivi zaristi fino al 1921, quando il governo bolsce-vico, lesto e contento, rende noto il ritrovamento, senza però pub-blicare il testo. L’intento palese dei bolscevichi è quello dipresentare Bakunin come un bugiardo e un codardo, in modo taleda rendere definitivamente compromessa la sua figura morale di ri-voluzionario. Viceversa, l’intenzione della «confessione» è soloquella di farsi liberare per continuare l’attività rivoluzionaria, comedimostrano i quindici anni di intensa militanza seguiti alla fugadalla Siberia.

1854Da San Pietroburgo Bakunin viene trasferito nella fortezza di

Schüsselberg, dove contrae lo scorbuto e perde tutti i denti.

1855Nel bel mezzo della Guerra di Crimea, il 2 marzo muore lo zar

Nicola I. Dopo aver preso un semplice raffreddore sul campo dibattaglia, rifiuta di curarsi e muore di polmonite. Gli succede il fi-glio con il nome di Alessandro II.

1857Alessandro II grazia Bakunin. La pena è commutata dall’erga-

stolo all’esilio a vita in Siberia. Viene quindi trasferito a Tomsk.

1858Sposa una giovane polacca, Antonia Kwiatkowska, figlia del de-

mocratico polacco Ksawery Kwiatkowski, e poco dopo, grazie al-

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l’intervento del governatore della regione, un suo parente, si trasfe-risce nella cittadina di Irkutsk, uno dei luoghi più freddi del mondoche dista più di 6.000 kilometri da San Pietroburgo. Qui entra alservizio di una compagnia dell’Amur e, in seguito, di un’impresamineraria.

1861Giugno. Scappa dall’esilio siberiano. Con il pretesto di un viag-

gio di affari, raggiunge Nikolajevski, da dove si imbarca per il Giap-pone. Giunge a Yokohama, e in ottobre salpa alla volta di San Fran-cisco. In novembre è a New York. Da qui raggiunge Londra.Finalmente libero! La notizia della fuga di Bakunin ha risonanza intutta Europa, Italia compresa.

Dicembre. Bakunin è a Londra. La sera del 27 irrompe in OrsettHouse, Westbourne Terrace, a casa di Aleksandr Ivanovic Herzen,che è a tavola con il poeta Nikolaj Ogarëv, mentre Natalja, secondamoglie di Ogarëv e amante di Herzen, è sdraiata sul divano. Mi-chail siede a tavola con loro. È irrequieto, dovunque si trovi nonriesce a stare fermo.

«Che succede in Europa?», chiede Bakunin.«Qualche dimostrazione c’è solo in Polonia» risponde Herzen.«E in Italia?».«Tutto calmo».«E in Austria?».«Tutto calmo»«E in Turchia?».«Tutto calmo»«Che fare, allora?», sbotta Bakunin. «Andare a smuovere le acque

in Persia o in India? C’è di che impazzire; io non posso starmenequi seduto con le mani in mano».

Michail ha quarantotto anni. Fisicamente è invecchiato, irruvi-dito. Quasi non lo si riconosce. Tuttavia è ancora gigantesco, pesacirca un quintale: un mastodonte per Herzen; un manzo per il piùprosaico Marx. Ha perso tutti i denti e si lascia crescere disordina-

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tamente i capelli e la barba. Mentalmente però Michail non è cam-biato per nulla. La lunga e dura prigionia non ha domato il suo in-correggibile ottimismo. Michail conserva intatto non solo lo spiritoma anche le idee ruggenti degli anni prima della prigione. A Lon-dra Bakunin entra in contatto con Giuseppe Mazzini e AurelioSaffi e guarda con profondo interesse al Risorgimento italiano.

1862Febbraio. Scrive su «Kolokol» (la Campana), la rivista di Herzen,

Ai miei amici russi e polacchi, e agli altri compagni slavi. Scrive ancheLa causa del popolo: Romanov, Pugachev o Pestel?.

Giugno. Invia una lettera ad Aurelio Saffi per annunciargli l’in-tenzione di trasferirsi in Italia: «Verrò assolutamente in Italia nelmese di settembre». Passeranno invece diciannove mesi prima cheMichail si decida a raggiungere l’Italia.

Metà agosto. Bakunin lascia Londra per un breve soggiorno aParigi. Non è noto il motivo e neppure i particolari della visita nellacapitale francese. Certo è che Michail ha l’occasione di incontraree conoscere il grande fotografo Nadar, pseudonimo di Gaspard-Felix Tournachon, decidendo di posare per lui. E così quest’ultimopuò aggiungere il famoso rivoluzionario russo tra i clienti speciali ri-tratti nel Panthéon Nadar: Baudelaire, Delacroix, Dantan, Doré, ipittori impressionisti Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Morisot,Degas, Cézanne, Renoir, e tanti altri (compreso Proudhon).

1863Febbraio. Bakunin, che da Londra si è spostato a Stoccolma, è

completamente preso dalla questione polacca. Nel gennaio di quel-l’anno è infatti scoppiata l’insurrezione in Polonia. Bakunin è con-vinto che sia finalmente giunto il momento della rivoluzione slava.Dalla capitale svedese tenta di unirsi a una legione russa costituitasiin aiuto ai rivoltosi, ma il progetto non ha seguito. Il fallimentodell’insurrezione polacca lo convince che una rivoluzione fondatasu ideali nazionalistici sia senza avvenire e che quindi la vera rivo-

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luzione possa avere soltanto un carattere sociale. Vengono così adassumere maggiore importanza nel suo pensiero i fattori autonomi-stici e federalistici. Da queste riflessioni trae origine la sua definitivaelaborazione del pensiero anarchico, i cui presupposti filosofici epolitici erano già tutti presenti.

La «versione» di un Bakunin panslavista fornitaci dai marxisti, acominciare da Marx ed Engels, è stata ormai da tempo riportatanella sua giusta dimensione: l’abbandono del panslavismo democra-tico e rivoluzionario da parte di Bakunin si colloca già prima del1865. Scrive Giampietro N. Berti: «È importante notare come il‘panslavismo’ diventi, nell’azione e negli intendimenti di Bakunin,uno strumento al servizio della rivoluzione. Concezione indubbia-mente errata che Bakunin in seguito abbandonerà, ma che ci per-mette di cogliere le vere intenzioni che l’animavano» [Mirko Ro-

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Aleksandr Herzen con alcuni amici e familiari nel giardino della sua ca-sa londinese di Westbourne Terrace.

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berti (pseud.), «A rivista anarchica», a. 3, n. 19, marzo 1973].Ottobre. Italia. Il solerte prefetto della provincia di Milano scrive

il 2 ottobre al questore della città lombarda: «Al signor Questore diMilano. Nella supposizione che certo Michele Bakunin, sudditorusso che dimorava non ha molto a Stoccolma, possa venire a fis-sare la sua dimora in Italia, e non essendo improbabile che capiti inquesta città, si stima non inopportuno di comunicare alla questura[…] perché il medesimo sia sorvegliato». Il 17 ottobre uomini dellaquestura cercano il suddito russo negli alberghi e nelle pensionidella città, senza trovarlo. Il 3 novembre il questore risponde al so-lerte prefetto: «Al signor Prefetto. Pregasi il sott. di significare alsignor prefetto che il Michele Bakunin […] non ebbe a tutt’oggi acapitare in questa città». Ma dove sarà mai Michele?

Ottobre. Stoccolma. Bakunin si ricongiunge finalmente con An-tonia. I due partono dalla capitale svedese l’8 ottobre e raggiun-gono Londra, da dove ripartono in novembre alla volta dell’Italia,passando per Bruxelles, Parigi (dove Michail rinnova l’amicizia conProudhon), Ginevra, Berna e Vney, cittadina in cui trascorrono lafine dell’anno. Prima di lasciare Londra Bakunin si assicura unalettera di presentazione di Mazzini destinata a Giuseppe Dolfi. È lostesso rivoluzionario italiano che si preoccupa di spedire la lettera:«Vedrete un amico mio russo, che vi raccomando caldamente in-sieme alla moglie che è polacca. E prima riceverete da lui – proba-bilmente da Genova – una lettera nella quale vi pregherà di trovar-gli una stanza a prezzo modesto a Firenze. Vi prego come amico difare ciò che vi dirà e vi sarò grato». La lettera a Dolfi di cui accennaMazzini viene scritta da Michail a Torino il 13 gennaio 1864 [vediAppendice].

1864Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio Bakunin e Antonia attraver-

sano il Moncenisio. Ha così inizio il «viaggio in Italia». L’11 Baku-nin è a Torino, dove rimane fino al 15. È un inverno freddo quellodel 1864 in Piemonte, talmente freddo che a Bakunin ricorda

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quello della Siberia [vedi Appendice]. Il 16 è a Genova e incontraAgostino Bertani. Il 19, insieme ad Antonia, salpa da Genova di-retto a Caprera per incontrare Giuseppe Garibaldi. Si ferma sull’i-sola tre giorni [vedi Appendice]. Il 23 è di nuovo Genova e il 26 aFirenze. Tra Genova e Firenze trova il tempo di fermarsi a Livornoper una breve visita a Francesco Domenico Guerrazzi, ammalato.Al ritorno da Caprera, Bakunin confessa ad Antonia di essere «giàinnamorato dell’Italia» e promette che da lì a un mese avrebbe par-lato correntemente l’italiano [vedi Appendice]. L’Italia per lui di-venta una seconda patria. L’amore per l’Italia del resto è nella sto-ria della famiglia Bakunin. Il padre aveva studiato a Padova e avevalavorato per diverso tempo come addetto alle legazioni russe di Fi-renze, Napoli e Torino

Febbraio. Bakunin si stabilisce a Firenze, dove rimane fino algiugno 1865. È un periodo molto importante nel pensiero e nell’a-zione bakuniniani perché rappresenta il passaggio definitivo dallafase democratico-repubblicana a quella socialista-anarchica. Delsoggiorno non si hanno molte notizie. Una delle prime cose cheBakunin si preoccupa di fare è quella di abbonarsi per tre mesi alGabinetto Vieusseux.

Quando arriva a Firenze la sua figura negli ambienti democraticie rivoluzionari, ma non solo, è quasi leggendaria. Bakunin ha molteconoscenze a Firenze nell’ambiente cosmopolita dei rifugiati poli-tici: Lev Metchnikov, amico di Herzen, Fernando Garrido, E. RuizPons, Ludmilla Assing. Tra gli italiani conosce, oltre a GiuseppeDolfi, Alberto Mario, Andrea Giannelli, Giuseppe Mazzoni, Fi-lippo Boni, il poeta Francesco Dall’Ongaro, Giorgio Asproni, An-gelo De Gubernatis, e molti altri.

Verso la metà del 1864 Bakunin si allontana dall’Italia per unbreve viaggio in Svezia, attraverso la Francia e l’Inghilterra. A Lon-dra, il 3 novembre, riceve la visita di Marx che lo informa della fon-dazione, avvenuta poche settimane prima, dell’Associazione interna-zionale dei lavoratori, meglio nota come Prima Internazionale oInternazionale. I due non si vedevano dal 1848. Marx affida a Baku-

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nin l’incarico di stabilire in Italia collegamenti con l’Internazionale.Bakunin accetta, ma per ora non aderisce all’Internazionale.

Ottobre. Bakunin partecipa a Napoli al XI Congresso delle so-cietà operaie mazziniane, durante il quale si decide di inviare unadelegazione al I Congresso dell’Internazionale previsto per l’annoseguente (che però non avrà luogo).

1865Giugno. Bakunin lascia Firenze e si trasferisce a Napoli, dove

rimane ininterrottamente fino alla fine dell’agosto 1867, caso raronella sua vita nomade. Napoli è la sua vera patria politica, il centroideale per la sua attività rivoluzionaria. Il periodo napoletano segnala definitiva formazione anarchica del suo pensiero e la nascita del-l’anarchismo come movimento di idee e azioni. A Bakunin piacemolto Napoli, per il clima, per il popolo vivo ed entusiasta, per lacultura ricca di fermenti rivoluzionari e di una tradizione democra-tica che risale alla Repubblica del 1799. Oltretutto Michail è unamante del caffè, e Napoli e il caffè vivono in simbiosi: «Il caffèper esser buono, deve essere nero come la notte, dolce come l’a-more e caldo come l’inferno». Nella primavera del 1876, pocoprima di morire a Berna, Bakunin aveva deciso di tornarvi defini-tivamente per finire lì i suoi giorni.

Nella città partenopea collabora, nel settembre e nell’ottobre1865, al giornale garibaldino «Il Popolo d’Italia», con una serie dilettere a firma «un francese» in cui, insieme alla proposta del suoprogramma politico, sottolinea la necessità dell’incontro fra intel-lettuali democratici e masse popolari. Sempre a Napoli conosce ediventa amico di Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia, Carlo Gam-buzzi, Attanasio Dramis, Carlo Mileti, Alberto Tucci e molti altrigiovani rivoluzionari che diventeranno i primi internazionalistianarchici.

Bakunin non soggiorna sempre a Napoli città. Nei primi mesivive a Sorrento, a Villa Anastasia. Si trasferisce quindi a Napoliprima in Vico Belladonna al n. 9 e poi in Vico S. Guido al n. 26,

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presso la Riviera di Chiaia, mentre gli ultimi mesi li passa a LaccoAmeno, nell’isola di Ischia, a Villa Arbusta.

Luglio. Scoppia la terza epidemia di colera in Italia, che si protraeper tre anni, provocando oltre 160.000 morti. Partita da Ancona l’8luglio, raggiunge ben presto il Mezzogiorno e Napoli. Il 7 novem-bre Bakunin scrive ad Aleksandr Herzen e a Nikolaj Ogarëv per co-municare una triste notizia: «Amici! Miss Reeve è morta stanotte, tramezzanotte e l’una, di colera. Mia moglie e io le siamo stati accantotutta la giornata di ieri, senza allontanarci, e lei è morta tra le nostrebraccia» [vedi Appendice]. E così scopriamo un Bakunin omeo-pata: «Due giorni prima aveva già dolori intestinali. In quel mo-mento l’ho pregata di prendere qualche goccia di noce vomica, unrimedio che ha dato prova di sé in quasi tutta la Russia, ma ancorapoco conosciuto qui». Contrariamente a quanto pensava, l’Italia èstata invece tra i primi paesi a usare l’omeopatia e Napoli la cittàdove si è inizialmente diffusa, nel 1821, grazie ad alcuni medici mi-litari austro-ungarici. Quanto alla noce vomica, o nux vomica, o al-bero della stricnina, è un albero cespuglioso della famiglia delle lo-ganiacee originario dell’India e del sud-est asiatico. I semi dellapianta sono utilizzati ancora oggi per produrre un medicinale na-turale particolarmente usato in campo omeopatico, mentre la cor-teccia è stata in passato utilizzata dagli indiani contro il colera. Nonesiste però alcuna prova scientifica o clinica sulla reale efficacia ditali rimedi.

1866Settembre. Svizzera. Si tiene a Ginevra il I Congresso dell’Inter-

nazionale, con una massiccia partecipazione di delegati francesi esvizzeri, oltre che di rappresentanti inglesi e tedeschi. Si confron-tano e scontrano le tendenze mutualiste e collettiviste. Importanteè la risoluzione a favore della lotta per la limitazione della giornatalavorativa a otto ore, che verrà posta come uno dei principali obiet-tivi dell’Associazione.

Ottobre. Bakunin scrive La situazione italiana, in cui traccia le

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linee generali di un programma rivoluzionario a carattere sociale ri-ferito alla concreta situazione italiana. Nel testo analizza il movi-mento che ha portato all’unità nazionale, compresi i partiti politiciche vanno dal repubblicano al costituzionale; critica in modo det-tagliato la politica interna ed estera della destra storica; e inizia undura polemica contro le correnti mazziniane e garibaldine.

1867Febbraio. A Napoli gli amici italiani di Bakunin – Fanelli, Fri-

scia, Gambuzzi, Tucci e Caporusso – fondano il circolo Libertà eGiustizia, che ad agosto inizia le pubblicazioni di un giornale ditendenza socialista e collettivista con lo stesso nome.

Maggio. Bakunin si trasferisce a Lacco Ameno, nell’isola diIschia, dove rimarrà fino ad agosto. Poco prima di lasciare Ischia el’Italia, diretto in Svizzera, pubblica La questione slava su «Libertàe Giustizia». È il primo scritto italiano in cui Bakunin si dichiaraesplicitamente anarchico. L’articolo prende spunto da una lettera diHerzen pubblicata sullo stesso giornale.

Settembre. Grazie al proficuo lavoro di Bakunin, le società ope-raie italiane entrano finalmente in contatto con la Prima Interna-zionale. Sebastiano Tanari e Gaspare Stampa partecipano al Con-gresso di Losanna. Nel frattempo Bakunin si stabilisce a Ginevra,dove il 10 settembre pronuncia un discorso al Congresso inaugu-rale della Lega per la pace e la libertà. Benché priva di qualunquevelleità rivoluzionaria, questa associazione raggruppa i democra-tici di tutta Europa, tra cui Victor Hugo, John Stuart Mill, LouisBlanc e Giuseppe Garibaldi. La speranza di Bakunin è di trasci-narla su posizioni più radicali, ed è appunto con questi intenti chel’anno successivo partecipa anche al II Congresso della Lega. Inquesto periodo scrive il saggio Libertà, federalismo e antiteologismo.

Pur stabilendosi in Svizzera, Bakunin non perde affatto i contatticon l’Italia. Non solo continua a incitare i suoi amici meridionalia fondare sezioni dell’Internazionale, ma nella primavera del 1870compie un breve viaggio a Milano, dove conosce Felice Cavallotti,

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allora collaboratore del «Gazzettino rosa», e altri esponenti dellademocrazia lombarda.

1868Nasce Carlo, primo figlio di Michail e Antonia.Settembre. Durante il II Congresso della Lega per la Pace e la Li-

bertà (Berna, 22-26 settembre), l’ala rivoluzionaria guidata daBakunin, si separa dai «moderati» dando origine all’Alleanza in-ternazionale dei socialisti democratici, che si scioglierà l’anno se-guente per confluire nell’Associazione internazionale dei lavora-tori. Bakunin aderisce alla sezione ginevrina. Ha inizio da questomomento il confronto-scontro con Marx, il quale riuscirà con in-ganni a farlo espellere dall’Associazione durante il Congresso del-l’Aja del 1872.

Autunno-inverno. Bakunin, insieme a Tucci, scrive La situa-zione. Lo scritto, pubblicato nel 1869 poche settimane prima delloscoppio dei moti del macinato, analizza la condizione delle classi la-voratrici italiane e incita alla rivoluzione sociale. Anche se non avràuna diretta influenza sui moti del macinato, questo scritto, chemostra l’urgenza della questione sociale e dell’azione rivoluzionaria,viene ripreso sulle colonne della stampa democratica italiana, fracui «La Plebe» di Lodi [3 aprile 1869] e l’«Almanacco Istorico» diM. Macchi [a. III, 1870].

L’imposta sulla macinazione del grano e dei cereali in genere,comunemente nota come «tassa sul macinato», è un’imposta indi-retta, ideata tra gli altri da Quintino Sella, che ha lo scopo di con-tribuire al risanamento delle finanze pubbliche e raggiungere il pa-reggio di bilancio. Promulgata per iniziativa di Luigi Menabrea il 7luglio 1868, entra in vigore il 1º gennaio 1869: 1 lira in più perogni quintale di grano, 2 lire per ogni quintale di granturco.

1869Marzo. Irrompe nella vita di Bakunin un giovane russo di ven-

tidue anni, Sergej Necaev, autore del celebre Catechismo del rivolu-

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zionario. Lo accompagnano le voci più disparate, che lo descrivonoa volte come il più puro e radicale dei nuovi rivoluzionari e a voltecome un abietto mistificatore pronto a qualsiasi bassezza. Di certoscatta una sorta di infatuazione del vecchio rivoluzionario verso ilgiovane rivoluzionario, cui seguirà poco dopo una cocente delu-sione e la fine dei rapporti nel giugno 1870.

Tutta una «letteratura» è fiorita sul rapporto Bakunin-Necaev esull’attribuzione a Bakunin del Catechismo del rivoluzionario. Laparola definitiva in merito l’ha detta Michael Confino in Bakuninet Necaev. Les débuts de la rupture, saggio che assieme ad altri ma-teriali si trova negli Archives Bakunin [vol. IV, Leiden, 1971] dell’I-stituto internazionale di storia sociale di Amsterdam. Scrive a talproposito Giampietro N. Berti: «Nessuna prova storica, nessun do-cumento, nessuna ragione o supposizione è in grado di avvaloraretale giudizio, che rimane pertanto patrimonio esclusivo dell’igno-ranza storica e testimonianza decisiva del grado di serietà scientificache contraddistingue tale storiografia. Esiste un Catechismo del ri-voluzionario composto da Bakunin tra il 1864 e il 1866, parte in-tegrante di un documento sulla Fratellanza rivoluzionaria, in cuiBakunin anticipa il suo pensiero sulla formazione delle classi e sulladivisione del lavoro. […] Chiunque può confrontare i due ‘catechi-smi’ e verificare facilmente come il secondo, scritto sicuramenteda Necaev, sia una brutta copia del primo» [Mirko Roberti(pseud.), «A rivista anarchica», a. 3, n. 19, marzo 1973].

Luglio-agosto. Bakunin scrive una lunga serie di articoli su «L’E-galité», giornale fondato dall’Associazione internazionale dei lavo-ratori di Ginevra, su diversi argomenti: il carattere dell’azione po-litica che deve svolgere l’Associazione, la differenza tra democraziaborghese e democrazia socialista, la divisione tra lavoro manuale elavoro intellettuale e la conseguente necessità di un superamento diquesta divisione nella futura società socialista ecc.

Settembre. Si svolge a Basilea il IV Congresso dell’Internazio-nale, dove avviene il primo scontro aperto tra le tesi di Bakunin equelle di Marx (che è assente) sull’abolizione del diritto ereditario.

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In seno all’Internazionale si delineano due tendenze: quella autori-taria di Marx e quella antiautoritaria di Bakunin. Nel frattempo èstata fondata anche la sezione napoletana dell’Internazionale, chepresto supera il migliaio di soci. I suoi animatori sono gli ex-mem-bri del circolo Libertà e Giustizia. Bakunin e Caporusso sono i de-legati della sezione napoletana al Congresso dell’Internazionale diBasilea.

Autunno. Bakunin si trasferisce a Locarno, dove traduce ilprimo volume del Capitale. Si interessa inoltre dei fermenti rivolu-zionari spagnoli e incarica Giuseppe Fanelli di diffondere in Spagnal’idea anarchica e internazionalista.

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Particolare di una foto scattata durante il IV Congresso dell’Internazio-nale a Basilea. Bakunin è riconoscibile sullo sfondo, in cima al grupposulla destra della foto.

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1870Nasce Giulia Sofia, la secondogenita di Michail Bakunin.Marzo. Marx fomenta l’odio per Bakunin tra i colleghi tedeschi

dichiarando che l’anarchico russo è una spia del partito panslavista,che verserebbe a Bakunin ben 25.000 franchi all’anno. Ancora unavolta Bakunin deve difendersi da questa calunnia infamante.

Luglio. Scoppia la guerra franco-prussiana. Alle prime sconfittefrancesi, Bakunin intravede subito la possibilità di trasformare laguerra nazionale in una lotta per la rivoluzione sociale, cosa che ineffetti avverrà nel marzo dell’anno successivo con la Comune.

Agosto-settembre. Bakunin scrive le sue Lettere a un francese, incui indica quale sia la via da seguire per provocare il sorgere e ilsuccessivo diffondersi della rivoluzione sociale e quali siano gliobiettivi da porsi per il suo successo.

Settembre. Lascia Locarno alla volta di Lione. Qui partecipaattivamente all’insurrezione popolare con la speranza che, unavolta proclamata la rivoluzione sociale, questa possa espandersispontaneamente anche in altre città e in altre nazioni, prima fratutte l’Italia. Fallita l’insurrezione, immediatamente repressa,Bakunin è costretto a fuggire inseguito da un mandato di arresto.

Scrive L’Impero Knuto-Germanico. Il titolo è volutamente provo-catorio: lo knut è la frusta di cuoio non trattato usata per punire icondannati.

1871Marzo. Il 18 la popolazione di Parigi insorge. A seguito delle

sconfitte militari subite dalla Francia nella guerra contro la Prussia,già il 4 settembre 1870 la popolazione parigina aveva imposto laproclamazione della Repubblica, con lo scopo di ottenere riformesociali e la prosecuzione della guerra. Quando anche il governoprovvisorio delude le sue aspettative e l’Assemblea nazionale, elettal’8 febbraio 1871, impone la pace e minaccia il ritorno della mo-narchia, il 18 marzo Parigi insorge cacciando il governo Thiers che

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aveva tentato di disarmare la città. Il 26 marzo la popolazioneelegge direttamente il governo cittadino, sopprimendo l’istitutoparlamentare. Nasce la Comune di Parigi.

Maggio. Alla fine del mese, decine di migliaia di soldati agli or-dini del generale Mac Mahon, gli stessi che si erano arresi ai nemiciprussiani, sferrano un attacco decisivo contro Parigi e in una setti-mana (21-28 maggio), ricordata come la «settimana di sangue»,riescono a sconfiggere i comunardi. È la fine della Comune. L’In-ternazionale viene messa fuorilegge in Francia, Spagna, Germania,Austria-Ungheria e Danimarca, ma si espande, nonostante la re-pressione, in Spagna, Italia e Belgio.

Bakunin scrive La Comune di Parigi e l’idea di Stato e pubblicaLa teoria politica di Mazzini e l’Internazionale. A ottobre scrive inol-tre la Circolare ai miei amici d’Italia, di cui vengono pubblicati al-cuni estratti da Carlo Cafiero e da altri anarchici napoletani. Solonel 1886 viene pubblicata integralmente in opuscolo ad Ancona.

1872Primavera-estate. Bakunin soggiorna a Zurigo.Agosto. Dal 4 al 6 si svolge a Rimini la Conferenza italiana del-

l’Internazionale socialista, cui partecipano i delegati di ventuno se-zioni, in maggioranza romagnole e marchigiane. Presiede i lavoriCarlo Cafiero. La Conferenza sancisce la prevalenza della fazioneanarchica su quella marxista.

Settembre. Il Consiglio Generale dell’Associazione internazio-nale dei lavoratori, in cui Marx ha acquisito un peso inaudito, con-voca il V Congresso dell’Internazionale all’Aja (2-7 settembre1872). La maggior parte dei delegati è marxista e proviene dal Bel-gio, dalla Svizzera, dall’Italia, dalla Germania, mentre sono quasidel tutto assenti i francesi e gli spagnoli. Proprio la mancanza deidelegati franco-spagnoli fa pesare la bilancia dalla parte dei marxi-sti. Gli anarchici accusano Marx di avere convocato il Congresso inmodo confuso così da non far arrivare in tempo i suoi oppositori.Il 7 settembre la maggioranza marxista ratifica l’espulsione di Baku-

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nin e degli anarchici dall’Internazionale (all’ultimo Congresso del1869 gli anarchici erano la maggioranza dei militanti europei). Poiil Congresso, ora formato solo da marxisti, decide il trasferimentodel Consiglio Generale a New York.

Settembre. Il 15 si svolge a Saint-Imier, in Svizzera, un Con-gresso straordinario della Federazione anarchica del Giura, che difatto sancisce la nascita dell’Internazionale antiautoritaria. Sono

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Tavola illustrata dell’epoca che immortala la proclamazione dellaComune, avvenuta a Parigi il 28 marzo 1871 davanti a un’enorme follache intona La Marsigliese.

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presenti i delegati del Giura, dell’Italia, degli Stati Uniti, e anche al-cuni delegati francesi e spagnoli, mentre non si presentano i tede-schi, gli inglesi, i belgi. La riunione sconfessa il Congresso dell’Aja,giudicandolo non valido in quanto manipolato dai marxisti, e diconseguenza ne convoca un altro a Ginevra per l’anno successivo(1-6 settembre 1873).

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Bandiera della Prima Internazionale datata 1864 (l’anno della fondazio-ne) che riporta la denominazione in francese e in tedesco. Al centroun’arnia e alcune api a simboleggiare l’operosità dei lavoratori.

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1873Estate. Grazie all’aiuto finanziario di Carlo Cafiero, Bakunin

acquista un ampio appezzamento di terreno a Minusio (nel Can-ton Ticino), chiamato «La Baronata», dove costruisce una nuovaabitazione.

Scrive Stato e Anarchia, l’unico lavoro compiuto e di ampio re-spiro scritto da Bakunin. Il libro avrà un grande successo, in parti-colare in Russia. Viene infatti stampato anche in russo a Zurigo daun gruppo di giovani fuoriusciti ed esce nei primi mesi del 1874. Nevengono stampate 1.200 copie senza il nome dell’autore. Tutte lecopie entrano clandestinamente in Russia, dove il libro passa dimano in mano raggiungendo una vasta diffusione ed esercitandoun’enorme influenza sul pensiero della gioventù rivoluzionaria.Neanche a dirlo, secondo Marx è «un’asineria da scolaro».

Nasce Maria, terza figlia di Michail e Antonia.

1874Agosto. Lasciata Locarno, dove al momento vive anche Carlo

Cafiero, Bakunin raggiunge segretamente Bologna. In questa cittàè stata pianificata un’insurrezione, ma il fallimento dell’impresa locostringe a riparare in Svizzera. Qui lascia «La Baronata», a causa diuna serie di incomprensioni con Cafiero (che saranno successiva-mente appianate), e si stabilisce a Lugano.

1875Nel corso dell’anno la salute di Bakunin inizia a peggiorare. No-

nostante ciò, la sua casa resta un punto di ritrovo per amici e cono-scenti. In particolare, Bakunin riceve spesso la visita di Sergej Mi-chajlovic Kravcinskij, un giovane scrittore e rivoluzionario russoche diventerà in seguito famoso con lo pseudonimo Stepniak.

1876Le condizioni di salute di Bakunin sono ormai irrimediabil-

mente peggiorate e in giugno viene ricoverato in un ospedale di

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Berna. Il 1° luglio 1876 Michail Aleksandrovic Bakunin muore.Due settimane dopo, alla conferenza di Filadelfia, viene dichiaratoufficialmente lo scioglimento dell’Associazione internazionale deilavoratori.

Dopo la morte di Bakunin, Antonia si trasferisce a Napoli con ifigli e qui sposa l’internazionalista napoletano Carlo Gambuzzi, unodei più stretti collaboratori di Michail. Antonia, che era nata nel1839, muore a San Giorgio a Cremano il 2 giugno 1887. I figli sistabiliscono definitivamente in Italia. Le due figlie, in particolare, vi-vranno tutta la loro vita a Napoli.

Giulia Sofia frequenta, come i fratelli, il Liceo classico UmbertoPrimo e poi si iscrive all’università, laureandosi in Medicina e chi-rurgia nel 1893. Più tardi si sposa con il famoso chirurgo napole-tano Giuseppe Caccioppoli, dando alla luce quello che sarà il cele-bre matematico Renato Caccioppoli. Muore nel 1956.

Maria, per gli amici Marussia, si laurea nel 1895 con una tesisulla stereochimica. Poco dopo sposa Agostino Oglialoro-Todaro,direttore dell’Istituto di chimica generale dell’università di Napoli.Tra il 1909 e il 1940 insegna Chimica applicata, Chimica tecnolo-gica organica e Chimica industriale presso la Scuola Politecnica diNapoli, contribuendo con le sue ricerche ai progressi della chimicamoderna. Dal 1940 ricopre il ruolo di professore di Chimica orga-nica presso la Facoltà di Scienze: è una delle prime docenti donnadell’università di Napoli. Quando nel febbraio del 1944, con unDecreto del Comando alleato sollecitato da Benedetto Croce, vieneripristinata l'Accademia Pontiana, Maria Bakunin, per le sue altequalità scientifiche e morali (dimostrate queste ultime in occasionedi eventi drammatici come l’incendio dell’università napoletana daparte dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale), è nominatapresidente, carica che ricopre fino al 1949. Maria muore il 17 aprile1960 e viene seppellita nel cimitero di Poggioreale (zona russa,tomba di famiglia dei Bakunin-Gambuzzi). Chi dovesse capitare aNapoli, potrà facilmente imbattersi nel viale Marussia Bakunin.

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Viaggio in Italia

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CAPITOLO PRIMO

La situazione italiana*

In questo periodo l’Italia si trova in una condizione triste e perico-losa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze dell’oggi e dalleancor più temibili incertezze del domani. E in balìa di questi dubbie paure, ognuno cerca sostegno nel consiglio e nella forza degli altriper rinforzare le proprie opinioni.

Proprio per questo crediamo sia nostro dovere contribuire, perquanto possibile, a gettare un po’ di luce nelle tenebre in cui ci ag-giriamo vanamente attraverso un ragionamento; tanto più che que-sto ragionamento non è l’eco di una casta o di un interesse partico-lare, ma è figlio della verità e ispirato dalla giustizia.

Per rendere più agevole il cammino che intendiamo intrapren-dere, conviene ricordare brevemente gli avvenimenti principali chehanno avuto luogo in Italia in questa frazione di secolo.

Grazie alla Carboneria, che si è sempre conformata ai bisogni ealle aspirazioni locali, è rinato uno spirito nazionale, ora quasi com-

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* Titolo originale La situation italienne (1866), testo redatto in collaborazionecon Alberto Tucci.

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pletamente scomparso, e con esso un movimento e un’azione de-terminati e assai efficaci. Si è così formata una generazione di intel-ligenze vive e cuori forti che si è battuta, con varia fortuna, per so-stenere un programma fondato sulla grandezza storica dell’Italia esulla sua ritrovata unità in quanto Stato. Questa unità è stata ilpunto di partenza e l’obiettivo di due partiti: il partito unitario re-pubblicano e il partito unitario costituzionale. Il primo si rifaceva allaformula «Dio e Popolo», dunque all’unità di Dio nell’unica fede re-ligiosa e all’unità del popolo nell’unica patria; in altre parole, si ri-faceva al centralismo della vita nazionale, che rimanda all’unitàdello Stato, e alla conservazione della società privilegiata, che ri-manda all’unità sociale, dato che il risultato di una tale unità sa-rebbe stato la grandezza dell’Italia, ovvero il primato dell’Italia inEuropa, un obiettivo cui si doveva sacrificare tutto, a cominciaredalla libertà e dal benessere degli italiani.

Il secondo partito, quello costituzionale, gridava alto e forte «Ita-lia e Vittorio Emanuele», dunque un’Italia ora monarchia unitariache trovava nell’unità la sua forza, nel parlamentarismo la sua li-bertà, nella monarchia l’anello di congiunzione tra rivoluzione na-zionale e diplomazia, nel parlamento la salvaguardia dei diritti dellarivoluzione. Gli uni, ponendo come fine unico e supremo la gran-dezza del paese, rinnegavano la libertà del popolo, la libertà di pen-siero, la giustizia sociale. Gli altri, scegliendo come mezzo e prete-sto quella medesima grandezza nazionale, rinnegavano tutto:popolo e paese, libertà e giustizia. Entrambi, diversamente acce-cati dalle loro molteplici ambizioni, non tenevano in alcun contogli insegnamenti di una maestra inesorabile: la logica, la logica se-vera dei fatti che ha condotto partiti e paese lì dove si trovano oggi.

Nonostante ciò, tutti i movimenti che agitavano la penisola, re-pubblicani o costituzionali che fossero, dicevano al popolo: rea-lizziamo l’unità e così avrai libertà di lavoro e pane in abbondanza;e incitavano la gioventù: unifichiamo le cento gloriose città d’Ita-lia in uno Stato potente e la tua sete di libertà sarà soddisfatta. Atutti imponevano il sacrificio – la religione del dovere – e promet-

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tevano, come ricompensa per una fede così grande, un’unità dell’I-talia dalla quale sarebbero scaturite gloria, libertà e prosperità na-zionali. Dal 1859 sono stati i costituzionali a prevalere, e da qui èderivata quella lunga serie di fatti, ben noti a tutti, che ha avutocome esito l’unità dello Stato, con la monarchia sabauda e il sistemaparlamentare.

Oggi è arrivato il tempo di domandarci: a che punto siamo ar-rivati? E di domandare alla monarchia: a che cosa sono serviti gliinnumerevoli e smisurati sacrifici che ha imposto? La risposta ètanto facile quanto dolorosa. In nome dell’unità, cagione e ragionedella sua esistenza, la monarchia ha venduto Nizza e la Savoia al-l’impero francese, ha rinunciato a Roma con la Convenzione disettembre, e minaccia un imminente mercato di altre terre italiane.

La monarchia, che si è imposta al paese e lo ha calpestato innome della grandezza e della gloria d’Italia, di cui si è appropriata,questa monarchia, che disponeva di 400.000 soldati per riconqui-stare la corona di Belisario, ha fatto sì che 150.000 stranieri scon-figgessero i suoi 400.000 prodi. Essa ha comprato con l’oro una co-rona di ferro, ricevendo come elemosina da un altro straniero leterre italiane per cui era scesa in campo e lasciando tra il Brenta eil Tagliamento altre terre italiane sotto il tallone dell’austriaco, in-sieme a 350.000 soldati.

Eppure, che cosa non ha fatto la nazione? Le si è detto: «Ab-biamo ceduto Nizza e la Savoia perché, deboli come eravamo,siamo stati costretti ad accettare e a pagare l’aiuto francese; per es-sere forti abbiamo bisogno di denaro e di uomini». E la nazione hadato uomini e denaro. Si è strappata gli occhi dal viso e il cuore dalpetto. Una popolazione di circa 22 milioni ha sborsato in sei anni9 miliardi e fornito 700.000 soldati alla monarchia, e questa con 9miliardi e 700.000 soldati ha vilmente ceduto alla volontà antiuni-taria di un despota straniero [Napoleone III]. Non solo, ha subìtola vergogna di continui schiaffi da parte della diplomazia europea;è venuta a patti con il papato – negazione della civiltà, flagello del-l’umanità – riconoscendogli il diritto di corrodere il cuore stesso

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dell’Italia; si è fatta battere per terra e per mare; e alla fine, sacrifi-cando tutto, ha perduto tutto: la gloria, la dignità, l’onore!

E non è finita. Nuove e ancor più disastrose calamità incalzano:la fatale pace armata, la quasi certezza di una guerra di interessedinastico e straniero, l’assorbimento completo dell’individuo e deisuoi beni a profitto dello Stato, la bancarotta inevitabile delle fi-nanze, e infine, come logica conseguenza e in quanto unico mezzoa portata di mano, la sostituzione delle attuali forme liberali con ilgoverno della sciabola tipico degli stati d’assedio.

Come e perché siamo arrivati a una situazione talmente infaustae come ne usciremo? Ogni partito riversa sugli altri tutte le colpe.

I legittimisti degli ex-Stati della penisola accusano l’unità di es-sere la causa di tutti i mali. A loro avviso, per attuare un falso prin-cipio e realizzare un’utopia, abbiamo buttato ogni nostra forza etutto il nostro benessere. Ma hanno torto, o meglio mentono. Essisanno bene che l’unità di una nazione che parla la stessa lingua traela propria origine nelle tradizioni e nei costumi, che questo non èun falso principio e tanto meno un’utopia. È piuttosto un fattoche deve necessariamente svilupparsi e realizzarsi via via che si svi-luppano e realizzano la libertà, il progresso e le istituzioni locali. Ilche spiega come mai i movimenti insurrezionali che hanno avutoluogo nelle varie regioni d’Italia abbiano interessato l’intera peni-sola, come mai nel 1848 tutti gli intellettuali e la gioventù bor-ghese d’Italia si siano sentiti solidali con le Repubbliche di Roma edi Venezia, come mai il Piemonte abbia, dal 1848 in poi, attrattoe trascinato la maggior parte dell’Italia nella sua vita costituzionale.

La ragione dell’unità, come noi la comprendiamo, sta dunquenel carattere eminentemente solidale della libertà e del benessere;una solidarietà inevitabile tra benessere e libertà individuali e localiche cementa ed edifica in modo imperituro l’unità della nazione.Che la vergogna ricada dunque su quegli uomini che hanno abbru-tito il popolo, ricacciandolo nelle tenebre dell’ignoranza e della su-perstizione del passato, su questi rappresentanti della massima di-vide et impera. I loro principi e le loro convinzioni sono troppo

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legati alle storie efferate dei tirannelli d’Italia per sperare di attirareil popolo dalla loro parte e costituirsi in un potente partito. Tornatedunque nel vostro nulla, partigiani del papato romano, dei Bor-boni di Napoli, dei ducati di Modena e di Toscana, dei Carignanodi Piemonte, voi siete morti con le dinastie che vi hanno compratie non risorgerete mai più.

Gli unitari costituzionali si accusano e denigrano a vicenda, ridu-cendo la nostra attuale situazione a una questione di buona ammi-nistrazione. Anche loro si sbagliano, oppure mentono. È ben veroche in questo lasso di tempo l’Italia ha messo in scena il penosospettacolo della nullità e disonestà dei suoi uomini politici. Ed èvero che con inconcepibile cecità e scandalosa depravazione si sonosperperate tutte le risorse estorte alla nazione; che si è distrutto,con una politica asservita e servile, la dignità del paese e la fiduciain se stesso; che la malafede dei governanti non ha fatto progre-dire in nulla l’istruzione popolare; che la loro incompetenza ha mi-nato il commercio, paralizzato la nascente vita industriale, avvici-nato la bancarotta, frustrato le aspettative dei suoi stessi partigianicon le disfatte di Custoza e di Lissa. Ma è anche vero che è il par-tito costituzionale nel suo insieme a essere complice di questi fatti.Certo, il responso dell’urna elettorale ha premiato alcune celebritàcostituzionali, che per la maggior parte hanno seminato a pienemani i cattivi semi di cui oggi si raccoglie il frutto. Ma le mino-ranze, con il loro miserabile sistema di un’opposizione senza scoporeale e dunque senza programma e senza moralità, sono state ilcomplemento morale e materiale della maggioranza. Nei sei anniche sono stati loro accordati, i vertici di questo partito di opposi-zione parlamentare non hanno saputo mettersi d’accordo su unsolo punto di una certa serietà; viceversa, hanno vanamente parla-mentato, fino alla parodia.

Dopo i primi cinque anni, gli elettori si sono sbarazzati della vec-chia maggioranza. Che cosa ha fatto la nuova? Non è forse la sini-stra costituzionale che ha emanato la legge Crispi proprio come lavecchia destra aveva emanato la legge Pica? Non è stata complice di

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Custoza e Lissa quando ha dato i pieni poteri al generale Lamar-mora? Non è stata complice e responsabile (facendosi pagare il di-sonore a un prezzo assai più alto di quanto si paghi l’onore) degli ul-timi provvedimenti finanziari, i quali hanno non solo violato ognisenso di moralità e di giustizia, ma anche vergognosamente provatola sua crassa ignoranza in materia di finanza pubblica?

L’intero partito costituzionale deve rispondere delle sue grandicolpe. E tuttavia non è stato questo il solo e unico fattore delle ca-lamità che deploriamo, giacché queste sono in gran parte le logicheconseguenze della falsità del sistema e della situazione verso la qualecose, uomini e partiti vengono inesorabilmente trascinati e che négli uomini né i partiti possono sconfiggere.

In Italia, il partito unitario costituzionale è stato frainteso. Com-posto in gran parte da sedicenti repubblicani che avevano perdutola fede nel Dio e nel Popolo del loro maestro, si è raggruppato sottouna vaga e mendace bandiera che ha chiamato praticismo politico.Così facendo, ha subordinato ogni principio alle apparenti esigenzedel momento. E una volta intrapresa la via dei compromessi e dellecontraddizioni, è stato per necessità demoralizzato e demoraliz-zante, di volta in volta tradito e traditore. Questo partito ha dun-que avviato la sua attività con alleanze infami e incestuose. Hamesso insieme il suffragio popolare con il diritto divino. Ha di-chiarato guerra alla Vecchia Europa, affermando il diritto delle na-zioni, ma al contempo ha collaborato con una Vecchia Dinastia,alla cui grandezza si è votato nei conciliaboli diplomatici di questastessa Europa miscredente. È rimasto cattolico per paura e per in-teresse. Rivoluzionario per necessità e debolezza, è rimasto reazio-nario per istinto, affinità e convenzione. Unitario per progetto, hasacrificato l’unità agli interessi della dinastia; liberale nelle dichia-razioni, ha accettato il dispotismo come mezzo di conservazione.

La conseguenza logica di un partito come questo è appunto il si-stema attualmente in vigore, da cui derivano in modo del tuttoovvio gli avvenimenti che deploriamo.

Questo partito oggi ha i giorni contati. Forse vedremo ancora

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qualche ricambio di uomini e qualche ritocco di gestione, ma gli uo-mini cadranno vittime della propria ambizione e della falsità dellaposizione accettata, e i ritocchi di gestione potranno tutt’al più ritar-dare di poco la catastrofe inevitabile e imminente del sistema.

Inevitabile e imminente, diciamo, perché l’unica cosa che po-trebbe salvare la situazione sarebbe la morte del partito e dell’isti-tuzione. Le finanze al collasso non potrebbero essere risanate daun’amministrazione pubblica accorta se non con il completo de-centramento amministrativo, l’abolizione delle forze armate e il ri-pristino della moralità nelle istituzioni. Ma se si abolisce il centra-lismo, si smantellano le forze armate e si rinuncia all’immoralità,come potrebbe restare in vita la monarchia costituzionale?

Il costituzionalismo che ha minato l’Italia è dunque incapace diriparare al male fatto. Chi ci salverà allora dal triste avvenire che ab-biamo evocato?

Mazzini pretende che il costituzionalismo e il suo sistema ab-biano ormai fatto il loro tempo. Tanto lui quanto coloro che glisono rimasti vicini deplorano le defezioni dal proprio partito e sidanno un gran daffare per ricostituirlo. Da un capo all’altro dellapenisola distribuiscono proclami incendiari che vengono letti e di-scussi. Che cosa si propone? La rivoluzione contro la monarchia.Ma con che cosa la si rimpiazzerà? Questa rivoluzione cui si fa ap-pello che programma avrà, quale sarà il suo compito fortunoso?Non abbiamo trovato alcuna risposta a queste domande così per-tinenti in quello scritto da noi pazientemente letto. Siamo dun-que costretti ad attingere ad altre fonti per trovare soddisfazione, ela cosa migliore da fare ci è parsa quella di interrogare direttamentel’illustre capo di quel partito.

Abbiamo sotto i nostri occhi tre documenti indirizzati da Maz-zini ai popoli della penisola. Il primo si intitola Alle Associazionioperaie, il secondo La pace e il terzo L’Alleanza repubblicana. Inquesti scritti si ritrova tutto il suo programma politico, tutto il suoamore per l’Italia, tutto il suo cuore generoso, tutto il fascino delsuo potente discorso, ma vi si ritrovano anche, ampiamente svi-

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luppati, tutti i suoi errori e tutte le contraddizioni del suo sistema.Mazzini è arrivato sulla scena politica in un’epoca in cui l’Italia

era suddivisa in sette Stati tiranneggiati e depredati da sette despotiautoctoni o stranieri. La sua anima nobile, ardente, incoercibile, ilsuo cuore di poeta, la sua immaginazione di cristiano, il suo pos-sente genio nutritosi delle glorie passate, delle passate grandezze diquell’Italia un tempo regina del mondo, modello di civiltà, patriadei tanti Bruto, Camillo e Cincinnati, dei Dante e dei Buonarroti,dei Vico e dei Machiavelli, sono inorriditi davanti al vergognosospettacolo di un’Italia asservita e disonorata da un miserabile stra-niero che la percuoteva senza pietà con il flagello di sette tiranni. Eda allora si è imposto l’immane compito di ridestarla dal suo sonnodi morte, di unire le sue genti dalle Alpi all’Adriatico, con il fine co-mune di liberarsi dei sette tiranni, di alzarsi tutti quanti in piedi nelnome della «Madre Patria» e al santo grido di «Dio e Popolo».

Egli ha cercato di realizzare questo compito con ogni mezzo.Dal giorno in cui giurò a se stesso di far tornare l’Italia all’anticosplendore, quest’uomo non ha avuto né riposo né pace. Mosso dauna santa ira, sospinto in modo irrefrenabile dal suo immensoamore per l’Italia, imperturbabile davanti alle minacce e ai peri-coli, instancabile nella sua lotta gigantesca, ha percorso l’Italia el’Europa predicando, incitando, cospirando, scardinando… e real-mente la dolorosa e svigorente letargia di tanti secoli fu alla finevinta. Da quel momento, la storia avventurosa fatta di mille eventi,mille sacrifici, mille eroismi e mille martirii, la santità di una vitavotata a una grande causa, il fascino di chi ha fatto di un principiouna religione, hanno reso Mazzini grande e temuto. Qualunquecosa si pensi, si dica o si scriva di lui, egli resta la più imponente enobile figura della storia contemporanea.

Nondimeno, oggi ci si rende facilmente conto che la sua parolanon affascina più come una volta, che i vuoti lasciati nel suo par-tito dalle defezioni vili e interessate non sono più riempiti, che lasua azione in Italia è debole, quasi nulla. Questi fatti, purtroppoben evidenti, sono la diretta conseguenza dello stesso programma

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mazziniano: Italia unita, potenza di primo rango in Europa, primo-genita e legittima erede dei disegni di Dio nella realizzazione diuna grande missione che sarà l’avvenire dell’umanità; «Dio e Po-polo», cioè Dio e la legge morale che emana dalla sua sola e unicasovranità; genio ispirato, nel solo e unico apostolato virtuoso diquella sovranità. Nel porsi come apostolo, anzi pontefice di unafede in Dio, e al contempo come uomo di Stato, Mazzini non hapotuto essere realmente un rivoluzionario proprio a causa di que-sto principio di grandezza e di missione nazionali. A causa di que-sto principio, il popolo della sua formula è stato sempre solo unaparola accattivante e d’effetto, in quanto ha sempre voluto il popoloper l’Italia e non l’Italia per il popolo. Ed è questo il motivo per cuil’azione mazziniana è rimasta sempre estranea alle masse popolari,proprio perché il suo programma rimanda la soluzione dei pro-blemi sociali a una data indefinita. Dobbiamo trovare, ci dice, imodi per avvicinarci a questo ideale nel corso dei secoli. Da qui ladeplorevole necessità che lui ha di aggrapparsi con forza a tutti glielementi conservatori della società, al punto di scendere a patti coni re della penisola; da qui la prevedibile inefficacia della sua azionerepubblicana nel creare grandi imprese collettive; da qui, infine, lademoralizzazione del suo stesso partito.

Mazzini ha voluto ciò che la monarchia in parte ha fatto e dicedi voler portare a compimento: l’unità d’Italia e la sua grandezzastorica. La sola e unica differenza fra loro è la forma pubblica, contutte le conseguenze che le sono proprie. Ma nei fondamentaliprincipi costitutivi, queste due forme politiche coincidono perfet-tamente a causa del fondamento comune che le sottende. Per ilpopolo, questa differenza è nulla nella sostanza. Più precisamente,è solo una questione nominale, perché se si abolisce il re e lo sirimpiazza con un presidente, la sostanza non cambia.

La libertà e la giustizia sociale nel programma mazziniano sonosolo pompose parole. Traendo la propria ispirazione solo dalle me-morie storiche della passata grandezza italiana, e conformandosiallo spirito dominatore del carattere romano, Mazzini non sa di-

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scendere fino alle moltitudini del proletariato sociale, ovvero quelleche nella loro stragrande maggioranza compongono il popolo nellasua miserrima quanto sublime realtà. Queste sono da lui conside-rate solo un mezzo per raggiungere il fine unico e supremo dell’u-nità d’Italia, che vede fortemente accentrata e basata sul manteni-mento degli attuali elementi costitutivi, ereditati dalle secolaritirannie, contro cui l’umanità vanamente combatte da lungotempo, e precisamente Dio che nega la ragione, lo Stato che negala libertà, i privilegi dell’attuale organizzazione economica e socialeche negano la giustizia.

Ecco la dottrina del grande maestro italiano, il programma dellanovella rivoluzione che tenta di fare e che non riesce a fare proprioperché priva di un reale obiettivo, dato che la repubblica mazzi-niana, sotto una forma differente, è identica alla monarchia costi-tuzionale, allo stesso modo in cui questa si differenzia solo nellaforma dalla monarchia pura.

Se dunque i mali che deploriamo sono le conseguenze del si-stema; se la burocrazia, il militarismo, il centralismo, il monopo-lio garantito e le grandi banche privilegiate sono il veleno che ci uc-cide, i vampiri che ci dissanguano, a che cosa dovrebbe servire larepubblica mazziniana, che non contraddice nessuno di quei fattifatali?

Questo tipo di Stato sotto forma di repubblica è giustamenterespinto dalla maggioranza della nazione. Per cause e ragioni di-verse, una tale istituzione è contraria agli interessi di tutte le caste:la pretenziosa e moribonda nobiltà, l’alta e media borghesia, glioperai e i contadini. Le prime perché identificano nella distruzionedella corona il primo anello di una catena di privilegi che potreb-bero andare distrutti, i secondi perché giustamente non vedonoquei privilegi né distrutti né seriamente minacciati. Unica ecce-zione la gioventù borghese, in buona parte educata nello spiritodelle tradizioni e della storia, la quale trae la propria ispirazionedalla grandezza classica del paese e vorrebbe con tutte le sue forzericostruire quelle antiche glorie. Ma da sola essa non è in grado di

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minare e abbattere un edificio costruito nei secoli, tanto più dopoaver perduto il mezzo più facile per organizzarsi: il garibaldinismo.

Questo movimento che ha regalato alla storia contemporaneatante splendide pagine poetiche, oggi è scomparso, e con esso èscomparsa anche la magica influenza che il suo capo ha avuto inItalia. Oggi il nome di Garibaldi è onorato ovunque si rispetti lapurezza di cuore e la rettitudine di coscienza, ma non suscita piùquel fremito che percorreva la penisola da un capo all’altro. E nonsarebbe più capace, come una volta, di far prendere le armi a tuttoun popolo, senza che addirittura sappia né il per che né il per come.

Il garibaldinismo è caduto, e doveva cadere, perché, pur essendola punta di lancia del mazzinianesimo, se ne è a un certo punto se-parato. Senza un’ideologia propria, è passato dall’uno all’altro, an-dando di male in peggio. Dopo Mazzini, è stato raccolto da Manine Trivulzio; quindi è caduto nelle mani di La Farina e Cavour, iquali lo hanno gettato nelle braccia della monarchia, che lo ha ac-colto e stretto a sé come una madre, per poi trattarlo come unamatrigna, fino a ucciderlo, fino a disonorarlo. Esso è caduto perchéha voluto restare nell’orbita aristocratica di sedicenti intellettuali,mentre prima si proclamava figlio del popolo; perché questo po-polo, alla commovente vista del redentore, non ha poi visto seguirela redenzione; perché ha seguito con distrazione e torpore una pa-rabola rovinosa: da rivoluzione è diventata militarismo rivoluziona-rio, poi militarismo e basta. Oggi, dopo la guerra che ha combat-tuto, dopo la pace che ne è seguita, sopravvive come esempio dicoraggio. E resterà per sempre come apoteosi dell’abnegazione, lafonte più bella delle leggende patriottiche. Ma come partito èmorto; peggio, è morto senza neppure combattere per salvarsi,senza neppure un’ora di lotta, senza un grido di protesta contro laforza che lo sospingeva verso la tomba.

Anzi, in questa tomba già aperta per inghiottirlo, Garibaldi, fi-glio del popolo, ci si è voluto gettare da sé, e ha insultato il popolonell’ora della sua lotta e del suo martirio, quello stesso popolo cheaveva chiamato eroico quando consegnava alla storia i nomi di

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Marsala e Calatafimi. Nel momento in cui il paese, vedendosi cosìbrutalmente oltraggiato e sacrificato, attendeva la parola di Gari-baldi, l’unica cosa che ha detto è stato: «Imparate a sparare con lacarabina». Che fine hanno fatto la libertà, il benessere, la grandezzadell’Italia che voi, alla testa dei Mille, avete promesso al popolo ita-liano quando gli avete proposto il vostro programma «Italia e Vit-torio Emanuele»? È imparando a sparare con la carabina che si con-quistano? No, vi ha risposto il popolo di Palermo, che vi ha anchedetto: «Generale, ci avete tratto in inganno, noi faremo quella rivo-luzione che ci avete promesso invano». E per farvelo capire me-glio, hanno infranto la vostra effigie, la stessa che prima della disil-lusione era adorata da un capo all’altro dell’Italia.

In definitiva, se tutti questi partiti di cui abbiamo brevementeparlato nulla possono per salvare quella stessa patria che stannomandando in rovina, chi mai sarà in grado di risolvere i difficiliproblemi dell’oggi? Quale sarà l’elemento nuovissimo che riusciràad abbattere ciò che è stato maldestramente eretto ma che è sciagu-ratamente ancora ben saldo?

Esiste già una forza potente, invincibile, ancora inerte e tuttorasconosciuta. Sola questa forza può fare l’onnipotente rivoluzionedell’avvenire, può creare l’Italia libera, una, forte e grande di unagrandezza ben più splendida di quella di Roma e dell’era cristiana,proprio perché discende dall’insegnamento della libertà, del di-ritto, dell’eguaglianza e della felicità!

Questa forza è il vero popolo italiano.Fino a oggi le rivoluzioni politiche in Italia sono state compiute

dai militari, dalla borghesia o dagli intellettuali che hanno talvoltamodificato le vecchie istituzioni con moti insurrezionali o con eroi-che spedizioni che hanno sconfitto e cacciato i loro rappresentanti.È a questa infima minoranza che dunque competono le amare di-sfatte o le esaltanti vittorie, le disillusioni o i vantaggi, il martirio ogli onori e un posto nella storia.

Ma la gran maggioranza del popolo italiano, i milioni di operaie contadini, è rimasta estranea a tutti questi eventi. Solo in alcune

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occasioni una parte di essa è stata utilizzata in modo strumentaledalla borghesia, combattendo al suo fianco; ma una volta assicuratoil trionfo, è subito tornata a essere considerata un pericolo. E nes-suna delle sue giuste esigenze è stata soddisfatta in quanto contra-rie agli interessi borghesi. La si è dunque ingannata, indegnamentefrustrata e tradita.

Questa maggioranza, l’unica che per noi rappresenta il popolo,non ha alcuno dei diritti accordati alla borghesia da una lunga seriedi rivolgimenti: non la libertà politica, perché le sue condizioni so-ciali ne rendono illusorio l’esercizio; non l’eguaglianza di diritto,perché questa è contraddetta e annullata dall’ineguaglianza di fatto;non il benessere, perché il suo lavoro è assorbito non solo dal capi-tale e dalla materia, ma anche dallo Stato centralista, di cui ha do-vuto pagare la grandezza e l’unità, che è un’esigenza borghese; noninfine conoscenza o storia, perché viene costantemente sospinta frale tenebre dell’ignoranza, in mezzo alle quali il protettorato mendacedelle caste privilegiate va a cercarla per ingannarla nuovamente.

Durante e dopo tutte le rivoluzioni, il popolo ha fatto sempre lastessa cosa: ha sofferto e pagato.

Ha sofferto e pagato il governo e la giustizia, la Chiesa e la poli-zia, la corona e il possidente, il lusso cittadino e le forze armate.

Ha pagato per tutto quel che fa, per andare e venire, per com-prare e vendere, per bere, mangiare, respirare, scaldarsi al sole, na-scere e morire. Ha pagato per essere autorizzata a lavorare!

Che cosa significavano, dunque, per questo popolo la Repub-blica partenopea o quelle di Genova e Venezia? Perché mai dove-vano essere interessati alla Repubblica romana del 1849 o alla cro-ciata contro lo straniero, alle guerre del 1859 e ai sedicenti plebiscitidel 1860?

Quanto conta per 25 milioni di persone essere nominalmentecittadini di una potenza europea di primo rango, ma al contemporimanere schiavi abbrutiti e miserabili? È mai possibile che tantimilioni di operai e contadini insorgano e combattano al fianco deiloro nemici per mantenere un ordine che li esclude, che li deruba

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del sacrificio che fanno con il loro sudore e il loro sangue? No. Loabbiamo visto in tutte le rivoluzioni, e domani sarà lo stesso o an-cora peggio, perché il numero e l’amarezza dei disillusi è cresciuto.

Questa forza popolare, indispensabile all’Italia, invincibile difronte ai suoi nemici, non si avrà in nome dell’unità e della gran-dezza nazionale, ma sarà necessario invocarla in nome di un’ideache essa comprenda, sarà necessario trovare una leva potente chepossa farla insorgere. Questa leva è la giustizia, che per il popolo si-gnifica una vera, completa e positiva emancipazione intellettuale, mo-rale, politica, economica e sociale. Questa leva è la conquista della li-bertà e del benessere di tutti e di ognuno nel proprio comune, nellapropria regione, nell’intera nazione.

Solo allora il popolo combatterà la sua prima e ultima battaglia.E la vincerà grazie alla forza del numero, alla sua abnegazione, al-l’odio accumulato e alla giusta sete di vendetta; la vincerà perchésulla sua bandiera da un lato c’è scritto lavoro, cioè il motore dell’u-manità, e dall’altro c’è scritto pane e libertà, cioè i bisogni essenzialie i diritti inalienabili di ciascun uomo!

Se dunque l’Italia tutta non potrà essere libera, felice e grande senon per mezzo della rivoluzione; se questa rivoluzione non potràfarsi se non per mezzo del popolo; e se questo popolo non farà la ri-voluzione se non a partire dalla propria emancipazione, allorasgombriamo il campo dagli equivoci e indichiamo chiaramente inche cosa essa consista.

Tre sono le tirannie secolari che hanno oppresso e abbrutito ilpopolo; tre i nemici che deve vincere per avviarsi verso un avvenirepiù radioso: la Chiesa, lo Stato centralista e i privilegi sociali che nederivano.

La Chiesa rappresenta per il popolo la tirannia della coscienza,la scuola che inculca il servaggio politico e sociale, il furto e la frodesul lavoro, l’ignoranza forzata delle classi operaie e contadine. LaChiesa è il braccio destro, l’occhio vigile e spesso l’intelligenza dellamonarchia e dello Stato; e anch’essa deve cadere travolta nel turbinedell’ira popolare. Solo allora tutte le religioni e i culti saranno liberi

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e liberamente mantenuti a spese dei credenti; solo allora la reli-gione di Stato, ripugnante violazione della libertà collettiva e indi-viduale, sarà abolita e i beni di qualsiasi ordine, ente o comunità re-ligiosa, in quanto frutto di menzogne, frodi ed estorsioni, sarannoconfiscati e incamerati da comuni e province. Solo allora il prete eil frate diverranno uomini onesti e cittadini nella pienezza dei lorodiritti civili e politici, e si manterranno tali perché, essendo indivi-dualmente liberi di credere, predicare e celebrare a modo loro, nonsaranno più i membri di una casta. E la società non riconoscerà piùl’esistenza giuridica di alcuna Chiesa o di alcun altra corporazionereligiosa, che perciò non avranno il diritto di possedere beni, di in-dottrinare i bambini e di operare al di fuori del proprio tempio.

Lo Stato centralista, insieme ai suoi elementi costitutivi, hannoridotto l’Italia risorgimentale, come abbiamo appena visto, nelledolorose condizioni in cui si trova adesso; esso accentra e reprimein modo violento tutta la vita locale, estendendo l’opera di demo-ralizzazione e di dispotismo mascherato che sono la sua forza. Perabbattere questa istituzione secolare è necessario distruggere in-nanzi tutto gli elementi essenziali lo costituiscono: la monarchia, ilmilitarismo e la burocrazia.

1. La monarchia, questa istituzione ibrida, figlia della forzabruta, intrisa di sangue e di violenza, si è da sempre appoggiata aldiritto divino propugnato dal cattolicesimo. Oggi invece rifiori-sce, mendace, all’ombra del suffragio universale… Essa è stata esarà sempre, qualunque ne siano le forme, la negazione della li-bertà e della dignità umane, costituendo il primo anello di una ca-tena di asservimento. Essa ha vissuto per secoli sul lavoro del po-polo, lo ha calpestato, ha disposto della sua vita, del suo onore dellesue donne… Adesso basta.

Oltretutto, questa infamia non ha ormai alcuna ragione di esi-stere, in quanto non può più pretendere di essere la rappresentantein terra, la voce, di quel Dio onnipotente per la cui grazia esisteva.Per prolungarsi la vita, oggi ha dovuto mutare di origine e forma;

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prima era Dio che ungeva e mandava i re a opprimere, uccidere,derubare e violare il popolo, oggi è il popolo stesso che li chiama edelegge; prima si reggevano sul diritto della forza, oggi sulla forzadell’ipocrisia e della demoralizzazione.

Fra le forme risibili ideate per mettere al riparo da ogni pericoloquesta vecchia cancrena vi è la forma costituzionale. Qui il re, in-sieme ai ministri che giudica competenti (e che riesce sempre a repe-rire), nomina e destituisce tutti i funzionari, è a capo dell’esercito emantiene le truppe, scioglie il parlamento e la guardia nazionale, so-spende lo statuto, esige e spende le imposte, fa grazia della vita ecommina la morte, e al tempo stesso di nulla è responsabile. Per il re,la legge del dovere è nulla. Perché dunque esistono questi parassiti?Se non hanno doveri, perché hanno invece tanti diritti e privilegi?Perché tante ricchezze accumulate sul lavoro e gli stenti del popolo?

Spazza via, popolo, questi vampiri coronati con il semplice sof-fio di un tuo grido; esci dai tuoi fatiscenti tuguri e dilaga nei salonidorati dei loro superbi palazzi, riposa all’ombra dei loro giardini,bevi l’acqua delle loro fontane… perché tutto è frutto del sudoredella tua fronte, del lavoro delle tue mani che essi ti hanno rubato.

2. Il militarismo è l’organizzazione della forza bruta, la demora-lizzazione violenta, compiuta con leggi e discipline severissime, diuna parte della nazione sottratta al lavoro e alla cultura e ridotta astrumento cieco e meccanico della monarchia, che sola se ne avvan-taggia e che non può esistere senza di esso. Il soldato cessa di essereun cittadino quando cessa di lavorare proficuamente per vivere aspese della nazione, che lo mantiene tramite il re; il soldato non haopinioni proprie, non ha libertà di parola o di azione; l’alternativache gli si pone dinnanzi è la cieca obbedienza agli ordini dei suoisuperiori o la morte. Non vi è infamia, per quanto grande sia, allaquale il soldato possa non obbedire quando gli viene imposta dalcaporale e via via su fino al generale e al re… A cosa sono dunqueserviti tanti secoli di riflessione, di sventure, di schiavitù, se la di-gnità umana giace ancora così in basso?

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E non finisce qui. Il militarismo non è solo un’offesa alla dignitàumana, una violazione della libertà individuale e la distruzionedella libertà collettiva, ma è anche la rovina di una nazione, chedeve oltretutto mantenere la propria sventura, la propria umilia-zione e la propria schiavitù. La civiltà, l’onore, e più ancora la li-bertà e la felicità dell’Italia, sono in aperta contraddizione con l’e-sistenza stessa di una simile organizzazione, che dopo la rivoluzionenon avrà ragione di esistere.

Allora, ogni soldato sarà cittadino e ogni cittadino soldato nei ri-spettivi comuni e province. Allora, le terre non resteranno più in-colte, la nazione non sarà più immiserita dal pagamento forzato disomme strabilianti; centinaia di migliaia di uomini sapranno fi-nalmente per che cosa e per chi si battono, e non vedremo piùquelle cataste di cadaveri vittime dei piani ambiziosi di uno o dipochi, perché l’unica guerra dell’avvenire sarà per difendere la pro-pria libertà nel rispetto della libertà di tutti.

3. La burocrazia è un gruppo di interesse che si è costituito adanno della nazione; è una casta indispensabile alla sopravvivenzadella monarchia, che l’ha creata e che la mantiene con il denarodel popolo. Per giustificare l’esistenza di questa genìa, che glorificai prìncipi, obbedisce ai governi e calpesta il popolo, si sono ideatimille giri e raggiri, funzioni e servizi, che in definitiva si risolvonoin una somma favolosa contabilizzata nei bilanci, in una presenzapreponderante nelle votazioni, in un appoggio stabile alla monar-chia e ai governi di una buona fetta della nazione affinché l’ordineattuale di cose permanga, o magari peggiori. Il centralismo è indi-spensabile all’esistenza e all’espansione della burocrazia, perchésenza di esso cessa la sua ragion d’essere, la sua apparente ovvietà.Se infatti l’amministrazione pubblica tornasse ad avere la sua auto-nomia comunale e provinciale, non ci sarebbe più bisogno di pa-gare questi grassi stipendi a burocrati inutili e oziosi.

Una volta soppressi questi tre elementi, verrebbe di fatto a man-care anche la ragion d’essere di uno Stato centralista, che è il frutto

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e lo strumento della tirannia. Con la rivoluzione, quest’ultimo ces-serà di esistere, perché nessun popolo intenderà più rinunciare albenessere per sprofondare nella miseria, calpestare il proprio sensomorale per farsi progressivamente svilire, rinunciare cosciente-mente alla libertà per subire una vergognosa schiavitù. E sono ap-punto questi gli effetti del centralismo e della concezione forzosa-mente unitaria della monarchia.

Diciamo forzosamente, perché la monarchia ha travisato il sensopratico della parola unità, che invece di essere, come dovrebbe, lalibera associazione dei liberi comuni nelle province e delle provincenella nazione, per la monarchia è una mera conquista spacciata daannessione spontanea. Lungi dal plasmare per una volta il suo de-stino, di disporre sovranamente di sé almeno per una volta, l’Italiaha subìto le leggi, le estorsioni e il disprezzo per quella popolazioneche avrebbe dovuto beneficiare di questa unità, attuata con vio-lenza dall’alto verso il basso in forma di conquista.

Rovesciata la monarchia, abolito il militarismo, soppressa la bu-rocrazia, si dispiegherà spontaneamente, sulla spinta di un biso-gno irresistibile, un processo di totale decentramento, e la nostraItalia si riorganizzerà così dal basso verso l’alto, e l’unità non pog-gerà più sulla violenza bensì sulla libertà.

Infine, con i termini privilegi sociali noi intendiamo esprimerel’ingiustizia della società verso le classi operaie e contadine, la spro-porzione esistente fra il lavoro e il salario e la schiavitù del lavoro.Il proletariato è una delle piaghe sanguinanti della nostra epoca,nonostante esso includa la maggioranza dei cittadini. L’operaio e ilcontadino, senza il lavoro dei quali la materia e il capitale non var-rebbero nulla, invece di essere gli associati del possidente e del ca-pitalista, oggi ne sono gli schiavi e quasi sempre le vittime.

Un tale stato di cose non può più continuare: le vittime sono in-fatti la maggioranza. Ed è per questo che rigettiamo i terribili rivol-gimenti in cui, nel parossismo della vendetta popolare, non sareb-bero più rispettati né gli uomini né le cose. Piuttosto, accettiamooggi, per senso di giustizia, quanto il popolo lavoratore potrebbe

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domani rivendicare con la forza, ovvero l’emancipazione del lavorodal capitale e dalla materia.

Senza il lavoro, la materia è inerte e improduttiva; senza il la-voro, le montagne d’oro non producono oro. Non sono il capitaleo la materia a creare ciò che è a disposizione dell’umanità, ma è illavoro. Giustizia dunque; perché noi vogliamo la libertà per tutti,ma al tempo stesso gridiamo forte: eguaglianza fra tutti. Per questovogliamo che la base della società sia il lavoro, che nessuno abbia ildiritto di vivere sul lavoro altrui, che l’ozio, con il suo godimentoimmeritato dei beni, delle gioie, del benessere della vita, faccia daoltraggioso e beffardo contrappasso al lavoro.

Non c’è alcun bisogno di sviluppare queste idee: sono facili eovvie; ogni uomo onesto ne è ben cosciente. E per quelli che invecenon le comprendono, è inutile sprecare ulteriori parole perché nonle comprenderanno mai.

Giunti al termine del nostro discorso, chiudiamo questo pro-gramma con la seguente dichiarazione: noi confidiamo solo in unarivoluzione fatta dal popolo per la sua positiva e completa emanci-pazione; una rivoluzione che fondi l’Italia come una libera repub-blica, composta da liberi comuni, liberamente uniti fra loro in unalibera nazione.

Ritorneremo sull’argomento.

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CAPITOLO SECONDO

Le cinque nazioni*

In Italia vi sono almeno «cinque nazioni»:

1. I clericali, dal papa all’ultima beghina.2. La consorteria [in italiano nel testo], ovvero la grande borghe-

sia, compresa la nobiltà.3. La media e la piccola borghesia.4. Gli operai delle fabbriche e delle città.5. I contadini.

Ora, io vi domando, come è possibile affermare che queste cin-que nazioni – e volendo potrei annoverarne anche di più, cioè: a)la corte, b) la casta militare, c) la casta burocratica – possano avereuna medesima fede e aspirazioni comuni?

Prendiamole in esame una alla volta.

1. I clericali non costituiscono, propriamente parlando, una

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* Titolo originale Lettre à mes amis d’Italie (1871).

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classe ereditaria; nondimeno sono una classe permanente. Compo-sta al vertice dai prìncipi della Chiesa, reclutati in massima partenell’alta aristocrazia, e alla base da quel popolo delle campagne chele fornisce la massa di preti subalterni, rinnovata artificialmentegrazie ai seminari, e obbediente come un’armata ben disciplinataalla Compagnia di Gesù, questa casta ha una storia e tradizionitutte italiane, e persino un patriottismo tutto suo. Ed è proprioquesto uno dei motivi per cui Mazzini, malgrado le notevoli diver-genze teoriche e politiche, nutre una segreta tenerezza, quasi invo-lontaria, per questa casta. Un altro motivo è il suo rispetto verso ipreti. Quantunque il Profeta italiano sia assolutamente disponi-bile a sostituire i preti della vecchia Chiesa cattolica con quelli dellasua nuova «Chiesa mazziniana», nondimeno rispetta in modo istin-tivo, ma anche consapevole, il loro carattere sacerdotale, e scagliafulmini contro tutti coloro che li attaccano: la Comune di Parigi,l’Internazionale, i liberi pensatori e Garibaldi. Lo speciale patriot-tismo dei clericali italiani consiste nella tendenza a subordinare ilclero degli altri paesi al clero italiano e a far prevalere il pensiero re-ligioso italiano, l’ultramontanismo, nei concili ecumenici, a co-minciare dal Concilio di Trento fino a quello ben più recente diRoma.

Ho forse bisogno di dimostrare, a voi italiani, che questa casta,pur se perfettamente italiana per costumi, lingua e cultura, è semprestata ed è ancor oggi estranea e ostile a tutte le aspirazioni dellagrande nazione italiana? Del resto, malgrado questo speciale pa-triottismo, per la sua posizione e i suoi dogmi questa casta è di fattointernazionale.

2. Passiamo alla consorteria. È una nuova classe, creata dall’uni-ficazione d’Italia, e comprende nel suo seno tutta la ricca borghesiae quella parte di nobiltà, più o meno ricca, che non si è infeudatanella casta clericale. La potenza di questa classe si riassume nellegrandi proprietà e nelle grandi transazioni industriali, commercialie finanziarie, che includono il sistema bancario. Ai suoi figli vanno

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tutti i più importanti e lucrosi incarichi negli apparati dello Stato;anzi, è la casta statale per eccellenza. E per sapere ciò che è e ciò chefa non devo far altro che dare una scorsa ai vostri giornali. Si trattainfatti di una vasta congrega di persone «integerrime» dedite a de-predare con sistematicità la povera Italia. È questa casta che incarnail processo di unificazione e il galoppante centralismo statale, datoche questo centralismo significa grandi affari, grandi speculazioni efurti colossali. È una classe che non ha alcuna fede, ma che è prontaa riconciliarsi e ad allearsi con la casta clericale perché è persuasa cheil popolo abbia maledettamente bisogno della religione.

Ricorderete bene l’affare Ricasoli – del 1865-1866 – e il famosoprogetto clerico-finanziario di Cambray-Digny per il riscatto deibeni della Chiesa, ovvero l’alleanza della Banca con la Sacrestia.

La consorteria, d’altronde, non è altera ed esclusiva come l’ari-stocrazia inglese. Infatti, a differenza di quest’ultima, coopta vo-lentieri tutte le intelligenze che rimanendo all’esterno potrebberodiventare pericolose, mentre accolte nel suo seno le apportanonuove forze contro un paese che intendono sfruttare e che è abba-stanza ricco per nutrire alcune centinaia di malandrini in più.

Non ho bisogno di dirvi che questa classe non è per nulla pa-triottica; lo è certamente meno della casta clericale, anzi è decisa-mente più cosmopolita. Creata dalla civiltà moderna, non ricono-sce altra patria all’infuori della speculazione mondiale e ciascunodei suoi membri sfrutterebbe e deprederebbe altrettanto volentieriqualsiasi paese come la sua cara Italia. Questa classe non ha altraaspirazione se non quella di riempire le proprie tasche a scapitodella prosperità nazionale.

3. Passiamo alla terza casta, cioè la media e piccola borghesia. Èquesta la casta che per cultura, libertà e progresso ha plasmato tuttala storia recente dell’Italia: arti, scienza, letteratura, lingua, indu-stria, commercio, istituzioni municipali… tutto è stato creato dallamedia e piccola borghesia. Suo lo sforzo supremo che ha portato al-l’unità politica d’Italia. È dunque la classe patriottica per eccel-

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lenza, e nel suo seno Mazzini e Garibaldi, e ben prima di loro iPepe, i Balbo, i Santarosa, hanno reclutato i soldati, i martiri, glieroi della rivoluzione italiana. Vedete dunque, cari amici, che iorendo piena giustizia a questa classe, e mi inchino rispettosamentee sinceramente innanzi al suo passato. Ma questo medesimo spiritodi giustizia mi fa riconoscere che essa oggi è completamente esau-rita, sterile, rinsecchita come un limone dal quale una così lunga ememorabile storia ha spremuto ogni succo; che essa oggi è mortae che nessun miracolo, neppure l’eroismo dittatoriale del generaleGaribaldi o le prestidigitazioni teologiche di Mazzini, sapranno re-suscitare. È morta, e diviene ogni giorno più impotente, più vile,più immorale, più bestiale. È un corpo immenso che va via via im-putridendo. E lo potete constatare guardando la stragrande mag-gioranza della sua gioventù o i membri del parlamento italiano,che escono quasi esclusivamente dal suo seno.

La media borghesia, nella quale io annovero anche la classe deiproprietari terrieri, nobili o non nobili, i quali, senza essere moltoricchi, vivono comunque agiatamente, subisce oggi economica-mente, e quindi politicamente, il giogo della consorteria, che ladomina grazie anche alla vanità: passione che, fra tutte, è forse lapiù potente in questa porzione della borghesia italiana, potente al-meno quanto la sete di guadagno. Questa casta è doppiamente in-feudata all’ordine di cose esistenti, che incatenandola a sé la rovinasenza che il processo risulti palese. Per tutte le sue imprese indu-striali e commerciali essa ha infatti bisogno del credito, e il creditoè dispensato dalla Banca, cioè da una casta più alta: la consorteria.Nessun affare, per quanto poco consistente, può essere oggi con-cluso senza il consenso della consorteria (ne è un esempio l’affarerecentissimo delle acque a Napoli), e la consorteria non accorda ilsuo credito e la sua protezione se non a chi vota per lei.

L’altro legame è quello che la unisce direttamente allo Stato. Ifigli di questa classe occupano tutte le cariche burocratiche, giudi-ziarie, poliziesche e militari dell’apparato statale. La loro carriera di-pende dalla buona condotta, cioè dalla sottomissione politica dei

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loro parenti. Ora, quale padre sarebbe così snaturato da votare con-tro la carriera del figlio?

Lo Stato italiano è disastroso e disastrato. Si mantiene a stentosolo schiacciando il paese sotto il peso delle imposte; e quel tantodi ricchezza che rimane a quest’ultimo, serve per foraggiare la con-sorteria. Alla media borghesia non restano quindi che le briciole,così la vita diventa ogni giorno più cara, il lusso sempre più raffi-nato, e con il lusso diventa più raffinata anche la vanità borghese.Questa vanità, abbinata alla scarsezza delle proprie risorse, la fa vi-vere in continui imbarazzi che la prostrano, la demoralizzano, leturbano il cuore e vanificano quel poco di dignità e di spirito cheancora le restava. Lo ribadisco: questa classe, un tempo così po-tente, intelligente e prospera, oggi cammina lentamente ma fatal-mente verso la propria rovina, anzi è già morta, tanto intellettual-mente quanto moralmente. Non ha più né fede, né pensiero, néaspirazioni di sorta. Non vuole e non può tornare indietro, ma nonosa nemmeno andare avanti; così vegeta giorno per giorno, ango-sciata dalle ristrettezze finanziarie e dalla vanità sociale, che ormaile corrodono il cuore.

Da questa classe escono ancora […] dei bravi giovani pieni diaspirazioni generose e di ideali, che però sono eccessivamente igno-ranti, disorientati e spersi nella realtà arida, servile e corrotta checontrassegna la vita della società borghese oggi in Italia. Tuttavia,rendiamole giustizia. Tra tutte le gioventù dell’Europa occidentale,la gioventù italiana è quella che ha dato il maggior numero di eroi[…]. Ho anche detto che è eccessivamente ignorante; ma non neha colpa. Le università e le scuole d’Italia, prime un giorno in Eu-ropa, sono oggi rimaste indietro di un secolo, anche solo parago-nate a quelle francesi. […] Nondimeno, essendosi abituata a cer-care il proprio pensiero in quello di Mazzini e a cercare la propriavolontà in quella di Garibaldi, è diventata una gioventù dal cuoregrande ed eroica, ma del tutto priva di volontà e cervello propri. Eil peggio è che si è anche abituata a considerare con disprezzo lemoltitudini popolari, a non tenerne affatto conto. Il patriottismo

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astratto di cui si è nutrita per anni alla scuola dei suoi grandi mae-stri, Mazzini e Garibaldi, finalizzato solo ed esclusivamente all’in-dipendenza, alla grandezza, alla potenza, alla gloria, all’onore e, sevogliamo, alla libertà dello Stato unitario, […] l’ha portata a con-siderare il popolo come una sorta di materiale plastico a disposi-zione di questo Stato, come una massa passiva, più o meno bruta,che si deve ritenere onorata e felice di servire come strumento perconseguire… che cosa? Ma la grandezza e (nel gergo mazziniano-garibaldino) la libertà dell’Italia.

Se la gioventù si fosse presa la briga di riflettere, avrebbe forsecompreso da tempo che questa indifferenza ben sedimentata dellemasse popolari per i destini dello Stato italiano, lungi dall’essere di-sonorevole, testimonia della loro intelligenza istintiva, grazie allaquale intuiscono che questo Stato unitario e centralista non solo,per sua stessa natura, è a loro estraneo, anzi ostile, ma è proficuosolo per le classi privilegiate, la cui predominanza e ricchezza garan-tisce a loro detrimento. La prosperità dello Stato comporta la mi-seria della nazione reale, del popolo; la grandezza e la potenza delloStato comportano l’asservimento del popolo. […]

In definitiva, dopo aver compiuto un’opera gloriosa, la gioventùitaliana è adesso chiamata a compierne un’altra ancora più gloriosa:deve aiutare il popolo italiano a distruggere quello Stato unitarioche ha fondato con le sue stesse mani. Deve contrapporre alla ban-diera unitaria di Mazzini la bandiera federale della nazione italiana,del popolo italiano.

Ma bisogna saper distinguere tra federalismo e federalismo. InItalia esiste una tradizione federalista regionale che oggi è diventatauna menzogna politica e storica. Diciamolo una volta per tutte: ilpassato non torna mai, e sarebbe una grave sventura se tornasse. Ri-spetto ai liberi comuni e alle associazioni operaie di oggi, quel fe-deralismo regionale sarebbe infatti solo un’istituzione aristocratico-consortesca, ovvero un ordinamento politico dall’alto verso il basso.Un ordinamento veramente popolare comincia invece con un mo-vimento dal basso, con l’associazione dei municipi. Solo così, orga-

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nizzandosi dal basso verso l’alto, il federalismo diviene un’istitu-zione politica del socialismo, l’ordinamento libero e spontaneodella vita popolare. […]

Torniamo ora all’esame delle classi e delle nazioni che compon-gono l’Italia moderna. Sulla piccola borghesia ho poco da dire.Questa non differisce granché dal proletariato, essendo quasi al-trettanto sventurata. Non darà inizio alla rivoluzione sociale, ma visi getterà dentro a capofitto.

Il vero popolo è invece composto dal proletariato delle città e daicontadini, con il primo naturalmente più avanzato dei secondi.

4. Il proletariato delle città ha un passato patriottico che in pa-recchie città italiane risale addirittura al Medio evo; come il prole-tariato di Firenze, per esempio, che si distingue oggi, fra tutti, peruna certa apatia, per un’assenza marcata di passioni forti ed energi-che. Si direbbe che il suo grande compito storico l’abbia almeno inparte esaurito, come d’altronde lo ha esaurito anche la borghesiafiorentina, la cui scettica indifferenza si esprime in modo pittorescocon il suo «Che! Che!». Il proletariato urbano italiano, essenzial-mente municipalista, profondamente separato, in tutta la storia d’I-talia, dalla gran massa dei contadini, forma una classe certamentemolto sventurata, molto oppressa, e tuttavia una classe ereditaria eben definita. Proprio in quanto classe, esso è sottoposto alla fatalelegge storica che ne determina lo sviluppo e la durata in base aquanto ha fatto e a come è vissuta nel passato. Individualità collet-tive, tutte le classi finiscono con l’esaurirsi, come gli individui. Lostesso può dirsi dei popoli considerati nel loro insieme, con questadifferenza: che ogni popolo, abbracciando tutte le classi e anchequelle masse che non sono giunte a costituirsi in classi, è infinita-mente più ampio, ha considerevolmente più materia, e di conse-guenza ha un tragitto più lungo da percorrere rispetto alle singoleclassi che si sono formate nel suo seno. Ma se l’individualità collet-tiva è certamente più ricca e potente, a lungo andare finisce an-ch’essa per esaurirsi. Ed è precisamente questo fatale esaurimento fi-

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siologico e storico a dar ragione di quel doppio movimento oggi inatto, che per un verso spinge le classi a confondersi nelle grandimasse popolari, e per l’altro porta i popoli e le nazioni a crearsi unanuova vita più feconda e piena nella prospettiva dell’Internazio-nale. L’avvenire, un avvenire con tempi lunghi, rimanda dapprimaalla costituzione di una Internazionalità europeo-americana. Piùtardi, molto più tardi, questa grande nazione europeo-americana siconfonderà organicamente con l’agglomerazione asiatica e africana.Ma un futuro così è talmente lontano che non se ne può ancoraparlare in modo positivo e preciso. Ritorno perciò al proletariatoitaliano.

Quanto più questo proletariato ha partecipato politicamente alpassato storico, tanto meno ha un futuro come classe separata dallamassa dei contadini. Ho mostrato come la partecipazione del pro-letariato fiorentino allo sviluppo e alle lotte municipali del Medioevo, l’abbia poi fatto assopire per lungo tempo. Dall’inizio del di-ciannovesimo secolo, dopo un sonno forzato di almeno tre secoli,il proletariato lombardo, veneto, genovese e di tutta l’Italia cen-trale ha preso parte più o meno attiva ai sollevamenti, alle cospira-zioni e alle spedizioni patriottiche di cui sono pieni gli annali dellagioventù borghese negli ultimi settant’anni. Il risultato di questoprocesso è stato che si è costituito nel suo seno un partito, una mi-noranza mazziniana-garibaldina molto determinata, che si è poiinfeudato completamente alla politica della repubblica unitariaborghese. Se il proletariato italiano avesse seguito questo esempio,non esisterebbe più e bisognerebbe cercare altrove l’avvenire d’Ita-lia, cioè nella sola massa dei contadini, massa informe, bruta, maintatta e ricca di elementi che non sono stati sfruttati dalla storia.

Fortunatamente, il proletariato urbano, anche quello che giurasui nomi di Mazzini e Garibaldi, non si è mai mazzinizzato o gari-baldinizzato completamente, e non l’ha fatto per la semplice ra-gione che è appunto proletariato, ossia una massa oppressa, deru-bata, maltrattata, miserabile, che, costretta dalla fame a lavorare, hanecessariamente assunto la morale e la logica del lavoro.

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Gli operai mazziniani e garibaldini potranno ben condividere iprogrammi di Mazzini e di Garibaldi, ma nel loro ventre, nei voltilividi e scavati dei loro figli e dei loro compagni di miseria e soffe-renza, nella loro schiavitù reale di ogni giorno, vi sarà sempre qual-cosa che grida alla rivoluzione sociale! Essi sono tutti socialisti loromalgrado, con l’eccezione di alcuni individui – forse uno su mille– che per ingegno, fortuna o astuzia sono in grado di accedere almondo borghese. Tutti gli altri, cioè la gran massa degli operaimazziniani e garibaldini, pur ritenendosi tali – alcuni per immagi-nazione, molti per abitudine – in realtà sono e non possono esserealtro che socialisti rivoluzionari.

E oggi, cari amici, è questo il vostro dovere: organizzare unapropaganda intelligente, onesta, partecipe e soprattutto perseve-rante per farglielo comprendere. Per raggiungere questo obiettivo,non dovrete far altro che presentare il programma dell’Internazio-nale, facendo loro toccare con mano quel che vi si afferma. E se viorganizzerete in tutta Italia, se agirete in buona armonia, con spi-rito fraterno, senza riconoscere altro capo se non la vostra giovanecollettività, io vi garantisco che nel giro di un anno non vi sarannopiù operai mazziniani e garibaldini, perché tutti saranno diventatisocialisti rivoluzionari, patrioti senza alcun dubbio, ma nel sensopienamente umano di questa parola, cioè patrioti e internazionali-sti a un tempo. Voi avrete così creato la base incrollabile della pros-sima rivoluzione sociale, la quale salverà l’Italia e le restituirà lavita, l’intelligenza e tutta l’iniziativa che le è propria per essere unadelle nazioni umanamente più progredite d’Europa. […]

5. I contadini sono l’immensa maggioranza della popolazioneitaliana, rimasta quasi completamente vergine perché non ha avutoancora una sua storia, dato che tutta la storia del vostro paese, comeho già osservato e come voi sapete meglio di me, si è finora esclu-sivamente concentrata nelle città, ben più che negli altri paesi eu-ropei. I vostri contadini non hanno partecipato a questa storia, enon la conoscono se non per i contraccolpi che hanno ricevuto a

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ogni nuova fase del suo svolgimento, per la miseria, la schiavitù e lesofferenze innumerevoli che essa ha loro imposto. A causa di tuttequeste sventure che sono piovute loro addosso dalla città, i conta-dini naturalmente non amano le città né i loro abitanti, compresi glistessi operai, i quali li hanno sempre trattati con una certa suppo-nenza, cosa che ora pagano con la diffidenza. Ed è questo rapportostoricamente negativo dei contadini italiani con la politica dellacittà quello che nelle campagne conferisce potere ai vostri preti, enon la religione. I vostri contadini sono superstiziosi, ma niente af-fatto religiosi; amano la Chiesa per la sua messinscena scenografica,per le sue cerimonie recitate e cantate che interrompono la mono-tonia della vita rurale. La Chiesa è per essi come un raggio di sole inuna vita di stenti e di lavoro omicida, di dolori e di miseria.

Certamente i contadini non detestano i preti, soprattutto quelliche vivono in campagna, dato che la maggioranza di questi è uscitadal loro seno. Non vi è quasi contadino che non abbia nella Chiesaun parente vicino o per lo meno un lontano cugino. I preti, pursfruttandoli bonariamente e facendo far figli alle loro mogli e figlie,dividono con essi la loro vita e in parte ancora la loro miseria. Nonhanno per essi quel superbo disprezzo che dimostrano i borghesi,ma vivono con loro familiarmente, da buoni diavoli, facendospesso la parte del buffone. Il contadino spesso ne ride, ma non lidetesta perché gli sono familiari come gli insetti che pullulano sullasua testa, fra i suoi capelli.

D’altra parte, appare evidente che non appena la rivoluzione so-ciale scoppierà, molti di questi preti vi si getteranno a capofitto.L’hanno già fatto in Sicilia e nel napoletano nell’epoca della rivolu-zione politica. Che cosa avverrà nel corso della rivoluzione sociale?Il prete di campagna, che è popolo per sua natura e per buona partedelle condizioni di vita, non è attratto né soddisfatto dalla rivolu-zione politica, che è astratta, metafisica, illusoria e ingannatrice perle masse popolari. Ma la rivoluzione sociale, che è una rivoluzionedella vita stessa, lo trascinerà irresistibilmente come trascinerà tuttoil popolo delle campagne. Non la propaganda del libero pensiero,

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ma la rivoluzione sociale potrà estirpare la religione dal popolo. Lapropaganda del libero pensiero è certamente molto utile, anzi èuno strumento indispensabile per convertire gli individui già pro-grediti, ma non farà breccia nel popolo, perché la religione non èsolo un’aberrazione, un travisamento del pensiero, bensì è soprat-tutto una protesta della natura vivente, potente, delle masse controle ristrettezze della vita reale. Il popolo va in chiesa come va in oste-ria, per stordirsi, per dimenticare la miseria, per immaginarsi, al-meno per pochi istanti, eguale, libero e felice al pari di tutti glialtri. Dategli un’esistenza umana e non andrà più né all’osteria néin chiesa. Ebbene, questa esistenza umana gliela potrà e dovrà daresolo la rivoluzione sociale.

In gran parte d’Italia il contadino è miserabile, ben più misera-bile dell’operaio di città. Non è un piccolo proprietario come inFrancia, il che è una buona cosa dal punto di vista della rivolu-zione, e solo in poche regioni conduce un’esistenza sopportabilecome mezzadro. La massa dei contadini italiani rappresenta già diper sé un esercito immenso e onnipotente per la vostra rivoluzionesociale. Guidato dal proletariato urbano e organizzato dalla gio-ventù socialista rivoluzionaria, questo esercito sarà invincibile.

Di conseguenza, cari amici, quello che dovete fare, nel momentostesso in cui organizzate gli operai urbani, è trovare i mezzi perrompere il ghiaccio che separa il proletariato delle città dal popolodelle campagne, e così unire questi due popoli in un popolo unico.Sta qui la salvezza dell’Italia. Tutte le altre classi devono scompariredal suo suolo, non come individui ma come classi. Il socialismonon è crudele: è mille volte più umano del giacobinismo, cioè dellarivoluzione politica. Non ce l’ha con le persone, per quanto scelle-rate siano, in quanto sa bene che tutti gli individui, buoni o cattivi,sono solo il fatale prodotto della posizione sociale che la storia e lasocietà hanno loro attribuito. I socialisti, è vero, non potranno im-pedire che, nel suo primo slancio di furore, il popolo faccia piazzapulita di qualche centinaio di individui tra i più odiosi, perfidi e pe-ricolosi; ma una volta che l’uragano sarà passato, si opporranno

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con tutta la loro energia alla macelleria ipocrita, politica e giuri-dica, organizzata a sangue freddo.

Il socialismo fa una guerra spietata alle «posizioni sociali», nonagli uomini; e una volta distrutte e spazzate via queste posizioni,una volta disarmati e privati di tutti i mezzi di azione gli uominiche le occupano, questi uomini diventeranno inoffensivi e moltomeno potenti, ve lo garantisco, del più ignorante degli operai; per-ché la loro potenza attuale non risiede in loro stessi, in un loro va-lore intrinseco, ma nelle ricchezze che possiedono e nell’appoggiodello Stato.

La rivoluzione sociale, dunque, non solo li risparmierà, ma dopoaverli fatti cadere e privati delle loro armi, li aiuterà a rialzarsi edirà loro: «E ora, cari compagni, ora che siete diventati nostrieguali, mettetevi bravamente a lavorare con noi. Nel lavoro, comein tutto, il primo passo è quello più difficile, e noi vi aiuteremofraternamente a superarlo». Se poi, taluni che sono validi e fortinon vorranno guadagnarsi la vita con il proprio lavoro, avrannotutto il diritto di morire di fame, a meno che non preferiscano vi-vere umilmente e miserevolmente della carità pubblica, che certonon rifiuterà loro lo stretto necessario.

Quanto ai loro figli, non vi è alcun dubbio sul fatto che essi di-venteranno valenti lavoratori e uomini liberi ed eguali. Nella so-cietà vi sarà certamente meno lusso, ma incontestabilmente unaben maggiore ricchezza; e oltretutto vi sarà un lusso oggi ignoto aipiù: il lusso dell’umanità, del pieno sviluppo e della piena libertà diciascuno nell’eguaglianza di tutti. È questo il nostro ideale.

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CAPITOLO TERZO

Sporchi, brutti e cattivi*

In Italia, la campagna contro l’Associazione internazionale dei lavo-ratori è stata lanciata a partire da tre postazioni diverse. Innanzitutto, come era facile aspettarsi, il papa in persona l’ha scomuni-cata. E l’ha fatto in modo alquanto originale, ovvero confondendoin uno stesso anatema i membri dell’Internazionale e i massoni, igiacobini e i razionalisti, i deisti e i cattolici liberali. Secondo la de-finizione del santo-padre, rientra in quella riprovevole Associazionechiunque non si sottometta ciecamente al flusso della sua ispirataeloquenza. Circa ventisei anni fa, un generale prussiano dava unadefinizione molto simile del comunismo: «Sapete», diceva ai suoisoldati, «che cosa vuol dire essere comunista? Vuol dire pensare eagire contro il pensiero e la volontà augusti di Sua Maestà il Re».

Ma il papa cattolico-romano non è stato il solo a gettare l’ana-tema contro l’Associazione internazionale dei lavoratori. Il celebrerivoluzionario Giuseppe Mazzini, conosciuto in Russia più comepatriota, cospiratore e agitatore italiano che come deista-metafi-

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* Titolo originale Etatisme et anarchie (1873), estratti.

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sico e fondatore di una nuova Chiesa; sì, proprio Mazzini, nel1871, all’indomani della disfatta della Comune di Parigi, quandoi feroci esecutori dei selvaggi ordini di Versailles fucilavano migliaiadi comunardi disarmati, ha giudicato utile e necessario associareall’anatema cattolico-romano e alle persecuzioni poliziesche e go-vernative la sua propria maledizione, apparentemente patriottica erivoluzionaria, ma di fatto molto borghese e teologica. Egli spe-rava che i suoi discorsi sarebbero stati sufficienti a spegnere, in Ita-lia, le simpatie per la Comune e a distruggere sul nascere le sezionidell’Internazionale che vi erano state fondate. Ma in realtà si è pro-dotto l’esatto contrario: niente ha contribuito ad accrescere quellesimpatie e a moltiplicare le sezioni dell’Internazionale più di quelroboante e solenne anatema.

Neppure il governo italiano, nemico del papa ma ancor più diMazzini, se ne è rimasto a dormire. Inizialmente non aveva capitoil pericolo che gli faceva correre l’Internazionale, che si era rapida-mente sviluppata nelle città e nelle campagne italiane. Era con-vinto che la nuova Associazione avrebbe potuto contrastare i pro-gressi della propaganda borghese-repubblicana di Mazzini e, sottoquesto aspetto, non si sbagliava; ma ben presto si è anche resoconto che diffondere i principi della rivoluzione sociale in una po-polazione in fermento, che esso stesso aveva condotto ai limitiestremi della miseria e dell’oppressione, era molto più pericolosodelle agitazioni e delle imprese politiche di Mazzini. La morte delgrande patriota italiano, di poco successiva al suo violento attaccoalla Comune di Parigi e all’Internazionale, ha tranquillizzato, daquel lato, il governo italiano. Decapitato, il partito mazziniano nongli ha fatto più correre il minimo pericolo. La disgregazione di quelpartito è ormai evidente e dato che i suoi principi e i suoi fini,come anche i suoi effettivi, sono squisitamente borghesi, esso lasciatrasparire i sintomi evidenti della clorosi che oggi colpisce tuttociò che la borghesia intraprende.

Tutt’altra cosa sono la propaganda e l’organizzazione dell’Inter-nazionale in Italia. L’una e l’altra si indirizzano direttamente ed

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esclusivamente agli ambienti proletari più poveri che, in Italia comein tutti i paesi europei, hanno in sé la vita, la forza e l’avvenire dellasocietà moderna. Solo alcune individualità del mondo borghese,che odiano con tutto il loro essere l’attuale ordine politico, econo-mico e sociale, sono confluite in questi ambienti, girando le spallealla loro classe di provenienza e dedicandosi interamente alla causadel popolo. Queste individualità sono poco numerose, e tuttaviapreziose, a condizione beninteso che, oltre ad avere in odio le aspi-razioni al dominio della borghesia, esse abbiano anche cancellatole ultime vestigia di ambizione personale; in questo caso, lo ribadi-sco, sono davvero preziose. Il popolo dà loro la vitalità, la forza deglielementi e un campo di azione; in compenso, esse gli apportanoconoscenze positive, metodi di astrazione e di analisi, così comel’arte di organizzarsi e di costituire alleanze, che a loro volta creanoquella forza combattente cosciente senza la quale la vittoria è in-concepibile.

Tanto in Italia quanto in Russia, c’è un numero piuttosto con-siderevole di questi uomini nel fiore degli anni, un numero incom-parabilmente maggiore che in qualsiasi altro paese. Ma ciò che è in-finitamente più importante è l’esistenza, in Italia, di un vastoproletariato dotato di un’intelligenza straordinaria, pur se in granparte privo di istruzione e profondamente misero, composto da 2-3 milioni di operai che lavorano nelle città e nelle fabbriche, cosìcome da piccoli artigiani e da circa 20 milioni di contadini chenon posseggono nulla. Come è stato già detto, a causa di un appa-rato amministrativo gestito dalle classi superiori e fondato sull’op-pressione e la spoliazione, sotto lo scettro liberale del re, il liberatoreo meglio l’accaparratore delle terre italiane, questa massa innume-revole di individui è ridotta in una situazione talmente disperatache gli stessi sostenitori e funzionari dell’attuale amministrazionepubblica cominciano ad ammettere, e ad affermare in parlamentoe sui giornali ufficiali, che non si può continuare a lungo su questavia, che è importante fare qualcosa per il popolo se si vuole evitareun sollevamento che prenderebbe d’assalto tutto.

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Forse da nessuna parte la rivoluzione sociale è così vicina come inItalia; sì, da nessuna parte, senza eccettuare la stessa Spagna, benchéin questo paese sia già ufficialmente in corso una rivoluzione e inItalia tutto sia in apparenza calmo. In Italia, il popolo intero attendela rivoluzione sociale e giorno dopo giorno le va coscientemente in-contro. È facile immaginare con quale ampiezza, sincerità e pas-sione il proletariato abbia accettato e continui ad accettare il pro-gramma dell’Internazionale. In Italia non vi è, come in molti altripaesi europei, un ceto operaio separato, in parte già privilegiato gra-zie ad alti salari, il quale non solo ostenta qualche conoscenza lette-raria ma è a tal punto impregnato delle idee, delle aspirazioni e dellevanità borghesi che gli operai integrati in quell’ambiente si diffe-renziano dai borghesi per la loro condizione ma non per le loro at-titudini. Soprattutto in Germania e in Svizzera esistono numerosioperai di questo genere; di contro, in Italia se ne trovano assai pochi,così pochi che sono dispersi nella massa e non hanno alcuna in-fluenza su di essa. Ciò che predomina in Italia è quel proletariatocencioso di cui i signori Marx ed Engels, e al loro seguito tutta lascuola della socialdemocrazia tedesca, parlano con il più profondodisprezzo e molto ingiustamente, giacché è in esso e in esso solo, enon nel ceto imborghesito della massa operaia, che risiedono total-mente lo spirito e la forza della futura rivoluzione sociale.

Amplieremo maggiormente questo punto in un altro momento;limitiamoci ora a trarne la seguente conclusione: è esattamente inragione di questa predominanza massiccia in Italia del proletariatocencioso che la propaganda e l’organizzazione dell’Associazione in-ternazionale dei lavoratori hanno preso in questo paese l’aspettopiù appassionato e autenticamente popolare; ed è proprio per que-sto che quella propaganda e quella organizzazione, oltrepassando iconfini cittadini, hanno immediatamente conquistato le popola-zioni rurali.

Il governo italiano si rende perfettamente conto del pericolo cherappresenta questo movimento e tenta di soffocarlo – invano – contutte le sue forze. Non emana proclami altisonanti, bensì agisce,

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come si addice a un potere poliziesco, in sordina, nell’ombra, senzadare spiegazioni. A dispetto delle sue stesse leggi, chiude una dopol’altra tutte le associazioni operaie, a eccezione di quelle in cui sonomembri onorari prìncipi, ministri, prefetti o più in generale nota-bili e alti dignitari. Quanto alle altre associazioni operaie, il go-verno italiano le perseguita senza pietà, si impadronisce dei loroarchivi e dei loro fondi e trattiene i loro aderenti per mesi interi,senza giudizio e senza istruire un processo, in prigioni immonde.

Non c’è dubbio che, agendo in questo modo, il governo italianosi lascia guidare non soltanto dalla propria saggezza, ma anche daiconsigli e dalle direttive del cancelliere dell’impero tedesco, esatta-mente come faceva al tempo in cui obbediva docilmente agli ordinidi Napoleone III. Lo Stato italiano si trova in una ben strana situa-zione, infatti per il numero dei suoi abitanti e per l’estensione delsuo territorio dovrebbe essere annoverato tra le grandi potenze, al-lorché per la sua forza reale, le sue finanze in rovina, la sua organiz-zazione fatiscente e la sua pessima disciplina (malgrado gli sforziche fa), questo Stato, del resto detestato dalle masse popolari e per-sino dalla piccola borghesia, può a malapena essere consideratocome una potenza di second’ordine. È per questo che esso ha biso-gno di un protettore, cioè di un padrone fuori dalle sue frontiere,e ciascuno trova naturale che, dopo la caduta di Napoleone III, ilprincipe di Bismarck abbia preso il posto di alleato indispensabiledi questa monarchia, nata grazie agli intrighi piemontesi sul terrenoche gli sforzi e le gesta patriottiche di Mazzini e Garibaldi avevanopreparato.

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CAPITOLO QUARTO

Nessuno può restare indefinitamentein preda alla disperazione*

L’Italia, proprio come la Spagna, è assai vicina a una rivoluzione so-ciale. Anche qui, malgrado gli sforzi dei monarchici costituzionalie gli sforzi tanto eroici quanto vani dei due grandi condottieri,Mazzini e Garibaldi, l’idea statalista non riesce e non riuscirà maiad attecchire perché è contraria allo spirito, alle istintive aspira-zioni e ai concreti bisogni materiali dello sterminato proletariatorurale e urbano.

Come la Spagna, l’Italia ha perduto da molto tempo, e soprat-tutto irrevocabilmente, le antiche tradizioni accentratrici e unitariedell’antica Roma, tradizioni che sono sopravvissute nelle opere diDante, di Machiavelli e di certa letteratura politica contemporanea,ma non nella memoria popolare; l’Italia, affermo, ha conservatouna sola tradizione vitale, quella dell’assoluta autonomia non solodelle regioni ma anche dei comuni. Si aggiunga a questa specificaconcezione politica, fatta propria dal popolo, la disomogeneità sto-rica ed etnografica delle varie regioni, nelle quali si parlano dialetti

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* Titolo originale Etatisme et anarchie (1873), estratti.

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tanto diversi che spesso gli abitanti di una regione capiscono condifficoltà o non capiscono affatto i dialetti delle altre. Si capirà al-lora quanto lontana sia l’Italia dalla realizzazione dell’ideale politicomoderno che postula lo Stato unitario. Ciò non vuol affatto direche l’Italia sia socialmente divisa. Al contrario, e malgrado tutte ledifferenze nei dialetti, negli usi e costumi, esiste un carattere gene-rale, un tipo italiano, che permette di differenziare subito l’italiano,anche meridionale, dagli individui di altra origine.

D’altra parte, una reale comunanza di interessi materiali e unapeculiare identità di aspirazioni morali e culturali uniscono nelmodo più stretto e solido le regioni italiane. Ma va anche rilevatoche tutti questi interessi e tutte queste aspirazioni si contrappon-gono precisamente all’unità politica ottenuta attraverso la costri-zione e tendono al contrario a realizzare l’unità sociale; si puòquindi affermare, e dimostrare attraverso innumerevoli fatti trattidalla vita italiana di tutti i giorni, che se la sua unità politica o sta-tale, imposta con la violenza, ha avuto come risultato la divisionesociale dell’Italia, per converso la distruzione del moderno Statoitaliano avrebbe come effetto necessario quello di consentire all’I-talia di realizzare liberamente la sua unità sociale.

Tutto ciò evidentemente riguarda solo le masse popolari, perchénegli strati superiori della borghesia italiana, come in quella di tuttigli altri paesi, insieme all’unità statale si è venuta creando, svilup-pando, estendendo sempre più l’unità sociale della classe privile-giata di coloro che sfruttano il lavoro del popolo.

Questa classe viene oggi genericamente definita in Italia la con-sorteria. La consorteria comprende tutto il mondo ufficiale, buro-cratico e militare, poliziesco e giudiziario; tutto il mondo dei grandiproprietari, degli industriali, dei mercanti e dei banchieri; tutti gliavvocati e i letterati ufficiali e ufficiosi; e tutto il parlamento, dovela destra si appropria oggi di tutti i vantaggi offerti dal potere, men-tre la sinistra fa di tutto per impadronirsene a sua volta.

Esiste dunque in Italia, come ovunque nel mondo, una classepolitica una e indivisibile composta da predatori che spogliano il

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paese in nome dello Stato, portandolo, sempre a beneficio delloStato, al più insostenibile livello di povertà e disperazione.

E tuttavia anche la miseria più atroce, pur colpendo milioni diproletari, non è ancora una motivazione sufficiente per far scop-piare la rivoluzione. L’uomo è infatti dotato dalla natura di unapazienza straordinaria, che a dire il vero talvolta sfocia nella dispe-razione; e solo il diavolo sa cosa sia in grado di sopportare un indi-viduo quando, al di là della miseria che lo costringe a privazioniinaudite e a una morte lenta per inedia, è oltretutto in balìa diquella povertà di spirito, di quell’ottundimento dei sensi, di quellatotale ignoranza dei propri diritti, di quella granitica rassegnazionee senso dell’obbedienza che, fra tutti i popoli, contraddistinguonoin special modo gli indiani e i tedeschi. Questo genere di individuonon avrà mai dei soprassalti; morirà, ma non si rivolterà.

Ma quando si arriva alla disperazione, la sua ribellione diventaallora più probabile. La disperazione è un sentimento violento,passionale. Sottrae l’individuo alla sua sofferenza incosciente, alsuo stato semi-letargico, e presuppone, se non altro, una certa ca-pacità di comprendere che la propria condizione potrebbe esseremigliorata, anche se dispera di riuscirci.

In conclusione, nessuno può restare indefinitamente in predaalla disperazione; questa spinge assai rapidamente l’individuo allamorte o all’azione. A quale azione? Naturalmente a un’azione tesaa emanciparsi, a conquistare migliori condizioni di vita. Anche iltedesco, quando è disperato, cessa di ricorrere al solo raziocinio;ma certo ci vorranno un gran numero di offese, vessazioni, soffe-renze e ingiustizie per farlo cadere nella disperazione.

Nondimeno, anche combinate insieme, la miseria e la dispera-zione non bastano a scatenare la rivoluzione sociale. Possono susci-tare delle rivolte individuali o persino delle sommosse locali, manon sono sufficienti a smuovere intere masse. Per arrivare a questoè indispensabile che il popolo esprima un ideale comune cheemerga, storicamente, dalle profondità dell’istinto popolare e che siaalimentato, ampliato, illuminato da tutta una serie di avvenimenti

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significativi, di esperienze dure e amare; è necessario, cioè, cheemerga un’idea generale dei propri diritti e una fede profonda, ar-dente, si potrebbe persino dire religiosa, in quei diritti. Quandoun’idea e una fede di questo tipo si incontrano in un popolo, fiancoa fianco a una miseria che lo porta alla disperazione, allora la rivo-luzione sociale è vicina, è inevitabile, e nessuna forza può impedirla.

È appunto questa la situazione in cui si trova oggi il popolo ita-liano. La miseria e le sofferenze che ha sopportato sono terribili e silasciano superare di ben poco dalla miseria e dalle sofferenze cheopprimono il popolo russo. Ma in compenso il proletariato ita-liano ha sviluppato, a un livello molto più alto del proletariatorusso, un’appassionata coscienza rivoluzionaria che di giorno ingiorno si delinea con sempre maggior forza e chiarezza. Intelligentee passionale per natura, il proletariato italiano comincia finalmentea capire ciò di cui ha bisogno e ciò che deve conseguire per raggiun-gere l’emancipazione integrale e generale. Da questo punto di vista,la propaganda dell’Internazionale, che è stata diffusa con grandeenergia e su larga scala solo in questi ultimi due anni, gli ha reso unimmenso servizio. Questa gli ha appunto dato, o meglio ha fattoemergere al suo interno, quell’ideale già abbozzato a grandi lineedal suo istinto più profondo senza il quale, come abbiamo detto,l’insurrezione di un popolo, quali che siano le sue sofferenze, è as-solutamente impossibile. Questa propaganda gli ha reso evidente loscopo che deve perseguire e nel contempo le vie da seguire e i mezzida impiegare per organizzare la forza popolare.

Naturalmente, questo ideale si palesa al popolo in primo luogocome la fine della privazione, della miseria, e la completa soddisfa-zione di tutte le necessità materiali per mezzo del lavoro collettivo,obbligatorio ed eguale per tutti; in secondo luogo come la fine deipadroni, nonché di ogni dominazione, e la libera organizzazionedella propria vita sociale in base alle proprie necessità, non più dal-l’alto in basso, come nello Stato, ma dal basso in alto, a opera delpopolo stesso, al di fuori di ogni governo e parlamento; in terzoluogo come la libera unione delle associazioni dei lavoratori della

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terra e delle fabbriche, dei comuni, delle regioni, delle nazioni; e in-fine, in un futuro più lontano, come la fratellanza universale il cuitrionfo avverrà sulle rovine di tutti gli Stati.

È significativo notare quanto poco successo abbia avuto il pro-gramma comunista-statalista di Marx sia Italia sia in Spagna, doveè stato invece largamente e appassionatamente adottato il pro-gramma della famosa Alleanza dei socialisti rivoluzionari, la qualeha dichiarato una guerra implacabile contro ogni tipo di domina-zione o tutela governativa, contro ogni potere e autorità.

Solo a queste condizioni un popolo può emanciparsi, fondare eorganizzare la propria vita sulla più completa libertà di tutti e diciascuno; ed è appunto per questo che non si deve temere da partedell’Italia e della Spagna una politica di conquista, ma ci si devepiuttosto aspettare da parte loro, e in tempi brevi, una rivoluzionesociale.

Gli slavi sono invece sedotti dall’esempio del regno di Piemonte,che a suo dire avrebbe liberato e unito tutta l’Italia. Al contrario, l’I-talia si è liberata da sé, grazie agli innumerevoli ed eroici sacrificiche ha pervicacemente compiuto nel corso di mezzo secolo. La suaindipendenza politica la deve prima di tutto ai quarant’anni disforzi incessanti e irrefrenabili del suo grande cittadino GiuseppeMazzini, che ha saputo, per così dire, resuscitare la gioventù italianae poi educarla alla causa rischiosa ma gloriosa dell’azione patriotticaclandestina. Tant’è che nel 1848, quando il popolo insorse invi-tando di nuovo il mondo europeo alla festa della rivoluzione, gra-zie agli sforzi ventennali di Mazzini si ritrovarono in ogni città d’I-talia, dall’estremo sud all’estremo nord, falangi di giovani audaciche issarono il vessillo della rivolta. Tutta la borghesia italiana liseguì. E nel regno Lombardo-Veneto, ancora sotto la dominazioneaustriaca, tutto il popolo si sollevò, scacciando da solo, senza alcunaiuto militare, le truppe austriache da Milano e dal Veneto.

Che cosa fece allora il regno di Piemonte? Che cosa fece il reCarlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele, lo stesso che – quandoera ancora principe ereditario (1821) – consegnò ai boia austriaci

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e piemontesi i compagni con cui aveva cospirato per liberare l’Ita-lia? La prima mossa del sovrano piemontese, in quel 1848, fu di pa-ralizzare la rivoluzione in tutta Italia per mezzo di promesse, mac-chinazioni, intrighi. Desiderava moltissimo mettere le manisull’Italia, ma odiava la rivoluzione tanto quanto la temeva. Para-lizzò dunque la rivoluzione, la forza e lo slancio del popolo, dopo-diché fu assai facile per gli austriaci ripristinare l’ordine con le suetruppe.

Il figlio, Vittorio Emanuele, è stato definito il liberatore e unifi-catore delle terre italiane. Il che è una falsità. Se qualcuno può es-sere definito il liberatore d’Italia questi è Luigi Napoleone, impera-tore dei francesi. Ma di fatto l’Italia si è liberata da sé e quel che piùconta si è unificata da sola, fuori dal controllo di Vittorio Ema-nuele e contro la volontà di Napoleone III.

Quando nel 1860 Garibaldi intraprese la sua famosa spedizionein Sicilia, nel momento stesso della sua partenza da Genova il contedi Cavour, ministro di Vittorio Emanuele, avvertì il governo napo-letano del pericolo che lo minacciava. Ma dopo che Garibaldi ebbeliberato la Sicilia e tutto il regno di Napoli, Vittorio Emanuele ac-cettò subito entrambi, senza per questo manifestare troppa gratitu-dine.

E che cosa ha fatto in trent’anni il suo governo per questa infe-lice Italia? L’ha rovinata, l’ha semplicemente depredata, tanto cheora, odiato da tutti i suoi sudditi, il suo despotismo fa quasi rim-piangere i defenestrati Borboni.

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CAPITOLO QUINTO

La valanga*

In circostanze altrettanto gravi e solenni abbiamo pubblicato unoscritto con questo stesso titolo e discusso, in modo serio e pacato,dei programmi e dei partiti politici, delle condizioni miserande incui versa il paese e dei mezzi a disposizione che, soli, potevano ar-restare la china fatale sulla quale era stato spinto con violenza.

Oggi queste circostanze, che il tempo e gli eventi successivihanno peggiorato, impongono al nostro partito democratico-socia-lista di proseguire senza sosta la sua opera di propaganda, sempreconsapevoli di avere la verità come guida e la giustizia come meta.

Per coloro che non hanno avuto l’opportunità di leggere quelprimo scritto, riassumiamo brevemente i criteri che lo informa-vano, sia per valutare i fatti occorsi nella penisola dal 1859 in poi,sia per esaminare in modo approfondito le conseguenze tanto ine-vitabili quanto prevedibili di quei fatti e le fondamenta del nostroprogramma, il solo che a nostro avviso possa risolvere efficacementei tanti e difficili problemi dell’oggi.

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* Titolo originale La situation (1868), testo redatto in collaborazione con AlbertoTucci.

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A suo tempo, avevamo denunciato come erroneo e nocivo ilprincipio proclamato da quasi tutta la democrazia italiana: «Primal’unità, poi la libertà»; un principio che portò alle transazioni conla monarchia da parte di mazziniani e garibaldini e all’ovvio de-clino che ne seguì. Avevamo anche dichiarato che il sistema monar-chico costituzionale, falso ed equivoco in sé, non poteva che con-durre il paese di miseria in miseria, di vergogna in vergogna; che ilpartito costituzionale non poteva liberare la nazione dai suoi innu-merevoli mali, anzi neppure da uno solo di questi, o ritardare l’i-nevitabile catastrofe. Passando poi in rassegna i partiti e i pro-grammi, avevamo constatato come dappertutto ci fosse un’atoniamortale, una carenza di mezzi, una contraddizione permanente,una totale mancanza di fiducia nella maggioranza del paese versouomini e cose. E proprio questa maggioranza della nazione, la solaforza davvero in grado di creare una vita rinnovata, ci aveva resoevidenti i principi dell’unico programma che riteneva accettabile,l’unico per il quale si sarebbe battuta, fondato sui dritti imperscrit-tibili sin qui violati, sui bisogni imperiosi e sugli istinti prepotentidel proletariato sociale.

Libertà e giustizia erano le due parole che riassumevano il nostroprogramma, nel quale elencavamo tutti gli elementi contrapposti aqueste due grandi idee, dei quali proclamavamo l’inevitabile di-struzione. Nello Stato centralista, con tutti i fattori che necessaria-mente lo accompagnano, ovvero la monarchia, la Chiesa, l’esercitoe la burocrazia, noi riconoscevamo un nemico implacabile della li-bertà, e allo stesso modo vedevamo l’organizzazione del privilegionella società attuale come inconciliabile con la giustizia. E annun-ciavamo che il giorno fatale della loro inevitabile scomparsa, in-sieme a quella dei partiti che li sostenevano, era ormai prossimo.

I fatti che sono seguiti a quella nostra pubblicazione e lo stato at-tuale delle cose ci hanno dato ragione.

Cominciamo dal partito che in nome dell’unità, della grandezzae della potenza della nazione ha monopolizzato per otto anni lascena pubblica: oggi lo vediamo agonizzante, travolto da una fine

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ignominiosa insieme al sistema che rappresenta. Questo partito,ricorrendo a mille sotterfugi, ha negato la ragione stessa della suaesistenza, e da qui sono derivati lo sfaldamento della sua coesionemorale a causa delle contese municipali e degli odi cittadini; il ri-sveglio dell’esclusivismo e dell’egemonia a seguito di improvvideleggi illiberali che hanno generato uno squilibrio fra le diverse re-gioni; la sconfessione della tanto vantata grandezza storica, vilipesadall’attuale povertà di opere e idee; la palese contraddizione tra lapotenza promessa e l’abbietta e servile politica attuale. Negli appa-rati amministrativi gli sperperi, la demoralizzazione e i furti di ognigenere regnano indisturbati, mentre la florida condizione per cuiun tempo il Bel Paese era invidiato si è oggi dileguata e la fame, sor-dida e minacciosa, si profila inesorabile davanti all’operaio e al con-tadino. Sono stati scialacquati tesori immensi: beni della Chiesa,beni demaniali, opere di beneficenza; le ferrovie sono andate infumo come i tabacchi. Il debito è diventato gigantesco e le esigenzefinanziarie del sistema si sono fatte ogni giorno più voraci a frontedi un paese che va invece esaurendosi. La miriade di tasse di ognisorta si sta rivelando insufficiente: tassa prediale, tassa sui beni mo-bili, tassa di bollo, tassa di registro, imposta sui fabbricati, diritti disuccessione, diritti doganali, focatico, imposte sui consumi, sulmacinato, sulle arti e mestieri, hanno prodotto miliardi, ma i mi-liardi sono spariti; daranno ancora qualche milione, ma i milioninon bastano. Come avevamo già detto, la bancarotta dello Statocentralista, che consuma per cento e produce per uno, è inevitabileanche se tarda ancora. Oggi ribadiamo che non tarderà a lungo. In-vano il governo tenterà di arginare il torrente impetuoso dell’odioe della giustificata vendetta del popolo, invano il prete predicheràil ritorno alle fornicazioni secolari, invano l’esercito permanente,demoralizzato e abbrutito, schiererà le sue centomila baionette: lacongiunzione onnipotente della sventura, della fame e del furore di23 milioni di vittime rovescerà in un attimo trono e governo, pretee altare, e sulle rovine fumanti della vecchia società privilegiataverrà proclamato il principio della giustizia popolare.

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Questo nostro giudizio sul partito dell’ordine e sul suo sistemadi sperpero è l’eco fedele del pensiero delle masse, le quali ognigiorno dichiarano apertamente l’avversione che nutrono per en-trambi, e lo dimostrano nei fatti. Lo stesso giudizio può essere ap-plicato anche alla sinistra parlamentare. Questo sedicente partitoprogressista è stato ed è il complemento morale della destra, e lo èancor più oggi che la maggioranza governativa rappresenta una fla-grante contraddizione. Così procede impettito e pretenzioso lungola via delle sconfessioni interessate e delle ambizioni ignominiose,brandendo la bandiera dell’esperienza, della serietà, della concre-tezza, mentre non vi è al mondo nulla di più utopico, di più ridi-colo, di più inaccettabile del suo programma. In nome dell’espe-rienza e dell’opportunismo rinnega i principi democratici basatisu una libertà totale e reale, che respinge, e i principi socialisti ba-sati sulla giustizia, che disconosce. E infatti ritiene il nostro partitoun nemico e lo combatte con qualsiasi arma; davanti a ogni nostraaffermazione sui diritti del popolo, grida all’utopia o sorride con di-sprezzo. Nondimeno, scosso da involontarie paure, talvolta ci ac-cusa di volere la rovina della nazione con le nostre pretese prema-ture e folli.

Tuttavia, è il suo programma «monarchia e democrazia», procla-mato sulla stampa e dalle tribune, a essere un’incredibile aberra-zione ben oltre l’utopia; è il suo programma che vorrebbe associareil vecchio e il nuovo, la reazione e il progresso, ciò che resta di vivoe ciò che è morto o moribondo. È il suo programma che pretendedi conciliare, moderandoli reciprocamente, la libertà e il dispoti-smo, le istituzioni monarchiche e la forma costitutiva del popolo,la libertà di coscienza e l’esistenza di Chiese riconosciute, il rispettodi leggi e autorità e il libero insegnamento, la burocrazia e la mo-ralità, il centralismo e la vita municipale, la potenza di un granderegno e il benessere dei cittadini. È il suo programma che ignora lanatura stessa di tutti gli elementi che vorrebbe riunire e che di-chiara possibile quanto è contrario alla logica, agli insegnamentidella storia, ai fatti irrecusabili e permanenti. Il sistema costituzio-

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nale è condannato; le riforme, anche ammesso che sia riformabile,non riusciranno a sradicare il suo vizio sostanziale: l’equivoco. Que-sto sistema si esaurirà da sé, si ucciderà con le sue mani ben primache altri lo facciano. Né la forza del partito, né l’intelligenza deisuoi uomini, né le tante concessioni possibili potranno salvarlo. Ilpopolo non crede più in questi apostoli della sinistra; vuole risol-vere i problemi che gli stanno davanti, ma non si aspetta la solu-zione da questi uomini e da questi partiti, perché entrambi lohanno crudelmente ingannato. Questi ultimi non hanno alcunainfluenza neppure fra la gioventù borghese, che ha perso ogni fidu-cia nella loro competenza e che non crede più nella loro buonafede e nel loro patriottismo. Nondimeno, essi hanno ultimamentecercato di ricostituirsi con capi e programmi; i capi sono Crispi eRattazzi, il programma è lo sviluppo di questa formula: «La monar-chia nello Stato, la repubblica nei municipi». E tanto basti: i nomie la formula permettono da soli di formulare un giudizio meditatosu questi uomini e questo partito.

Eppure, questo partito aveva avuto alla sua testa una personalitàeccezionale verso la quale il pensiero del popolo si rivolgeva ognivolta che ne aveva abbastanza dello spettacolo inverecondo offertodalla politica e dai politicanti di turno. Era un uomo che riuniva insé le più nobili virtù antiche, tanto che le sue gesta quasi favolose fa-cevano rivivere nel secolo del positivismo la poesia delle epopee ome-riche. Il suo nome faceva battere forte i cuori non solo degli italiani,ma anche dei serbi e dei magiari, dei polacchi e degli ungheresi.Dalla Grecia fino alla cattolica Spagna, dalla libera America fino allaserva Russia, il nome di Garibaldi era una parola sacra, un sinonimodi libertà. Perché dunque oggi, quando una miseria così grande op-prime il popolo italiano, questo nome non ricorre più sulle labbra,perché siamo costretti a riconoscere che si è persa la fede in lui e a ri-cordare con dolore che le sue effigi sono state infrante dalla furiapopolare nell’eroica Sicilia? Benché tutto questo ci rattristi, è però unnostro dovere indagare le ragioni di questi fatti e trarne le logicheconclusioni, per severe e ingrate che siano.

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Giuseppe Garibaldi, figlio del popolo, è stato sin dalla sua gio-vinezza un partigiano di quella scuola di politici sentimentali cheha fondato sulle reminiscenze scolastiche della storia di Roma –splendida ma infame – e su una pretesa necessità del primato ita-liano una specie di religione patria; una religione edificata su unmito derivato da quelle storiche e gloriose tradizioni e finalizzataalla riconquista di quella passata grandezza e della sua sovranità,quanto meno morale, sul mondo.

Questo programma d’altri tempi si adattava bene a quest’uomofatto per altri tempi; e infatti, dopo aver incontrato il capo e il mae-stro di quella scuola, egli divenne il cuore e la spada di un granpartito politico reclutato fra la generosa gioventù borghese d’Italia,proprio come Mazzini ne era l’intelligenza. Queste due grandi fi-gure le abbiamo viste insieme in Roma nel movimento repubbli-cano del 1848-1849. In quell’occasione Garibaldi si rivelò un con-dottiero senza pari, tanto da occupare meritatamente, da quelmomento in poi, un posto nella storia difficilmente immaginabilenei tempi moderni. Ma a detrimento della causa della democrazia,abbiamo anche visto il figlio del popolo, l’uomo del popolo, eclis-sarsi davanti al repubblicano puro, al guerriero e al generale.

Garibaldi non poteva ignorare i bisogni, le miserie e i diritti diquello stesso popolo dal quale era uscito, e tuttavia non ha maicombattuto per il suo vero interesse, non si è mai posto comeobiettivo la sua emancipazione dalla secolare tirannia politica e so-ciale, non ha mai anteposto all’Italia un popolo libero e felice, pre-ferendo un popolo schiavo e miserabile pur di fare grande l’Italia.Questo errore, questa pretesa tirannica che gli uomini servano allecose e non le cose agli uomini, sono stati fatali sia alla sua vita po-litica sia al paese che tante speranze aveva legittimamente riposto inlui. Le conseguenze di questo erroneo principio sono state di averimmolato la sua fede repubblicana sull’altare della patria e di averstretto un’incestuosa alleanza con la monarchia nel 1857, insiemea Manin e Pallavicino, poi suggellata nel sangue dei suoi prodi ca-duti nelle guerre dinastiche del 1859. E da allora ha dovuto subire

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le logiche ricadute della posizione assunta; da allora, in quanto al-leato della monarchia, ne è diventato il complice involontario, tra-sformandosi inesorabilmente in un ostacolo alla libertà e al benes-sere della nazione. In lui dunque riconosciamo sempre il grandecondottiero nobile e generoso, capace di compiere miracoli per li-berare il popolo dalla tirannia, ma al tempo stesso vediamo in luianche l’uomo politico che si è assunto il compito di ricacciare que-sto stesso popolo negli artigli di un’altra tirannia, con nome eforme diverse.

Nel 1860 Garibaldi arrivò fra le popolazioni del Mezzogiorno,abbrutite dal più infame servaggio, immiserite dai più ingiusti pri-vilegi sociali, abbandonate al fanatismo religioso dai piani chime-rici dei suoi despoti. Dinnanzi all’eroe, le armate ripiegarono e ilvecchio trono dei Borboni prima vacillò e infine crollò al suolo.Fu allora che intraprese una marcia trionfale da Marsala a Napolifra le masse attonite che si affollavano sul suo cammino, mentreegli, con le sembianze del Cristo, le catturava con il suo sguardo af-fascinante e le abbeverava con parole di redenzione e di vita. Laparola libertà non mancava, così come non mancavano quelle chepromettevano il futuro benessere, più volte ribadite da lui e daisuoi. E i poveri schiavi presero a gridare a squarciagola una for-mula per essi incomprensibile: «Italia unita». Più tardi, corsero fi-duciosi a deporre il loro sì nelle urne dei plebisciti, atto dal quale siaspettavano la fine della loro miseria. Ma, lungi dal cessare, questasi fece ancora più intollerabile, e 9 milioni di cittadini non solo vi-dero frustrate le loro aspettative, ma capirono di essere stati ingan-nati con fallaci promesse; di conseguenza, una grave e solenne re-sponsabilità ricadde su coloro che avendo avuto il loro destino nelleproprie mani ne avevano fatto un così cattivo uso.

Comunque sia, al di là del fatto che sia stata o no fatale al benedel paese, l’azione garibaldina finì con i plebisciti di ottobre chediedero alla dinastia sabauda il mandato di compiere quell’Italiauna e indivisibile su cui avrebbe esercitato il suo dominio e la suaoppressione. Cosa che fu subito ben compresa dalla maggior parte

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dei prodi ufficiali di Garibaldi, i quali passarono repentinamentenelle fila dell’esercito regio. Quanto a lui, si trovò invece intrappo-lato in una lacerante contraddizione: dopo aver ostacolato e fer-mato la rivoluzione, dopo aver fatto accettare al popolo un sovrano,si ostinò a considerarsi il capo della rivoluzione e il condottiero delpopolo. Da questa posizione ambigua sono necessariamente deri-vati tutti i deplorabili avvenimenti seguiti al 1860: il Friuli, Sarnico,l’Aspromonte e Mentana erano prevedibili, e dovevano essere pre-visti prima di mettere inutilmente a repentaglio la vita dell’eroicagioventù italiana. La logica non si viola impunemente e l’azionegaribaldina, va detto, non era in sintonia con questa grande mae-stra. Il garibaldinismo poteva scegliere tra la monarchia e la demo-crazia, tra la libertà e il dispotismo, tra la causa del popolo e gli in-teressi di uno Stato centralista e invasivo; ma una volta scelta lamonarchia, si è dovuto giocoforza accettare che questa, sotto at-tacco, difendesse i propri privilegi e la propria esistenza. Una voltascelto il dispotismo, non ci si meravigli se la sbirraglia disperde isuoi raduni, se il bersagliere spara a Garibaldi, se il carabiniere lo ar-resta. Se ama lo Stato a scapito del popolo, non si può biasimarequest’ultimo se gli nega il suo concorso: monarchia, dispotismo epopolo si sono attenuti alla logica, il partito garibaldino no.

Esso ha tentato di scagionarsi dall’accusa mossagli per i fatti del1860 sostenendo che a suo avviso dall’unità sarebbe nata la felicitàe la ricchezza, dalla monarchia la repubblica, dal dispotismo la li-bertà, e che è proprio delle buone pratiche politiche avanzare passodopo passo lungo la via del progresso, così da andare dal bene almeglio. Questa speciosa opinione si refuta da sé, anche senza l’elo-quente dimostrazione dei fatti, perché non si può pretendere diaver fatto un passo avanti se dopo aver cacciato un re se ne accettavolontariamente un altro, e non si può credere in buona fede chesi raggiungerà il benessere e la libertà grazie a quello che è un natu-rale e implacabile nemico di entrambi. Parimenti, ha voluto legit-timare la sua esistenza rivendicando per sé il ruolo di forza prepo-sta a spronare la monarchia sulla via del progresso, di avanguardia

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rivoluzionaria di un’armata valorosa che avrebbe addirittura in-dotto questa monarchia a compromettersi, davanti alla reazionediplomatica europea, al fine di portare arditamente a compimentoil patto uscito dai plebisciti. Ma di fatto ha solo trascinato moltevittime generose in un inutile olocausto e non ha compromessoaltro che la propria serietà ed esistenza. Da parte sua, la monarchiaè andata avanti lungo il suo fatale percorso, fatto di demoralizza-zione, monopolio, tirannia, oscurantismo, e chi ha cercato di frap-porsi in questo percorso con un proposito diverso da quello di ab-batterla è stato travolto dal turbine che l’accompagna. È questa lasorte toccata al garibaldinismo: è morto a Mentana, e la storia diràdi lui che, nato dal popolo, non lo ha però compreso, che pur es-sendosi battuto a suo favore e pur avendo vissuto una vita straordi-nariamente gloriosa, benché vana, è morto del morbo che con-suma i partiti: l’incapacità e l’utopismo.

Questo stesso utopismo e queste medesime contraddizioni chehanno ucciso la sinistra parlamentare e la sua corrente garibaldinacostituiscono il vizio di fondo di un altro partito e di un altro pro-gramma: quello mazziniano.

A differenza del garibaldinismo, che essendo di fatto un movi-mento militare ha reclutato i suoi soldati fra la gioventù borghesedi tutte le tendenze politiche, il partito mazziniano ha avuto untempo innumerevoli e disciplinati adepti, una rete di relazionicomplessa, una struttura organizzativa rivoluzionaria, e come capouna delle più sublimi intelligenze del secolo, una delle più rile-vanti figure contemporanee. Per trent’anni ha lavorato assidua-mente e instancabilmente, ha riacceso e tenuto vivo il fuoco sacrodella libertà; per trent’anni ha alimentato una protesta incessante,una minaccia incombente, ovunque infierisse la tirannia; lì dove èpassato ha sempre lasciato l’orma insanguinata dei suoi martiri edei suoi eroi. Proprio per questo è stato per trent’anni ingiusta-mente e vilmente attaccato dalla reazione europea e dai sedicentipartiti dell’ordine e delle libertà ragionevoli e moderate. Noi dunqueparleremo di Mazzini con la reverenza che gli si deve e con l’ammi-

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razione e il profondo affetto che nutriamo per lui; ma del suo si-stema diremo quanto la verità ci impone e quanto il dovere di pro-paganda dei principi nostri richiede.

Noi non siamo mazziniani, e anzi vediamo nell’ipotetico trionfodel suo sistema – che d’altronde riteniamo impossibile – una sven-tura per la nazione. Noi riteniamo il programma mazziniano insuf-ficiente a soddisfare le esigenze democratiche e scientifiche dell’oggi,impotente a cambiare positivamente le condizioni miserevoli delpaese. Un tempo la formula «Dio e Popolo» incitava a imprese ar-dite e rendeva bello il patibolo alla gioventù borghese d’Italia; oggiquesta medesima gioventù corre a schierarsi fra le fila dei liberi pen-satori e in nome della scienza rinnega quella idea tirannica di Dioformulata in epoche oscure da uomini che l’hanno plasmata a pro-pria immagine, attribuendole tutte le malvagie passioni che cova-vano nel loro seno […]. Eppure Mazzini si ostina a mantenere in-tegra questa formula. Non molto tempo fa fustigava i liberipensatori di Lombardia con severe parole di biasimo per aver atten-tato all’esistenza di questa causa assoluta, che tramite la religionedel dovere, l’abnegazione e il sacrificio degli uomini deve far risor-gere la Gran Madre latina, affinché essa possa compiere la sua mis-sione umanitaria, ovvero riportare l’universo a nuova vita e diven-tare la regina morale del mondo, così come lo era l’antica Roma. Mai tempi mutano, e in trent’anni nuove idee si sono sviluppate, nuoviprincipi si sono affermati, nuovi bisogni si sono palesati, e doveri ediritti stanno cercando il loro punto di appoggio su fondamenta ecorrenti di pensiero diverse. Mazzini invece è rimasto uguale a sestesso. Mentre i tempi cambiavano, richiedendo un ateo e un rivo-luzionario, egli è rimasto un credente e un apostolo. E perché no?Egli ha ben diritto di piazzare il Dio onnipotente della vendetta edegli eserciti alla base del suo sistema, e la gioventù borghese glivada dietro se così ritiene di fare. Ma il popolo perché e come do-vrebbe rientrare in questa formula, che oltretutto lo associa a unvicino tanto pernicioso? Che cosa ne dovrebbe venir fuori?

Per Mazzini il popolo è una parola astratta che indica tutti gli

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abitanti dell’Italia, siano essi nobili o pleblei, vittime o carnefici;questo preteso popolo deve inoltre sacrificarsi per fare dell’Italiauna potenza di prim’ordine in Europa e per conquistare la propriasovranità, cioè non avere più re che lo comandi. Ma al nobile, albanchiere, al burocrate, all’alto borghese, al pretoriano, questo pro-gramma non conviene; per essi il sovrano è un elemento necessa-rio a conservare l’armonia dell’organizzazione privilegiata, è ilprimo anello di una catena di asservimento indispensabile al man-tenimento dell’ingiustizia sociale. Quanto al popolo, al vero po-polo, cioè operai, contadini, proletari, eliminare solo il re e mante-nere tutto il resto non servirebbe a nulla. Non si accorgerebberoneppure dell’esistenza di un re se non ne pagassero i lussi e le orge,se non venissero arruolati in suo nome. I veri re del popolo, i suoiveri tiranni, sono il possidente, il padrone, il sindaco, il curato, laguardia campestre, il giudice. È il possidente o il padrone che, vi-vendo del lavoro e degli stenti del contadino e dell’operaio, disponedelle sue azioni, della sua vita, del suo onore; è il curato che con lesue prediche lo convince di essere nato per il lavoro mentre altrisono nati per l’ozio, che lo persuade che il raccolto, frutto del la-voro estenuante delle sue braccia, è una grazia di Dio, al quale bi-sogna perciò dare un obolo per il sole o la pioggia; sono la guardiacampestre, il sindaco e il giudice che lo minacciano con tre serpi ve-lenose: il diritto forestale, il diritto comunale e il diritto civile.

Nel caso fosse attuato il sistema mazziniano, la domanda cheognuno dovrebbe porsi è in che modo potrebbe migliorare le con-dizioni di questo povero popolo, ora divenuto sovrano. Forse che latirannia sarebbe più lieve, la miseria meno opprimente, l’ingiusti-zia sociale meno lampante, se le subisse non più in nome del re eper grazia di Dio, ma in nome di Dio e di se medesimo?

Il sistema mazziniano non fa alcuna allusione ai grandi pro-blemi sociali; anzi rigetta come un pericolo, come un ostacolo, i di-ritti del proletariato e ne rinvia la discussione ai secoli a venire. Insintesi, la grande repubblica mazziniana non differisce dal regnocostituzionale se non per l’assenza del re, differenza forse solo no-

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minale in quanto il re viene sostituito da un presidente. […] Maper il resto hanno eguali elementi, eguali bisogni, eguale demora-lizzazione, eguale ingiustizia sociale e politica; e dunque non pos-sono avere che i medesimi effetti: dispotismo, ineguaglianza, de-clino, bancarotta.

Queste cose sono evidenti a tutti, e si deve al progresso delleidee socialiste in Italia e della filosofia materialista lo scarso risultatoottenuto dal solerte lavoro di Mazzini per ricostituire il partito dellaGiovine Italia, da lui stesso disciolto nel 1859, quando i suoi ma-neggi con la monarchia avevano immediatamente intaccato l’effi-cacia della sua azione rivoluzionaria.

Come ben sappiamo, i suoi sforzi sono riusciti a schierare nellesacre falangi solo alcuni elementi sparsi della gioventù borghese equel manipolo di vecchi amici che gli sono rimasti fedeli. Il suoprogramma non ha avuto alcun effetto sul popolo, né potrebbeaverlo, dato che le limitate intelligenze plebee non ambiscono pernulla ad avere la sovranità nel mondo, non accettano la sua reli-gione del dovere e si sentono già troppo sacrificate per sacrificarsiancora a favore della Gran Madre latina e del fascio [in italiano neltesto] romano. Gli schiavi del lavoro non si fanno smuovere che dadue magnetiche parole: libertà ed eguaglianza, ed essi sanno peristinto che non è la pura repubblica mazziniana che le può attuare.

Giuseppe Mazzini e il suo programma hanno ormai svolto ilproprio ruolo. L’uomo è stato sublime, possente, irresistibile; il pro-gramma ha ridestato tutto un popolo da una mortale letargia. En-trambi meritano il rispetto e l’ammirazione dei loro contempora-nei e un posto glorioso nelle pagine di storia. Ma oggi la nazione siè risvegliata, vive e vuole. Queste sterminate masse di uomini con-dannati a vivere come bruti si agitano senza sosta, emettono suonirauchi e minacciosi, sono divorati dalla fame, lampi insanguinati diodio e rabbia sprizzano dai loro occhi… Borghesi, privilegiati,preti, burocrati e soldati, l’uragano si avvicina, il turbine sta pertravolgervi… scappate… la valanga scende fatale e onnipotente, evoi ne sapete il nome: RIVOLUZIONE SOCIALE.

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È questa la vera rivoluzione, e si accompagna a tre raggi di luceche sono le basi della civiltà a venire: l’ateismo, il socialismo, il fe-deralismo. […]

L’ateismo è la condizione primordiale e indispensabile della li-bertà e della moralità del popolo, concetti che saranno privi di sensofino a quando l’idea di un Dio creatore, giudice e dispensatore dipremi e castighi, occuperà l’immaginazione delle moltitudini. Laloro coscienza sarà costantemente tiranneggiata dalla invisibile po-tenza di questa entità e il loro libero dispiegarsi impedito da tutti co-loro che si autoproclameranno i rappresentanti, i ministri, gli apo-stoli in terra di questa entità. La moralità vera rimarrà loro ignotafino a quando il timore di un futuro castigo renderà perversi solo ta-luni atti e la speranza di gioie celesti, mendaci e postume, motiveràle loro azioni. E a noi toccherà assistere al ributtante spettacolo dellegozzoviglie degli ingannatori e delle miserie degli ingannati.

Da secoli Dio è la base di ogni tirannia; in suo nome il prete siè impossessato dell’anima, in suo nome i despoti hanno dominatoi corpi e le volontà; per questo la rivoluzione, che si avvicina fatalee inesorabile, spazzerà via l’esistenza voluta dalla triade onnipo-tente e i precetti subdoli e vili della rassegnazione e della fede. I te-nutari della monarchia e del privilegio sogghigneranno nel leggerequeste parole, dato che sanno quanto assegnamento possono faresu questa idea di Dio, diventata quasi un bisogno per le moltitudininell’organizzazione sociale attualmente esistente; ed è infatti con ilsuo aiuto che contano di perpetuare il dispotismo, l’ingiustizia, l’i-neguaglianza che così tanto convengono ai loro interessi. Argo-menteranno che proprio la credulità religiosa delle masse sarà ilprincipale ostacolo al trionfo dell’ateismo; e poiché sono i carneficidel popolo, credono in buona fede di conoscerlo bene, di sapere ciòche vuole e ciò che vale. Non sanno però che nel giorno segnato,quando il prete griderà al proletario: «In nome di Dio, sii sotto-messo», noi invece gli diremo: «In nome della libertà, sii uomo»;quando il possidente e il padrone gli ingiungeranno minacciosi:«Lavora, fatica, e dà a noi il frutto delle tue fatiche, perché se non

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ce lo dai, tu rubi e Dio ti punirà», noi gli diremo in nome della giu-stizia: «Quello che crei con il lavoro delle tue mani e con il sudoredella tua fronte è tuo; il ladro che doveva essere punito e non lo èstato è chi te lo ha sottratto per tanti secoli». Uomini della monar-chia e del privilegio, noi siamo convinti che il popolo ci seguirà espezzerà il legame con il suo vecchio e implacabile Dio. Se non nesiete convinti, se non avete capito che la libertà e il benessere sonoil vero Dio del proletariato, invocate pure i fulmini dell’Eterno,ma fate presto! Invocateli subito, perché il socialismo vi incalza dapresso! Uomini del privilegio, ve lo dico ancora una volta: non sog-ghignate nel sentire queste parole; i vostri padri, i ligi funzionariche vi hanno insegnato a leggere, vi hanno persuaso che questa èun’utopia, vi hanno convinto che la giustizia, il diritto e la leggesono dalla vostra parte, e voi avete dormito sereni fra questi codicie questi statuti. È possibile che alcuni di voi siano persino in buonafede: vittime della grande proprietà, delle grandi industrie, dellegrandi banche, siete diventati a vostra volta carnefici, senza magarirendervene conto, del contadino e dell’operaio. È a voi che ci rivol-giamo, incitandovi ad avere coraggio e a guardare in faccia la que-stione sociale: allora le illusioni spariranno e la verità emergerà se-vera e inesorabile.

In tutte le statistiche del felice regno d’Italia due dati spiccanocon una semplicità e un’eloquenza straordinarie:

Popolazione: circa 25 milioni;Contribuenti delle imposte su fabbricati, terre coltivate e attività

commerciali: circa 2 milioni.Chi siano e che cosa facciano questi 2 milioni di bravi cittadini

contribuenti, tutti lo sanno. Una parte di essi suda tre volte l’annoper esigere una pigione che si accresce ogni anno via via che i ma-trimoni tra i figli del popolo si traducono in nascite di nuovi pigio-nanti. Un’altra parte permette generosamente al contadino di lavo-rare le terre che essa non sa e non vuole coltivare, lasciandogli conmagnanimità quel tanto del prodotto del suo lavoro sufficiente anon farlo morire troppo presto di fame e di freddo. Un’altra parte

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ancora passa la vita a studiare la quantità dei prodotti e la quantitàdei bisogni e poi trova il modo di accumulare montagne d’oro sullafame, sul freddo, sulla luce, sulla sete, ovvero sulle innumerevolimiserie e sulle poche gioie del popolo; queste montagne d’oro lirendono di conseguenza nemici e tiranni del lavoro, asservendoinevitabilmente il popolo operaio.

Sono tutte persone per bene: hanno una posizione sociale ri-spettabile; sono elettori eleggibili e spesso deputati; è a loro favoreche il curato predica, che il codice civile legifera, che il giudice,l’ufficiale giudiziario, lo sbirro e il gendarme agiscono, che lescuole, i libri, le scienze, i musei, i teatri, i cavalli, le carrozze, lestrade ferrate e i telegrafi esistono. Tutto è per loro, e solo loro pos-sono usufruire della civiltà, godere degli agi della vita.

Ma chi sono e che cosa fanno gli altri 23 milioni di italiani? Bor-ghesi e privilegiati, ve lo siete mai chiesto? In realtà lo sapete bene:i 23 milioni sono quelli che lavorano dal levar del sole al tramonto,sono quelli che fanno e pagano la civiltà di cui gioite. Sono loro checreano tutto ciò che voi consumate, dal semplice pane al lusso piùsfrenato. Senza di voi, tutti loro sarebbero liberi e felici, senza diloro, voi morireste di fame. Lo sapete bene: se sono miserabili, èperché la proprietà e il capitale li derubano, se sono schiavi, è per-ché non possono godere della falsa libertà politica che voi, in pienaconsapevolezza, avete loro accordata; se sono abbrutiti, è perchénon volete che la luce della scienza illumini le loro menti. E tutta-via sapete bene che allo stesso tempo essi sono la forza creatrice eanche la forza distruttrice.

Borghesi e privilegiati, la rivoluzione che avanza vuole e devedistruggere il privilegio che assoggetta la stragrande maggioranzadel popolo italiano ai vostri bisogni e ai vostri capricci, che allon-tana questa maggioranza da tutte le gioie della vita gettandola nellapiù profonda miseria, che le nega ogni diritto, perfino quello dilavorare e di sopravvivere! L’ineguaglianza che da secoli separa indue classi gli uomini – oziosi e operosi, privilegiati e proletari, ric-chi e poveri, istruiti e incolti, felici e infelici, carnefici e vittime –

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deve scomparire. La rivoluzione esige che il punto di partenza siaeguale per tutti, che tutti abbiano la stessa educazione e istruzione,gli stessi strumenti di lavoro: la terra al contadino, il capitale all’o-peraio. Essa vuole abolire il diritto di proprietà ereditario, che è labase e la ragione di tanta ingiustizia; essa nega il diritto di eredità,il diritto all’ozio, e afferma invece il diritto all’eguaglianza, il di-ritto al lavoro.

Borghesi e privilegiati, non frapponetevi come un ostacolo sullavia della rivoluzione; quando l’ora suonerà, lasciate passare la giu-stizia del popolo: essa vuole distruggere le cose, non gli uomini.Ma se gli uomini si aggrapperanno alle cose, allora scomparirannocon esse. E scomparirà per sempre anche la vecchia società privile-giata e tutti i suoi disastrosi corollari: lo Stato centralista, con lesue ignobili infamie, cadrà come per incanto al soffio della rivolu-zione, e la nuova società si costituirà spontaneamente in nome dellalibertà e della felicità degli italiani, grazie alla libera federazionedelle autonomie locali nate dalla rivoluzione sociale, la cui unicabase sarà il lavoro liberamente associato.

ITALIANI! Gli eventi precipitano: la bancarotta dello Stato si ap-prossima da un lato e dall’altro la rivoluzione avanza inesorabile.Fate vostro il suo programma: giustizia, ovvero eguaglianza, ovverolibertà. Fate vostra questa parola santa. Per quanti la ricusano, ve n’èun’altra che mormora da secoli nell’orecchio del popolo: vendetta.

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Appendice

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Lettera a Giuseppe DolfiTorino, 13 gennaio 1864

Signore,pur non avendo l’onore di cono-

scerla personalmente, approfitto dellaraccomandazione del nostro amicoMazzini per pregarla cortesemente difarmi un piacere che spero non le siadi troppo fastidio, e che nello stessotempo sarà per me di grande utilità.Ho intenzione di stabilirmi per qual-che mese a Firenze, e poiché non dispongo di molto denaro, vor-rei farlo nel modo più economico possibile. Per questo ho pregatoil mio compatriota, il signor Metchnikov, di cercarmi un alloggioa buon mercato nel quale io possa sistemarmi a pensione pressoqualche buona famiglia borghese. I suoi amici, signore, mi assicu-rano che lei non si rifiuterà di offrirmi la sua assistenza, che mi sarà

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Giuseppe Dolfi

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preziosa in questa piccola faccenda, come in molte altre di maggiorpeso. Voglia dunque dare un buon consiglio al signor Metchnikov.E siccome mia moglie, polacca di nascita, è giovanissima e ha ungran desiderio di apprendere rapidamente l’italiano, lei ci rende-rebbe un grandissimo servigio se potesse sistemarci in una casadove mia moglie possa trovare la compagnia di qualche brava gio-vane che con la sua conversazione le insegni la vostra bella linguapiù rapidamente di quanto possa fare un libro. Spero di arrivare aFirenze entro due settimane e sarei lieto di poter stringere la manodi un uomo che ho imparato ad apprezzare e ad amare ancor primadi conoscere.

M. Bakunin

Lettera ad Agostino BertaniLivorno, 26 gennaio 1864

Carissimo dottore [in italiano neltesto],

Le sarò infinitamente grato peravermi raccomandato al signor Guer-razzi. Non ne conosco il carattere, main lui ho trovato un uomo d’intelli-genza davvero notevole. L’ho trovatoammalato, steso a letto e perciò nonin grado di scriverle. Ma mi ha am-piamente esposto i suoi pensieri e mi ha incaricato di trasmetter-veli. L’ho appena lasciato e le scrivo immediatamente per non di-menticarli e renderveli nel modo più esatto.

Nella sua lettera lei gli parlava di un progetto circa un appello dafare al re a nome di tutti i parlamentari dimissionari, eletti o nonrieletti. Egli ritiene che in questo momento sarebbe un passo sba-gliato e deplorevole, che potrebbe produrre solo spiacevoli conse-guenze. Dice che se i deputati dimissionari, per quanto scarso possa

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Agostino Bertani

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essere il loro numero, avessero alle spalle l’opinione pubblica, serappresentassero almeno 2-3 milioni, allora il re sarebbe costrettoad ascoltarli. Ma in questo momento di inerzia nazionale, costoronon rappresentano che se stessi, e il governo del re lo sa bene. Il loroappello non avrebbe così nessuna conseguenza, anzi ne avrebbeuna deplorevole, perché un appello al re è uno di quegli strumentiimportanti che è meglio non sprecare e che va tenuto in serbo peri grandi momenti.

L’inefficacia di un simile appello in un frangente come questo sa-rebbe un fiasco [in italiano nel testo] ancora più completo e fune-sto di quello della mancata rielezione. Anche se il re, cedendo ai de-sideri della minoranza, sciogliesse la Camera, il partito non ciguadagnerebbe niente, anzi perderebbe molto. Infatti, pronun-ciando questo scioglimento il re conserverebbe l’attuale ministeroo ne formerebbe uno nuovo che non varrebbe più di questo. Le ele-zioni gestite da un ministero del genere, tra l’apatia generale, con lalegge elettorale che lei sa, porterebbe certamente a una Camera an-cora più reazionaria, e a quel punto il vostro partito sarebbe alla to-tale disfatta. Perché con questa legge le elezioni diventino oppor-tune, è necessario prima appassionare il paese, riconquistarel’opinione e il sentimento nazionali. Il signor Guerrazzi pensa cheil viaggio di Garibaldi in Inghilterra, ben organizzato e ben concer-tato, potrebbe raggiungere un tale obiettivo. Sarebbe bene, dice,che Garibaldi fosse invitato a fare questo viaggio non da un unicoinglese, come il colonnello [Osborn William] Chambers, ma damolte personalità più o meno influenti; che quanti più fosseroquelli che lo invitano tanto meglio sarebbe, perché il viaggio delGenerale guadagnerebbe d’importanza; che, evitando i ciarlatanialla Kossuth, dovrebbe circondarsi dei suoi amici più influenti, so-prattutto di quelli che conoscono l’inglese (mentre si dice che siacircondato da una corte alla Carlo Magno); e che una volta arrivatiin Inghilterra, con una serie di meetings, di serate pubbliche e diconversazioni private, si cerchi di attirare l’attenzione dell’Inghil-terra sugli affari dell’Italia e di conquistare le simpatie del grande

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pubblico inglese per il partito nazionale, contro gli intrighi napo-leonici in Italia. Aggiunge che si dovrebbe spiegare al pubblico in-glese di non essere una banda di teste matte che sogna la distru-zione di tutti i fondamenti della società, ma un partito di patriotiseri, di uomini di Stato che vogliono salvare l’Italia dall’abisso in cuivorrebbe farla precipitare l’egoismo di qualche uomo politico pie-montese di anguste vedute, spinto da un machiavellismo impe-riale.

Guerrazzi sa bene che è difficile agire senza denaro, ma aggiungeche quando si hanno uomini come Garibaldi, Mazzini e tanti altridi cui il partito italiano si onora, è possibile fare molto, e non du-bita che se la cosa è ben concertata potrà avere successo. Una voltache l’opinione inglese si pronuncerà a vostro favore, quell’Italia cheora dorme si risveglierà e si volgerà dalla vostra parte. E il re, veden-dovi sostenuti dall’Inghilterra, vi prenderà sul serio; e sarà quello ilmomento per presentargli il vostro appello, che non potrà man-care, in tali circostanze, di raggiungere il suo scopo. Altrimenti ri-schiereste di far precipitare le cose. Dunque: prima il viaggio delGenerale, che dovete sollecitare in ogni modo, e poi l’appello.

Ecco, caro dottore, in poche parole il riassunto della mia conver-sazione con il signor Guerrazzi. Arrivato qui alle sette, ho trascorsocon lui un’ora intera. Alle undici mi metto sul treno e alle due sa-remo a Firenze. Se lei ha qualcosa da dirmi, mi scriva fino a nuovoordine al seguente indirizzo:

Signor Eugenio Vieusseux, Libraio a Firenzecon una busta all’interno per me. Adieu, stringa la mano a tutti

i nostri amici,Suo devotissimo M. Bakunin

Mia moglie mi prega di porgerle i suoi saluti.

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Lettera a Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tournemire Firenze, 1 febbraio 1864, corso Vittorio Emanuele 5, primo piano

Sua Nobiltà, Le ho scritto dalla Svizzera una lunga lettera con il mio indi-

rizzo di Firenze e speravo, speravo tanto, di trovare qui una rispo-sta. Mi sbagliavo, non l’ho trovata. Ora, dunque, non mi resta checredere che lei o non abbia ricevuto la mia lettera, o non l’abbia tro-vata degna di risposta, o ancora che fosse illeggibile e non sia riu-scita finora a capirla e l’abbia affidata a una commissione scientificaper decifrare i miei geroglifici. Mi sforzo oggi di scriverle in modotanto leggibile da rendere impossibile quest’ultima ipotesi; e sic-come questa lettera le arriverà sicuramente, nel caso in cui persistanel suo silenzio, la seconda ipotesi sarà l’unica possibile. Questalettera le sarà consegnata dal conte Roger Raczynski, un uomo sag-gio, colto e quanto mai generoso e bravo, anche se con una testatentennante, colma di spirito di contraddizione. Così, per esempio,qualche mese fa, stanco di sentire dappertutto insulti contro il mar-chese Velepolski, ha scritto un opuscolo in sua difesa. Ciò detto,sarei molto contrariato se la mia lettera dalla Svizzera fosse andatasmarrita: non c’era nulla di compromettente, né per lei né per nes-suno, ma solo cose che sarebbe comunque meglio non cadesserosotto gli occhi di terzi, soprattutto le due missive, una ai miei fra-telli e l’altra alla madre di Antonia, che ci aveva promesso di far ar-rivare dove dovevano arrivare alla prima occasione. Abbia la bontà,contessa, di scrivermi giusto una riga per farmi sapere se ha ricevutola mia lettera dalla Svizzera.

Il mio indirizzo qui è: Sig. Eugenio Vieusseux, Libraio a Firenzee sulla busta all’interno: per il sig. Bakunin, o ancora per A.D.Un secondo indirizzo è a nome della contessa Raczynska, con

preghiera di inoltrare a me. Quanto all’indirizzo della contessa,

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lo avrà dal marito stesso. A proposito, aggiungo che le ho scrittodalla Svizzera a nome del signor Klaczko, quai d’Orléans 6, perinoltrare alla signora Elise, come mi aveva chiesto. Dato che nonho ancora il diritto di ritenere che lei non voglia ricevere le mie let-tere né rispondermi, continuo a renderle noti i miei alter ego comese niente fosse.

Mentre scendevamo dal Moncenisio verso l’Italia nella notte trail 10 e l’11 gennaio, ci siamo ribaltati, per fortuna non dalla partedel burrone ma dall’altra, e senza il minimo danno per nessuno; iomi sono fatto solo un taglio a un dito con un vetro al quale mi ap-poggiavo per non schiacciare con la mia carcassa il povero unghe-rese che viaggiava con me. Ho considerato questo piccolo inci-dente di buon augurio. Quando sono partito dalla Siberialasciando Kjachta, sempre di notte, secondo l’uso russo, sulla troikache mi trasportava mi sono quasi spaccato il cranio contro la barraabbassata, ma anche lì me la sono cavata con un dito rotto. Poi,lungo l’itinerario verso Londra, mi è andato tutto bene. Lo stessoqui. Finora tutto va bene.

A Torino abbiamo trovato la Siberia. La povera Antosja non sa-peva come ripararsi e per poco non si è ammalata per il freddo,ma gli dèi l’hanno salvata. Grazie a Mazzini, fin dai primi giorni hopreso contatto con alcune persone estremamente simpatiche e in-teressanti che appartengono, inutile dirlo, esclusivamente al partitodemocratico; e se nei primi giorni non ho trovato in Italia il suoclima, l’ho ritrovato nei suoi uomini. Per il momento non mi sonolimitato ai democratici e, grazie ad altre raccomandazioni, ho po-tuto far conoscenza anche di alcuni simpatizzanti del partito mo-derato, perfino di due ministri. A Torino siamo rimasti cinquegiorni, a Genova tre, ma il 19 siamo partiti per Caprera in compa-gnia di un giovane spilungone inglese e di tre signore inglesi, dueavvenenti e graziose e una davvero racchia. Questa inglese di unacerta età e non bella è una dama ricchissima ed esaltata invaghitaalla follia di Garibaldi; non contenta della porzione di entusiasmoche le ha concesso la natura, si aiuta anche con bicchierini di co-

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gnac cui aggiunge qualche goccia di cloroformio, cosa che le pro-cura un naso paonazzo. Così sorride senza posa a tutti quanti,tranne ad Antosja, che detesta perché è gelosa del suo rapporto conGaribaldi e verso la quale, per tutto il tempo che siamo rimasti aCaprera, ha lanciato occhiate furenti.

Garibaldi ci ha accolti amichevolmente e ha fatto a entrambiuna forte impressione. Si è ristabilito completamente e, anche sezoppica un poco, è forte come un leone ed è attivo dal mattino allasera. Cura di persona il suo orto che, pur non essendo esteso, èestremamente interessante perché interamente coltivato con le suemani sulla petraia e tra le rocce. Un aspetto triste e magnifico. C’èpoi una sola casa bianca, solennemente chiamata Palazzo Gari-baldi, una più piccola in metallo, una terza ancora più piccola inlegno. Nel frutteto ci sono tutti gli alberi del Mezzogiorno: aranci,limoni, olivi, mandorli, viti, fichi, palme da datteri eccetera, etanti fiori; in fiore, però, c’erano solo qualche mandorlo e delleadorabili rose bianche. A Caprera, estate russa. Siamo rimasti tregiorni e tutti e tre sono stati splendidi; la sera e la notte faceva ad-dirittura caldo.

Da Garibaldi abbiamo trovato il giovane segretario politicoGuerzoni, che al momento fa da anello di congiunzione nella nuovaalleanza Mazzini-Garibaldi, il militare e marinaio Basso, il compa-gno americano di Garibaldi, i suoi due figli Menotti e Ricciotti,qualche garibaldino, altri militari e marinai, in tutto una dozzina disoggetti. Lì c’è una vera repubblica democratica e sociale. Non vi siconosce la proprietà; tutto appartiene a tutti. Si ignora anche lacura della persona: tutti indossano abiti di tela spessa con collettiaperti, camicie rosse con le braccia scoperte; tutti sono abbronzatidal sole, tutti lavorano insieme e tutti cantano. In cima, sulle rocce,c’è un piccolo mulino a vapore e ogni volta che è in funzione è unagran festa. E tutti sono indaffarati, alcuni portano l’acqua, altri met-tono sul fuoco rami e ceppi, che abbondano sull’isola, altri ancorastanno in piedi o distesi sugli scogli, in pose pittoresche, per parlaredi politica, delle campagne passate o future, o ancora cantano. In-

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somma, a Caprera si trova un piccolo cenacolo di uomini giovani,sani, robusti e coraggiosi, ognuno dei quali si è distinto per qualcheparticolare atto di coraggio, un sodalizio che mi ricorda le prime pa-gine del Corsaro di Byron. Ma in mezzo a loro, maestoso, impo-nente, con un sorriso dolce sulle labbra, il solo a essere lindo, il soloa essere bianco in mezzo a quella folla bruna e forse un tantino su-dicia, Garibaldi, con la sua espressione profondamente melanco-nica, sia pure solo esternamente, produce un’impressione indefini-bile. È infinitamente buono e la sua bontà si estende non solo agliuomini, ma a tutte le creature. Ama i suoi due buoi, le sue vacche,i suoi vitellini, i suoi montoni; tutti lo riconoscono, e non appenasi mostra tutti corrono da lui, che li accarezza uno per uno, che haper ognuno una buona parola. Mi hanno raccontato che un giornoaveva trovato un agnellino che si era perso e cercava la madre: loprese in braccio e la cercò per quattro ore tra le rocce; non trovan-dola portò l’agnello a casa sua, mise della paglia accanto al suo letto,si fece portare una spugna imbevuta di latte e rimase disteso tutta lanotte con il braccio teso con in mano la spugna dalla quale l’agnellosucchiava il latte. Il giorno seguente si alzò presto e camminò conl’agnello in braccio per due o tre ore, finché non ebbe ritrovato lamadre. Un’altra volta, vedendo un giovane che spezzava dei ramisenza ragione, gli disse: «Perché lo fai? Si deve rispettare tutto quelloche vive». La sua religione è come la vostra, crede in Dio e nel de-stino storico dell’uomo. «Al di là di questo», dice, «non so niente».

Vi ho già detto che le sue riflessioni sono di una tristezzaprofonda, soffocata. Così doveva essere la tristezza di Cristoquando diceva: «La messe è abbondante, ma i raccoglitori sonopochi!». Così è la tristezza del nostro uomo maturo, che ha consa-crato tutta la vita all’emancipazione e all’umanizzazione dell’uomo.Perfino i grandi uomini, dunque, perfino quelli più fortunati nonraggiungono il proprio scopo. E tuttavia è necessario sforzarsi e ti-rarsi dietro il mondo per farlo avanzare. Nel mezzo di una lungaconversazione con lui, Garibaldi mi ha detto: «Negli ultimi tempine ho abbastanza della vita; le avrei detto volentieri addio, ma avrei

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voluto morire per il bene della mia patria e per la libertà di tutti ipopoli. Avevo intenzione di andare in Polonia, ma i polacchi mihanno mandato a dire che laggiù sarei stato inutile e il mio arrivoavrebbe provocato più male che bene, così ho rinunciato. Del resto,anch’io suppongo di essere più utile per loro qui che non laggiù. Sefacciamo qualcosa in Italia, sarà di vantaggio anche per la Poloniache, oggi come sempre, gode di tutta la mia simpatia».

Senza dubbio Garibaldi si prepara, con tutto il suo partito delcambiamento, all’azione di primavera. In che cosa consisterà que-sta azione, è ancora difficile dirlo. Gli ostacoli sono tanti. La guerra,o ancor meglio la rivoluzione in Germania, possono far avanzaresingolarmente tutti noi. Ma di questo le parlerò in un’altra letterache le scriverò dopo che lei avrà risposto a questa mia e alla prece-dente.

Ora ritorno a Garibaldi. È stato estremamente gentile e amabilecon mia moglie, con gran dispiacere dell’inglese ubriacona col nasopaonazzo. Una volta che era in nostra compagnia, ha fatto saliremia moglie su una barchetta e ha preso egli stesso i remi mentre leiraccoglieva con una lunga pertica i ricci, una sorta di frutti di mare[in italiano nel testo].

Il 23 siamo tornati a Genova e il 26, via Livorno, siamo arrivatia Firenze. E io, glielo rivelo in segreto, sono già innamorato dell’I-talia e ho dato la parola a mia moglie che in un mese imparerò l’i-taliano.

Ma che mi dice del «Kolokol»? Si è davvero rigenerato. Dopoaver letto l’articolo di Herzen, Le 1er Janvier, e la lettera a Gari-baldi, ho esclamato: «Cristo è resuscitato!»: il vigore, la fede, tuttogli è ritornato. Ma di nuovo, anche questo nelle prossime lettere.Oggi invece le rivolgo le mie più umili preghiere:

1. Baciare la fronte intelligente di suo figlio e stringere la manoai nostri comuni conoscenti: Wizicskij, Kaplinskij, Klaczko, Ka-linka, Zaleski, Grinevic, se è tornato, così come Usov, al quale scri-verò di sicuro, e Luginin, se è ancora a Parigi.

2. Dire a Markov-Vovcok che gli ho scritto fermo posta a nome

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di M.lle S.O., come mi ha chiesto, e dargli il mio indirizzo: CorsoVittorio Emanuele 5.

3. Chiedere a Wizicskij che si informi se la nostra comune cono-scenza, e mio grande amico, August Blanche, lo Svedese, è arrivatoa Parigi. Ho ricevuto notizie da Stoccolma sulla sua partenza perParigi, da dove dovrebbe raggiungere l’Italia; la prego di comuni-cargli tramite i nostri comuni amici il mio vero indirizzo, cioèCorso Vittorio Emanuele 5, 1° piano, perché possa trovarmi. Seviene a sapere che si trova a Parigi, faccia sapere a Raczynski cometrovarlo, in modo che possa consegnargli la mia lettera. Scriveteanche a me sull’argomento, se venite a sapere qualcosa.

4. Vi vedete con l’artista pittore Jacobij? Se sì, ditegli o pregate vo-stro figlio di dirgli che gli ho scritto due volte, una volta dalla Sviz-zera, con una missiva indirizzata a suo fratello, e un’altra da Ge-nova, con tre missive indirizzate a Demontowicz, a Narcimskij e alpittore Chlebovskij. Non ho ricevuto alcuna risposta a tutte questemissive. Le ha ricevute? Comunichi anche a lui il mio indirizzo.

Sera.Sono stato alla Posta e quale è stata la mia gioia! Ho ricevuto la

sua lettera, cara amica. Eravate sofferente e solo per questa ragionesiete rimasta in silenzio. Adesso vi siete ristabilita, grazie a Dio (percosì dire). Anzi, che Dio ci faccia dono anche del resto. Malgradotutto e tutti, sono almeno certo che la Polonia non soccomberà.Nell’atmosfera politica si è accumulata tanta elettricità che dovràprima o poi esplodere. Per ora, alla mia prossima lettera; adessosiamo tutti riuniti e Antosja, che l’ama di tutto cuore ma non sascrivere lettere, mi chiama per prendere il tè.

Il suo devoto amicoM. Bakunin

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Lettera a Karl MarxFirenze, 7 febbraio 1865, via dei Pucci, secondo piano

Carissimo, tu hai formalmente il di-ritto di avercela con me, perché ho la-sciato senza risposta la tua seconda let-tera e ho tardato fino a oggi arispondere alla terza. Ecco le cause delmio silenzio: conformemente al tuodesiderio, ho mandato a Garibaldiuna copia dell’appello del comitato in-ternazionale e aspetto ancora una sua risposta. Attendo inoltre che sistampi la traduzione italiana per spedire anche questa. Non ti puoiimmaginare come in questo paese la gente sia lenta e indecisa. Lamancanza di denaro – questa prima e fondamentale, ma anchemolto naturale malattia di ogni organizzazione democratica in Eu-ropa – inceppa ogni lavoro attivo. Oltre a ciò, la grande maggioranzadegli italiani, demoralizzata dal fiasco [in italiano nel testo] completoe dagli errori del partito democratico centralista e unitario, è adessofortemente malata di scetticismo e di stanchezza. Soltanto la propa-ganda socialista, appassionata, energica e conseguente, può far tor-nare in questo paese la vitalità e la volontà. Ma per tutto ciò ci vuoletempo, perché qui occorre ricominciare tutto da capo. In Inghil-terra, com’è evidente, voi andate avanti a gonfie vele. Noi, al contra-rio, azzardiamo a dispiegarle a poco a poco [in italiano nel testo].

Ti mando una poesia fiorentina che spero non ti dispiacerà. Pur-troppo l’organizzazione è un affare ben più difficile delle poesie: an-ch’essa procede, è vero, ma molto lentamente. I suoi successi sonorallentati dall’indifferenza scettica, dalla diffidenza reciproca, dall’i-gnoranza e dall’incapacità dei cosiddetti capi della cosiddetta de-mocrazia, completamente disorientata e demoralizzata. In Italiadeve formarsi una democrazia nuova, fondata sul diritto assoluto esul culto unico del lavoro. Gli elementi per questo ci sono: l’Italia

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Karl Marx

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ne è piena e su questo punto non si deve disperare. Pazienza [in ita-liano nel testo], come amano dire qui, e di questa pazienza ne oc-corre tanta! Mazzini è terribilmente in errore se continua a credereche l’iniziativa del nuovo movimento verrà dall’Italia. Verrà dal-l’Inghilterra, o dalla Francia, o magari dalla Germania; certamentedalle prime due se parliamo solo dell’Europa, oppure da quella ma-gnifica America del Nord: ecco il centro intellettuale e propulsivodell’umanità. Il resto verrà dietro a rimorchio.

E ora, carissimo [in italiano nel testo] amico, dammi la tua asso-luzione per il lungo silenzio, un peccato nel quale non ricadrò più,e bacia rispettosamente per me le belle mani della signora Marx edella figlia.

Tuo devoto M.B.

Non appena avrò le fotografie di mia moglie e di me stesso ve lemanderò, ma in cambio chiederò quelle di tutta la santissima fami-glia [in italiano nel testo].

Lettera a Giorgio AsproniNapoli, 2 novembre 1865

Mio eccellentissimo amico, ho ricevuto due sue lettere, ma ho

preferito non risponderle prima diavere conferma della positiva notiziache attesta la sua nomina a deputatodella Sardegna. Ora la nomina ècerta: ne sono ben contento, nontanto per lei, che non se ne cura piùdi tanto, ma per il suo paese e per laCamera, che ascolterà almeno una voce sgombra da qualsiasipreoccupazione personale o di partito e capace di far sentire tuttala verità. Di dire arditamente la verità! È questa, al momento, l’u-

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Giorgio Asproni

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nica cosa buona che si possa fare. Dopo arriverà il momento direalizzarla, e io spero che arriverà abbastanza in fretta perché siapossibile per noi due esserne attori e testimoni.

Ferrari non è stato nominato a Milano e, credo, da nessunaparte. Se lei scrivesse ai fratelli Romero, che sembrano entrambitenere molto alla sua opinione, essi potrebbero senza dubbio pre-sentarlo in uno dei collegi più sicuri del partito tra quelli di cui sioccupano. Sono felicissimo che lei si sia risolto a fare un giro per l’I-talia e attendo con impazienza le notizie che ci porterà da Firenze.Qui Dall’Ongaro è più maneggione e ridicolo che mai: briga peravere l’onore di prendere il posto di Garibaldi. Credo che preferi-rei piuttosto l’esponente di una qualche consorteria o perfino ungesuita, perché sotto gli abiti di democratico liberale costui cela lastoffa dell’uno e dell’altro.

Mio caro amico, oggi tutto quello che si raccoglie è: tanto peg-gio tanto meglio – tanto meglio tanto peggio; non mi sembra ci siaaltro. Ma qualunque cosa si faccia, qualunque cosa si dica, l’Italianon farà da sé – oggi meno che mai. Sotto questo aspetto, comesotto molti altri, io condivido appieno l’opinione di Ferrari:quando suonerà l’ora, non farà da sola, ma con gli altri.

Venga dunque al più presto: mia moglie, che la saluta con ami-cizia, e io, che l’abbraccio fraternamente, l’attendiamo con impa-zienza. Anche Gambuzzi ritornerà tra una settimana. Da quandosono arrivato a Napoli, non ho più visto Nicotera. Mia moglie e iosiamo andati a fargli visita: la signora Nicotera l’ha ricambiata, malui no. Pare proprio che non ci sia una forte attrazione tra noi. Hoscarsa fiducia nei suoi sentimenti e ancor meno ho fiducia nellasua intelligenza democratica. «Il Popolo» senza di lei zoppica e nonandrà avanti per molto.

Che dirle ancora? Il colera si espande pian piano a Napoli, benpiù della democrazia. Mia moglie e io non ci pensiamo. La pregodi salutare da parte mia [Federico] Campanella, [Achille] Sacchi e[Agostino] Bertani. Com’è possibile che io non abbia trovato ilnome di quest’ultimo nella lista dei deputati nominati? È lui che ha

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rifiutato l’elezione oppure non l’hanno eletto? È strano, perché è unuomo molto abile e relativamente molto potente. Di tutti i colon-nelli del defunto partito d’azione è senza dubbio il più intelligente.

Ma basta con le chiacchiere: è ora di andare a dormire. Al mo-mento sto scrivendo per i giornali francesi un lungo articolo nelquale dimostro che il patriottismo esclusivo è un sentimento ani-malesco più che morale.

Adieu allora, le stringo forte la mano e arrivederci a presto. Ab-bracci per me Dolfi e Mazzoni quando li incontrerà a Firenze.

Suo devotoM. Bakunin

Lettera a Ludmila AssingNapoli, 5 novembre 1865, Palazzo Moncone, corso Vittorio Emanuele, secondo piano

Cara e generosa amica,vede bene com’è diplomatico il

russo. Io la definisco generosa, per-ché conto in anticipo sul suo gene-roso perdono in ragione del miolungo e ingiustificabile silenzio. E leimi ha scritto ancora, lei si è ricordatadi me in un momento di affanno, all’indomani di un duello cheavrebbe potuto costare la vita a Giannelli. Quattordici ferite! Sivede bene che non è andato con la mano leggera. Si è battuto confuria. Lei ha mille volte ragione, cara amica, sarebbe stato moltomeglio riservare tutta quella furia italiana [in italiano nel testo] perun’occasione più degna di tanto sangue e di tanto valore. Ma vede,il valore di per sé, al di là del suo oggetto, ha qualcosa di così sedu-cente che, pur biasimandone la follia, nonostante tutto lo si ri-spetta. D’altronde, chissà, magari la ragione stessa di quel duello è

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Ludmila Assing

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più seria di quanto io non creda. In ogni caso, la prego di stringer-gli forte la mano sinistra a nome mio e di manifestargli tutta lamia contentezza nel saperlo vivo tra noi, nonché la mia speranza,se lo prendesse ancora una volta la voglia di farsi ammazzare, discegliere un momento più opportuno.

Che devo dirle della nostra vita napoletana? Innanzi tutto checosta poco. Viviamo un po’ lontani dalla città, è vero, ma vicinis-simi alla Villa Reale, tra questa e Mergellina, e gli omnibus pas-sano a due passi da casa nostra. Per tre stanze graziose con una cu-cina paghiamo solo 85 franchi al mese, e 3 franchi per pranzare indue. Come vede, non ci stiamo rovinando. La nostra compagnianon è molto numerosa, ma piuttosto piacevole. Asproni in questomomento deve essere a Firenze e probabilmente lei avrà modo dilamentarsi aspramente con lui (per quanto lei possa essere aspra,perché in realtà nel suo cuore c’è ben poca asprezza e tanta indul-genza e comprensione; ora posso confessarglielo: lo so per mia di-retta esperienza, perché in realtà ero molto in colpa verso di lei,cosa di cui oggi mi pento sinceramente, sia detto tra parentesi).Così ora lei si lamenterà con Asproni del mio silenzio e Asproni –che è assolutamente nella stessa situazione: mi ha scritto due lettereda Genova e solo ieri gli ho spedito la mia risposta a Livorno, all’in-dirizzo di Guerrazzi – le darà ragione. Ma ve ne vergognerete en-trambi quando riceverete le mie missive!

Volete qualche notizia sulla democrazia? Ah, amica cara, che tri-ste cosa è questa democrazia italiana! Se si radunano tutte le sue ri-sorse intellettuali, forse si riuscirà a partorire una sola idea! Pre-tende di vivere sempre di sentimenti, di istinti, alla sola ricerca diatteggiamenti baldanzosi. Non va affatto bene. Bisogna pensareper andare avanti. Ma in questo paese, dando una mano al papa,sembra che si sia messo all’indice il pensiero! La democrazia, dun-que, si trova qui come dappertutto in Italia in uno stato di prostra-zione, di stagnazione difficile da descrivere e di fraintendimentocronico e perenne. Parole, parole, parole! come diceva il principeAmleto in preda alla follia. Passiamo a un argomento più confor-

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tante. Il vostro grande luminare fiorentino, Dall’Ongaro, è qui; sidefinisce un uomo pratico e si dà arie da raffinato pensatore, comese ne sapesse più di chiunque altro, e si dà molto da fare per esserenominato deputato nel seggio assegnato a Garibaldi, che l’ha rifiu-tato. Se fossi italiano e se votassi, gli preferirei il membro di unaconsorteria o un gesuita perché, pur avendo la stoffa dell’uno e del-l’altro, resta comunque un Dall’Ongaro. Sotterriamolo, non primaperò di aggiungere che qui, al teatro del Fondo, si replica un nuovolavoro di sua composizione. Spero che venga fischiato.

Il colera è più interessante, si sviluppa a poco a poco [in italianonel testo] spargendo il terrore e facendo scappare tanta gente. Tra ifuggiaschi ci sono gli Ossani-Paradisi, che sono andati a Salernodopo avere fatto provvista, su mio consiglio, di noce vomica e diquassia. Quanto a noi, ce ne resteremo baldanzosamente qui finoal mese di gennaio, poi andremo forse a Palermo e da Palermo,probabilmente alla fine di gennaio, a Firenze. Prima le scriveremo;e lei ci aiuterà, non è vero?, amica cara, a trovare un minuscolo al-loggio al miglior prezzo possibile. Dica a Giannelli che aspetto unamissiva da Parigi per mandargli la lettera di raccomandazione chemi ha chiesto per il suo amico. Saluti caldamente da parte nostratutta la gioiosa ed eccellente famiglia Schwarzenberg che, ne sonocerto, continua a condividere la mia opinione, da lei non condivisa,ber die herrlichen Thaten der deutsch-preussich-sterreichischen Armeein dem beglckten Schleswig-Holstein und ber den cht deutschen Kaufund Verkauf der von ihr befreiten Brger von Lauenburg [sulle nobiliazioni dell’esercito tedesco-prussiano-austriaco nella felice regionedello Schleswig-Holstein e sulla compravendita puramente tedescadei suoi liberi concittadini del Lauenburg].

Adieu. Senza rimpianti. Mia moglie la bacia, stringe la mano aGiannelli ed entrambi aspettiamo con impazienza la sua lettera.Grazie per il libro di Cironi. Grazie ancora per le lettere di Hum-boldt. Le invio i miei articoli.

Suo devotoM.B.

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Lettera a Aleksandr Ivanovic Herzen e a Nikolaj Platonovic OgarëvNapoli, 7 novembre 1865

Amici! Miss Reeve è morta stanotte, tra mezzanotte e l’una, dicolera. Mia moglie e io le siamo stati accanto tutta la giornata diieri, senza allontanarci, e lei è morta tra le nostre braccia. La curavala signora Schwabe, sua amica ed ex-medico. Il dottor Pinkov, adire il vero, ha fatto tutto il possibile. Ma lei l’aveva chiamatotroppo tardi. Due giorni prima aveva già dolori intestinali. In quelmomento l’ho pregata di prendere qualche goccia di noce vomica,un rimedio che ha dato prova di sé in quasi tutta la Russia, ma an-cora poco conosciuto qui. Non ha preso niente e per giunta l’altroieri era andata a fare una visita sotto la pioggia, si è bagnata e dopotremava fin nelle ossa. Ieri alle sei del mattino si è manifestato ilCholera morbus asiaticus, ma lei non ha voluto chiamare il medicofino all’una del pomeriggio. Mia moglie è arrivata a casa sua, perpuro caso, alle tre, mi ha avvertito e non l’abbiamo più lasciata. Lasera Pinkov ha chiamato un altro medico per un consulto: hannotentato tutto il possibile, ma non c’è stato niente da fare, ed èmorta. Voi e io abbiamo perso una vera amica, intelligente, fedele,nobile e dotata di un’ardente dedizione: l’unica persona viva a Na-poli. Tutte le altre non sono persone, ma ombre.

Lei aveva una profonda stima e un tenero affetto per te, Herzen.Il suo viso, i suoi sorrisi emanavano una tenerezza particolare ognivolta che parlava di te, e come sorrideva di buon cuore quando ri-cordava i tuoi successi. Trattava tutti i tuoi, tutta la tua famiglia,come se ne facesse parte, e amava in particolare la signorina Tata.Poco tempo fa mi aveva mostrato una tua lettera, alla quale si pro-poneva di rispondere, cosa che avrebbe senza dubbio fatto. Ma nonrisponderà più – non c’è più.

Per me era diventata un’abitudine mentale, un affetto del cuore.Ogni volta che leggevo qualcosa di notevole o che immaginavoqualcosa, correvo da lei per conversarne o discuterne insieme. Ra-

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ramente ho incontrato una donna tanto gentile, intelligente e sim-patica come lei. Ma bisogna andare avanti! Anche se siamo sempremeno numerosi.

Ecco tutto quello che volevo o dovevo scrivervi, amici miei. Te-netevi in salute e fate attenzione al colera. Mia moglie è formida-bile, e io sono contentissimo di lei. Che dedizione e che coraggio,senza vuota retorica, quanta tenerezza, audacia e saggezza riuniteinsieme. Da dove attinge tutte quelle energie? Per sette ore, senzainterruzione, le ha frizionato le braccia e le gambe. Non voglia ilcielo che cada malata! Io non glielo ho impedito, perché in un casodel genere ho pensato di non averne il diritto. La nostra amica èmorta, ma almeno non tra le braccia di estranei.

Vostro M. Bakunin

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Trittico con le immagini di Michail Bakunin, Aleksandr Herzen e NikolajOgarëv (fonte: Vladimir Sysoyev, Bakuniny, Sozvezdiye, Tver 2002).

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Lettera a Carlo GambuzziNapoli, seconda metà d’agosto 1866

Amico carissimo,la tua lettera del 17 corrente ci ha

piacevolmente colpito. Abbiamo lettocon interesse le informazioni minu-ziose e preziose riguardo alla situa-zione politica e militare del campo deivolontari. Tutti gli amici ne sono sod-disfatti e contenti.

Cosa che invece non possiamo es-sere nei riguardi di nostri due amici comuni, Fanelli e Mileti, il cuimutismo assoluto ci ha sorpreso, perché non ce lo aspettavamo, eaddolorato, perché hanno scritto a tutti gli amici tranne che a noi,come avrebbero invece dovuto. Ti preghiamo, se ne hai l’occasione,di comunicare a entrambi il nostro sconcerto.

A te dobbiamo indubbiamente una risposta. Ma non potendorispondere a tutti i dettagli che ci hai trasmesso, che hanno oggiminore importanza a causa delle sostanziali modifiche avvenute,ci limiteremo qui a qualche osservazione generale.

Ci hai lungamente parlato dei tuoi tentativi presso certi ufficialisuperiori e uomini politici del campo di Garibaldi, e del loro totaleinsuccesso. Per un verso, siamo contenti che questa esperienza tiabbia fatto toccare con mano ciò che noi, grazie alla storia e alla lo-gica, avevamo profetizzato in anticipo e a priori; l’augurio è che essa,togliendoti dalla testa qualsiasi idea del genere per il futuro, ti leghia noi in modo indissolubile. Per l’altro verso, siamo al contempo unpo’ preoccupati per due ragioni. I tuoi tentativi verso quei signorisono stati attuati attenendosi alla nostra logica, cioè conformementealla nostra ottica, alle nostre idee e alle nostre risoluzioni? O avevanouno scopo squisitamente politico? Ci piacerebbe essere informati ac-curatamente e chiaramente su questi due punti e speriamo che tunon esiti a farlo con la tua ben nota franchezza e sincerità.

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Giuseppe Fanelli

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Dato che la tua lettera è molto carente su l’uno come sull’altrodi questi punti, è naturale che abbia sollevato nel nostro animoquesti dubbi. Se infatti il tentativo è stato fatto nel primo senso,esso si rivela fin dal primo momento impossibile e pericoloso. Im-possibile, perché sarebbe folle cercare di strappare la bandiera, lospirito e il cuore a uomini che per tutta la vita non hanno mai se-guito i nostri principi o la nostra bandiera (come sono appuntotutti loro); a uomini che si sono riuniti lì e si sono votati alla morteper un fine esclusivamente nazionale, e questo proprio nel pienodel loro coinvolgimento militare. Pericoloso, perché è estrema-mente imprudente scoprire le nostre batterie in modo così inop-portuno e inutile. Se il tentativo è stato attuato in un’ottica squisi-tamente politica, allora non si accorda affatto alle nostre intenzioni:anzi, sarebbe in totale disaccordo. Per questo attendiamo con im-pazienza le tue spiegazioni dettagliate.

Un altro passo della tua lettera ci ha fatto riflettere molto. Par-lando dell’entourage di Garibaldi, dici che è composto da uominimediocri, incapaci e ambigui, e aggiungi queste precise parole: noili facciamo sorvegliare. Che cosa intendi con quel noi? Con chi altroti sei messo d’accordo e a che scopo? Chiarisci tutto questo, perchési tratta di un punto estremamente importante che non concordapienamente con il resto della lettera.

Esaminiamo bene la situazione. La conclusione dell’armistizio e l’inevitabile pace hanno creato

una situazione magnifica per noi. La sottrazione del Veneto all’Au-stria toglie al governo qualsiasi ragione per mantenere un esercitoimmenso e per tiranneggiare e opprimere i popoli. I falsi democra-tici, ovvero mazziniani e garibaldini, non potranno più accamparela scusa della presenza straniera in Italia per rimandare le questionisociali, le questioni interne e quelle connesse alla libertà. Le scon-fitte di Custoza e di Lissa, l’arlecchinata di Cialdini, hanno di-strutto per sempre in Italia il militarismo, che prima o poi avrebbefinito per distruggere, come altrove, la libertà. Dopo il disastro diLissa tutti gli uomini di buon senso e l’opinione pubblica, con l’ec-

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cezione di alcuni giornalisti beoti o di alcuni focosi guerrieri, sonofavorevoli alla pace e l’accettano con piacere, perché sarebbe unenorme sproposito affidare d’ora in poi il destino dell’Italia a per-sone che non sanno e non vogliono vincere. Inoltre, sarebbe una te-meraria follia combattere da soli contro l’Austria e contro l’opi-nione pubblica europea.

Ci potrebbero obiettare che il Tirolo e l’Istria restano separatidall’Italia. Ma come annettere all’Italia queste due provincie? A chetitolo e con che diritto pretenderlo? In nome della libertà? Certa-mente no. In nome della volontà popolare? Assurdo, perché gliabitanti si sono battuti con coraggio per terra e per mare, soprat-tutto dopo che i tirolesi, con il loro valore, avevano sconfitto e di-strutto il prestigio di Garibaldi costringendolo al disonore degliincendi di Molina e di S. Luca. In nome della lingua e delle fron-tiere naturali? Impossibile. Come si potrebbe infatti mettere in pra-tica questo principio se la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra possie-dono le terre italiane del Canton Ticino, di Nizza, della Corsica edi Malta? Inoltre, si sancirebbe così il principio della conquista an-nullando quello della libertà e della federazione; e questo non èammissibile.

Potrebbe a questo punto essere sollevata l’obiezione del disonorenazionale. Il che non è assolutamente vero. I soldati, i volontari, imarinai, le guardie hanno combattuto valorosamente e con onore.Le popolazioni, dopo aver tollerato in pace, per sei lunghi anni, ilpiù immorale e infame dei governi, dopo aver pazientemente sop-portato ogni sorta di arbitrio, ingiustizia, concussione e spoliazione,hanno partecipato senza recriminazioni, senza diffidenza, senza ran-core, anzi con entusiasmo e in tutte le modalità possibili, al trionfodelle nostre armi. Di chi è allora il disonore? Del governo, per la suaevidente malafede. Ma la demoralizzazione e la destituzione del go-verno significano il trionfo del popolo e della libertà, e i nostri sforzidevono tendere ad affrettarne la caduta.

Di conseguenza, a cosa porterebbe un colpo di stato militare,una rivolta o un atto di forza da parte dei volontari e dell’esercito?

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A un’azione estremamente funesta e del tutto criticabile. Un movi-mento che non fosse il frutto di solide convinzioni e di manovre alungo preparate, con perseveranza, un movimento che fosse l’esitodi una collera fugace e di un’indignazione momentanea, in generenon ha successo e non può averlo. I volontari e il popolo non visono preparati, né potrebbero esserlo. Ma un colpo di stato avrebbeconseguenze spaventose solo a pensarci. Il governo, già precipitatonel baratro dell’immoralità e ai limiti del fallimento, protetto dal di-ritto di difesa e di resistenza troverebbe nella lotta civile una risorsainsperata, proprio quando l’esito della guerra lo ha privato di ognifiducia. Oltretutto, supponiamo che il governo stia soccombendo,chi ci salverebbe dalla reazione dell’Europa davanti a questo colpo dimano da parte della nostra sedicente democrazia?

Tenuto conto di tutte queste considerazioni, i nostri amici riten-gono che la vostra presenza laggiù sia ormai perfettamente inutile,anzi potrebbe spingervi, contro le vostre intenzioni, su una stradalungo la quale non potreste proseguire senza entrare in contraddi-zione con i nostri principi. Inoltre, voi avete già soddisfatto abba-stanza il vostro onore militare, la vostra posizione politica, in brevela vostra individualità.

I nostri amici stimano dunque che il vostro rimpatrio imme-diato sia non solo opportuno e utile, ma soprattutto necessario.Non possiamo, infatti, descrivere a parole l’effetto prodotto dalladelusione, come pure dalle minacce e dai fieri propositi espressi datutti. Questo è sicuramente il momento più propizio per le nostreattività, tanto più che la falsa democrazia cerca di nuovo di ripren-dersi le cose in mano.

Vi invitiamo dunque a ritornare il più rapidamente possibile,insieme a Fanelli e a Mileti. Se per qualche motivo non potestefarlo, comunicateci allora le ragioni.

[M. Bakunin]

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Brevi note biografiche

Giorgio Asproni (1808-1876) è un politico sardo, autonomista e re-pubblicano.

Ludmilla Assing (1821-1880), scrittrice e intellettuale tedesca, parte-cipa attivamente alle vicende del Risorgimento italiano. Dopo la sepa-razione con l’ufficiale Ciro Grimaldi, si lega per diversi anni a PieroCironi e in seguito ad Andrea Giannelli, da cui ha un figlio. È autricedella biografia di Piero Cironi (Vita di Piero Cironi, Prato 1865) e cu-ratrice del volume di Alexander von Humboldt, Briefe von Alexandervon Humboldt an Varnhagen von Ense aus den Jahren 1827 bis 1858(Leipzig 1860). Entrambi i testi sono citati nella lettera di Bakunin allaAssing del 5 novembre 1865 (vedi p. 130).

Agostino Bertani (1812-1886), medico e politico milanese, è tra i fon-datori dell’estrema sinistra storica.

August Theodor Blanche (1811-1868) è uno scrittore, giornalista epolitico svedese.

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Federico Campanella (1804-1884) è il più stretto collaboratore diMazzini nell’ultimo periodo della sua vita. Eletto deputato 1862, si di-mette l’anno seguente in polemica con l’approvazione della repres-sione in Sicilia.

Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), ex prete e poeta, partecipa al mo-vimento insurrezionale del 1848. Dopo dieci anni di esilio, torna in Ita-lia e diventa monarchico.

Pier Vincenzo De Luca (1835-1868), convinto seguace di Bakunin,collaboratore de «Il Popolo d’Italia» e redattore di «Libertà e lavoro», èuno dei fondatori dell’Associazione Libertà e giustizia e direttore dell’o-monimo giornale.

Giuseppe Dolfi (1818-1869), fornaio, è tra le figure più note della de-mocrazia toscana. Nel 1860 fonda a Firenze la Fratellanza artigianad’Italia, associazione operaia mazziniana.

Giuseppe Fanelli (1827-1877), inizialmente mazziniano, partecipa allaspedizione dei Mille con Garibaldi. Tra i primi seguaci di Bakunin, nediventa uno dei principali collaboratori. Membro della Prima Inter-nazionale, svolge un’intensa propaganda in Spagna contribuendo adiffondervi l’anarchismo.

Giuseppe Ferrari (1811-1876) è filosofo, storico e politico.

Carlo Gambuzzi (1837-1902), avvocato e giornalista, dapprima maz-ziniano e poi anarchico internazionalista, è amico intimo e stretto col-laboratore di Bakunin. Nel 1866, con Fanelli e Mileti, combatte nel Ti-rolo come volontario garibaldino. Direttore della «Gazzetta di Napoli»porta avanti una coraggiosa azione di risanamento morale contro laCamorra.

Andrea Giannelli (1831-1914), mazziniano, nel 1854 partecipa al ten-

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tativo insurrezionale della Lunigiana. Esponente del partito repubbli-cano italiano, nel 1897, in polemica con il partito, dà vita con altri alpartito mazziniano italiano.

Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), politico e scrittore to-scano, è attivo nel movimento democratico risorgimentale e membrodel governo rivoluzionario in Toscana del 1848-1849.

Giuseppe Guerzoni (1835-1886) è il biografo di Giuseppe Garibaldi.

Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870) è un pensatore e politicorusso. La sua autobiografia Passato e pensieri (1867), testo fondamentaledel populismo russo, è la vivida descrizione delle passioni di una gene-razione europea.

Giuseppe Mazzoni (1808-1880) abbraccia giovanissimo gli ideali maz-ziniani. Prende parte ai moti del 1848-1849 e insieme a Montanelli eGuerrazzi fa parte del triumvirato toscano.

Lev Metchnikov (1838-1888), geografo e sociologo russo, è il fratellodel famoso biologo Elie Metchnikov (1845-1916), Premio Nobel perla medicina nel 1908.

Carlo Mileti (1823-1892) partecipa ai moti del 1848. Implicato nel1851 in una congiura e condannato a morte, fugge, lasciando l’Italiaper raggiungere Malta e poi Genova, dove resta per nove anni. Nel1863 Agostino Bertani gli affida la direzione de «Il Popolo d’Italia».

Giovanni Nicotera (1828-1894), inizialmente mazziniano, nel 1857partecipa alla spedizione di Sapri con Carlo Pisacane. Deputato della si-nistra dal 1862, abbandona le idee repubblicane per diventare un con-vinto sostenitore della monarchia. Nel 1877 è l’autoritario e repressivoministro dell’Interno fautore di un giudizio sommario, affidato a un tri-bunale di guerra, per i protagonisti della Banda del Matese.

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Nikolaj Platonovic Ogarëv (1813-1877), poeta russo, viene più voltearrestato per le sue idee politiche. Nel 1856 emigra a Londra, dove col-labora con Herzen alla nascita della rivista «Kolokol». Trascorre gli ul-timi anni della sua vita in povertà.

Emilia Reeve (?-1865), inglese, amica di Garibaldi, promuove a Napoliuna scuola gratuita per i figli degli operai.

Achille Sacchi (1827-1890), medico mantovano, partecipa ai motilombardi del 1848 e successivamente alla difesa della Repubblica ro-mana. Sfuggito alla cattura, si rifugia prima in Piemonte poi in Sviz-zera. Nel 1860 raggiunge Garibaldi combattendo al Volturno. Nel1866 rientra a Mantova.

Elizaveta Vasil’evna Salias-de-Tournemire (1815-1882), contessa, scriveromanzi sotto lo pseudonimo di Eugéne Tour.

Eugenio Vieusseux è il nipote di Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863),il fondatore dell’omonimo Gabinetto, inizialmente pensato come unpunto di riferimento per la lettura dei periodici e dei libri stranieri, al-l’epoca poco diffusi in Italia.

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Bibliografia

Opere

L’Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam ha intrapreso davari anni la pubblicazione delle opere complete di Bakunin curate daArthur Lehning, compresa una versione digitale edita nel 2000 [traparentesi la data delle traduzioni italiane curate dalle Edizioni Anar-chismo, Catania]:

Archives Bakounine, I, Michel Bakounine et l’Italie, 1871-1872(deuxième partie), Leiden 1963 [1976].

Archives Bakounine, II, Michel Bakounine et les conflits dans l’Interna-tionale, 1872, Leiden 1965 [1976].

Archives Bakounine, III, Michel Bakounine, Etatisme et anarchie, 1873,Leiden 1967 [1977].

Archives Bakounine, IV, Michel Bakounine et ses relations avec SergejNecaev, 1870-1872, Leiden 1971 [1977].

Archives Bakounine, V, Michel Bakounine et ses relations slaves, 1870-1875, Leiden 1974 [1977].

Archives Bakounine, VI, Michel Bakounine sur la guerre franco-alle-

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mande et la révolution sociale en France, 1870-1871, Leiden 1977[1985].

Archives Bakounine, VII, Michel Bakounine, l’empire knouto-germani-que et la révolution sociale, 1870-1871, Leiden 1981 [1993].

Bakounine: Oeuvres Complètes, cd-rom, Royal Netherlands Academyof Arts and Sciences (a cura di), Amsterdam 2000.

Principali antologie in lingua italiana

M. Bakunin, La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale (1871),Bergamo 1960.

M. Bakunin, Ritratto dell’Italia borghese (1866-1871), Bergamo1961.

M. Bakunin, Scritti napoletani (1865-1867), Bergamo 1963.M. Bakunin, La reazione in Germania, Ivrea 1972.M. Bakunin, Rivolta e libertà, Roma 1973.M. Bakunin, Stato e anarchia e altri scritti, Milano 1968 e successive

edizioni.M. Bakunin, Libertà uguaglianza rivoluzione, Milano 1976 e 1984.M. Bakunin, Organizzazione anarchica e lotta armata (Lettera a uno

svedese), Ragusa 1978.M. Bakunin, La libertà degli uguali, Milano 2009 e successive edi-

zioni.

Biografie e studi su Bakunin

M. Nettlau, Michael Bakunin. Eine Biographie, London 1896-1900(litografata in soli 50 esemplari).

J. Steklov, Michail Aleksandrovic Bakunin. Egho zizn’ i dejatel’nost’1814-1876, Moskva-Leningrad 1926-1927.

H. Iswolsky, La vie de Bakounine, Paris 1930.H.E. Kaminski, Bakunin, Milano 1949.P.C. Masini, G. Bosio, Bakunin, Garibaldi e gli affari slavi, 1862-63,

«Movimento operaio», 1952.

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P.C. Masini, La visita di Bakunin a Garibaldi, «Movimento operaio»,1952.

G. Maksimov, The Political Philosophy of Bakunin, New York 1964.G.D. Cole, Storia del pensiero socialista, II, Marxismo e anarchismo,

Bari 1967.E. Pyziur, The Doctrine of Anarchism of Michael Bakunin, Chicago

1968.G. Woodcock, L’Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari,

Milano 1968.P. Avrich, Introduction a M. Bakunin, God and State, New York 1970.G. Rose, Presentazione a M. Bakunin, Dio e lo Stato, Pistoia 1970.N. Rosselli, Mazzini e Bakunin, Torino 1973.A. Masters, Bakunin the Father of Anarchism, New York 1974.P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta

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caev, Milano 1977.F. Damiani, Bakunin nell’Italia post-unitaria, 1864-1867, Milano

1977.D. Settembrini, Il labirinto rivoluzionario. L’idea anarchica: i fonda-

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chico, Milano 1996 e successive edizioni.G.N. Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria-

Bari-Roma 1998.A. Lehning, Bakunin e gli altri. Ritratti contemporanei di un rivoluzio-

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Finito di stampare nel mese di aprile 2013

presso Grafiche Speed 2000, Peschiera Borromeo (MI)

per conto di elèuthera, via Rovetta 27, Milano

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