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DI REPUBBLICA DOMENICA 24 GENNAIO 2016 NUMERO 567 La copertina. L’arte di sembrare adulti Straparlando. Antonio Giuliano: “Vivo nell’antico” I tabù del mondo. L’ultimo segreto di Caino sono PAOLO RUMIZ Cult L’attualità. Vedere Andy Warhol a Teheran La storia. La scena del crimine da Monsiuer Bertillon a CSI Spettacoli. “Spotlight”, quando il cinema fa notizia Next. Rivoluzione Li-Fi L’incontro. Ismail Kadare: “So che cosa vuol dire scrivere sotto dittatura” Il più antico del mondo nacque a Venezia 500 anni fa il VENEZIA, GHETTO NOVO. FOTO DI GIANNI BERENGO GARDIN -FONDAZIONE FORMA PER LA FOTOGRAFIA Il reportage di Paolo Rumiz e gli scatti inediti di Gianni Berengo Gardin VENEZIA U NA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Canna- regio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, ge- lida, galleggia sui tetti sul lato dell’iso- la di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Gu- glie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un soto- pòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una lo- canda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristia- ni. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il cam- po disseminato di coriandoli di Carnevale. Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a racconta- re la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagona- le che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaraman- tico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni. Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esiste- vo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla te- desca, con la “Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofo- bico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a con- fronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di pro- missione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di pro- fondamente diverso da ciò che divenne quando l’i- dea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’an- tigiudaismo della Chiesa, producendo lo stermi- nio. In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei re- ticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Ve- nezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Se- renissima, sia pure attraverso una maniacale sepa- razione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Par- larne solo come segregazione non è corretto», os- serva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Borin- ghieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo at- traverso i legami millenari della Diaspora, ed è an- zi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Eu- ropa, Nord Africa e Medio Oriente. Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che gi- rassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhomi- nevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 mar- zo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di manda- re “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un ca- stello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandi- va i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’iso- lotto “per garantirne la sicurezza”. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Io Ghetto Repubblica Nazionale 2016-01-24

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DIREPUBBLICADOMENICA 24 GENNAIO 2016NUMERO567

La copertina. L’arte di sembrare adultiStraparlando. Antonio Giuliano: “Vivo nell’antico”I tabù del mondo. L’ultimo segreto di Caino

sono

P A O L O R U M I Z

Cult

L’attualità. Vedere Andy Warhol a Teheran La storia. La scena del crimine da Monsiuer Bertillon a CSI Spettacoli. “Spotlight”, quando il cinema fa notizia Next. Rivoluzione Li-Fi L’incontro. Ismail Kadare: “So che cosa vuol dire scrivere sotto dittatura”

Il più anticodel mondonacque a Venezia500 anni fa

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Il reportagedi Paolo Rumize gli scatti inediti di GianniBerengo Gardin

VENEZIA

UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Canna-regio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, ge-lida, galleggia sui tetti sul lato dell’iso-

la di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Gu-glie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un soto-pòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una lo-canda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristia-ni. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il cam-po disseminato di coriandoli di Carnevale.

Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti

rimasti, ma bastano e avanzano i muri a racconta-re la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagona-le che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaraman-tico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.

Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esiste-vo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla te-desca, con la “Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofo-

bico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a con-fronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di pro-missione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di pro-fondamente diverso da ciò che divenne quando l’i-dea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’an-tigiudaismo della Chiesa, producendo lo stermi-nio.

In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei re-ticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Ve-nezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Se-renissima, sia pure attraverso una maniacale sepa-razione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Par-larne solo come segregazione non è corretto», os-serva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Borin-ghieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo at-traverso i legami millenari della Diaspora, ed è an-

zi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Eu-ropa, Nord Africa e Medio Oriente.

Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che gi-rassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhomi-nevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 mar-zo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di manda-re “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un ca-stello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandi-va i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’iso-lotto “per garantirne la sicurezza”.

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Ghetto

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ebrei

La cittàdegli

Il reportage.

LE FOTOGRAFIE

IN QUESTE PAGINE

E IN COPERTINA

ALCUNI SCORCI

DEL GHETTO NOVO

DI VENEZIA

NEGLI SCATTI

INEDITI

DI UN MAESTRO

DELLA FOTOGRAFIA

ITALIANA,

GIANNI

BERENGO

GARDIN

<SEGUE DALLA COPERTINA

P A O L O R U M I Z Fu Venezia a inventare nel 1516 la parola “ghetto”. Ecco che cosa rimane oggidel luogo simbolo dell’esclusione

DETTO E FATTO. LE CASE DELL’ISOLA FURONO svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscen-do l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i con-fini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il per-messo di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto,

al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altro-

ve, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi com-merci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché rite-nuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le cas-se del Vaticano. Il Ghetto era dunque un modello di costrizione, ma condiviso in misure diverse anche da tedeschi, armeni e in particolare dai turchi. Accusati di fare “cose turche” (qualcosa di simile alla recen-te aggressione delle donne di Colonia), il loro fondaco era sigillato da guardiani di provata discendenza cristiana, e addirittura diviso fra al-banesi e costantinopolitani. «I medici ebrei erano apprezzati più degli altri», ricorda Riccardo Calimani, discendente di abitanti del Ghetto e storico dell’ebraismo italiano. Se gli chiedi per-ché, ti risponde con un lampo azzurro ironico dietro palpebre a fessura. «Non attingevano alla teologia come gli altri — ghigna — guarivano il corpo e non l’anima», e spiega che per questo essi avevano una deroga sulle ore di “coprifuoco”, e potevano uscire dal Ghetto a qualsiasi ora per le chiamate d’emergenza. E che dire dell’ebreo Daniel Rodriguez che, pochi anni dopo il 1516, venne incaricato dalla Repubblica di costruire la dogana di Spalato, base commerciale sulla costa dalmata sotto controllo veneziano. O di Jakob Sarava, che nel Settecento può andar-sene in missione ad Amsterdam per conto della comunità. Il Ghetto di Venezia non era quello

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G. R

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IN EDICOLA

DAL 27 GENNAIO, IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA, CON “REPUBBLICA” E “L’ESPRESSO” IL DOCUMENTARIO “SALVATE TUTTI” DI ALDO ZAPPALÀ SUI RAGAZZI EBREI IN FUGA OSPITATI NEL 1942 A VILLA EMMA (MODENA)

ONLINE

OGGI SU WWW.REPUBBLICA.IT IL VIDEOREPORTAGE DAL GHETTO DI VENEZIA. IL GHETTO (COME SI VEDE DALLA CARTINA) CON LE SUE CINQUE SINAGOGHE E IL MUSEO EBRAICO SI TROVA NEL SESTIERE DI CANNAREGIO. ISTITUITO IL 29 MARZO 1516 PER CONFINARVI LA POPOLAZIONE EBRAICA, QUEST’ANNO CELEBRA IL SUO CINQUECENTENARIO. IN PROGRAMMA, DALLA FINE DI MARZO, CONVEGNI, CONCERTI E UNA GRANDE MOSTRA A PALAZZO DUCALE, “VENEZIA, GLI EBREI E L’EUROPA. 1516-2016”

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di Varsavia del Novecento. Praticamente, una repubblica nella repubblica.

C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono si-stemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai le-vantini dall’impero ottomano, ebbero le stra-de contigue verso il canale di Cannaregio e fu-rono tutelati più degli altri perché ritenuti in-dispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marra-ni”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conser-varono, si dice, l’alterigia degli “Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.

«Šnaim yeudin shalosh batei a kneset», due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Fran-cesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordi-nanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di balla-toi, scale di legno, pulpiti, matronei, passag-gi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cuni-coli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askena-ziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagno-li), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scin-tillare di lampadari e paramenti nel semi-buio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale as-

sieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombe-lico di un mondo — la quintessenza di Vene-zia e non la sua antitesi.

A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formu-le magiche. «Orsài», commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. «Zuca baruca», zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parla-ta degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condur-ti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che sve-la — un po’ come a Trieste — l’intimità di con-tatto della città con gli ebrei nonostante la re-clusione. “Fare un Tananàì”, fare un Quaran-totto. “No darme Giaìn”, non darmi vino sca-dente. “No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “Tevinà”, il sesso fem-minile, la quale “ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “El tra-ganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.

La vita di Calimani è segnata dall’Olocau-sto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente del-la Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per po-ter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gen-

naio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esat-ti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghet-to, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei an-siosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche deci-ne, sostituiti da veneziani di altra origine.

«Questi cinquecento anni non devono esse-re una celebrazione, ma uno spazio di rifles-sione su un’esperienza in senso lato, qualco-sa che va oltre la stessa Shoah. Non sono trop-po d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i cam-pi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave de-gli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karaha-san, mentre intorno tuonavano le grana-te.«Ghetto non è un problema ebraico ma del-la cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiama-vano altrimenti, “Chatzer”, che vuol dire re-cinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristia-ni. Vorrà pur dire qualcosa.

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la RepubblicaDOMENICA 24 GENNAIO 2016 28LADOMENICA

L’IRAN NON FINIRÀ MAI DI SORPRENDERCI. Chi immaginerebbe che proprio dal pae-se che per l’Occidente è stato per quarant’anni sinonimo di oscurantismo ar-rivi un gioiello, una collezione straordinaria di pittura occidentale moderna e contemporanea? Un tesoro che quasi nessuno ha visto, noto solo agli addet-ti ai lavori, conservato con molta diligenza e cura nei sotterranei — ben forni-ti di aria condizionata — del Museo di arte contemporanea di Teheran?

La prima fioritura della primavera persiana cominciata con l’elezione del presidente Rouhani e che gli iraniani sono decisi a non far sfiorire come tan-te primavere arabe, comincia col viaggio in Europa di una leggendaria colle-zione, la più importante raccolta di arte moderna occidentale esistente fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti. Un valore stimato di tre miliardi di dollari. Un sogno, per tanti cultori. Gugu Ortona, storica dell’arte e ambasciatrice a Te-

heran alla fine degli anni Novanta, quando la collezione fu visibile per la prima volta, seppur per pochi giorni, nei sotterranei del museo, ricorda: «Rimanemmo tutti stravolti dalla qualità straordinaria di ogni singola opera: un Bacon di forza straordinaria, anche di grande violenza, un Toulouse-Lautrec eccezionale. Dire che la collezione è impressionante è poco. Una tale ricchezza in Italia francamente ce la sogniamo: millecinquecento opere da Monet a Kandinsky, da Picasso a Pollock, Andy Warhol, Rothko, de Kooning...».

Era stato un presidente riformatore, Mohammad Khatami, che aveva reso possibile in quegli anni l’accesso alla collezione. E anche oggi l’arrivo in Europa dei suoi capolavori è un segnale di liberalizzazione: il governo del presi-dente Rouhani, che ha appena realizzato gli impegni presi con l’occidente con l’accordo sul nucleare, è impegnato ad aprire l’Iran al mondo, rompendo l’isolamento in cui è rimasto per decenni e che lo ha reso la pecora nera della politica internazionale.

Il merito della collezione è di Farah Diba, la moglie dello scià Mohammad Reza Pahlavi. A Parigi, dove abi-ta oggi, Farah Diba ha raccontato come colse l’occasio-ne dell’improvviso aumento della rendita petrolifera (il prezzo del barile quadruplicò in un anno, passando da tre a dodici dollari) per ottenere dallo scià il via libe-ra perché anche Teheran avesse un suo Museo di arte contemporanea. La costruzione fu affidata a Kamran Diba, famoso architetto e cugino dell’imperatrice. Il TMoCA è ancora oggi una delle più interessanti opere architettoniche della capitale iraniana, quasi una ver-sione rovesciata del Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York, con un percorso a spirale che scen-de invece di salire. L’impennata dei prezzi del petrolio non aveva solo riempito le casse dello Stato iraniano ma provocato anche una crisi economica mondiale con conseguente ribasso del mercato dell’arte, e così in po-chi anni, con l’aiuto del cugino Kamran e di una esperta americana, Farah Diba riuscì a mettere insieme la colle-zione poi inaugurata nel 1977. Esattamente due anni dopo l’imperatrice prendeva la via dell’esilio insieme al-lo scià, mentre a Teheran tornava trionfante l’ayatol-lah Khomeini e instaurava la Repubblica islamica.

Dopo le perversioni che si erano viste nei paesi comu-nisti e la grande ingiustizia dei paesi capitalisti gli ira-niani pensavano che uno Stato fondato sulla religione avrebbe assicurato giustizia e solidarietà. Ma una delle parole d’ordine del khomeinismo fu “gharbzadeghi”, l’intossicazione da Occidente — l’idea che la deprava-zione morale e sessuale occidentale avesse infettato le nazioni islamiche e che l’unica cura possibile fosse il go-verno di una Guida islamica. Subito Khomeini bandì dunque la musica, il cinema, i romanzi e impose l’obbli-go del velo per le donne. Così, mentre le folle lo applau-divano nelle piazze, la direzione del TMoCA per pruden-za decise di mettere i suoi capolavori di arte occidenta-le nei sotterranei. E lì sono rimasti. Chi ha la fortuna di poterli vedere deve scendere al piano più basso del mu-seo dove, superato un cordone di velluto sostenuto da due pali di ottone, c’è una porta con la scritta “Servizi”. Da lì si diramano le stanze in cui sono custoditi i quadri, con i pannelli mobili disposti a libro lungo le pareti. Fai scorrere un pannello e appare Il pittore e la modella, di-pinto da Picasso nel 1927. Ne fai scorrere un altro e tro-vi il Mural on Indian red ground di Pollock (valore sti-mato di trecento milioni di dollari).

Di tanto in tanto alcuni quadri sono stati portati ai piani superiori. Nel 1999, in occasione della prima mo-stra occidentale dopo la rivoluzione, dedicata alla pop art, furono mostrate opere di Lichtenstein, Rauschen-berg, Hockney e Warhol. Nel 2005, un direttore corag-gioso esibì il trittico di Francis Bacon Two Figures Ly-ing on a Bed with Attendants, dove si vedono due uo-mini nudi sdraiati entrambi sul fianco destro. Immedia-tamente qualcuno ne denunciò il carattere omosessua-le e il ministro della Guida Islamica (era già cominciata la presidenza di Ahmadinejad) ordinò di riportare il quadro nel sotterraneo. Ma l’ordine arrivò quando il pubblico aveva già cominciato ad affluire nel museo, co-

sicché i primi arrivati ebbero la fortuna di vederlo, men-tre agli altri non rimase che ammirare un chiodo alla pa-rete. Il Trittico fu poi prestato alla Tate Gallery, mentre alle Scuderie del Quirinale sono arrivati nel 2004, in oc-casione di una mostra sulla Metafisica, un Picasso, un de Kooning e un Max Ernst. Altri dipinti sono esposti nel museo in questi giorni: in occasione di una retro-spettiva di Farideh Lashai, la prima donna ad avere una mostra così importante nella Repubblica Islamica, il curatore italiano della retrospettiva, Germano Ce-lant, ha convinto il museo ad accompagnarla, per con-sentire un paragone stilistico tra Lashai e i suoi contem-poranei nel mondo, con una dozzina di opere della colle-zione sotterranea.

Naturalmente tutti stanno attenti a non provocare gli ultraconservatori (che hanno ancora in mano leve pericolose come la magistratura) evitando di esporre i quadri che più potrebbero incorrere nelle loro ire. Fra i dipinti della collezione che gli iraniani prevedibilmen-te non vedranno mai ci sono nudi di Picasso e di Edvard Munch, un quadro intitolato “Golden Age” di André De-rain, in cui undici donne nude si divertono sull’erba, e la meravigliosamente seduttiva “Gabrielle con la blusa aperta” di Renoir.

Resta comunque stupefacente, ma tipico dei para-dossi dell’Iran, che in tutti questi anni la collezione sia rimasta integra e perfettamente conservata. L’ha pre-servata dalla dispersione lo straordinario orgoglio na-zionale degli iraniani che rende anche gli ayatollah feli-ci che il proprio Paese possieda qualcosa che l’Occiden-te gli invidia. E paradosso tra i paradossi, è proprio al Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del-la identità islamica, che va il merito maggiore: ha infat-ti deliberato che le millecinquecento opere d’arte dove-vano rimanere dove sono perché farne commercio sa-rebbe stato islamicamente scorretto.

Vedere

a Teheran

Andy

La più grande collezione d’arte contemporanea fuori dall’Occidente? È in Iran. Nei quadri voluti

dallo scià tutti i paradossi del paese degli ayatollah

Warhol

©RIPRODUZIONE RISERVATA

V A N N A V A N N U C C I N I

LE OPERE

ALCUNI DEI QUADRI

CONSERVATI PRESSO

IL MUSEO DI ARTE

CONTEMPORANEA

DI TEHERAN E IN VARIE

OCCASIONI ESPOSTI.

QUI A SINISTRA,

UN’OPERA DI FRANCIS

BACON E POI IN SENSO

ORARIO OPERE

DI POLLOCK, ROTHKO,

TOULOUSE -LAUTREC

E “IL MAO” DI ANDY

WARHOL

L’attualità. Senza veli

Repubblica Nazionale 2016-01-24

la RepubblicaDOMENICA 24 GENNAIO 2016 29

NEI COMMENTI che sono seguiti all’attentato alla sede del giornale “Charlie Hebdo” del 7 gennaio 2015, mi ha colpito il fatto che nella difesa dell’operato di questo settimanale satirico ci si appellasse alla libertà di

espressione e non alla libertà dell’arte. Ho pensato perciò che le vignette di questo giornale non potessero essere considerate come opere d’arte. Solo alcuni mesi dopo ho scoperto che esisteva anche una ragione legale: nell’ordinamento giuridico francese non c’era una legge che tutelasse la libertà dell’arte e della sua diffusione. Solo alla fine di settembre dell’anno scorso l’Assemblea nazionale francese ha colmato questa lacuna. Ciò non toglie che l’affermazione della libertà dell’arte sia diventata una questione molto complicata in cui s’intrecciano l’estetica, il diritto, la morale, la comunicazione mediatica, l’opinione pubblica, l’economia e le istituzioni politiche. Per la prima, l’autonomia dell’arte è un principio fondamentale a partire da Kant, secondo il quale l’arte bella ha la caratteristica di rendere belle anche quelle cose che in natura sono brutte o spiacevoli. Questo concetto è stato riaffermato da quasi tutti i pensatori successivi, compresi quelli di impostazione marxista. Tuttavia presto ci si è resi conto che l’estetica, e quindi la stessa nozione di arte, non è qualcosa di universale, ma un prodotto storico eurocentrico che anche in Europa e negli Stati Uniti ha stentato non poco a essere riconosciuto. La stessa opinione pubblica occidentale ha tutt’oggi molte difficoltà a comprenderlo, perché spesso non distingue tra il simbolico e il reale. Inoltre occorre prendere in considerazione altri due fattori. L’attuale rapida e convulsa esportazione dell’arte euro-americana, testimoniato dalla proliferazione di Biennali d’arte in tutto il mondo, presta il fianco alla critica di coloro che la considerano un’operazione di imperialismo culturale. E poi bisogna considerare il fatto che la maggior parte dei criteri per distinguere che cosa è arte ha perso credibilità anche a causa dell’atteggiamento di autodenigrazione che l’avanguardia artistica ha assunto da quasi un secolo e del carattere infantile e inconsistente di molti suoi prodotti. Infine i mezzi di comunicazione, che hanno potenziato in modo esponenziale il capitale di visibilità rispetto a tutti gli altri fattori di apprezzamento, valutazione e di giudizio. Si capisce perciò la ragione per cui molti operatori di questo campo rifiutino di autodefinirsi “artisti” e preferiscano presentarsi come “ricercatori” e “studiosi”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL MUSEO

NELL’ATRIO DEL MUSEO DI ARTE CONTEMPORANEA DI TEHERAN

LA SCULTURA DI CALDER SOVRASTA GLI AYATOLLAH KHOMEINI

E KHAMENEI. SESSANTA OPERE DELLA COLLEZIONE ARRIVERANNO

PRESTO IN EUROPA. A FINE 2016 A BERLINO E ALL’INIZIO DEL 2017

AL MAXXI DI ROMA GRAZIE ALL’ACCORDO SIGLATO DAL PRESIDENTE

DEL MUSEO, GIOVANNA MELANDRI, CON IL DIRETTORE DEL TMOCA

M A R I O P E R N I O L A

Quando la libertàprova a staredentro una cornice

Repubblica Nazionale 2016-01-24

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scenadel

crimine

Per Conan Doyleè stato un maestroDi certo è anche

grazie a questo

funzionario

della polizia

francese

di fine Ottocento

se oggi esiste in tv una seriechiamata “CSI”È da luiche prende avviouna curiosamostra torinese

TORINO

L’UOMO DISTESO sul pavimento, da-vanti a quello che sembra un si-pario, è una prova scientifica e uno spettacolo. È un esperimen-to, un test, e al tempo stesso è pura illusione della realtà, un’il-lusione che aspira a essere obiet-tiva. Una messa in scena che ser-ve alla scienza. E che proprio per risultare utile alla scienza diven-ta una foto. Lo scopo è dimostra-re l’efficacia del sistema di foto-

grafia metrica sviluppato qualche decennio prima. Il corpo simu-la un cadavere. La macchina, montata su un treppiede, scatta.

L’immagine è del 1925. Fa da manifesto e viatico alla mostra Sulla scena del crimine, un percorso in undici tappe su La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni, come spiega il sottotitolo, che si inaugura mercoledì a Torino nella sede di Camera-Centro

italiano per la fotografia (fino all’1 maggio). Sembra una inqua-dratura alla Hitchcock. Fa parte del materiale didattico di Rodol-phe Archibald Reiss, svizzero di origine tedesca, esperto di tecni-che fotografiche, il primo professore di scienze forensi, fondato-re all’Università di Losanna, nel 1909, della prima scuola di poli-zia scientifica. Un pioniere del lavoro investigativo.

La folgorazione gli venne a Parigi, quando seguì uno stage con Alphonse Bertillon, classe 1853, “monsieur l’Identificateur”, il si-gnore dell’Identificazione. Il pioniere più pioniere di tutti, che ha inventato il sistema di fotografia metrica. È lui, come dicono i suoi connazionali, che ha inventato anche la scena del crimine. Impaginandola in una foto. A cavallo fra Otto e Novecento, è sta-to forse il più famoso poliziotto al mondo. Lo riconosce Conan Doyle, che nel Mastino dei Baskerville, il romanzo in cui resuscita Sherlock Holmes, fa dire a un personaggio che monsieur Bertil-lon è il più grande esperto europeo in materia. La materia è l’iden-tificazione dei criminali.

A ventisette anni Bertillon ha ideato l’antropometria giudizia-ria, la scienza che misura il corpo umano per riconoscere l’identi-

tà. In pratica, ha creato la polizia scientifica. Insomma, è il bisnon-no di CSI e dei Ris. Se Gil Grissom e Catherine Willows hanno con-dotto per anni sui nostri schermi le loro indagini e se il Reparto di investigazioni scientifiche dei Carabinieri continua a condurle nella realtà, devono dire grazie a questo impiegato contabile del-la questura di Parigi, promosso capo del servizio fotografico nel 1882.

Nella Francia della Terza Repubblica, Alphonse Bertillon è uno svogliato giovanotto di buona famiglia, poco dedito allo stu-dio. Abbandona l’università e il padre, fondatore e vicepresiden-te della Scuola di antropologia, lo raccomanda per un posto in questura, dove Alphonse entra nel 1879 come contabile. Gli affi-dano la trascrizione dei dati che i poliziotti rilevano durante gli ar-resti. È pignolo. Si accorge delle notevoli approssimazioni con cui si svolge il lavoro, con descrizioni vaghe, imprecise e insufficien-ti. Insiste per avere più particolari, così da poter schedare al me-glio gli indagati. Cerca dei criteri di scientificità per catalogare gli arrestati e classificare i delinquenti abituali. Ci mette metodo e determinazione. Per stabilire l’identità dei delinquenti e colpi-

Monsieur

Bertillon

La storia. Il giallo e il nero

G I A N L U C A F A V E T T O

sulla

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re i recidivi, mette a punto una forma di analisi biometrica attra-verso una serie di misurazioni particolari. Non solo statura e pe-so, come si registrava prima. Individua alcune parti del corpo, la fronte, il cranio, le tempie, l’orecchio destro, il piede sinistro, l’a-vambraccio, il dito medio. Registra misure e compila formulari. Aggiunge due fotografie, una di faccia e una di profilo. Annota eventuali cicatrici, tatuaggi e segni particolari.

In pochi anni il suo ufficio si trasforma nel primo laboratorio di identificazione criminale al mondo. È di un rigore pignolo e osses-sivo. Insegue la perfezione. Per convincere superiori e magistra-ti, predispone il cosiddetto “ritratto parlante”, un documento che contiene una novantina di misurazioni del viso e del corpo. In questo modo si vanta di poter identificare in pochi secondi qual-siasi malvivente ricercato. L’antropometria giudiziaria diventa così non solo una tecnica, ma una filosofia. Il nome è aulico, giuri-dico-scientifico. In Francia la ribattezzano bertillonage. Evoca qualcosa fra la bighelloneria dei flaneurs e il bricolage. In effetti, è un po’ tutte e due le cose. Ma aspira a una scientificità e a una ra-zionalità totali. Così nasce la criminologia. Con puntiglio visiona-

rio e fame di assoluto. Ed è proprio fra visione e assoluto che si snoda la mostra torine-

se. Da Bertillon prende l’avvio e illustra diverse scene del crimi-ne. A cominciare da quella Ur-scena che è la Sindone, il lenzuolo che è il negativo di una foto. E poi, la Grande guerra vista dall’al-to, prima e dopo i bombardamenti; i ritratti delle vittime dei Gu-lag sovietici; i nazisti al processo di Norimberga davanti alle im-magini delle loro vittime; le fosse comuni nel Kurdistan irache-no; le distruzioni di Gaza; il lavoro dei droni nella regione pachi-stana del Waziristan. Volti, corpi, territori, città. Documentati con una immagine che misura le prove e identifica le responsabi-lità.

E a proposito di identificazioni, pochi anni dopo l’invenzione di Bertillon, in soccorso al suo metodo, ma rimediando alle inade-guatezze e agli errori del bertillonage, arrivò la dattiloscopia. Ov-vero lo studio delle impronte digitali. Che sono molto più efficaci per identificare le persone. Bastano i polpastrelli a dire chi sei. E lo dicono anche meglio.

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LO SCATTO

UNA DELLE FOTO DI ODERMATTSCATTATA NEL 1964A OBERDORF E PUBBLICATA IN “KARAMBOLAGE”

Il poliziotto che fotografavagli incidenti stradali

GRAZIE A UNA VOCE GUTTURALE e dissonante, un ciuffo di peli rossicci e un a lesione sagomata, vale a dire una ferita che riproduce l’impronta dell’arto che la inferse, Auguste

Dupin, investigatore gentiluomo, scopre che un duplice orribile delitto è stato commesso non da un rapinatore improvvisato o da un pazzo fuggito dal manicomio, ma da un insospettabile orang-outang. Correva il 1841, e un giovane, tormentato scrittore col vizio della bottiglia di nome Edgar Allan Poe, grazie a un racconto intitolato “I delitti della Rue Morgue”, inventava “CSI”. Ossia: come individuare il colpevole attraverso l’analisi della scena del delitto. L’intuizione di Poe segna il prepotente ingresso nella letteratura poliziesca di quel metodo scientifico destinato a diventare in breve tempo la croce e la delizia di innumerevoli legioni di autori di storie criminali. E, perché no, di tanti bravi solutori professionali di enigmi. Per restare sul piano della finzione, che la scena del delitto parli è un dogma per il giallo classico, che si alimenta della sfida fra due opposte e ugualmente raffinate intelligenze: quella del criminale votato alla realizzazione del delitto perfetto e quella del geniale investigatore sorretto dalla forza della ragione. Una sfida destinata a concludersi, ineluttabilmente, con il trionfo del bene e il ripristino dell’ordine. Perché ciò avvenga, è necessario che tutto sia spiegato e

spiegabile. A partire dal momento genetico del crimine, fissato dalla scena del delitto, disseminata di segni che solo menti acute possono cogliere e interpretare nel modo giusto. In questo senso, Dupin e Kay Scarpetta sono parenti stretti, e lo è pure, a suo modo, l’agente Sterling prima di innamorarsi di Hannibal the Cannibal.

Nel “noir”, invece, l’altra grande famiglia del racconto criminale, la scena del delitto gode di ben diversa considerazione. Da un lato, lo scontro fra le menti raffinate lascia il posto a un groviglio di passioni e tradimenti nel quale non esistono innocenti, e dunque non conta tanto sapere “chi” e “come”, perché la partita si gioca su un altro terreno. Dall’altro, la scena del delitto è spesso il teatro di un doppio o triplo inganno, e viene abilmente manipolata da uno sbirro corrotto o da un delinquente pratico di serie televisive: anche perché, come ha scritto James Patterson, un autore da milioni di copie, “grazie a CSI abbiamo allevato una generazione di assassini molto attenti alla prova scientifica”.

In un certo senso anche un incidente d’auto può essere considerato una scena del crimine, tanto più ora che si torna a parlare del reato di “omicidio stradale”. Lo ha sempre saputo (e ben documentato) Arnold Odermatt, ex poliziotto svizzero, oggi ultra novantenne e ammirato fotografo. Durante i suoi quarant’anni di servizio Odermatt ha immortalato e raccontato con la sua Rolleiflex le scene degli incidenti stradali sulle quali veniva inviato per lavoro. Auto in bilico sull’orlo di un burrone, scontri frontali, mezzi capovolti, macchine finite in acqua, o contro un palo. Gli scatti di Odermatt descrivono l’apparente e momentanea serenità della scena dell’incidente subito dopo il dramma ma prima che entrino in campo le operazioni di soccorso. Le sue foto sono diventate un libro (“Karambolage”) e poi una mostra che ha fatto il giro del mondo, dalla Biennale di Venezia all’Art Istitute di Chicago.

LE IMMAGINI

NELLE FOTO DI RODOLPHE ARCHIBALD REISS, LA MESSINSCENA DIMOSTRATIVA DEL SISTEMA DI FOTOGRAFIA METRICA INVENTATO DA ALPHONSE BERTILLON CON UN CORPO CHE SIMULA IL CADAVERE SULLA SCENA DEL CRIMINE E L’APPARECCHIO IN POSIZIONE. BERTILLON, FONDATORE DELL’ANTROPOMETRIA GIUDIZIARIA,È IL PROGENITORE DELLA RICERCA CONDOTTA SU BASI SCIENTIFICHE CHE HA RIVOLUZIONATO IL MODO IN CUI SI INDAGA

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PRIMA

PAGINA

(1974)BILLY WILDER

C A R L O B O N I N I

TUTTI GLI UOMINI

DEL PRESIDENTE

(1976)ALAN J. PAKULA

SBATTI IL MOSTRO

IN PRIMA PAGINA

(1972)MARCO BELLOCCHIO

QUARTO

POTERE

(1941)ORSON WELLES

PROFESSIONE

REPORTER

(1975) MICHELANGELO ANTONIONI

Un Pulitzer

Walter Robinson. È il giornalismo, bellezza

ROMA

ASETTANT’ANNI, METÀ DEI QUALI al Bo-ston Globe, dove è oggi editor at lar-ge, il premio Pulitzer Walter Robin-son “Robby” ha ancora negli occhi la luce e la febbre del cronista. «Quando

sapemmo che volevano girare Spotlight, ci dicem-mo: ma a chi vuoi che interessi come i giornalisti fanno le loro salsicce? E invece ne è venuto fuori un racconto fedele della nostra inchiesta sulla re-te di preti pedofili della diocesi di Boston. Direi di più. Spotlight spiega la ragione del perché fare il giornalista può dare senso a un’intera vita. Poter un giorno scrivere una storia non per vedere che cosa accadrà dopo che è stata pubblicata. Ma per sapere che, grazie a quella storia, quel che era ac-caduto sin lì non accadrà mai più. Detto questo, il film si è concesso due licenze narrative…».

Quali?«Michael Keaton sembra uscito da un negozio

Brooks Brothers. Io non giravo con le camicie bot-ton down e non ricordo più quando ho indossato l’ultima volta dei pantaloni con la piega. La secon-da: nelle redazioni la democrazia non esiste. Da ca-poredattore di “Spotlight” (nome del team inve-stigativo del Globe, ndr) ho sempre ascoltato le ra-gioni dei miei cronisti. Perché Joseph Pulitzer dice-va: “Nel giornalismo, ogni cronista è una speran-za, ogni editor è una delusione”. I reporter sono macchine progettate per non avere i freni. Perché per quelli ci sono i caporedattori. Ma il mio repor-ter Michael Rezendes non mi ha mai urlato o sbat-tuto la porta in faccia. Perché quando non erava-mo d’accordo, le discussioni con i miei cronisti fini-vano sempre allo stesso modo: “Bene, hai detto quello che dovevi. Ora decido io”».

Tra il 6 gennaio 2002 e l’aprile del 2003, il “Glo-be” pubblicò 600 articoli che gli valsero il Puli-tzer e documentarono l’esistenza di una rete di preti pedofili della diocesi di Boston che, nell’ar-co di quindici anni, aveva visto oltre 150 religio-si abusare migliaia di vittime. L’inchiesta docu-mentò anche come la rete fosse stata coperta dall’arcivescovo di Boston, Bernard F.Law, e co-strinse la Santa Sede a uno storico mea culpa. Perché decideste di imbarcarvi in quel lavoro?«Il merito fu di Martin Baron. Nell’estate del

2001 era appena stato nominato direttore del Glo-be. Il primo nella storia del giornale a non essere scelto tra gli editor della testata. Arrivava dalla Florida ed era stato al New York Times. Un marzia-no. Nel film si lascia intendere che il fatto di essere ebreo lo aiutò a non sentirsi prigioniero della Dio-cesi e della cattolica Boston. Ma la verità è più sem-plice. Baron, che era e resta il miglior direttore che abbia mai avuto la stampa americana (dal 2012 dirige il Washington Post, ndr), guardava Boston con occhi freschi, curiosi. La sua vita era il giornali-smo. Potevi mandargli una mail a mezzanotte o all’alba ed eri sicuro che ti rispondesse dopo un mi-nuto. Ci convinse a riprendere in mano e ad allar-gare l’indagine su un caso di molestie sessuali da parte del reverendo John Geoghan del 1997, di cui si era occupato il Globe nelle sue pagine locali».

Perché?«Gli atti di quella denuncia, che si era chiusa

con una transazione tra il reverendo e le sue vitti-me, erano stati secretati. Per noi di Boston era nor-male che la magistratura coprisse con la riserva-tezza una questione che imbarazzava la Chiesa. Lui ci disse di lavorarci sopra per scoprire la ragio-ne di quella secretazione. E convinse l’editore del Globe a far causa alla Diocesi per chiedere e alla fi-ne ottenere la desecretazione di quegli atti da cui fu evidente che quella rete era stata coperta dall’arcidiocesi per quindici anni».

Nel film, una delle figure chiave è anche Ben Bradlee jr., figlio del Ben Bradlee direttore del

“Washington Post” del caso Watergate. Un se-gno del destino.«Ben era il vicedirettore esecutivo del Globe cui

io rispondevo come capo della redazione inchie-ste. Come il padre, aveva il garbo dell’elefante in una cristalleria e i modi profani di chi ama andare al sodo delle cose. Era capace di telefonare e dire: “Stai scherzando, vero? Mi stai dicendo che ci so-no a Boston novanta preti pedofili del cazzo?”.

“Spotlight” celebra il giornalismo d’inchiesta o è un appello alla sua sopravvivenza?«L’uno e l’altro. Quindici anni fa, al Globe erava-

mo più di cinquecento. Oggi superiamo a stento i

trecento. Le storie che ci chiedono sono di mille pa-role e perdiamo ore e ore incatenati a twitter, face-book, instagram. Perché, ci spiegano, che senza un nostro pensiero o segnalazione in Rete ogni venti minuti non si va avanti. Per carità, il busi-ness è questo. Poi, però, sai che “Spotlight” esiste e resiste dal 1970. Il più antico team investigativo del giornalismo americano. Ebbene, nell’era digi-tale, il giornalismo investigativo resta la sola risor-sa per controllare davvero i poteri pubblici e priva-ti e l’unico che convinca un lettore che tu sia indi-spensabile».

IERI/ IL PADRE

BEN BRADLEE È STATO IL DIRETTORE DEL “WASHINGTON POST”, IL GIORNALECHE NEL 1972 FECE SCOPPIARE LO SCANDALO WATERGATE

{

WALTER ROBINSON

INTERPRETATO DAMICHAEL KEATON

I PRECEDENTI

SACHA PFEIFFER

INTERPRETATA DARACHEL MCADAMS

©RIPRODUZIONE RISERVATA

}

Spettacoli. D’assalto

Un team di quattro giornalisti del “Boston Globe” svela una retedi preti pedofili e costringe la Chiesa a uno storico mea culpa Accadeva tredici anni fa. Oggi quello scandalo è diventato un film

PROTAGONISTI

E

INTERPRETI

Repubblica Nazionale 2016-01-24

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da Oscar

QUINTOPOTERE(1976)

SIDNEY LUMET

IL RAPPORTO PELICAN(1993)

ALAN J. PAKULA

GOOD NIGHT & GOOD LUCK(2005)

GEORGE CLOONEY

PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS(1998)

TERRY GILLIAM

Michael Keaton. Conta la storia, non l’attore

ROMA

«DA BAMBINO RUBAVO il giornale a mia madre, ma confesso: era solo per leggere lo sport». Quaranta film alle spalle (dallo “spiritello porcello” di

Beetlejuice al supereroe Batman per Tim Burton fino al divo in declino nel Birdman di Iñárritu) Mi-chael Keaton oltre che per il cinema la passione per il giornalismo in realtà ce l’ha davvero. «Ricor-do ancora l’odore della carta di giornale e i miei

genitori che commentavano gli articoli. E a vent’anni divoravo i reportage del Rolling Stone, il più tosto tra i magazine per la mia generazione ribelle». Una passione portata al cinema prima con Cronisti d’assalto di Ron Howard, poi con la miniserie Live from Bagdad e ora, soprattutto, con Il caso Spotlight in cui interpreta il giornalista del Boston Globe e premio Pulitzer Walter Robin-son.

Lei ha detto che i giornalisti del “Boston” sono dei veri eroi. E però anche la scelta di portarne la storia sul grande schermo è importante per l’impatto che può avere sulla società, no?

«Guardi, interpretare questo ruolo per me è stata una benedizione, è la quintessenza di ciò che mi rende felice: cambiare le cose attraverso il mestiere che fai, che sia quello del giornalista o dell’attore conta poco. Io non sono importante. Importante è la storia che raccontiamo, ovvero la storia di un gruppo di giornalisti di Boston che di-mostrano che cosa voglia dire far bene il proprio lavoro. Dare il buon esempio, questo è importan-te».

Tanto più quando lo scontro avviene in una co-munità in cui si è pienamente inseriti come ac-cade a Walter Robinson, il giornalista a cui lei presta il volto. «Assolutamente, conosco il problema. Io sono

cresciuto a Pittsburgh, Pennsylvania, una città grande eppure molto provinciale. E anche Boston è così, l’ho imparato lavorando nel film. È il tipo di mentalità che ti fa pensare che chi arriva da fuori non sappia e non possa capire. La mia scena prefe-rita è quando Robby incontra il nuovo direttore del Globe, Martin Baron, interpretato da Liev Schreiber, e pensa che questo tizio appena arriva-to non possa capirci un accidenti di nulla. Ma ha l’intelligenza e l’abilità sottile di andare oltre i pregiudizi. E di ascoltare».

Nel 1976, quarant’anni fa, uscirono al cinema due film-culto sul mondo del giornalismo: “ Tut-ti gli uomini del presidente”, sullo scandalo Watergate, e “Quinto potere”, sulla crudeltà dei network. Oggi secondo lei a che punto sia-mo? «Sempre più verso Quinto potere, purtroppo.

Le news sono gestite dalle aziende, e questo è un semplice fatto. Tutti i grandi network continua-no a occuparsi delle uscite di Donald Trump e, beh, penso che se venisse eletto avrebbero la loro bella fetta di responsabilità. Come pure quei ta-bloid che vanno avanti a strillare titoloni. È anche che la gente vuole cose facili, ed è pigra. Per fortu-na però giornali e siti che ancora cercano la verità ci sono, e il nostro film sta lì a dimostrarlo».

Lei viene da una famiglia molto cattolica, ha fatto il chierichetto come del resto anche i suoi sei fratelli. Come hanno reagito vedendo un film in cui la Chiesa viene messa sotto accusa?«Pensano che sia stato un film necessario.

Quanto a mia madre, era una donna che andava a messa tutti i santi giorni ma mi piace pensare che anche lei avrebbe capito. Per me la parte più dura del film è quando Sacha Pfeiffer, la giornalista in-terpretata da Rachel McAdams, deve spiegare quello che sta scoprendo a sua nonna: è una scena che mi ha strappato il cuore. Sono state molte per-sone che dopo lo scandalo pedofilia si sono allonta-nate dalla Chiesa, sa?».

Lei, da cattolico, ha detto di ammirare molto papa Francesco. Che però, la informo, qui in Italia ha appena frenato su una cosa che molto alla lontana potrebbe ricordare il matrimonio tra gay. «Gli irlandesi sono cattolici, eppure loro i matri-

moni tra gay li hanno legalizzati, no? Quanto a Francesco sì, sono un suo grande fan. Credo stia spingendo un macigno tutto in salita. Lo ammiro per quel che dice sull’economia globale, per l’at-tenzione che mette nei confronti dei poveri. Quando ha detto “Chi sono io per giudicare?” è stato davvero grande. Certo, è facile dire che do-vrebbe fare di più. Ma è alla guida di una vecchia e potente istituzione, e nessuno prima di lui ave-va fatto tanto. Io ho incontrato Giovanni Paolo II, volevo che benedicesse mia madre — e lo ha fat-to. Seguo anche il Dalai Lama. Ma nessuno è co-me Francesco: quando è venuto negli Stati Uniti ero entusiasta per ciò che ha detto sulla pedofilia. Ho letto l’ammirazione di Obama, quando era con lui. Sarebbe bello, sarebbe davvero bello se vedesse il nostro film».

MATT CARROLLINTERPRETATO DA

BRIAN D’ARCY JAMES

MIKE REZENDES INTERPRETATO DA

MARK RUFFALO

MARTY BARON INTERPRETATO DA

LIEV SCHREIBER

OGGI/ IL FIGLIOBEN BRADLEE JR.

AL “GLOBE” ERA

VICEDIRETTORE

RESPONSABILE

DEL TEAM

“SPOTLIGHT”

CHE NEL 2003

HA VINTO

IL PULITZER

A R I A N N A F I N O S

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INSIDER - DIETRO LA VERITÀ(1999)

MICHAEL MANN

Si intitola “Il caso Spotlight” e ha appena ricevuto sei nomination

In attesa di vederlo in sala (dal 18 febbraio) abbiamo incontrato

uno dei protagonisti e chi lo ha interpretato sul grande schermo

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LONDRACCENDI LA LUCE IN SALOTTO E SCARICHI un film ad alta risoluzione in pochi secondi. Poi vai in cucina, prepari la cena e per pubblicare su Instagram una foto del tuo piatto da ma-ster chef basta premere l’interruttore della lampada nell’angolo. Ecco che cos’è il Li-Fi: è la possibilità di accedere al web e di trasfe-rire dati tra dispositivi usando la luce di una lampadina led al posto delle onde radio del Wi-Fi. Con una velocità che, almeno questa è la promessa, potrà essere fino a cento vol-te maggiore rispetto a una normale connes-sione wireless.

Harald Haas, professore di Mobile Com-munication presso l’Università di Edimbur-go, con l’entusiasmo di chi è davvero con-vinto di poter cambiare il mondo, a Repub-blica la spiega così: «Presto la luce divente-rà digitale: ogni lampadina potrà permet-terci di navigare sul web a casa o in ufficio, a velocità nettamente superiori rispetto a quelle attuali, e in totale sicurezza». Dopo una vita passata in Siemens, Haas ha intra-preso la carriera universitaria studiando so-luzioni alternative alle onde radio per la pro-pagazione dei dati. Il risultato dei suoi studi

è appunti il Li-Fi, ovvero “Light Fidelity”, termine da lui stesso coniato durante la pri-ma presentazione al pubblico delle sue sco-perte quasi cinque anni fa. Da allora il Li-Fi ha fatto passi da gigante. Nel febbraio dell’anno scorso alcuni ricercatori dell’Uni-versità di Oxford hanno raggiunto in un te-st di laboratorio la velocità di 224 Gigabit al secondo. Significa, più o meno, poter scari-care diciotto film da 1,5 Gb l’uno in un se-condo esatto. Lo scorso novembre, in Esto-nia, c’è stata la prima applicazione commer-ciale della tecnologia. La startup Velmenni ha testato con successo una lampada led in alcuni uffici di Tallinn, raggiungendo veloci-

tà di circa un Gigabit al secondo. «Siamo so-lo agli inizi», ha dichiarato Deepak Solanki, l’amministratore delegato della compa-gnia estone, «ma abbiamo già siglato alcu-ni contratti per portare il Li-Fi in diverse aziende nel corso dell’anno».

Come funziona ce lo racconta il professor Haas: «Semplificando molto, il Li-Fi funzio-na sfruttando lo spettro elettromagnetico della luce. I led sono capaci di funzionare a diverse frequenze, alcune delle quali imper-cettibili all’occhio umano. I dati arrivano a un dispositivo che converte il segnale per il Li-Fi, modulando l’intensità della luce e dan-do ai dati una forma elettrica. Il tutto viene

inviato alle lampadine, che a loro volta lo trasmettono ai dispositivi come smartpho-ne o computer portatili che devono essere dotati di un chip che decodifica il segnale e lo riporta alla sua forma originaria». Appa-rentemente tutto molto semplice e soprat-tutto economico da produrre. Ma i vantag-gi, sempre secondo Haas, sono anche altri. Il Wi-Fi, ad esempio, sfrutta le onde radio ma le frequenze disponibili sono ormai limi-tate, insufficienti per il nostro fabbisogno: «Immaginate di avere cento persone che vo-gliono fare il bagno dentro una piscina. Ac-canto però, a poche decine di metri di di-stanza, c’è un intero oceano totalmente li-

LA NASCITA

IL PROFESSORE HARALD HAAS CONIA IL TERMINE LI-FI MENTRE RACCONTA I SUOI ESPERIMENTI ALLA PLATEA DEL TED GLOBAL Le tappe

Li-Fi una connessione

Luglio

2011

S E R G I O P E N N A C C H I N I

Il professor Harald Haas,

università di Edimburgo,

ha inventato un sistema

davvero rivoluzionario

per collegarsi a internet

con le lampadine al led

e con una potenza

cento volte superiore

a quella attuale

“Ha un solo difetto”, ci dice

“non contateci

quando fate jogging”

Settembre

2013

Next. Fiat lux

Scaricare diciotto film in un secondo?

L’AZIENDA

HAAS INSIEME AD ALTRI FONDA LA VLC LIMITED. SI TRATTA DELLA PRIMA AZIENDA DEDITA ALLO SVILUPPO DEL LI-FI

A

VELOCITÀ224 GIGABIT AL SECONDO RAGGIUNTI PRESSO L’UNIVERSITÀ DI OXFORD. MA CON IL LASER, IL LI-FI POTREBBE ARRIVARE A VELOCITÀ MOLTO SUPERIORI

Gennaio

2012

FREQUENZEFINO A 30 PETAHERTZ. SIGNIFICA ALL’INCIRCA CHE LO SPETTRO DELLA LUCE È 10.000 VOLTE PIÙ GRANDE DI QUELLO DELLE ONDE RADIO USATE DAL WI-FI

IL PRODOTTO

NASCE IL LI-1ST, PRIMO PRODOTTO CHE RIESCE A RAGGIUNGERE FINO A 10 MEGABIT AL SECONDO

SALUTELA LUCE DELLE LAMPADE LED È ASSOLUTAMENTE SICURA PER IL NOSTRO ORGANISMO E NON CI SONO CONTROINDICAZIONI NELL’UTILIZZO, ANCHE PROLUNGATO

DISTANZAIL RAGGIO D’AZIONE È LIMITATO E CONCENTRATO IN UNA ZONA SPECIFICA, QUELLA ILLUMINATA DALLA LAMPADA LED. IL LASER POTRÀ AUMENTARLA

SICUREZZALA LUCE NON PUÒ OLTREPASSARE PORTE E MURI, QUINDI IL SEGNALE RIMANE CONFINATO DENTRO UNA ZONA PRECISA, PIÙ PROTETTO DA INTRUSIONI ESTERNE

A confronto

Repubblica Nazionale 2016-01-24

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bero. Ecco, questa è la differenza tra WiFi e LiFi», continua Haas. E questo perché lo spettro della luce visibile è circa diecimila volte più ampio rispetto alle onde radio. Il che vuol dire avere a disposizione più fre-quenze per trasmettere i dati, con meno possibilità di interferenze o intasamento del traffico rispetto al Wi-Fi: «Si potrà, per esempio, usare sugli aeroplani senza il ri-schio di interferenze con i sistemi di bordo. Inoltre, sfruttando la luce, la trasmissione è istantanea e la qualità della connessione non diminuisce in base ai dispositivi o agli utenti collegati. Mentre a volte connettersi a una rete Wi-Fi è come far entrare venti

persone dalla porta di un autobus». Insom-ma il Li-Fi, sempre secondo il suo “creato-re”, sembrerebbe veloce e affidabile. Ma è anche sicuro? Parrebbe proprio di sì. Intan-to dal punto di vista della salute: la luce, an-che quella artificiale dei led, non ha effetti nocivi sull’uomo mentre da anni si dibatte sull’effetto che le onde radio possono avere sul nostro corpo. E poi anche dal punto di vi-sta della privacy: perché la luce non può pas-sare attraverso i muri o le porte e, di conse-guenza, non può essere intercettata né da cyber criminali né da vicini di casa troppo curiosi. «Per questo credo che, soprattutto all’inizio, la diffusione riguarderà principal-

mente uffici e aziende», spiega ancora Haas. Quanto ci vorrà? «Non molto, perché il Li-Fi non nasce per sostituire il Wi-Fi ma per affiancarlo. Quindi sfrutterà la stessa in-frastruttura e, tramite un algoritmo che stiamo sviluppando, un dispositivo potrà passare dalle onde radio alla luce in tempo reale, senza perdere dati e senza che ve ne accorgiate. Entro il 2018 vedremo le prime soluzioni pensate per i consumatori».

Tutto perfetto, dunque. Se davvero è co-sì, però, è legittimo anche chiedersi perché il Li-Fi non sia già stato adottato da grandi aziende come Google o Ericsson. «Ma sem-plicemente perché i colossi delle comunica-zioni hanno speso decine di miliardi di dolla-ri per acquistare le frequenze del Wi-Fi, è ov-vio che ora vogliono monetizzare il più pos-sibile. Ma non ho dubbi sul fatto che la quan-tità di frequenze disponibili non sia più suf-ficiente e che il futuro del web sia il Li-fi. Ciò detto — conclude Haas — non è neppure esatto dire che sia una tecnologia priva di di-fetti. Non può funzionare, ad esempio, men-tre fate jogging in un parco, oppure in gran-di spazi aperti. Per tutte queste situazioni il Wi-Fi continuerà a essere la soluzione mi-gliore».

Dicembre

2014

IL LIFI-X

È UNA CHIAVETTA USB CHE PERMETTE A QUALSIASI COMPUTER DI RICEVERE I DATI VIA CONNESSIONE LI-FI

alla velocità della luce

LA DIMOSTRAZIONE

AL TED 2015, HAAS UTILIZZA DELLE CELLE SOLARI, LE STESSE CHE SI TROVANO NEI PANNELLI FOTOVOLTAICI

IL CREATOREHARALD HAAS, 46 ANNI, È PROFESSORE PRESSO L’UNIVERSITÀDI EDIMBURGO

NASCE LI-FLAME

SISTEMA DI LAMPADE PER CONNESSIONI A 10 MBIT AL SECONDO SIA IN DOWNLOAD CHE IN UPLOAD

IL NUOVO NOME

VLC (VISIBLE LIGHT COMMUNICATION) LIMITED CAMBIA IL NOME IN PURE LI-FI (“LIGHT FIDELITY”)

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Gennaio

2014

SE È DAVVERO COSÌ FANTASTICO PERCHÉ I COLOSSI

COME GOOGLE O ERICSSON NON LO HANNO ANCORA ADOTTATO? PERCHÉ HANNO SPESO DECINE DI MILIARDI DI DOLLARI PER COMPRARE FREQUENZE WI-FIMA NON HO ALCUN DUBBIOCHE IL FUTURO SIA QUESTO

Sì, presto sarà possibile. Ma anche grazie al caro vecchio wi-fi

Novembre

2015

VELOCITÀPOCO PIÙ DI 100 GIGABIT AL SECONDO IN UNA PROVA IN GERMANIA, OVVERO QUANTO BASTA PER SCARICARE UN INTERO FILM IN BLU-RAY IN UN PAIO DI SECONDI

FREQUENZEMASSIMA: 300 GIGAHERTZ PERCHÉ LO SPETTRO DELLE ONDE RADIO, INCLUDENDO ANCHE LE MICROONDEÈ INEVITABILMENTE LIMITATO

SALUTEL’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ HA ESCLUSO CHE IL WI-FI SIA DANNOSO PER L’UOMO, MA IL DIBATTITO È ANCORA APERTO E C’È CHI LO HA BANDITO DALLE SCUOLE

DISTANZA LE ANTENNE PIÙ POTENTI POSSONO ARRIVARE A COPRIRE OLTRE TRENTA CHILOMETRI. LE ONDE RADIO INOLTRE SONO MENO CONDIZIONATE DA EVENTUALI OSTACOLI

SICUREZZAIL SEGNALE PUÒ OLTREPASSARE FINESTRE, MURI E ALTRI OSTACOLI, MA, PER QUESTO, PUÒ ESSERE OGGETTO DI PIRATERIA INFORMATICA

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Dicembre

2015

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Repubblica Nazionale 2016-01-24

la RepubblicaDOMENICA 24 GENNAIO 2016 36LADOMENICA

SAN CASSIANO (BOLZANO)

“ESSERE CUOCO VUOL DIRE ESPRIMERE al meglio ciò che si vuole essere, dare felicità, regalare sorri-si. Ai clienti, certo, ma anche a chi lavora con noi. Tra tante discussioni su chi è meglio di chi, questa sì, sarebbe una classifica interessante, una classifica che contempli l’etica, e non solo l’estetica”. Le parole sono pietre in bocca al francese Michel Bras, grandissimo vecchio del-la cucina mondiale. Perché a forza di inventare ricette sempre più spettacolari, il rischio è quel-lo di scambiare sostanza con forma e, sotto il ve-stito del piatto, poco o niente. Il cuoco che ha

messo agli onori del mondo piatti memorabili come il gargouillou di primizie — il più celebre piat-to di verdure della ristorazione mondiale, datato 1978 — e il tortino di cioccolato coulant (l’aves-se brevettato, sarebbe miliardario), è il simbolo ante litteram dell’alta cucina etica, che tra con-cetti coraggiosi e marketing ruffiano sta dilagando ovunque.

Nell’era di Slow Food, l’ideale di gastronomia “buona, pulita e giusta” ha guadagnato alla cau-sa soprattutto locali sotto la soglia della stella Michelin, come se la cucina d’autore non potesse permettersi di incrinare la perfezione delle proprie performance in nome della coscienza ecosocia-

Merluzzo, cipolla e limone bruciato Pesce marinato con bianco d’uovo e soia e spadellato. Brodo di cipolle di Montoro caramellate con burro e miele, cotte lentamente in acqua, poi filtrate. Bucce di agrumi essiccate, polverizzate, mescolate con ginepro e pepe verde. Baccalà mantecato e foglia di broccolo romano

Minestra di finto pesceNell’extravergine, aglio rosso di Nubia affettato, scottato con gambi di prezzemolo a rondelline, pomodoro pelato e peperoncino. Dentro gli spaghettoni spezzati. Cottura risottata con acqua, prezzemolo, aglio, sedano e quando bolle uova frullate Alla fine, mandorle tritate

Germano, bollito e lepreCarne d’anatra arrotolata intorno a una farcitura di bollito di quinto quarto. Servita con una salsa ricavata da sangue e interiora della lepre, riduzioni di verdure di stagione e chawanmushi, crema giapponese al vapore ottenuta con gli scarti delle verdure, bianco d’uovo e ristretto di carne

Tapioca, coda di bue e radiciCarne di animale allevato in modo naturale rosolata in extravergine e cotta quattro ore a fuoco basso con carote, porri, aglio e cipolle, poi disossata, il sugo filtrato, le verdure messe da parte. Nel piatto, la tapioca cotta insieme a foglie di crescione, radici colorate invernali tagliate sottili e il sugo ridotto

L I C I A G R A N E L L O

Finta carbonara con rosa di GoriziaDitalini bolliti a mezza cottura, da finire in padella dentro una salsa di cipolla e pancetta soffritte, sfumate con vino bianco e frullate. Nel piatto, crema di formaggio Latteriafresco e stagionato sciolti a fuoco a basso, fagioli Borlotti, uovo sodo sbriciolato, ciccioli disidratati e radicchio

L’etica dello chef.Un’altra cucina (d’autore)è possibile

La ricerca

Secondo uno studio dell’Università di Cambridge, l’adozione del modello giapponese di recupero degli scarti alimentari - oltre 100 milioni di tonnellate ogni anno in Europa - in mangimi per maiali, può far dimezzare gli attuali costi di produzione e ridurre il consumo di terra agricola di quasi due milioni di ettari

10 cuochi&ricette

Pino CuttaiaLa MadiaLicata (Ag)

Massimo BotturaOsteria Francescana Modena

Tomaz KavcicPri LojzetuVipava (Slovenia)

Rafa Costa e SilvaLasai RestaurantRio de Janeiro

Sapori. Buoni e giusti

Anthony GenoveseIl Pagliaccio Roma

Repubblica Nazionale 2016-01-24

la RepubblicaDOMENICA 24 GENNAIO 2016 37

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le. Non a caso, il progetto “Cuochi dell’alleanza”, nato per raggrumare i grandi nomi della cucina italiana intorno ai comandamenti di Slow Food, sopravvive grazie all’orgoglio di appartenenza di pochi, tenacissimi affiliati. Così, quando i concetti green&sustainable sono diventati di moda, l’adesione si è tradotta in orti-giardino a portata di vista dei clienti. Peccato che spesso la produ-zione sia in numeri risibili e supportata assai dalla chimica. Però suona benissimo raccontarlo.

In realtà, la cucina etica è molto altro, e gli esempi illustri non mancano. L’americano Dan Bar-ber usa solo foie gras dell’azienda spagnola Sousa, nella campagna dell’Extremadura, tappa mi-gratoria dove le oche si fermano per supernutrirsi prima di affrontare il viaggio. Jock Zonfrillo ha lasciato la cucina tristellata di Marc Pierre White per andare a scoprire i segreti della cucina abo-rigena: nel suo ristorante di Adelaide serve il novanta per cento di vegetali nativi, ma anche un’incredibile piatto di crostacei avvolti in una sfoglia di madre dell’aceto di vino, che il nonno italiano gli ha insegnato a produrre (e a mangiare!) nella casa di Scauri, Campania. In Italia, Mas-simo Bottura — tre stelle Michelin, ma anche un delizioso bistrò dove pratica l’economia gastro-nomica di scala — sta per ripetere l’esperienza straordinaria del Refettorio Ambrosiano nella pe-riferia torinese, e poi a New York (nel Bronx) e in un favela di Rio de Janeiro in concomitanza con le Olimpiadi, mentre il menù del ristorante stellato Stüa di Michil a Corvara è costellato di piatti la cui scelta supporta progetti di alfabetizzazione in Tibet e Uganda.

Sarà l’aria pura delle Dolomiti ad aver indotto Norbert Niederkofler, due stelle nella confinan-te San Cassiano, a organizzare questa settimana il numero zero di “Care’s — The ethical chefs days”. Sotto lo sguardo di Michel Bras, trenta super cuochi di tutto il mondo hanno annunciato che un’altra cucina d’autore è possibile. Anche senza l’orto perfettino nel cortile del ristorante.

CervoCarne cruda tagliataa coltello in tartare, gelatina di brodo realizzato con una lunga e lenta cottura in acqua degli ossi grigliati, puré leggera di castagne, la buccia dei topinambur spadellata, essiccata e grattugiata. A completare il piatto, spolverata di noci in lamelle sottili

Cozze, sidro e cipolleMolluschi fatti scaltrire rapidamente con il sidro, tolti dalla conchiglia, marinati in un brodo filtrato, realizzato con erbe aromatiche — scalogno, citronella, aglio, timo — vino bianco e acciughe pestate. Da servire con crema di cipolle, succo di aneto (sbollentato e filtrato) e gelatina di sidro

Rosa di GoriziaDal padre italiano, l’amore per le verdure: il radicchio crudo leggermente condito con una salsa a base di latte di nocciole e prugna australiana fermentate insieme. Per profumare senza coprire, un mix di pepi ed erbe native messi in infusione e filtrati, il liquido cosparso come uno spray

Verdure di terraRape gialle, rosse, di Chioggia, sedano rapa e carote: tutto tagliato a rondelle, riposto singolarmente sotto vuoto, cotto al vapore otto minuti a 90°, raffreddando poi in acqua e ghiaccio. Servire con mascarpone fatto in casa — latte, panna, acido citrico — e cialde di amaranto (bollito, essiccato, fritto)

Agnello, pane e formaggioCarne marinata nelle erbe, spadellata, spolverata di pan carré grattugiato, spennellata d’uovo sbattuto, avvolta nel Canestrato pugliese sbriciolato e infornata. A parte crema di scorzanera aglio rosso sbianchito e fritto in chips, patate al cartoccio e fettine di barbabietole sott’olio

Norbert NiederkoflerSt. HubertusSan Cassiano (Bz)

NON CI SONO SOLO QUELLI CHE COLTIVANO

L’ORTO DIRETTAMENTE NEL CORTILE

DEL RISTORANTE GIUSTO PER FARE UN PO’ DI SCENA

PER FORTUNA CI SONO ANCHE GRANDI CUOCHI CHE IN TUTTO IL MONDO

HANNO COMINCIATO A REALIZZARE PIATTI

DAVVERO “GREEN” E VERAMENTE “SOSTENIBILI”

DA NIEDERKOFLER A BOTTURA SI SONO RITROVATI

IN QUESTI GIORNI SULLE DOLOMITI.

ECCO PER CUCINARE CHE COSA

Pino LavarraTosca del Ritz CarltonHong Kong

NEW YORK

L’INTELLIGHENZIA

newyorchese lo aveva già adottato da tempo, il grande pubblico lo ha scoperto il 30

maggio 2009, quando — senza troppe fanfare — Barack e Michelle Obama si misero a sedere in uno dei tavoli al numero 75 di Washington Place. Per il Blue Hill (che aveva aperto i battenti nel 2000) e per il suo proprietario Dan Barber fu, ovviamente, una bella pubblicità gratuita. Ma presidente a tavola o meno, il destino (di successo) del ristorante nel West Village e del suo gemello a Stone Barns (quaranta chilometri a nord della Grande Mela) era segnato. Perché Dan Barber — e con lui il fratello David e la cognata Laureen — non sono soltanto il perfetto esempio della cucina “farm-to-table”, ma sono soprattutto i campioni di una cultura del cibo etico e sostenibile che ha pochi paragoni.

Cuoco pluripremiato lungo tutto il primo decennio del nuovo secolo (Top Chef in America 2009 per la James Beard Foundation), Dan Barber è uno di quei visionari che probabilmente avrebbero fatto bene qualsiasi tipo di lavoro. L’azienda agricola aperta vicino al Blue Hill di Stone Barns è nel suo campo un piccolo gioiello, con le sue colture miste e le tecniche biologiche innovative che permettono alla terra di rivivere a ciclo continuo. È da lì, dai prodotti coltivati allo Stone Barns Center for Food and Agriculture (un centro polifunzionale che pone al centro di tutto l’educazione alimentare), che arrivano i piatti per chi si mette in lista d’attesa per un’esperienza (non solo culinaria) davvero unica.

Eccoli lì, dalle verdure più nobili alle radici più rare, dal maiale (allevato a Stone Barns) alla carne di cervo, dalle uova fresche ai dolci con i cranberries. Con prezzi che variano dagli 80 dollari di un pasto nel Village ai 200 per il Blue Hill in campagna (con annessa visita alla fattoria). La sua filosofia — ciò che mangiamo influisce non solo sulla salute, ma sull’ambiente che ci circonda e anche sulla nostra cultura — lo ha fatto diventare una sorta di guru (scrive editoriali per il “New York Times”, saggi su riviste letterarie, è invitato a conferenza in ogni angolo degli States, il suo libro “Il Terzo Piatto” è un best-seller) e anche un giornale più compassato come il “Wall Street Journal” si è sbilanciato: “È una fonte profonda di entusiasmo e di intelletto”.

Dan Barber,il farm-to-tablepreferitodagli Obama

James LoweLyle’s Restaurant Londra

Jock ZonfrilloOrana Restaurant Adelaide (Australia)

Vladimir MukhinWhite RabbitMosca

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A L B E R T O F L O R E S D ’ A R C A I S

Repubblica Nazionale 2016-01-24

la RepubblicaDOMENICA 24 GENNAIO 2016 38LADOMENICA

TIRANA

ÈUN INVERNO MITE ANCHE A TIRANA. La città, ormai sempre più metro-poli, vive una tranquilla domenica. I ragazzi passeggiano all’om-bra della statua di Scanderbeg che domina l’omonima piazza, altri ne approfittano per immergersi nella quiete del Grande Parco, un’oasi di pace a pochi passi dagli imponenti edifici di epoca fasci-

sta. Ismail Kadare ci riceve allo Juvenilia, caffè brulicante di gente immerso nel verde. Come sempre è assorto nei suoi pensieri. Da La città di pietra (1971) a Aprile spezzato (1978) fino a La piramide (1995), la sua è stata una lunga car-riera costellata di successi che gli è valsa numerosi e prestigiosi riconoscimen-ti. L’ultimo in Israele, il Premio Gerusalemme, in passato andato a scrittori del calibro di Arthur Miller, Milan Kundera o Ian McEwan. Alle soglie degli ot-tant’anni (li compirà giovedì) la sua vena letteraria non si è esaurita, così come la voglia di raccontare le tante vicende che lo hanno visto protagonista.

«Il mio primo libricino lo scrissi che avevo undici anni. All’epoca pensavo che, dopo aver letto Macbeth, avrei avuto il pieno diritto di cambiarlo e di riscri-verlo» e ricorda con una punta di nostalgia quanto Shakespeare e Dante abbia-no influenzato la sua formazione (a loro ha dedicato anche dei saggi come Am-leto, il principe difficile e Dante, l’inevitabile). «Ma la mia prima vera opera è il racconto La terra sconosciuta, la storia di un ragazzo che torna in Albania dall’America e non riconosce più il suo Paese». La vita di Kadare, co-sì come la sua attività di scrittore, è stata condizionata dai grandi

eventi della storia. Prima il periodo del regime di Enver Hox-ha, poi il crollo del comunismo e quindi la difficile transizione. «In Albania è importante chiarire sempre se un’opera è stata scritta e pubblicata prima o dopo la caduta del regime. Ci so-no degli scrittori che cambiano le date. Per questo è sempre molto importante analizzare il manoscritto». Lo sottolinea più volte: «Per noi scrittori che abbiamo vissuto in due epo-che le date hanno un’importanza tutta particolare».

La vita di uno scrittore ai tempi del regime comunista era tutt’altro che semplice. Anche per un letterato affermato co-me Kadare. La memoria corre indietro nel tempo, gli aned-doti non mancano. Come quando scrisse Il crepuscolo degli dei della steppa, racconto incentrato sul caso di Boris Pa-sternak, il premio Nobel, autore de Il dottor Zivago, forte-

mente osteggiato dal regime sovietico. «Lo iniziai a scrivere proprio quando tor-nai a Tirana dopo gli anni di studio a Mosca». Kadare si era trasferito nella capi-tale sovietica alla fine degli anni Cinquanta per studiare all’Istituto Gorkij. «Fu giusto tre settimane dopo essere arrivato a Mosca, nel settembre del 1958, che scoppiò lo scandalo Pasternak. Io stavo con gli studenti “progressisti”, contro lo scrittore russo. Ricordo ancora le lacrime della figlia della sua amante, Olga Ivinskaja, quando gli studenti gridavano “morte a Pasternak!”». Tornato a Tira-na, Kadare si mise subito a scrivere ma per anni l’opera restò fra le sue carte. Troppo alto il rischio di scatenare le ire del regime di Hoxha. Poi arrivò l’occasio-ne propizia: la rottura tra Mosca e Tirana e l’opportunità di inserirsi nelle con-traddizioni del regime, che aveva spezzato il legame con il suo storico alleato ma allo stesso tempo conservava una rigida disciplina stalinista. «In realtà il mio era un tentativo di tornare a Mosca con la forza della letteratura. Ma ovvia-mente era molto pericoloso. Di certo non potevo lodare apertamente Paster-nak, ma nel mio racconto la sua figura emergeva come vincente, simpatica, mentre lo Stato sovietico era il cattivo della situazione». La pubblicazione in Al-bania avvenne solo nel 1976 (poi il libro venne tradotto in venti lingue, italiano compreso)e il racconto uscì insieme ad altre due novelle, Il ponte a tre archi e La nicchia della vergogna, «affinché non desse troppo nell’occhio». L’obiettivo fu raggiunto: in patria nessuno ebbe da obiettare, la stampa albanese tacque: «Fu un vero paradosso: il mio paese diventava così il primo nel campo socialista in cui il caso veniva trattato senza nervosismi, mentre le assicuro che se Paster-nak fosse stato in Albania sarebbe stato fucilato». Ironia della sorte fu un artico-lo pubblicato in Italia nel 1983 («uno degli anni più bui della dittatura», ricorda Kadare) a riaccendere l’attenzione sul libro. «Qualcuno inviò l’articolo in Alba-nia. Il giornalista scriveva apertamente che Kadare, approfittando della rottu-ra dei rapporti tra Mosca e Tirana, si scagliava apparentemente contro l’Unio-ne Sovietica ma, in realtà, i suoi strali erano diretti contro lo Stato socialista al-banese. Alcuni ministri si allarmarono e io ero molto, molto spaventato. Ma per fortuna Enver Hoxha, malato, ormai non leggeva più e non disse nulla. Così non accadde niente».

C’era stato un altro avvenimento in precedenza che aveva reso Kadare un au-tore di fama mondiale. Fu nel 1970, quando lo scrittore di Argirocastro giunse per la prima volta a Parigi. Dopo il grandissimo successo de Il generale dell’ar-mata morta (1963), in Albania iniziarono a rincorrersi voci secondo cui Kada-re era stato invitato a Parigi ma il regime gli aveva impedito di partire. Erano so-lo voci ma tutti cominciarono a crederci. Kadare compreso. «Un giorno fui con-vocato dal Comitato centrale del Partito comunista. Mi dissero: “Compagno Ka-dare, dato che il nemico dice ovunque che a te è stato impedito di andare a Pari-gi, il Partito ti dà il permesso di andare”». Così lo scrittore partì ma senza aver mai visto il fantomatico invito. Ma fu all’aeroporto di Parigi che la situazione di-venne quasi grottesca: «Lì incontrai l’ambasciatore francese in Albania. Mi chiese se poteva vedere l’invito, io gli risposi che non l’avevo». Il diplomatico gli riferì che la casa editrice negava di averlo mai invitato. «L’ambasciatore, preoc-cupato per le conseguenze che avrebbe potuto subire, mi chiese quindi di non parlare a nessuno di questa storia. Me ne restai a Parigi per tre settimane e alla

fine capii: effettivamente nessuno mi aveva invitato, tutto era stato frutto di ru-mors. Puro surrealismo». Non furono tre settimane sprecate. In quegli stessi giorni l’ambasciatore organizzò a Parigi un pranzo con l’editore Hachette per pubblicare le opere di Enver Hoxha in Francia. E per giustificare la presenza di Kadare nella capitale francese lo invitò. Quel pranzo segnò una svolta. «L’edito-re — racconta oggi lo scrittore albanese — mi chiese: “Allora, signor Kadare, quando pensate di pubblicare il prossimo romanzo?”. Gli dissi la verità: “Il mio editore francese mi ha comunicato che non vuole più pubblicare le mie ope-re”».Nonostante il successo del primo romanzo, infatti, Albin Michel si era tira-to indietro. Il responsabile dell’Hachette rimase stupito, incredulo. «Si rivolse a me come se stesse parlando a un pazzo. E mi disse con molta prudenza: si-gnor Kadare, potete dare a me il manoscritto di questo nuovo romanzo? Per

puro caso avevo in albergo il manoscritto de La città di pietra ri-fiutato da Albin Michel. E fu così che cambiai editore. Pensi

che ancora oggi per me resta un mistero il motivo che spin-se la mia prima casa editrice a non pubblicare più i miei li-

bri. Anni dopo, nelle cene parigine, mi è capitato spes-so di incontrare il proprietario di Albin Michel. Una

volta mi ha detto: “Monsieur Kadare, per me siete un’occasione mancata. Ma non posso dirle perché non abbiamo voluto più pubblicarla”».

Parigi resta comunque la sua seconda casa, la cit-tà che lo ha accolto quando nel 1990 scelse la via

dell’esilio volontario, mentre la Francia è il paese che lo ha appena insignito del titolo di Commendatore del-

la Legione d’Onore. Parlandone il pensiero va immedia-to alla strage del Bataclan, e il volto di Kadare per un mo-mento si contrae. Mormora appena: «È il pegno che paga la Francia per la sua grande, grandissima tolleranza».

(Ha collaborato Liljana Maksuti)

Il primo libro lo scrisse che aveva appena undici anni: “A quell’epo-

ca pensavo che dopo aver letto “Macbeth” avrei avuto il diritto di

cambiarlo e di riscriverlo”. Anche ora che sta per compierne ottan-

ta non ha esaurito la voglia di raccontare. Seduto in un caffé di Ti-

rana ripercorre così le tappe di una vita scandita dai grandi eventi

della storia: la dittatura di Hoxha, il crollo del comunismo, la diffi-

cile transizione. “Da noi, in Albania, è fondamentale chiarire sem-

pre se un romanzo è stato pub-

blicato prima oppure dopo la ca-

duta del regime. Per chi, come

me, ha vissuto in due epoche le

date hanno un’importanza tut-

ta particolare”

INIZIARONO A GIRARE VOCI SECONDO CUI ERO STATO INVITATO IN FRANCIA MA IL PARTITO NON VOLEVA CHE ANDASSI. PER DIMOSTRARE CHE NON ERA VERO MI FECERO PARTIRE. PECCATO CHE NESSUNO MI AVESSE DAVVERO INVITATO. FU PURO SURREALISMO

Ismail

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A MOSCA SCOPPIÒ LO SCANDALO

PASTERNAKE NOI STUDENTI

“PROGRESSISTI” ERAVAMO CONTRO

LO SCRITTORE. MA POI NEL MIO

RACCONTO FU LUI LA FIGURA POSITIVA

LA PARTE DEL CATTIVO LA LASCIAI ALL’URSS

IL MIO PRIMO EDITORE FRANCESE DECISE DI TIRARSI INDIETRO E COSÌ FU HACHETTE A FAR USCIRE “LA CITTÀ DI PIETRA”. PARIGIÈ LA MIA SECONDA CASA. OGGI STA PAGANDO IL PREZZO DELLA SUA GRANDE TOLLERANZA

G I O V A N N I C E D R O N E

Kadare

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L’incontro. Grandi vecchi

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